È morto Federico: un’altra vittima del sospetto di simulazione? di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 20 aprile 2011 In carcere si muore spesso giovani, i suicidi, ma anche le morti per malattia riguardano persone che a quell’età non dovrebbero proprio morire. L’altro ieri, nel carcere di Padova, è morta una persona. Si chiamava Federico Rigolon. In carcere dal 2004, doveva scontare una lunga condanna, ma credo che ormai non abbia tanto senso parlare di cos’aveva fatto, e quale fosse la sua condanna, voglio invece parlare della sua morte. Avvenuta in modo assurdo, come molte morti in carcere. Federico ha cominciato a stare male nella tarda notte tra sabato e domenica, e ha chiamato l’agente per lamentarsi della sua condizione. I compagni delle celle vicine mi hanno raccontato che l’intervento dell’agente è stato rapido, e nonostante le difficoltà che richiede il movimento dei detenuti a quell’ora, in pochi minuti Federico era stato portato nell’infermeria del carcere. Dopo la visita, era ritornato in cella dove aveva passato la notte tra dolori e lamenti. All’alba aveva ripreso a lamentarsi e l’agente di turno aveva chiamato il medico. Una dottoressa era andata in reparto per visitarlo, l’aveva fatto chiamare in ambulatorio, lui era entrato e dopo qualche minuto era venuto fuori dalla stanza lanciando degli insulti. Ritornato in cella, Federico aveva raccontato l’accaduto ai detenuti che l’avevano raggiunto incuriositi dalle sue urla. Mettendo in dubbio la professionalità di quel medico, aveva spiegato come, in risposta alle sue richieste di essere portato d’urgenza al Pronto Soccorso, lei gli aveva dato due pastiglie, “stai simulando... mi ha detto che sto simulando perché non voglio lavorare, vi rendete conto? e io le ho detto: sei una t… incompetente, e lei ha chiamato l’agente e gli ha chiesto di farmi un rapporto disciplinare”. Poi Federico era andato di nuovo dall’agente per spiegare i motivi della sua reazione, ma ormai il medico era andato via, e l’agente aveva fatto la sua relazione informativa. Poi all’una, mentre gran parte del reparto era uscito per l’ora d’aria, Federico si era messo a dormire. Rientrato alle tre, fatta la doccia, e messo su la pentola per riscaldare la cena, Claudio, il suo compagno di cella, era andato per svegliarlo, accorgendosi subito che quell’uomo non respirava. Avvisato l’agente, avevano atteso l’arrivo dei soccorsi. Prima la stessa dottoressa, che aveva accertato la gravità delle condizioni del paziente ed era corsa a chiamare il Pronto Soccorso. Poi c’è stato per tutta la sera il via vai di medici, agenti, esperti della scientifica, magistrati, e infine, a mezzanotte, hanno portato via il corpo di Federico, salutato dal silenzio dei settantacinque detenuti della sezione. Sicuramente le autorità aspetteranno l’autopsia e poi faranno accertamenti, indagini e alla fine ci faranno sapere a cos’era dovuto il malessere, e cosa lo ha ucciso a 38 anni. Tuttavia, conoscere le cause della morte è l’ultima cosa che interessa i detenuti della Casa di Reclusione di Padova. La domanda che tutti noi ci poniamo è: quanti detenuti devono morire ancora affinché nessun medico dica più “tu stai simulando”? Mi trovo qui da quattordici anni e di morti ne ho visti tanti. Molti vittime del sospetto di simulazione. Ed è sempre la stessa scena che si ripete: il detenuto che si lamenta, il medico che non gli crede, e poi la morte che “dà ragione” al paziente. Perché è questo il punto: noi siamo pazienti, ma alcuni medici continuano a vederci come detenuti che si fingono malati, e sembra che stare attenti a non essere presi in giro sia a volte per certi medici la priorità assoluta, più importante persino della salvaguardia delle nostre vite. Noi riconosciamo le nostre colpe e ci assumiamo le nostre responsabilità, ma siamo stanchi di essere trattati come “diversi dal genere umano”, e vorremmo che almeno i medici si dimenticassero di ciò che abbiamo fatto per finire qui, e ci trattassero come pazienti, quindi come esseri umani. Giustizia: ecco come si può uscire dall’inferno dei manicomi criminali di Roberta Monteforte L’Unità, 20 aprile 2011 Al “manicomio giudiziario” di Aversa un’altra vittima. Mercoledì scorso si è suicidato un cittadino romeno. Aveva 58 anni. Era ospite della struttura “ospedaliera”. Non c’è l’ha fatta. “Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari vanno chiusi e subito. Sono una vergogna non soltanto per chi è direttamente coinvolto: gli operatori, i “reclusi” e i loro parenti, ma per l’intero Paese. Chiudere queste strutture proprio nell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia sarebbe veramente un bel gesto. Rappresenterebbe uno vero e di coesione”. Non ha dubbi Emilio Lupo, Psichiatra e Segretario Nazionale di Psichiatria Democratica, indignato per la notizia. Lui che ha alle spalle tante battaglie per l’applicazione anche a Napoli della “Legge Basaglia” per chiudere “bene e definitivamente i manicomi garantendo adeguati servizi di Salute Mentale sul territorio”, ha idee chiare. “Come allora è necessario rigore, preparazione e coinvolgimento di tutte le realtà interessate spiega attingendo all’esperienza acquisita sul campo da tanti operatori”. La legge del 2008. Che gli “Opg” di Aversa, Napoli-Secondigliano, Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Castiglione dello Stiviere vadano chiusi lo stabilisce la legge del 2008, con il loro passaggio al Sistema Sanitario Nazionale e la competenza delle Asl. Sulla cancellazione di questa vergogna pare che l’accordo sia trasversale. Soprattutto dopo la denuncia della commissione parlamentare di indagine sul sistema sanitario presieduta dal senatore Ignazio Marino (Pd) che ha evidenziato cosa siano questi “ospedali” e come sono trattati gli oltre 1.535 “internati”. “Un girone infernale che offende la dignità di tutti”, così lo ha descritto. Roba da Medioevo documentata da un video-reportage di Riccardo Iacona su Rai3 che ha scandalizzato anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il quando e il come si arriverà a questa chiusura: è questo il punto. “Gli Opg sono l’incompiuta della 180, la legge di abolizione dei manicomi” osserva Lupo. Oggi, in quelle strutture non si cura, né si punta al recupero di chi ha commesso un reato. Che assistenza possono offrire pochi medici per quattro ore a settimana per strutture di 300 “reclusi”? Per non parlare di chi, circa 375 internati tra tutti gli Opg, è in “proroga”: avrebbe cioè dovuto essere dimesso da tempo, ma in mancanza di progetti di reinserimento esterno, di sei mesi in sei mesi, anche per dieci anni, si è visto prorogare “la sua pena” dal magistrato. “Va rotta questa logica fatta di pigrizie e improvvisazione, di abbandono che porta con sé ingiustizie e disumanità. Occorrono, invece, scelte rigorose e assunzioni di responsabilità per passare dalla denuncia alla reale chiusura degli Opg” afferma il segretario di Psichiatria Democratica che con il collega Cesare Bondioli (responsabile nazionale per Carceri e OPG), avanza proposte di risoluzione concrete. Sono quelle scaturite dal seminario congiunto di Psichiatria Democratica e Magistratura Democratica “Disumanità della pena:quali alternative?” tenutosi lo scorso 26 marzo a Vico Equense (Napoli) e condivise anche dal segretario di Magistratura Democratica, Pier Giorgio Morosini. Sono quattro i punti. Il primo è procedere alle dismissioni dei circa 300 pazienti ancora in “proroga”. Il secondo punto, sono i programmi per il loro reinserimento e le strutture esterne per accoglierli che andrebbero definiti dalle Asl. “Ora che le risorse ci sono, circa 15 milioni di euro, non ci sono più alibi. Vanno definiti percorsi rigorosi e personalizzati di recupero e di reinserimento dei pazienti” spiega Lupo. Insiste molto sul “rigore” e sulla programmazione dei diversi passaggi. Non vi possono essere improvvisazioni. Nessuno va lasciato solo. Occorre un quadro di riferimento e di responsabilità precisi. È anche così che si rassicura l’opinione pubblica. Terzo obiettivo. “Il Parlamento deve fissare un tempo massimo per la chiusura degli Opg - continua il segretario nazionale di PD -, imponendo penalizzazioni anche economiche agli Enti, sino ad arrivare alla nomina di “commissari ad acta” per gli inadempienti”. Poi vanno definiti “programmi personalizzati” per ciascun paziente, che spiegano Lupo e Bondioli “vanno costruiti con tutti i soggetti interessati a cominciare dagli stessi internati” e “definiti in modo condiviso con tutti gli attori coinvolti, a partire dalle Regioni, dai comuni e dalle Asl dove insistono le strutture Opg interessate ed anche quelle di provenienza dei pazienti”. Per Pd occorre avvalersi del supporto operativo di personale pubblico o del privato sociale “comunque adeguatamente formato”. “Il coordinamento e il monitoraggio dell’intero processo va affidato al Servizio Pubblico e deve fare riferimento alla Conferenza Stato Regioni, che dovrà operare in rapporto con le commissioni Sanità di Camera e Senato, oltre che con i tecnici e con la famiglie”. “ È così - insistono Lupo e Bondioli che l’operazione si fa veramente concreta”. “Il rapporto tra il “dentro e il fuori” spiega Lupo è l’altro punto essenziale. Quello tra gli Opg e le strutture sanitarie e sociali presenti sul territorio, anche quelle di provenienza dei degenti da dimettere, dove andranno reinseriti”. Un compito delicato ed essenziale che - nella proposta di PD - andrebbe assolto da specifiche strutture: “le équipe e gli uffici di dismissioni”. “Sarà loro compito tenere i contatti con la commissione Stato Regioni, con il sindaco e quindi con la struttura sanitaria territoriale che verifica le condizioni socio-economiche del paziente e della sua famiglia e costruisce un percorso adeguato di reinserimento in base alle esigenze di cura”. I progetti di recupero non possono che essere individuali, “perché spiegano vanno definiti in base alle condizioni di ciascun paziente: vi è chi può “rientrare” in famiglia e quelli, invece, per i quali è necessaria la collocazione in piccoli gruppi in “case famiglia”, in comunità, ma sempre collocati nei territori di provenienza”. Ad esempio se ad Aversa vi è un paziente di Cagliari è in quest’ultimo territorio che bisogna individuare una comunità o una struttura che dovrà accoglierlo, ed attivare un programma perché ciò avvenga nei tempi e nelle forme giuste. “Sono indispensabili verifiche periodiche della situazione” insistono Lupo e Bondioli. Chi “esce” deve essere seguito anche “fuori” e in modo costante e ospitato in strutture adeguate. “Quello che va evitato è che si riformino “manicomi sul territorio”“. Sono proposte precise, messe sul tappeto al servizio di tutti. La Commissione Marino ha individuato tre “Opg” da chiudere subito. Rispondendo all’interrogazione di Anna Teresa Formisano (Udc) nel corso del question time lo scorso 23 marzo il ministro dalla Salute, Ferruccio Fazio ha fatto capire che per il governo i tempi non saranno brevi. Il rischio è che tutto nella sostanza resti fermo. La Formisano ha risposto che non si può attendere un minuto per chiudere queste “prigioni e con queste persone trattate come cani”. Psichiatria Democratica aiuta a individuare un percorso per fare presto e nell’interesse di tutti. Per questo ha chiesto un incontro urgente alla Commissione di inchiesta sulla Sanità pubblica presieduta da Ignazio Marino. Commenti Giustizia: una campagna per risolvere la piaga dell’internamento negli Opg Redattore Sociale, 20 aprile 2011 Iniziativa promossa da un vasto fronte di 24 realtà associative: fra loro Antigone, Unasam, Forum Salute mentale, Cgil. Chiesto il rispetto degli impegni, tempi certi per la chiusura e sanzioni per chi non li rispetta: “Diamo un volto a chi non agisce”. Superare gli Ospedali psichiatrici giudiziari, definiti “frutto di obsolete concezioni della malattia mentale e del sapere psichiatrico”, innanzi tutto sanando la situazione dei 350 dimissibili ancora internati e svuotando gli istituti attuali, per poi arrivare ad eliminarli del tutto con una legge di iniziativa popolare. Questo lo scopo della campagna “Stop Opg”, promossa da un vasto fronte di associazioni tra cui Antigone, Forum salute mentale, A buon diritto, Psichiatria democratica, Cgil e varie altre. L’appello per la soluzione di una situazione di “vero e proprio oltraggio alla coscienza civile del paese” è rivolto innanzi tutto alle istituzioni, “che hanno il dovere di risolvere la piaga dell’internamento”, dice Stefano Cecconi della Cgil nazionale presentando l’iniziativa. La campagna parte dalla definizione di una piattaforma con una serie di azioni da mettere in campo per smuovere le istituzioni. Primo a dover intervenire è il governo, che deve “rispettare gli impegni per il passaggio della medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale”, come previsto dal decreto ministeriale del 2008, e garantire anche gli adeguati finanziamenti. Poi è il turno delle regioni, che effettivamente devono organizzare la presa in carico delle persone internate negli Opg, e se necessario reperire i fondi mancanti. Le associazioni segnalano delle notevoli differenze tra le regioni, “basta guardare il numero degli internati in ogni regione - osserva Giovanna del Giudice, del Forum salute mentale - ed è subito evidente una differenza nel tipo di risposta e nella quantità di risorse messe a disposizione”. Inoltre è stato segnalato il ritardo della regione Sicilia che non ha mai recepito il decreto ministeriale del 2008, con il rischio che l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto finisca per riempirsi ancora di più, peggiorando le già gravi condizioni di sovraffollamento. Altro passaggio indicato dalla piattaforma è l’effettiva presa in carico da parte dei Dipartimenti di salute mentale attraverso progetti individuali di cura e reinclusione. Ma per arrivare a dei risultati, sottolineano le associazioni, bisogna stabilire incentivi o sanzioni per favorire la piena applicazione del decreto del 2008 e indurre le strutture territoriali a individuale le modalità di ricezione delle persone attualmente internate. Inoltre la piattaforma si rivolge alla magistratura di sorveglianza, che “deve cessare di valutare in maniera prevalente le condizioni socio-economiche della persone”, così come “deve cessare di utilizzare l’Opg per interventi diversi da quelli previsti per le misure di sicurezza per rei prosciolti”. Tutto ciò ha però bisogno di un’adeguata copertura finanziaria: “Abbiamo chiesto una valutazione delle risorse necessarie al ministro Fazio”, sottolinea Lecconi, mentre alla commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza del servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, è stato chiesto il finanziamento di 350 budget per progetti terapeutici riabilitativi individualizzati. Un budget che dovrebbe aggirarsi sui 45mila euro l’anno per persona secondo Del Giudice, “una cifra approssimativa, che poi andrebbe adattata ai singoli casi e alle esigenze individuali”. Oltre alla pressione sulle istituzioni, la campagna prevede anche la sensibilizzazione della cittadinanza attraverso l’impegno sul territorio di tutte le associazioni coinvolte e la divulgazione del problema con appositi materiali, tra cui il sito internet http://www.stopopg.it/. I promotori della campagna parlano inoltre di “dare un volto e un nome” ai responsabili della mancata presa in carico: dirigenti e amministratori di regioni, Asl, dipartimenti di salute mentale o chiunque tra le istituzioni, per inerzia e per mancata presa di responsabilità, non si sono occupate di come gestire le persone ingiustamente internate. Interventi concreti per risolvere situazione La situazione degli Ospedali psichiatrici giudiziari è tutta da attribuire alle istituzioni, “ma non basta tirare fuori quei 350 rinchiusi del tutto ingiustamente, bisogna eliminare tutti gli strumenti giuridici e penali che consentono la sopravvivenza degli Opg”. A parlare è Gisella Trincas, presidente di Unasam, in occasione del lancio della campagna Stop Opg con cui si chiede l’abolizione dei manicomi criminali, iniziativa promossa da un coordinamento di 24 associazioni e presentata questa mattina a Roma. “Ancora oggi troppe persone sono inviate negli Opg per motivi per cui è difficile finire anche in carcere - ha osservato Trincas - ma il problema non riguarda solo i reati minori, gli Opg sono inadeguati anche per chi ha commesso reati gravi, perché quella condizione non può restituire la salute mentale a nessuno”. Trincas ha parlato di una legge di iniziativa popolare con cui arrivare a chiudere gli Opg e superare i meccanismi giuridici che portano all’internamento, mentre di un’iniziativa per dare un volto e un nome ai responsabili della mancata presa in carico delle persone internate negli Opg ha parlato Mariagrazia Giannichedda, della Fondazione Franco e Franca Basaglia: “Sappiamo che c’è il problema della privacy nel fare i nomi, ma si risolve usando delle sigle - ha osservato Giannichedda. L’importante è fare in modo che sia chiaro chi è che non ha fatto il suo dovere, dai direttori dei dipartimenti di salute mentale, ai direttori delle Asl agli assessori regionali, tutti responsabili di una condizione di ingiustizia estrema, perché queste 350 persone stanno in un posto che li distrugge con la scusa della salute mentale e per di più in quel posto non dovrebbero starci, ma ci si trovano per la mancata presa di responsabilità da parte delle istituzioni”, incarnate da persone precise. Prima di arrivare a un percorso normativo con cui chiudere definitivamente gli Opg e superare la pagina degli internamenti, molto si può fare per migliorare le condizioni attuali e risolvere la situazione del 350 dimissibili internati ingiustamente. “Pochi giorni fa nell’Opg di Aversa si è suicidato uno dei dimissibili - ha detto Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone - Lo scopo di questo coordinamento di associazioni è anche non far morire lo scandalo”. Secondo Gonnella anche i media devono fare la loro parte e continuare a parlare del problema, perché a un mese di distanza dalla diffusione delle immagini girate nelle visite negli Opg, spesso a sorpresa, da parte della commissione parlamentare d’inchiesta sulla salute, “ora sembra che l’attenzione si stia affievolendo di nuovo”. “La prima cosa da fare è fare pressione su Asl e regioni, perché queste persone hanno diritto di essere curate - ha sottolineato Francesca Moccia del Tribunale del malato di Cittadinanzattiva - Poi bisogna lavorare per cambiare l’ordinamento e fare in modo che, una volta svuotate, queste strutture non tornino a riempirsi di nuovo”. Ma attenzione, avverte Cesare Bondioli di Psichiatria democratica, “non chiediamo un’imbiancata alle pareti o qualche miglioria qua e là, chiediamo interventi concreti per risolvere la situazione. In particolare con la piattaforma elaborata si apre un fronte con la magistratura di sorveglianza, perché non è possibile che di fatto si colpisce, internandolo, il cittadino che necessita cure piuttosto che le istituzioni che non se ne prendono cura”. Bergamo: speranza per ex internati Opg si chiama “La bonne semence” Avviato un progetto per la realizzazione di una comunità psichiatrica ad alta protezione che sarà attiva entro fine anno. Ospiterà ex internati provenienti dall’opg di Castiglione delle Stiviere (Mn) e di Reggio Emilia. “Negli ultimi anni avevamo già accolto 4-5 ex internati in Opg. Abbiamo capito che questa è un’emergenza e così abbiamo pensato di affiancare alla nostra comunità psichiatrica un’altra struttura dedicata, in parte, a questi pazienti”. Ed è proprio partendo dalla propria diretta esperienza che la cooperativa “La bonne semence” di Bergamo ha avviato un progetto per la realizzazione di una comunità psichiatrica ad alta protezione che sarà attiva entro fine anno. Ospiterà ex internati provenienti dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mn) e di Reggio Emilia. “Avrà una ventina di posti in tutto -spiega Alvaro Bozzolo, collaboratore della “Bonne semence”- e una parte verranno riservati agli ex internati”. La nuova struttura sta sorgendo all’interno di una vecchia residenza di villeggiatura montana appartenuta all’ordine delle suore adoratrici del Santissimo Sacramento e si trova comune di Serina (Bg). L’incontro con la “Bonne semence” è stato possibile tramite la Fondazione Talenti. “Abbiamo potuto acquistare la struttura a un prezzo decisamente basso -spiega Giovanni Faggioli, presidente della “Bonne Semence”- e stiamo portando a termine i lavori di ristrutturazione”. Spesa complessiva: 2 milioni e 700mila euro. Cui dovranno poi essere aggiunti i costi di gestione della struttura: 1,2 milioni di euro l’anno. Ma non si tratta semplicemente di ristrutturare un edificio. Particolare attenzione viene prestata al territorio: “Stiamo lavorando con l’amministrazione comunale, con la parrocchia e gli altri enti del comune per fare in modo che la presenza di questi pazienti non crei allarme - spiega Alvaro Bozzolo -. L’integrazione non sarebbe possibile se vi fosse un rifiuto da parte del territorio”. Il progetto di questa nuova struttura si è trovato in sintonia con i vertici della Regione Lombardia. Al Pirellone infatti si sta lavorando per incentivare meccanismi virtuosi di cura, per puntare all’inclusione sociale degli ex internati. “Quando abbiamo presentato il progetto in Regione, è stato accolto con molta attenzione: la dimissione degli internati è un problema pressante in Lombardia”, commenta Bozzolo. Paziente suicidato in Opg aversa era fra dimissibili Rientrava fra i circa 350 pazienti internati negli ospedali psichiatrici giudiziari dimissibili per la loro non pericolosità e per avere scontato interamente la pena, l’ultimo paziente che si è suicidato in una delle sei strutture esistenti in Italia: si tratta di un uomo di 58 anni, con 3 figli, che si è tolto la vita la scorsa settimana nell’Opg di Aversa (Ce), dopo aver ricevuto la notizia di un’altra proroga della sua pena. La denuncia arriva dalle 24 associazioni che hanno lanciato ieri a Roma la campagna Stop Opg, che mira alla dimissione immediata dei pazienti individuati come non pericolosi e successivamente al completo svuotamento e alla chiusura di queste strutture. Per le associazioni è necessario che il Governo finanzi i budget per la riabilitazione individualizzata degli internati riconosciuti come dimissibili, impegnando attivamente le Regioni a farsene carico. “Si tratta di cifre - ha detto Giovanna Del Giudice del Forum salute mentale - ha variano molto da paziente a paziente ma che al massimo arrivano a 45 mila euro annui”. La denuncia riguarda anche il tipo di reato per cui questi pazienti si ritrovano spesso a essere internati in un Opg senza sapere quando ne usciranno: “Sono reati minori - ha evidenziato Gisella Trincas di Unasam (Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale) - per cui, normalmente, nessuno andrebbe in carcere”. Inoltre, “a seguito delle più stringenti politiche sulla sicurezza, c’è la sensazione che negli Opg stia aumentando il numero di internati stranieri: a Barcellona Pozzo di Gotto (Me), su 380 pazienti, 44 sono stranieri, soprattutto magrebini. Come se questo istituto sia diventato uno scarico per ripulire la società”. Giustizia: l’Italia è in ritardo sull’attuazione delle pronunce della Corte di Strasburgo di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2011 Ben 2.481 casi italiani ancora sotto esame del Comitato dei ministri, l’organo del Consiglio d’Europa competente a controllare lo stato di attuazione delle sentenze pronunciate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Che vuol dire che l’Italia continua ad accumulare ritardi nell’esecuzione delle pronunce di condanna rese da Strasburgo. È quanto risulta dal quarto rapporto annuale relativo al 2010 del Comitato dei ministri divulgato ieri che mostra come il sistema interno di attuazione delle sentenze non funziona. Nel 2010 sul tavolo del Comitato sono arrivati, nel complesso, 1.710 nuovi casi, ne sono stati chiusi 455, quasi il doppio rispetto al 2009 (240), anche grazie alle nuove regole adottate dal Comitato. L’Italia, ancora una volta, è in vetta alla classifica con il numero più alto di procedimenti aperti, seguita da lontano dalla Turchia con 1.547 casi, dalla Russia (962), dalla Polonia (731) e dall’Ucraina (670). Su un totale di 9.325 casi (7.880 nel 2009) che risultano sotto esame del Comitato dei ministri al 31 dicembre 2010,1126% dei procedimenti (31% nel 2009) coinvolge l’Italia. Un quadro allarmante che rischia di creare un caso Italia anche dinanzi al Comitato dei ministri il cui lavoro di monitoraggio è intasato proprio dai casi italiani molti dei quali riguardano la durata eccessiva dei processi. In pratica, in questi casi, lo Stato non paga gli indennizzi decisi da Strasburgo e quindi non esegue le sentenze o lo fa con troppo ritardo. Scomponendo il dato italiano, infatti, dei 2.481 casi (2.471 nel 2009), sono 48 i procedimenti riguardanti i cosiddetti leading cases a fronte di 2.433 sentenze non eseguite relative ai casi seriali, la maggior parte delle quali relative alla durata eccessiva dei processi. Nel 2010 in totale, la Corte ha disposto indennizzi per danni morali e risarcimenti per quelli patrimoniali alla parte lesa pari, per i 47 Stati membri, a oltre 64 milioni di euro (54 milioni nel 2009). I Paesi più colpiti: Turchia (oltre 24 milioni), Romania, Russia, Italia (poco più di 6 milioni di euro), Pontogallo, Grecia, Ucraina, Polonia e Bulgaria. Giustizia: torna in libertà il killer nero Pierluigi Concutelli e si scatenano le polemiche di Elsa Vinci La Repubblica, 20 aprile 2011 “Non mi pento di nulla”. Vittorio Occorsio, nipote del giudice assassinato: meritava la morte. L’ex capo di Ordine Nuovo ha passato in cella 32 anni, ora è stato rilasciato per motivi di salute. Il killer nero è tornato casa. Un ictus che gli impedisce di parlare e alimentarsi regolarmente ha restituito la libertà a Pierluigi Concutelli. L’ex capo di Ordine Nuovo era stato condannato a tre ergastoli per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio che negli anni Settanta indagava sull’eversione di destra, e per aver strangolato nel cortile del carcere di Novara due neofascisti, Ermanno Buzzi e Carmine Palladino, ritenuti delle spie. Non si è mai pentito. Dopo 32 anni passati in cella, la pena è stata sospesa per motivi di salute sino al 2 marzo 2013. Ma appare scontato che Concutelli non ritornerà in stato di detenzione. L’ex terrorista era agli arresti domiciliari dal marzo 2009, provato da una ischemia cerebrale. Il 29 settembre scorso il magistrato di sorveglianza ha accolto l’istanza di sospensione della pena. Da quel momento sino alla definitiva ratifica del tribunale, Concutelli è rimasto in libertà dal fratello a Portogruaro in provincia di Venezia. Sabato scorso è stato trasferito a casa di amici a Ostia sul litorale romano. È assistito da Emanuele Macchi, leader dello spontaneismo armato, condannato come uno dei capi del Movimento rivoluzionario popolare. “Gli avrei dato la pena di morte. Perché non indica i mandanti?”, sbotta Vittorio, nipote ventitreenne del magistrato ucciso il 10 luglio 1976. “L’affermazione di mio figlio riflette il nostro dolore - precisa subito dopo Eugenio Occorsio, giornalista di Repubblica - Ma non è il caso di parlare di pena di morte perché è estranea alla cultura della nostra famiglia”. Concutelli non ha mai chiesto scusa. “Non rinnego niente, non mi sono mai inginocchiato allo Stato. Non sono un terrorista, sono un assassino. E lo sarò sempre”, scrive nel suo libro (Io, l’uomo nero. Marsilio). Un’ordinanza di tre paginette gli ha restituito la pace. Ieri il blog “Fascisteria” di Ugo Maria Tassinari ha ricordato il “comandante”. Pierluigi Concutelli nasce a Roma nel 1944, a vent’anni si trasferisce a Palermo dove entra in contatto con l’estremismo di destra. Nel ‘69 viene arrestato per detenzione di armi, negli anni seguenti è più volte fermato e denunciato per aggressioni, violenze, partecipazione a campi paramilitari. Sottoposto a vigilanza speciale, diventa presidente del Fuan di Palermo. Poi un mandato di cattura per il sequestro in Puglia dell’ex direttore di banca Luigi Mariano. Concutelli scompare, in realtà si è trasferito a Roma dove fa il capo militare di Ordine Nuovo. Uccide il giudice Occorsio, l’ergastolo diventa definitivo nel 1980. Lo tradisce una “soffiata”. Il 13 febbraio 1977 Concutelli viene arrestato in un appartamento nella capitale che divideva con alcuni membri della banda Vallanzasca. La polizia trova un arsenale e il mitra Ingram che uccise Occorsio. “Io posso sentirmi pieno di rammarico e di rimorso ma non mi getterò mai cenere sul capo”. Nel 1981 con Mario Tuti strangola Buzzi, condannato all’ergastolo per la strage di Bologna. Un anno dopo stessa tecnica per Palladino. “Erano una minaccia, il loro collaborare mi costava adepti, camerati. E questo andava fronteggiato con l’unico sistema possibile”. Concutelli uscì dal carcere in semilibertà per la prima volta 24 anni dopo l’arresto. Ma vi rientrò nel 2008 perché sorpreso con hashish e un coltello. “Chi ritiene di essere un rivoluzionario - ha dichiarato a La7 - è una persona che deve combattere per convincere non per vincere”. Ma a 67 anni, con la barba da ergastolano, a chi ancora inneggia al comandante dice: “La madre degli imbecilli è sempre incinta”. Figlio mio, non dimenticare ma abbandona odio e vendetta, di Eugenio Occorsio Quando arrivano notizie come quella della liberazione di Concutelli, nella mente si scatena un turbine di emozioni spesso difficilmente controllabili e che solo l’esperienza degli anni permette di affrontare. Una su tutte: il dolore, che si ripropone lancinante e intollerabile. E può sfociare nella rabbia. In una reazione altrettanto irrazionale come il comportamento che l’ha generata. Così succede che mio figlio, Vittorio come il nonno, 23 anni, si abbandoni sulla scia dello sconcerto ad espressioni improvvide e insensate, come addirittura l’invocazione della pena di morte per Concutelli. E invece proprio qui deve emergere la differenza fra chi è membro di una società civile, ed è orgoglioso di esserlo, e chi invece ha scelto di starne ai margini come i terroristi. E siccome Vittorio junior è un ragazzo sensato e che riflette sulle cose, ho ricominciato subito a spiegarglielo, perché nella nostra famiglia non devono esistere animosità e spirito di violenza. Occhio per occhio non è una regola, è l’opposto delle regole. Bisogna sempre impostare la risposta ai crimini anche più odiosi e assurdi entro i limiti della Costituzione, delle leggi, delle norme, che se fatte rispettare sono più che sufficienti a comminare punizioni giuste e mai eccessive, nulla che sappia di vendetta. Il tutto in un cammino di civiltà che non deve conoscere deviazioni. Nel nostro caso, non siamo stati abbandonati dallo Stato, non gli si poteva chiedere di più. Dal primo momento, da quella sciagurata mattina in cui ho sentito gli spari e sono sceso precipitosamente dalle scale per vedere mio padre morirmi sotto gli occhi, la magistratura e le forze di polizia hanno preso in mano la situazione con decisione, e con puntiglio e coraggio sono arrivati al colpevole. Anche l’epilogo, con la liberazione dell’omicida, non è inaccettabile: siamo di fronte ad un uomo, a quanto pare pluri-infartuato o qualcosa del genere, che si è fatto più di trent’anni di carcere. Cos’altro doveva accadere? La grandezza dello Stato, la tenuta delle istituzioni democratiche, si misura anche dalla capacità di non infierire inutilmente sui colpevoli. Detto questo, un pentimento più convinto e articolato sarebbe stato dovuto. Non basta esprimere un generico rimorso se a questo non si accompagna una revisione vera della propria attività “politica”, come la chiama lui. Tanti detenuti escono anzitempo dal carcere ma ciascuno ha elaborato un suo percorso di pentimento, di redenzione, di volontà di reinserirsi nella società. Proprio perché gli anni sono stati tanti, infiniti saranno stati i momenti in cui anche a Concutelli sarà venuta in mente la follia dei suoi gesti, l’aberrazione del suo progetto guerrigliero. Nulla è trapelato, né tantomeno è emersa la collaborazione nel ricostruire più in profondità il contesto diabolico in cui il delitto di mio padre è maturato, i sordidi legami intrecciati su cui stava indagando e che gli sono costati la vita. E questo acuisce il dolore, e giustifica anche qualche volta la rabbia come quella di Vittorio. Giustizia: un sorpasso vietato e Pietro Maso ritorna in cella e rischia di perdere la semilibertà di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 20 aprile 2011 Per un’infrazione in un sorpasso azzardato, Pietro Maso torna in carcere e rischia di perdere la semilibertà avuta dopo aver scontato 17 anni per l’omicidio del padre e della madre, uccisi vent’anni fa, prima di andare in discoteca. Per un’infrazione stradale in un sorpasso azzardato, Pietro Maso torna in carcere e rischia di perdere la semilibertà alla quale nel 2008 era stato ammesso dopo aver scontato in carcere 17 anni per l’omicidio nel 1991 del padre e della madre, uccisi a bastonate per l’eredità prima di andare in discoteca con gli amici. Nella valutazione del magistrato di sorveglianza Roberta Cossia - nelle cui carte Maso è anche al centro di una denuncia per minacce e una controdenuncia per estorsione attorno a un piccolo prestito di denaro, il ritiro della patente è stato provvedimento amministrativo sufficiente a far scattare in via cautelare la sospensione del beneficio a Maso, tornato dunque nel reparto semiliberi di Opera senza più poter uscire dal carcere in attesa dell’udienza del 5 maggio. Qui il Tribunale di Sorveglianza (presidente Pasquale Nobile De Santis, giudice Maria Laura Fadda) valuterà sia se ridargli la semilibertà o revocargliela del tutto, sia se affidarlo ai servizi sociali come Maso aveva chiesto il 29 marzo scorso, in linea con quel percorso di rieducazione evocato persino dall’allora presidente della Corte d’Appello Giuseppe Grechi all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009. Benché condannato nel 1992 per l’assassinio dei genitori a 30 anni, Maso finirà in realtà di scontare la sua pena tra un anno e mezzo, grazie all’indulto e allo sconto della “liberazione anticipata” che detrae 45 giorni ogni 6 mesi di reclusione, cioè 1 anno ogni 4. Dal 22 ottobre 2008 Maso usufruiva del regime di semilibertà in considerazione di un positivo percorso di recupero sociale marcato da un diploma, un po- sto di lavoro, e una relazione sentimentale difesa dalla curiosità dei media anche con il rifiuto di offerte di denaro per l’esclusiva sulle nozze. Alle 7,30 di ogni mattina usciva dal carcere di Opera per andare a lavorare in un’azienda che assembla computer e rientrava in cella alle 22,30. Tutto è filato liscio per due anni e mezzo per il giovane di Montecchia di Crosara (Verona) che a luglio compirà 40 anni. Nei giorni scorsi, però, ecco la leggerezza: sorpasso oltre la doppia linea continua, contravvenzione, multa e ritiro della patente. Una tegola aggiuntasi, nel fascicolo della Sorveglianza, alla denuncia intentata a Maso da un uomo che afferma di essersi sentito apostrofare “ti ammazzo” nel corso di una lite sulla restituzione di un prestito di meno di duemila euro, ma che Maso ha a sua volta denunciato per estorsione, rappresentandosi parte debole esposta (a causa del suo terribile passato) a strumentalizzazioni altrui. “Questa persona non è stata in grado di produrre prove 0 testi, ci sono solo le sue parole”, spiega l’avvocato di Maso, Maria Pia Licata, “fiduciosa nell’udienza del 5 maggio. Maso chiarirà tutto, è assurdo anche solo pensare che a pochi giorni dalla decisione sull’affidamento in prova ai servizi sociali Maso possa essersi compromesso per un questione di soldi, di cui non ha bisogno e che non sono il suo punto debole”. Sicilia: il Garante; sistema penitenziario in crisi e mancato recepimento della riforma sanitaria Ansa, 20 aprile 2011 La Regione Sicilia è al secondo posto in Italia per sovraffollamento delle carceri. I dati della Regione, aggiornati al 31 marzo, dicono che, su una capienza regolamentare di 5.391 posti, il numero di presenze si attesta a 7.740, di cui 1.870 sono immigrati. La Regione è seconda solo alla Lombardia ed è l’unica a non avere ancora recepito il decreto dell’1 aprile 2008, che assicura il trasferimento dell’assistenza sanitaria dal Dap all’Amministrazione regionale. Il sovraffollamento, poi, aggrava ulteriormente i problemi strutturali legati alla carenza di personale penitenziario e agli edifici fuori norma. Tutti punti critici che rendono difficile il rispetto delle regole e dei diritti umani dei detenuti. Non è un caso, infatti, che proprio la Sicilia registri uno dei più alti tassi di suicidio ed autolesionismo tra i carcerati d’Italia. Gli istituti siciliani al momento ospitano 1.483 detenuti in attesa di giudizio. Secondo il Garante per la tutela dei diritti dei detenuti in Sicilia, Salvo Fleres, “una giustizia più veloce sarebbe già un primo passo per smaltire i grossi numeri”. Per i tossicodipendenti e i detenuti per reati meno gravi, rimane aperta l’ipotesi di un piano di commutazione della pena, mentre resta controversa la questione legata agli immigrati. In conclusione, con le giuste misure - ha dichiarato ancora Fleres - il 75% dei posti occupati nelle carceri siciliane potrebbe liberarsi. Nonostante la grave crisi del sistema carcerario siciliano, però, la Regione ha fatto qualche passo avanti. Con la legge regionale n. 16 del 1999, la Sicilia ha introdotto un finanziamento di 25 mila euro, per ogni recluso beneficiario, da utilizzare per l’acquisto di attrezzature restanti di proprietà anche al termine della detenzione. “Il 100% di coloro che hanno beneficiato di questo strumento - ha spiegato ancora il Garante - una volta uscito, non è più tornato in carcere”. Sardegna: Caligaris (Sdr); la Regione non è pronta ad accogliere internati dismessi dagli Opg Agenparl, 20 aprile 2011 “La Sardegna non è ancora pronta ad accogliere i circa 50 detenuti internati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Occorre provvedere al più presto attivando dei progetti di accoglienza per i diversi soggetti. In alcuni casi si tratta di persone che sono internate da oltre 20 anni per oltraggio. Una condizione non più accettabile”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” ricordando che “la Regione avrebbe dovuto accogliere gli internati entro i primi mesi di quest’anno e invece il problema non è stato affrontato adeguatamente anche perché nel frattempo non si è provveduto al passaggio della sanità penitenziaria alle Aziende Sanitarie Locali”. “Attualmente - sottolinea la presidente di SDR - la maggior parte degli internati (35) si trova a Montelupo Fiorentino, 3 o 4 donne a Castiglione delle Stiviere e i restanti divisi tra Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto. Il Ministero della Giustizia non sembra più disposto ad aspettare anche perché le condizioni di vita evidenziate dalle visite ispettive dimostrano l’urgenza di affrontare in modo positivo il problema”. “L’idea di concentrare i detenuti con disturbi psichiatrici nel carcere di Tempio Pausania non appare percorribile per l’ovvia ragione che non si tratta di offrire semplicemente posti letto in un carcere. È quindi urgente promuovere iniziative idonee - rileva Caligaris - utilizzando i finanziamenti ministeriali. È fondamentale per esempio attivare subito corsi di formazione per i personale e incentivare il numero degli operatori penitenziari come medici, infermieri, psichiatri, psicologi e ovviamente agenti di polizia penitenziaria in modo tale che si studino e si preparino i percorsi più idonei in risposta ai problemi di ciascun cittadino privato della libertà considerata soprattutto la gravità del disturbo da cui è affetto”. “La Sardegna insomma - conclude la responsabile regionale di Sdr - corre ancora una volta il rischio di essere l’ultima a risolvere questioni di natura sanitaria garantendo i diritti”. Basilicata: accordo con Prap e Uepe; volontari al fianco dei condannati in Area penale esterna La Nuova del Sud, 20 aprile 2011 Si è riunito ieri mattina presso il Prap (Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria) il Tavolo di lavoro per la redazione del Piano Regionale per il volontariato nell’esecuzione penale esterna. Il piano si occuperà del coinvolgimento delle associazioni di volontariato in tutte le sanzioni sostitutive alla detenzione, come libertà vigilata, arresti domiciliari e altre misure alternative al carcere. Ad oggi in Basilicata non c’è neanche un soggetto a scontare forme non detentive di sanzione, sebbene i dati, citati dal direttore dell’Ufficio di Esecuzione Penale, Guastamacchia, evidenzino che la recidiva nei soggetti che scontano pene alternative al carcere sia solamente del 18% a fronte di un 75% che si verifica nei soggetti condannati alla detenzione. Partecipano ai lavori l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna e la Conferenza Regionale Volontariato Giustizia che riunisce al suo interno tutte le realtà dell’associazionismo coinvolte nel lavoro di reinserimento delle persone condannate. Il primo passo verso la realizzazione del piano è stato un censimento di tutte le risorse umane e materiali coinvolte in campo penitenziario, in vista dell’elaborazione del Piano organico regionale che sarà varato entro il mese di Giugno. L’intento dei lavori di questo tavolo è proprio quello di mettere a sistema le risorse già mobilitate, per favorire, tramite enti di volontariato, lo svolgimento di servizi riparatori nei confronti della società da parte di chi ha commesso un reato. La convinzione è che questo tuteli non solo il diritto della persona condannata all’inclusione nella società, ma la stessa comunità che non deve più temere da un soggetto incluso socialmente. Al momento non sono previsti comunque fondi regionali a sostegno del Piano. Le modalità di sovvenzione dei progetti realizzati in regione a favore delle persone condannate, sia adulti che minori, sono quelle ordinarie del volontariato: l’8x1000, i fondi provinciali in favore di progetti sportivi rivolti a persone svantaggiate, i Fondi Regionali per il Volontariato, che con 40.000 euro complessivi stanziati per tutti i progetti da realizzare in ogni campo sono ancora inadeguati. Viterbo: Nieri (Sel); fare chiarezza su morte detenuto senegalese operato al cervello Adnkronos, 20 aprile 2011 “Vorremmo fosse fatta chiarezza sul decesso di Dioune Sergigme Shoiibou, il trentenne senegalese che si trovava nel carcere Mammagialla di Viterbo. Dalle prime informazioni apprese, risulta che l’uomo, prima dell’arresto, aveva subito un intervento chirurgico per rimuovere un ematoma al cervello. Intervento che lo avrebbe privato di parte della calotta cranica. Le sue condizioni, dunque, non erano compatibili con la permanenza in carcere. Eppure dal 27 marzo scorso si trovava all’interno dell’istituto penitenziario, invece che in un luogo dove avrebbe potuto ricevere le adeguate cure”. È quanto dichiara Luigi Nieri, capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà nel Consiglio regionale del Lazio. “A quanto pare - aggiunge Nieri - non c’erano ragioni per non concedere a Dioune Sergigme Shoiibou un soggiorno di cura esterno al carcere. Esistono, infatti, diversi strumenti normativi che avrebbero potuto consentire al giovane senegalese di ricevere le adeguate cure mediche: c’è il rinvio dell’esecuzione della pena (art. 147 comma due del codice penale), c’è la detenzione domiciliare a casa o in luogo di cura (art. 47-ter dell’ordinamento penitenziario). Ma nulla è stato fatto”. “Vorremmo, inoltre, sapere se il ragazzo ha ricevuto le adeguate cure all’interno del carcere. A tal proposito - conclude Nieri - abbiamo presentato un’interrogazione urgente alla Presidente Polverini al fine di avviare un’inchiesta sull’accaduto e accertare eventuali responsabilità della Asl competente. Non è accettabile che un uomo, in gravi condizioni di salute, sia stato lasciato morire senza pietà e nel completo abbandono”. Reggio Emilia: il nuovo direttore; servono nuovi agenti per il carcere Adnkronos, 20 aprile 2011 Parla il nuovo direttore Paolo Madonna: “Sovraffollamento e carenza di personale - dice - sono le criticità, ma ho richiesto altri 15 tra ispettori e sovrintendenti”. “La situazione è critica a Reggio come negli istituti penitenziari italiani, ci sono problemi di sovraffollamento e di organico, sia di personale penitenziario sia del comparto ministeri”. Paolo Madonna, 58 anni, originario di Latina, è direttore dell’istituto penitenziario reggiano da gennaio, dopo quattordici anni passati a dirigere il Sant’Anna di Modena e 32 di amministrazione carceraria. Facendo un giro in un reparto della Pulce, insieme a lui, ci si rende conto subito di ciò che non va. Le celle sono predisposte per una persona, ma sono occupate da tre detenuti, con i letti a castello. Il carcere di Reggio ha una capienza di 200 posti, ora ospita 308 reclusi, e si è arrivati anche a 347. Nonostante questo sovraffollamento, sono gravi le carenze di personale di sorveglianza. “La pianta organica prevede 144 unità, oggi ne abbiamo 22 distaccate e una carenza complessiva di 40 unità - prosegue il direttore del carcere - in particolare mancano figure intermedie, ispettori e sovrintendenti”. Sono loro che dovrebbero assumere la responsabilità della casa circondariale in assenza del direttore. Paolo Madonna in questi primi mesi non comunque è stato con le mani in mano”. Ho inoltrato la richiesta per avere altre 15 unità” sostiene. In via Settembrini ci sono anche problemi strutturali, come le infiltrazioni d’acqua. “Stiamo facendo lavori di manutenzione in economia, ma i tagli non ci permettono le opere di bonifica che vorremmo fare”. Is Arenas (Or): niente soldi per le pulizie del carcere, protestano agenti e detenuti La Nuova Sardegna, 20 aprile 2011 Povera Casa di reclusione di Is Arenas, tanto povera da non avere in cassa neppure i soldi per acquistare i detersivi e i disinfettanti, e per pagare i detenuti addetti alle pulizie. Tagliate dall’alto le spese, adesso c’è tanta sporcizia. E insorgono gli agenti penitenziari. A denunciare una condizione igienico-sanitaria insostenibile non sono i detenuti, come spesso capita altrove, ma il personale della polizia penitenziaria, che non ci sta a lavorare in una struttura che potrebbe essere un gioiello e che i tagli imposti dalle ultime leggi finanziarie stanno rendendo terzomondista. La rappresentanza sindacale aziendale della Funzione pubblica-Cgil ha per questo inviato, con il suo responsabile Sandro Atzeni, una protesta alle massime autorità penitenziarie nazionali e regionali, rappresentando un quadro dipinto da “amarezza e umiliazione” e che è “contrario alla nostra dignità, umiliata per essere costretti a lavorare in mezzo alla sporcizia”. Accuse pesanti come macigni, che si aggiungono alle rimostranze più volte espresse agli stessi vertici dell’amministrazione carceraria per la cronica mancanza di personale che comporta agli effettivi turni massacranti, rinuncia ai legittimi giorni di riposo, ferie non godute e mai recuperate. Adesso, quindi, si aggiunge la condizione igienica a rendere quella che era un colonia penale a cinque stelle incastonata fra il verde, le dune e il mare di Piscinas, in un penitenziario della peggiore specie. “Il più delle volte le pulizie sono fatte solo con l’acqua perché non si dispone di detersivi e disinfettanti per il lavaggio di pavimenti, servizi igienici e quant’altro - accusa il rappresentante interno della Fp-Cgil. E si lava meno per via dei tagli agli orari di lavoro e dei compensi ai detenuti addetti al servizio”. Montelupo (Fi): la “Casa del Drago” rischia di scomparire, ospita gli internati dell’Opg Il Tirreno, 20 aprile 2011 Un altro pezzo di storia di volontariato e solidarietà rischia di sparire definitivamente a causa dei tagli disposti dal Governo. La Casa del Drago di Montelupo, una struttura che finora in sette anni ha dato la possibilità a centinaia di internati dell’Opg di stare insieme al di fuori delle mura della struttura giudiziaria e di seguire percorsi di riabilitazione sociale, da alcuni giorni è chiusa. In un capannone di pochi metri quadrati nella zona artigianale di Montelupo Fiorentino l’Arci Empolese Valdelsa, grazie a tre operatori e alcuni volontari, aveva costruito uno spazio di socializzazione e di libertà per i detenuti con licenza d’uscita. Fare la spesa, organizzare laboratori creativi, fare formazione, cenare insieme o mettere in piedi spettacoli teatrali come quello andato in scena domenica alla ex Fornace Pasquinucci. Niente di più, niente di meno, soltanto dare la possibilità a decine di persone di tornare a vivere e di costruirsi un futuro normale. Ebbene, tutto questo potrebbe non esistere più. Il condizionale è d’obbligo perché, nonostante la scure dei tagli abbia colpito ciecamente, ancora nessuno si è arreso. Ma partiamo dal principio. Nel 2004 un drago di cartapesta costruito da internati e operatori sfonda i cancelli dell’Opg e percorre le vie di Montelupo per andare ad incontrare Marco Cavallo, il simbolo della fine dei manicomi in Italia e della nuova filosofia riabilitativa inaugurata da Franco Basaglia a Trieste. Quel drago mise su casa a pochi chilometri di distanza e la aprì ai detenuti dell’ospedale psichiatrico giudiziario. L’inaugurazione della struttura fu possibile grazie al finanziamento dell’Unione europea, ma il progetto è proseguito negli anni con il supporto finanziario della Regione e con il contributo del Comune di Montelupo, dell’Asl 11 e dal 2009 della Società della salute. Anno dopo anno il pulmino giallo guidato dagli operatori e dai volontari in servizio civile ha trasportato centinaia di internati dalla detenzione alla riabilitazione sociale. Ma la storia rischia di finire a questo punto. “Per ora la chiusura della casa è una realtà - spiega Chiara Salvadori, responsabile del progetto per l’Arci di zona - al momento i fondi stanziati nell’anno 2009 per l’attuazione delle attività previste dal progetto per l’anno 2010 sono terminati. Da ottobre andiamo avanti con la speranza che arrivi la delibera della Regione che confermi il rinnovo dei finanziamenti anche per il 2011: sono arrivate molte rassicurazioni, ma non la certezza che questo avvenga. Finora abbiamo tenuto duro grazie all’impegno degli operatori e dei volontari, con la convinzione che questa esperienza non può finire. Ma da due settimane non possiamo più sostenere le spese. I primi a rimetterci sono i detenuti che frequentano la struttura e che ora non possono più uscire dall’Opg. É per questo che stiamo cercando, insieme ad altri enti del territorio, di trovare i soldi per poter riprendere l’attività”. Una prospettiva necessaria, questa, per un percorso partito come un’avventura e diventato negli anni una solida realtà. Perché la Casa del Drago non diventi l’ennesimo esempio nel nostro paese di un’esperienza di qualità finita nel tritacarne dei tagli alla spesa pubblica e al sociale. Firenze: il Garante; Sollicciano torna a quota mille, trasferire i detenuti tossicodipendenti Redattore Sociale, 20 aprile 2011 Il carcere fiorentino tocca quota 999 detenuti. Il garante invoca misure alternative per i reclusi tossicodipendenti, ma dalla regione informano che “il processo che porterà al trasferimento è ancora lungo”. Torna a sfiorare quota mille detenuti il carcere fiorentino di Sollicciano. I detenuti sono attualmente 993, più 6 bambini, a fronte di una capienza regolamentare di circa 500. Franco Corleone, garante dei detenuti del comune di Firenze, invoca le istituzioni locali ad accelerare le procedure che potrebbero portare al “trasferimento dei detenuti tossicodipendenti in strutture più adeguate per questa tipologia di reclusi”. “Sarebbe opportuno - ha spiegato Corleone - utilizzare anche per i detenuti tossicodipendenti il positivo sistema d’accoglienza toscano per i profughi da Lampedusa, dislocando alcuni di loro in varie strutture sparse su tutto il territorio regionale”. Secondo Corleone, “i detenuti tossicodipendenti a Sollicciano sono almeno 300”. Il trasferimento dei detenuti tossicodipendenti, teorizzato da una delibera regionale dell’assessore al diritto alla salute Daniela Scaramuccia, sembra ancora lontano: “La regione Toscana - hanno spiegato dalla segreteria dell’assessore regionale alle politiche sociali Salvatore Allocca - sta ultimando il documento che renderà attuabili le misure di pena alternativa, ma prima che entri in vigore ci vorrà del tempo perché dovrà passare dalla giunta regionale e dal Dap”. 900 casi di autolesionismo nel 2010 “A Sollicciano cresce l’allarme per gli atti di autolesionismo commessi dai detenuti: un fenomeno sempre più diffuso nel carcere e che deve assolutamente essere fermato”. A denunciarlo, stamani, è stato nel corso di una conferenza stampa il garante dei diritti dei detenuti per il Comune di Firenze, Franco Corleone. Nel 2010, nel penitenziario, sono stati registrati oltre 900 casi di violenza contro sé stessi e 200 tentativi di suicidio da parte dei reclusi ha spiegato Corleone, sottolineando come il trend non accenni a diminuire, ed anzi sia in crescita. Tra le cause, il Garante individua il problema del grave sovraffollamento della struttura, omologata per circa 500 presenze, ma nella quale sono costretti, al momento, 999 detenuti e 6 bambini. Tra le varie richieste rivolte alle istituzioni da Corleone nel corso dell’incontro, anche l’attivazione di uno spazio ad hoc per la semilibertà, comparto attualmente ospitato, in modo improprio, a Solliccianino, e l’avvio dell’iter per arrivare alla chiusura dell’Opg di Montelupo fiorentino ed all’apertura di una struttura idonea alla terapia ed al recupero dei pazienti che l’Opg accoglie. L’Aquila: nuovo protocollo d’intesa tra Asl 1 e Istituti di pena Il Centro, 20 aprile 2011 Le carceri dell’Aquila, di Avezzano e di Sulmona beneficeranno di un piano di potenziamento dei servizi sanitari grazie ad un protocollo d’intesa tra i tre istituti di pena e il manager della Asl unica Giancarlo Silveri. Maggiore assistenza specialistica per i detenuti, ampliamento delle discipline mediche, potenziamento del personale penitenziario, sono alcuni dei punti dell’intesa. Tra le altre novità importanti, un’attività di prevenzione contro il rischio di suicidio dei detenuti in carcere e, soprattutto, un rafforzamento dei servizi di Psichiatria e del Sert. “Il protocollo d’intesa - afferma il responsabile della medicina Penitenziaria della Asl, Giuseppe Carducci - porterà tra l’altro a una maggiore definizione di ruoli degli operatori e a una migliore organizzazione dei servizi sanitari all’interno delle case circondariali. Inoltre la Asl metterà a disposizione, per l’assistenza degli ospiti dei penitenziari, le proprie strutture del Dipartimento Salute Mentale”. Con la firma del protocollo, la gestione dell’assistenza psichiatrica nel carcere potrà contare non più’ sull’azione del singolo medico bensì su un’intera struttura e sul relativo personale, quello che fa capo proprio al Dipartimento Salute Mentale. L’organico per l’assistenza nelle carceri, composto da personale di ruolo Asl e operatori a tempo determinato, è costituito da 20 infermieri, 2 fisioterapisti, 2 psichiatri, 15 specialisti, 15 medici dei servizi integrativi di assistenza sanitaria (guardia medica) che coprono le 24 ore e 3 medici, uno per carcere, a cui fa capo l’attività sanitaria dei penitenziari; a loro si aggiungerà un’ulteriore figura medica per i minori. Latina: visita del Vescovo, Monsignor Giuseppe Petrocchi, alla Casa Circondariale Il Messaggero, 20 aprile 2011 “Se anche parlo le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho la carità, sono un bronzo sonante o un cembalo squillante: E se anche ho il dono della profezia e conosco tutti i misteri e tutta la scienza; e se anche possiedo tutta la fede, si da trasportare le montagne, ma non ho la carità, non sono niente”; così parlava Paolo di Tarso. Mons. Giuseppe Petrocchi, Vescovo di Latina - Terracina - Sezze - Priverno stamattina come Pastore della Chiesa, nella settimana santa di Pasqua, ha trasferito nella pratica le parole di San Paolo e quelle dell’evangelista Matteo (25,31-46) che riferisce il magistero di Gesù il Cristo sul dovere di ognuno di noi di offrire assistenza, tra l’altro, a coloro che sono detenuti in carcere. È entrato nella Casa Circondariale di Latina alle ore 10.00 e si è trattenuto per circa quattro ore. Il programma è stato letteralmente stravolto: non è stato possibile tenere la celebrazione eucaristica delle ore 11.00 in quanto Mons. Petrocchi ha voluto dedicare a ogni detenuto la sua attenzione, nell’intimità e nella preghiera, che solo un Vescovo sensibile come lui sa offrire. Non ha trascurato nessuno dei detenuti e delle detenute presenti nella casa circondariale. Tra l’altro è da evidenziare che ha voluto da tempo che i detenuti presenti nel capoluogo pontino siano seguiti da un team di tre presbiteri. Accanto al cappellano don Luca Volpe, padre trinitario, offrono la loro assistenza don Nello e don Angelo Buonaiuto, responsabile della Caritas pontina. Il Vescovo tramite il cappellano desidera ringraziare per la concreta, preziosa e commovente disponibilità la Direttrice, il Commissario e il personale tutto della Polizia Penitenziaria, l’equipe di educatori che si spendono per il recupero sociale dei detenuti, nel rispetto della loro dignità di uomini e di donne che hanno sbagliato ma che meritano una possibilità di riscatto. Non dimentichiamo il dovere di ogni cristiano, ancora più pressante nel periodo quaresimale, di prepararsi a titolo sia individuale che ecclesiale alla Pasqua, la festività più solenne della nostre fede. Tempio Pausania: troppi detenuti e pochi agenti, la Polizia penitenziaria in agitazione La Nuova Sardegna, 20 aprile 2011 Il carcere che scoppia, la carenza di personale e gli alti carichi di lavoro spingono i sindacati della polizia penitenziaria a proclamare lo stato di agitazione. Luigi Arras (coordinatore nazionale del Sinappe), Piero Coda (delegato regionale della Cgil funzione pubblica) e Roberto Fancellu (segretario provinciale della Cnpp) l’hanno comunicato al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Luigi Pagano. I sindacati affermano che qualora non si ottengano significative e urgenti risposte, si attuerà un programma progressivo di protesta: la prima mossa sarà l’attuazione dello “sciopero bianco” (ovvero l’applicazione rigida e alla lettera del regolamento dell’istituto e di tutti gli ordini di servizio). In mancanza di risultati, si proseguirà con una auto-consegna in istituto e sit-in di protesta davanti al carcere. E, se necessario, c’è la volontà di arrivare ad attuare lo sciopero della fame, della sete e del sonno a oltranza. Oltre alla proclamazione dello stato di agitazione, chiedono urgentemente una riduzione dei detenuti della “Rotonda”, un numero adeguato di poliziotti e il ripristino della turnazione da sei ore. Ovvero quella precedente alla decisione di passare dai quattro turni da sei ore ai tre turni da otto, decisa dal provveditore per far fronte all’emergenza nonostante la contrarietà degli stessi sindacati. Le tre sigle ricordano che il 29 settembre scorso nel corso di una riunione al provveditorato regionale di Cagliari avevano manifestato la propria contrarietà all’idea di organizzare il servizio “su tre quadranti per ovviare alla carenza di organico”, come recitava la proposta della direzione del carcere di Tempio, dicendo no anche all’ipotesi di lavoro straordinario programmato, vista l’assenza di apposita normativa in merito: “Non avrebbe apportato migliorie significative in proporzione allo sforzo richiesto al personale della polizia penitenziaria tempiese”, affermavano. Nonostante la presa di posizione, dicono i sindacalisti, “in via del tutto unilaterale è stato stabilita la modifica dei turni a far data dal 1º ottobre”. Contemporaneamente - spiegano i rappresentanti sindacali - il provveditore, considerato l’esiguo numero di poliziotti (29 invece dei previsti 35) e visto l’eccessivo numero di detenuti (allora 52 contro i 24 previsti) emise un provvedimento di riduzione di una decina. Ma nel frattempo la popolazione carceraria è risalita a 51, mentre le guardie sono scese a 24. Da considerare anche il distacco di uno dei sovrintendenti (che riduce a soli due il numero) e la presenza di 3 donne, non utilizzabili all’interno delle sezioni detentive, fatti che fanno diventare “stremante” il carico di lavoro. La previsione di pensionamenti, la constatazione che lo straordinario è ormai divenuto un’esigenza frequente (anche 10 ore di fila, sino al doppio turno) la carenza di uomini e mezzi per i piantonamenti e i trasferimenti (con evidente problemi di sicurezza), il calo degli autisti, con una sola unità a presidiare i tre piani delle sezioni detentive, rendono ulteriormente preoccupante la situazione. “Le croniche disfunzioni - dicono i sindacati - non possono non incidere sulla salute psico-fisica del personale: sempre più spesso non fruisce del riposo settimanale e non può andare in ferie: ancora inutilizzato parte del congedo del 2009, quasi tutto quello del 2010 e tutto quello del 2011”. In queste condizioni l’avvicinarsi dell’estate, che aumenta l’impegno delle carceri, non può che fare paura. Fossombrone: ristrutturazione del carcere; il muraglione di cinta è il prossimo obiettivo Corriere Adriatico, 20 aprile 2011 Il carcere di Fossombrone è uno dei pochi in Italia, grazie alla collaborazione del Comune, ad aver ammesso al lavoro esterno alcuni reclusi. Fenomeno riuscito a differenza di altre città. Assessore Chiarabilli e vicesindaco Lustrissimini siete rimasti soddisfatti della visita al carcere del senatore Marco Perduca e del presidente dei radicali delle Marche Matteo Mainardi? “Siamo rimasti soddisfatti prima di tutto perché c’è stata la conferma che le iniziative umanitarie prese dal Comune a favore di alcuni reclusi che possono lavorare per le vie della nostra cittadina sono state le uniche e le meglio riuscite in assoluto in Italia”. Per quanto riguarda i lavori al tetto dell’ala di ponente? “Il senatore ha confermato che i lavori di risanamento stanno per iniziare per un importo di 280 mila euro”. Qualcuno ha lavorato bene anche in questa direzione? “Sindaco Pelagaggia e giunta comunale hanno sensibilizzato l’onorevole Massimo Vannucci. Dopo la sua interrogazione parlamenta i risultati si sono visti. Lo ringraziammo pubblicamente”. Il senatore radicale cos’ha rilevato sulla situazione di vita dei detenuti? “Quella di Fossombrone è una realtà tra le miglior in Italia, è un dato positivo e consolante. Uulteriore conferma che il destino del carcere e di quanti vi lavorano ci sta molto a cuore. Noi in prima persona non possiamo fare molto. Svolgiamo un’azione di contatto e di sensibilizzazione con il Governo centrale”. I problemi non sono stati tutti risolti? “Nessuno ha qualche magia di sciorinare. La questione di come meglio ristrutturare certe parti fatiscenti, a cominciare dal muraglione di cinta dove gli agenti di polizia penitenziaria non possono più svolgere il loro lavoro di sorveglianza, non finisce qui. Il nostro impegno prosegue con tutta la migliore volontà”. Venezia: uccise il padre l’8 aprile scorso, ora ha tentato il suicidio in cella La Nuova Venezia, 20 aprile 2011 Quattro giorni dopo aver ucciso il padre ha tentato il suicidio, ma soltanto oggi la notizia è uscita dal carcere di Santa Maria Maggiore, dove il 21enne Filippo Longo è rinchiuso dall’8 aprile scorso. Il ragazzo di Dolo si è tagliato le vene dei polsi, ma prima un detenuto ha dato l’allarme, poi un agente della Polizia penitenziaria è accorso subito, così l’hanno salvato. Adesso sta meglio ed è tenuto sotto stretta sorveglianza: il rischio era che fosse l’ennesima vita stroncata all’interno delle carceri italiane. È accaduto il 12 aprile, il giorno dopo l’interrogatorio di garanzia davanti al giudice veneziano Maria Rosaria Minutolo, che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare con l’accusa di omicidio volontario, un reato da ergastolo almeno sulla carta. L’1 aprile aveva raccontato che in più di un’occasione aveva pensato al suicidio prima di aggredire e accoltellare il padre per quindici volte: erano stati predisposti i controlli, soprattutto dopo che il magistrato aveva segnalato la circostanza emersa durante l’interrogatorio alla direzione. Filippo, quel giorno, si era messo a pancia in giù, con le braccia sotto il corpo, sembrava dormisse ma poco prima, stando disteso sulla branda, si era tagliato i polsi. Un detenuto, che sta con lui in cella, ha visto gocciolare a terra il sangue e ha dato l’allarme, L’agente della Polizia penitenziaria in servizio è intervenuto velocemente e lo ha fatto trasportare nell’infermeria del carcere, dove gli sono stati subiti praticati i punti di sutura, che hanno bloccato l’emorragia. In cella non ci sono coltelli, ma sono numerosi gli attrezzi che possono essere trasformati in lame taglianti, dalle scatolette di tonno usate ai cucchiai, dalle lamette da barba ai piatti in metallo. Ora, è stata aperta un’indagine da parte della Procura sulla vicenda, ma soprattutto Filippo Longo è tenuto sotto stretta sorveglianza per impedirgli di riprovare. Inoltre, è seguito dagli operatori sanitari in modo che possa avere un sostegno psicologico, dopo aver realizzato quello che la rabbia lo ha portato a fare e quello che si spetta. Rovigo: rieducazione dei detenuti, un giovane su tre pensa sia possibile Redattore Sociale, 20 aprile 2011 Un’indagine della provincia di Rovigo fotografa la percezione degli studenti delle scuole superiori. Per oltre il 40% il carcere è un luogo di punizione. Più del 70% favorevoli all’ergastolo e oltre il 27,4% alla pena di morte Per la maggior parte degli studenti della provincia di Rovigo il carcere è un luogo di punizione, ma un giovane su tre si dice possibilista sulla funzione di rieducazione e risocializzazione. A fotografare le impressioni degli alunni delle scuole superiori rodigine è l’ufficio statistico provinciale che ha condotto, in collaborazione con l’associazione Gea Mater onlus di Lendinara e il Granello di Senape di Padova, un’indagine sulla percezione della criminalità e delle sue cause nelle classi terze e quarte di 9 istituti superiori, per un totale di 1.037 questionari distribuiti.. Il campione era composto da un 81,6% di ragazzi tra i 16 e 17 anni, di cui il 70% maschi. Ne è risultato che per il 43, 9% degli studenti il carcere è sinonimo di punizione, mentre il 30,2% pensa che sia possibile un reinserimento e un altro 19,6 % lo considera un posto di isolamento ed emarginazione sociale. L’immagine che i giovani hanno di chi ha commesso il reato è in larga parte quella di una persona normale (70%), ma per alcuni studenti si tratta di una persona “diversa da tutti” (6,9%), mentre per altri “proprio come me” (7,2%). Solo l’11,2% crede che la persona autrice di reato abbia “stampato in faccia” il proprio crimine. I motivi che porterebbero all’illegalità sono individuati nella povertà e nella disoccupazione (48,3%), nella scarsa severità delle leggi e dei giudici (31%), nell’ambiente sociale in cui si vive (29,7%) e nell’appartenenza a una famiglia in cui l’illegalità è “cosa normale” (27,4%). Sull’alternativa al carcere un 30% si dice a favore ma “solo per essere curati, per situazioni legate ad alcool e droga”. Assolutamente sì dice invece il 25,4% del campione, secondo cui il carcere “è l’unico luogo dove si possono pagare le pene”. Solo un 14,6% sarebbe disposto a considerare una pena pecuniaria o il lavoro non retribuito. Molto alta, infine, è la propensione a mantenere l’ergastolo (74, %), mentre la pena di morte è sbagliata per il 52,5% degli studenti, dato controbilanciato da un altro 27,4% che la ritiene giusta. Nuoro: l’arte che colora una vita grigia La Nuova Sardegna, 20 aprile 2011 La voglia di libertà l’hanno sfogata sulle pareti scrostate del carcere. I murales realizzati hanno lo scopo di “colorare i momenti grigi della vita”. Ieri mattina, nella cappella del penitenziario, c’è stata l’inaugurazione dell’iniziativa davanti a un’ottantina di detenuti (tra cui una dozzina di donne), il sindaco di Nuoro Sandro Bianchi, l’assessore ai Servizi sociali Mario Angioi e il garante dei detenuti del Comune Carlo Murgia. Il corso di murales è iniziato a ottobre e si è concluso a marzo. Sotto la guida dei maestri muralisti Lina Sanna e Pasquale Buesca, otto detenuti della sezione di alta sicurezza hanno dipinto le aule scolastiche. Quattro murales coloratissimi hanno ricoperto le nude pareti e ridato un pò di vita in un luogo dove la vita lentamente si spegne. I detenuti di media sicurezza sono stati invece guidati dalla muralista Pina Monne e hanno dipinto il corridoio di accesso alla sezione e la sala colloqui con i familiari. I soggetti raffigurano il lavoro del pastore, come la quotidiana mungitura, lo spirito di fierezza e indipendenza, incarnato dalla bandiera dei Quattro mori, e le tradizioni popolari dell’isola, rappresentate dalle maschere del carnevale barbaricino. Tra i soggetti non potevano mancare i simboli della libertà più sfrenata e spensierata, rappresentate da un cavallo bianco senza briglie e da coloratissime farfalle. La sala colloqui è stata abbellita da un grande e luminoso murale che raffigura un prato fiorito dove giocano spensierati i bambini. Il soggetto scelto da Vincenzo, un detenuto campano, è invece melanconico e nostalgico: un uomo straiato sulla spiaggia ripreso di spalle che ammira il sole che tramonta sul mare. Un murale che è piaciuto molto ai detenuti, che lo hanno accolto con mormorii di approvazione. Il direttore del carcere, Patrizia Incollu, ha sottolineato come “anche una semplice parete pitturata possa migliorare l’ambiente”, e ha parlato di “uno dei più belli e toccanti corsi mai realizzati a Badu ‘e Carros”. La cerimonia è stata intervallata da alcuni momenti musicali, grazie alla chitarra di Salvatore Vacca, la fisarmonica di Graziano Caddeo e la voce di Salvatorangelo Salis. Infine il sindaco, dopo aver premesso che “finalmente il carcere con la dottoressa Incollu ha una direzione stabile, la sua sensibilità è l’ideale per Badu ‘e Carros”, si è augurato “che i lavori possano uscire da queste mura attraverso una mostra fotografica”. Catanzaro: minori reclusi; task force di esperti al decimo seminario di “LeAli al futuro” Ristretti Orizzonti, 20 aprile 2011 Non solo repressione, ma una vasta campagna preventiva portata avanti nelle scuole. È l’opera, per molti versi sconosciuti, dell’Ufficio minori della Questura di Catanzaro, comunicata dal funzionario di Polizia Lina Pingitore, responsabile del servizio. Intervenendo al X seminario del progetto “LeAli al futuro”, la Pingitore ha riferito che l’Ufficio ha visto la luce nel 1996 e fa parte dell’anticrimine con funzioni prevalenti di prevenzione e monitoraggio. “Poiché la dispersione scolastica è strettamente legata alla cooptazione criminale - ha aggiunto la funzionaria - è necessario irrorare una sanzione, come le denunce a 45 famiglie rom residenti a Catanzaro e le ben 76 a nuclei ricadenti nel territorio lametino. Tuttavia finché ci saranno accampamenti o baraccopoli non si potrà pensare ad una vita normale per questi minori”. Nell’Ufficio minori della questura ruotano anche professionisti del sociale, mediante i quali la polizia porta avanti nelle scuole un “appello delle emozioni”, con iniziative finalizzate a creare aperture tra i ragazzi che lasciano messaggi, anche anonimi, scaricando i propri eventuali drammi e consentendo di portare allo scoperto casi di pedofilia, abusi, maltrattamenti in famiglia. Un ufficio al passo con i tempi, capace di far mediazione familiare e di dialogare con i ragazzi attraverso blog e forum. Ma nell’auditorium di Via Paglia ha fatto la parte del leone anche il volontariato che - secondo Caterina Salerno, presidente del Csv, “deve diventare la terza gamba tra giustizia minorile e mondo della scuola”. Le ha fatto eco Stefano Morena, direttore dello stesso Centro Servizi, che ha lanciato il progetto di “effettuare stage di volontariato ed ha stigmatizzato la difficoltà di far dialogare i soggetti coinvolti.” Sul campo dell’esperienza pratica un contributo concreto è giunto da Carlo Crucitti - Presidente Usabile - associazione capofila del progetto “A più voci: per una rete per la prevenzione”. Secondo Crucitti “molti disagi sono determinati dalle insicurezze di questi ragazzi, propensi alle devianze. Ecco perché diamo loro occasioni d’interesse, come le nuove tecnologie, laboratori di informatica di base e addirittura di robotica: competenze di tipo pratico da sfruttare sul mercato del lavoro. E soprattutto - ha aggiunto Crucitti - iniziative che stimolano a lavorare in gruppo, preludio magari per una possibile cooperativa”. Una utile bacheca elettronica è quella offerta dal completo portale www.csvcz.it. Al dibattito, moderato dal funzionario Massimo Martelli, ha preso parte anche il direttore del centro di giustizia minorile di Calabria e Basilicata, Angelo Meli per il quale “i recenti episodi di sbarchi in massa stanno producendo una certa pericolosa assuefazione nei confronti dei minori coinvolti”. Molto accorato il contributo di Antonio Blandino, responsabile dell’ufficio scolastico provinciale il quale la lamentato “la difficoltà di trovare categorie oggettive su cui fondare una società migliore, in un quadro desolante in cui la famiglia è spesso controparte anziché collaborante. Ma anche la scuola deve interrogarsi sulle sue responsabilità - ha aggiunto con senso autocritico - poiché a scuola occorre educare prima di trasmettere nozioni. Alla società - ha concluso efficacemente - non serve una mente geniale se poi questa viene messa a servizio del male”. Il seminario, che ha registrato il consueto intervento di qualche corsista, è stato concluso da Vitaliano Rotundo, dirigente dell’Istituto comprensivo “V. Vivaldi” di Catanzaro Lido, unica scuola calabrese tra le nove in Italia, ammessa al progetto interministeriale “LeAli al Futuro”, promosso dal Miur e dal Ministero di Giustizia. Francia: suicidi in carcere; giovane detenuto riesce nel suo intento grazie al kit anti-suicidio Liberation, 20 aprile 2011 Quella del carcere è una realtà durissima, fra le condizioni di detenzione e la ‘società’ che si instaura al suo interno. E se da una parte la prima reazione per molti che stanno fuori è di disinteresse o addirittura di soddisfazione, bisognerebbe invece pensare che nessun luogo di detenzione dovrebbe diventare inumano… o con quale diritto potremmo poi accusare i carcerati di esserlo stati a loro volta? Invece, spesso le condizioni di vita dei carcerati sono talmente dure che molti di loro, chissà se anche perché divorati dal rimorso, decidono di trovare un modo per togliersi la vita. Per questo motivo, le prigioni hanno adottato accorgimenti per cercare di evitare il più possibile gesti come questi. Nella prigione di Le Havre, in Francia, le norme anti-suicidio erano particolarmente rigide e attente: tutti gli oggetti considerati anche solo lontanamente pericolosi erano stati sostituiti con altri che non potessero essere adoperati con fini suicidi. Per esempio, poiché i pigiami possono essere arrotolati su sé stessi fino a fabbricare una corda per impiccarsi, erano stati aboliti in favore di quelli usa e getta fatti di carta. Ma se una persona arriva alla decisione ferma di togliersi la vita, non basta un pigiama di carta per farle cambiare idea: e infatti un detenuto ventitreenne, che in passato aveva già tentato una volta di uccidersi, questa volta è riuscito ad andare fino in fondo, fabbricando una corda con il pigiama di carta esattamente come avrebbe fatto se si fosse trattato di stoffa. Questo dimostra che le misure prese non possono essere sufficienti. Molto più efficace sarebbe l’assunzione di più personale preposto alla sicurezza dei detenuti. Perché se è giusto che un criminale sconti la sua pena, non deve comunque mai smettere di essere considerato un essere umano. Libia: in carcere tra i mercenari, arrivati al fronte senza conoscere il nemico Ansa, 20 aprile 2011 Avevano ricevuto l’ordine di andare a combattere Osama bin Laden nell’est della Libia, ma non l’hanno trovato. Hanno invece sparato, senza saperlo, contro i loro fratelli libici. E ora marciscono nelle carceri di Bengasi. Gli oppositori al colonnello Muammar Gheddafi accusano spesso i Murtazaqa (mercenari) del continente africano di aver trovato una miniera d’oro, in Libia, scegliendo di combattere contro i ribelli. “Io non sono un mercenario, ma sono libico. Sono stato un soldato, a Waddan (nel centro del Paese). Mi hanno detto che Bin Laden era a Bengasi. Io non sapevo nulla della rivoluzione” ha confidato candidamente Omar, 31 anni, il piede destro rotto, fasciato, e una flebo al braccio. “I ribelli mi hanno catturato durante i combattimenti a Brega. Sono detenuto qui da nove giorni” ha raccontato un uomo sdraiato su un materasso di fortuna posato a terra, in una cella che condivide con altri sei detenuti, tutti immobili, nelle loro coperte di lana. Sperduti, superati dagli eventi, molti tra loro affermano di essere stati spediti al fronte; altri di esserci andati spontaneamente. Senza nemmeno conoscere il nemico da combattere. “Io sono del nord di Tripoli. Sapete che lì non c’è al-Jazeera. La televisione di Stato chiedeva agli shebab di andare a combattere nell’est perché c’era al-Qaida, c’erano mercenari venuti dall’Afghanistan per invadere il nostro Paese” ha raccontato un altro uomo. “Io sono andato fino a Brega. Quando ho visto che non c’erano i terroristi di al Qaida, ma i ribelli, mi sono arreso. Ma c’è stata comunque una sparatoria e sono stato ferito al braccio” ha aggiunto da dietro la grata della cella, muri bianchi e luci al neon impolverate. Sessantanove uomini arrestati dai ribelli, che controllano l’est del Paese, si trovano in quella che, sotto Gheddafi, era “un centro di detenzione per bambini” divenuta, con i ribelli, una prigione militare. Tra questi, un algerino, un siriano, un ghanese e un presunto ciadiano sono sospettati di essere mercenari al soldo di Gheddafi: accusa che, naturalmente, respingono. “Abito a Bengasi, sono un commerciante del suk. Sono senza documenti. Andavo ad Ajdabiya. I ribelli mi hanno arrestato e hanno detto che ero un mercenario, perché indossavo dei pantaloni color kaki. Ma non sono un mercenario” ha ripetuto Jamal, un ragazzo magro, barba bruna e folta, rinchiuso in carcere da dodici giorni. Le autorità dei ribelli sostengono che le persone sospettate di essersi battute per Gheddafi saranno giudicate al momento opportuno da un tribunale militare. Alla domanda se sarebbe disposto a combattere per i ribelli, se fosse liberato, un detenuto dalla pelle color carbone, originario di Sabha, nel sud, ha risposto che si tratta di una questione “difficile”. “Ci sono libici su entrambi i fronti. Io sostengo le idee dei ribelli, ma allo stesso tempo non vorrei andare al fronte per sparare a un fratello libico che, come me, non sa perché si batte”. Siria: arrestato il leader dell’opposizione Mahmud Issa a Homs Apcom, 20 aprile 2011 Un noto esponente dell’opposizione siriana, Mahmud Issa, è stato arrestato ieri sera a Homs - terza città della Siria e no dei teatri principali delle manifestazioni anti-Assad - poche ore dopo l’annuncio della revoca dello stato d’emergenza, in vigore nel Paese da quasi mezzo secolo. “Una pattuglia dei servizi di sicurezza politica ha arrestato ieri sera a Homs l’oppositore Mahmud Issa che aveva concesso un’intervista alla televisione Al Jazeera”, ha dichiarato il presidente dell’Osservatorio siriano dei diritti dell’Uomo, Rami Abdel Rahmane. Nell’intervista Issa ha fatto riferimento all’omicidio del generale siriano Abdo Khodr al-Tellaui e dei suoi figli, affermando di ignorare chi fossero i colpevoli. Il regime di Damasco accusa “gruppi di criminali salafiti” di “seminare il terrore” nelle strade delle città siriane e ha promesso di “domare” la rivolta. Mahmoud Issa è un ex detenuto politico, in carcere dal 1992 al 2000, per la sua appartenenza al Partito dei Lavoratori e dal 2006 al 2009 per aver firmato un comunicato congiunto Damasco-Beirut per un Libano sovrano e indipendente. Svizzera: la Coges (Commissione di gestione) punta il dito sui problemi del sistema penitenziario Swiss Info, 20 aprile 2011 Troppi detenuti, mancanza di personale, tensioni permanenti, casi psichiatrici in ascesa: sono alcuni dei problemi irrisolti del sistema carcerario, sottolineati dal Rapporto 2010 della Commissione (Coges). “Appiccando il fuoco nella sua cella, Skander Vogt ha infiammato l’intero Servizio penitenziario vodese”: ha riassunto così la situazione il deputato socialista Claude Schwab, presentando il documento. Un riferimento al suicidio del detenuto che, a Bochuz, incendiò il materasso e morì soffocato nella sua cella. Dopo l’episodio, avvenuto ad aprile dello scorso anno, l’organizzazione del carcere venne ripensata. È l’intero sistema però ad essere ancora lacunoso. La Coges ha segnalato come particolarmente problematici anche “lo smarrimento e la demotivazione” del personale, che vorrebbe “maggiore sostegno e riconoscimento”. Argentina: detenuti studiano da arbitri, corsi di formazione in carcere Ansa, 20 aprile 2011 Insolito progetto sociale per il recupero dei detenuti in una delle prigioni della città argentina di La Plata - 19 APR - Insolito progetto sociale per il recupero dei detenuti in una delle prigioni della città argentina di La Plata, dove 17 reclusi stanno seguendo corsi di formazione per diventare arbitro di calcio: l’iniziativa viene portata a termine, precisa la stampa locale, in un carcere di massima sicurezza che fu centro di detenzione clandestina negli anni dell’ultima dittatura militare. A coordinare il programma Deporte por Penales, con il sostegno delle autorità locali, ci sono due ex arbitri, Luis Oliveto e Luis Belati, i quali, dopo aver appeso il fischietto al chiodo, sono riusciti a mettere in piedi l’originale programma di formazione. I due, commentano i media argentini, sono così riusciti a tradurre in realtà l’edificante paradosso di persone dietro le sbarre che lavorano per essere in grado di far rispettare delle regole. Ed é proprio Oliveto a spiegare le finalità l’iniziativa, che porterà i detenuti ad arbitrare nei campionati regionali, guadagnando così un po’ di soldi: “Ho amici che sono stati in carcere ed una volta usciti trovare un lavoro si é rivelato impossibile. Nessuno vuole avere a che fare con qualcuno che é stato dentro”. Proprio da questa riflessione è nata l’idea del programma di formazione, in quanto - ha precisato Oliveto - “mi sono reso conto che l’unica posizione per cui non si guarda la fedina penale è quella di arbitro: ti viene chiesto solo se hai i nervi abbastanza saldi per affrontare il peso del tuo ruolo”.