Miracolo! Forse fare la spesa in carcere non sarà più una cosa da ricchi Ristretti Orizzonti, 4 agosto 2011 Da giovedì 28 luglio 2011 una circolare del Capo del Dap, Franco Ionta, introduce qualcosa di molto nuovo nella politica dei prezzi del Sopravvitto: “…il tariffario modello 72 (NdR quello relativo ai prodotti in vendita al sopravvitto), deve compatibilmente con le esigenze d’ordine e sicurezza, essere il più ampio possibile e prevedere tre o quattro articoli dello stesso genere tra cui vanno inseriti anche i prodotti di diversa qualità e quindi a prezzi più modesti”. Che cosa cambierà? Cambierà che per lo meno non ci sarà più la “dittatura del prodotto unico”, un unico tipo di caffè, magari fra i più cari, un unico tipo di riso, di olio, di biscotti. No, la Circolare su questo parla chiaro, l’offerta deve essere ampia e prevedere prodotti “a prezzi più modesti”. Ma come è avvenuto il piccolo miracolo? Prima tappa: ogni indagine sui prezzi del sopravvitto, basata su un confronto dei prezzi con quelli dei supermercati, non portava mai a niente, perché le differenze tra prezzi “dentro” e prezzi “fuori” non erano molto significative Seconda tappa: finalmente siamo venuti a capo dei meccanismi del sopravvitto, primo fra tutti la mancanza totale di alternative, per ogni genere l’offerta è un solo prodotto, spesso di marca e costoso (Vedi la ricerca “Fare la spesa in carcere: paghi tre, prendi due”) Terza tappa: nasce una iniziativa di Ristretti Orizzonti, che organizza due settimane di astensione dalla spesa nella Casa di reclusione di Padova, per sollevare il problema della estrema povertà di tanti detenuti e dei prezzi spesso inaccessibili del sopravvitto. Interviene il Direttore della Casa di reclusione, chiedendo alla ditta del sopravvitto di introdurre alcuni prodotti a prezzi meno cari, e di fatto la lista dei generi in vendita si arricchisce di qualche possibilità di scelta (non un solo caffè a 3.39 euro per 250 gr, ma una alternativa della stessa marca a 1.80 euro). Intanto i parlamentari radicali, e Rita Bernardini in particolare, sollevano il problema degli appalti del vitto e del sopravvitto, e della loro scarsa trasparenza Quarta tappa: all’incontro del 27 luglio tra il Capo del DAP, Franco Ionta, e i rappresentanti delle associazioni che hanno sottoscritto il documento “Sovraffollamento: che fare” e le “Proposte minime per la riduzione del danno da sovraffollamento”, Ionta comunica di aver avviato un’indagine interna sul sopravvitto e di essere intenzionato a dedicare una circolare a questa questione Quinta tappa: Il 28 luglio viene firmata e diffusa la circolare Servizio Sopravvitto e problematiche correlate Sesta tappa: Ristretti Orizzonti sottolinea gli elementi di novità della circolare (fine della “dittatura del prodotto unico”) e decide di promuovere, coinvolgendo i giornali delle carceri e le associazioni di volontariato, un Gruppo di monitoraggio sull’applicazione della circolare nelle diverse carceri, e più in generale sulla questione del Vitto e del Sopravvitto. Giustizia: 39 detenuti suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane Adnkronos, 4 agosto 2011 Sono 39 i suicidi accertati dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. L’ultimo è avvenuto martedì sera nel penitenziario perugino di Capanne, il primo è avvenuto nel carcere di Aversa il 5 gennaio 2011. L’ultimo era un detenuto 36enne originario di Rieti in attesa di giudizio, il primo aveva 32 anni. In mezzo italiani e stranieri come tristi bandierine sulle carceri italiane. Nel 2011 i detenuti morti in carcere fino ad ora sono 113, di questi 39 sono suicidi. Nel 2010 delle 184 morti in carcere avvenute nella penisola, 66 erano suicidi. 72 nel 2009 per un totale di 177 morti. 1.859 morti dal 2000 al 2011 di cui 664 suicidi. Numeri allarmanti per un sistema penitenziario al collasso come quello italiano. Nelle carceri italiane, secondo il dossier Morire di Carcere, “le persone si tolgono la vita con una media 19 volte superiore rispetto alle persone libere e spesso lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti”. Dopo l’ultimo suicidio nel carcere perugino di Capanne, i deputati umbri del Pd Walter Verini e Gianpiero Bocci hanno chiesto al neo ministro di giustizia di intervenire per risolvere la situazione. Giustizia: Pannella; carceri fuori dalla Costituzione, parlamentari si autoconvochino Ansa, 4 agosto 2011 “La parola giustizia nel dibattito di ieri non è stata detta né dal governo né dalle opposizioni di regime, non dalla destra, non dalla sinistra né dal centro del regime. Tra i problemi dell’Italia non è mai stata nominata. E sui quotidiani di oggi, niente. In quale Paese viviamo?”. Così Marco Pannella che, dalle frequenze di Radio Radicale invita i parlamentari ad “autoconvocarsi”. Il leader Radicale ricorda quanto dissero otto giorni orsono il presidente della Repubblica sulle carceri e sullo stato della giustizia (“C’è un abisso tra questa realtà e il dettato della Costituzione”) e il primo presidente della Cassazione, Lupo. Nonostante ciò, sottolinea, “pare che il neoministro della Giustizia stia per partire per una lunga vacanza in Polinesia per un mese”. “Ma perché in Parlamento non si costituisce un gruppo Radicale di cento persone, fatto da tutti i parlamentari stanchi di questo regime o semplicemente poco interessati a fare un’altra legislatura? Perché non si candidano con noi a fare i promotori di una alternativa democratica? Sarebbe una nella notizia, no? Ci pensino, quelli che dicono che comunque con le attuali leggi elettorali, o anche con quelle che vogliono fare, in Parlamento non ci torneranno mai, non potranno essere eletti. Io dico autoconvocazione del Parlamento. E voglio cominciare a comportarmi come parlamentare autoconvocato. Potrebbe farlo anche il Presidente della Repubblica, ma non credo si debba arrivare a tanto. I parlamentari devono tornare a riunirsi sui temi che Napolitano, Schifani, Lupo hanno richiamato con chiarezza solo otto giorni fa”, conclude Pannella. Giustizia: Nessuno Tocchi Caino; Cina, Iran e Corea del nord i primi “paesi boia” del 2010 Redattore Sociale, 4 agosto 2011 Rapporto di “Nessuno tocchi Caino”. Nella sola Cina circa 5.000 esecuzioni, l’85% del totale mondiale. In Iran almeno 546, in Corea del Nord numero triplicato. Dei 42 paesi in cui esiste la pena di morte 35 sono Stati dittatoriali, autoritari o illiberali Sul terribile podio dei primi tre Paesi che nel 2010 hanno compiuto il maggior numero di esecuzioni nel mondo figurano tre paesi autoritari: la Cina, l’Iran e la Corea del Nord. Dei 42 paesi in cui esiste la pena di morte, infatti, 35 sono stati dittatoriali, autoritari o illiberali. In 18 di questi paesi, nel 2010, sono state compiute almeno 5.784 esecuzioni, circa il 99% del totale mondiale. Nella sola Cina ne sono state fatte circa 5.000, l’85,6% del totale mondiale; l’Iran ne ha effettuate almeno 546; la Corea del Nord almeno 60; lo Yemen 53; l’Arabia Saudita 27; la Libia almeno 18; l’Iraq 17; la Siria 17; il Bangladesh 9; la Somalia almeno 8; il Sudan 8; l’Autorità Nazionale Palestinese (Striscia di Gaza) 5; il Vietnam almeno 4; l’Egitto 4; la Guinea Equatoriale 4; la Bielorussia 2; il Bahrein 1; la Malesia almeno 1. Lo rivela il rapporto 2011 “La pena di morte nel mondo” realizzato dall’organizzazione Nessuno tocchi Caino e presentato questa mattina a Roma. Molti di questi stati non forniscono statistiche ufficiali sulla pratica della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto. “A ben vedere, in tutti questi paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia - si legge nel rapporto - l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili”. Nello specifico è la Cina a detenere il primato delle esecuzioni, anche se la pena di morte continua a essere considerata nel paese un segreto di Stato. Negli ultimi anni, però, si sono succedute notizie, anche di fonte ufficiale, in base alle quali le condanne a morte emesse dai tribunali cinesi sarebbero in diminuzione. Una flessione particolarmente significativa a partire dal 1° gennaio 2007, quando è entrata in vigore la riforma in base alla quale ogni condanna a morte emessa da tribunali di grado inferiore deve essere rivista dalla Corte Suprema. Il 26 novembre 2010, il China Daily ha riportato che la Corte Suprema cinese ha annullato circa il 10% delle condanne a morte da quando ha avocato a sè il diritto esclusivo di ratificare le condanne capitali. Su 12.086 casi di vario tipo, ne ha definiti 10.626, in diminuzione rispetto al 2009 quando i casi trattati erano stati 13.318 e quelli conclusi 11.749. Nel febbraio 2010, la più alta corte cinese ha emesso nuove linee guida sulla pena di morte che indicano ai tribunali minori di limitarne l’applicazione a un numero ristretto di casi “estremamente gravi”. Nel suo Rapporto del 2011, la Corte Suprema ha reso noto che continuerà a ridurre il numero delle esecuzioni facendo in modo che a essere giustiziati siano solo un piccolo numero di criminali estremamente pericolosi. Inoltre, il 25 febbraio 2011, il Congresso nazionale del Popolo ha approvato l’emendamento al codice penale che riduce di 13 il numero dei reati punibili con la pena di morte, portandoli a 55. Le nuove norme sono entrate in vigore il 1° maggio 2011 Al secondo posto di questa terribile classifica c’è l’Iran. Secondo un monitoraggio effettuato da Iran Human Rights (Ihr), ong con sede in Norvegia che si batte contro la pena di morte nella Repubblica Islamica, nel 2010 in Iran sono state effettuate almeno 546 esecuzioni, un aumento spaventoso rispetto agli anni precedenti. Nel 2009, Iran Human Rights aveva calcolato almeno 402 esecuzioni. E nel 2011, non vi è stato alcun segno di inversione di tendenza. Anzi, l’Iran ha visto un aumento drammatico delle esecuzioni nei primi mesi dell’anno, un dato tre volte superiore a quello del 2010: Iran Human Rights ha registrato 390 esecuzioni fino al 7 luglio. Ma i dati reali potrebbero essere ancora più alti, se si considerano le notizie diffuse da fonti indipendenti come ex detenuti, familiari e avvocati di condannati a morte. Nel 2010, sono state giustiziate almeno 2 persone che avevano meno di 18 anni al momento del reato, fatto che pone l’Iran in aperta violazione della Convenzione sui Diritti del fanciullo, che pure ha ratificato. Almeno altri 3 minorenni sono stati impiccati nei primi sei mesi del 2011. Inoltre in Iran non c’è solo la pena di morte, secondo i dettami della Sharia iraniana, ci sono anche torture, amputazioni degli arti, fustigazioni e altre punizioni crudeli, disumane e degradanti. Non si tratta di casi isolati e avvengono in aperto contrasto con il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che l’Iran ha ratificato e queste pratiche vieta. Il terzo caso è quello della Corea del Nord, dove le esecuzioni sono triplicate. Dopo che, a partire dal 2000, le critiche internazionali avevano portato a una loro diminuzione, le esecuzioni pubbliche sono di nuovo aumentate nel 2010. Tra i condannati, vi sono soprattutto funzionari pubblici accusati di traffico di droga, appropriazione indebita e altri reati non violenti, oppure cittadini nordcoreani che hanno tentato di fuggire in Cina o in Corea del Sud, spinti dalla carenza di cibo e dalla oppressione politica nel proprio Paese. Il 12 gennaio 2011, una fonte diplomatica vicina alla Corea del Nord ha detto che nel 2010 ci sono state 60 esecuzioni pubbliche confermate, più del triplo dell’anno precedente. Le esecuzioni nella Corea del Nord sarebbero aumentate nel tentativo di rafforzare il regime durante il periodo di transizione al potere di Kim Jong-un, designato alla successione del padre Kim Jong-il. L’erede avrebbe richiesto “fucilazioni in tutto il Paese”. Stati preferiscono iniezione letale Dalla sedia elettrica all’iniezione letale: una “conquista di civiltà“. È così che viene presentato in molti paesi - secondo il rapporto sulla pena di morte di “Nessuno tocchi Caino” - il passaggio dai tradizionali metodi di esecuzione (oltre alla sedia, anche la fucilazione, l’impiccagione, la fucilazione) all’iniezione letale, un modo presentato come “più umano e indolore per giustiziare i condannati a morte”. La realtà - afferma il rapporto - “è diversa”, e il lavoro che gli abolizionisti cercano di fare è quello di sottolineare, nel dibattito pubblico delle varie nazioni, come l’utilizzo dei farmaci letali non rappresenti affatto una conquista di civiltà. Di iniezione letale si è molto parlato quest’anno negli Stati Uniti, dove tutti i singoli stati la usano come primo metodo di esecuzione. I vecchi metodi “sopravvivono” in alcuni stati, disponibili su richiesta del condannato e di solito solo per i reati commessi prima dell’entrata in uso dell’iniezione. Nel corso del 2010 si sono verificate per la prima volta esecuzioni capitali realizzate non con il consueto “cocktail” di farmaci (tre diversi) usato finora, ma con una singola e massiccia dose di un singolo prodotto, un potente barbiturico. Un’ipotesi questa che nel 2008 la Corte Suprema aveva avallato, sostenendo l’alta probabilità che l’uso di una singola massiccia dose di barbiturico al posto dell’attuale mix di tre farmaci fosse un metodo di esecuzione meno doloroso e con meno rischi di imprevisti. Negli anni precedenti, del resto, si era molto discusso sul fatto che il farmaco utilizzato per paralizzare i muscoli impedisse ai condannati non di provare dolore una volta iniettata la sostanza destinata a bloccare il cuore, ma solamente di manifestare tale dolore. In tal senso, in quella circostanza la Corte Suprema, affermando che l’iniezione letale non è contraria alla Costituzione americana, in qualche modo ne prospettava un cambiamento, passando dal cocktail di tre farmaci ad uno solo. Tale processo si è concretizzato nel 2010 anche a causa di alcuni avvenimenti contingenti. In particolare - ricostruisce il Rapporto - è accaduto che nel gennaio 2011 l’unica casa farmaceutica autorizzata a produrre e vendere il Pentothal (il primo dei tre farmaci usati) negli Stati Uniti, la Hospira Inc. con sede in Illinois, ha prima deciso di trasferire la linea di produzione presso una sua sussidiaria italiana e, dopo una intensa campagna condotta in particolare da “Nessuno tocchi Caino”, ha deciso di chiuderla definitivamente per evitare il rischio che il barbiturico finisse in qualche modo nei penitenziari americani. A causa della penuria di Pentothal o per l’imminente data di scadenza delle scorte del farmaco su tutto il territorio nazionale, molti Stati americani sono stati costretti a sospendere o a rinviare le esecuzioni. Diversi Stati hanno avviato la procedura di modifica del protocollo per passare dal mix di tre farmaci alla singola e massiccia dose di sonnifero. Alcuni Stati hanno anche modificato i loro protocolli inserendo un barbiturico di nuova generazione, il Pentobarbital, molto simile al Pentothal, ma a larghissima diffusione, quindi economico e di facile reperibilità. Oltre che come sedativo e anestetico, viene utilizzato nel trattamento del Morbo di Huntington, dell’epilessia e di una serie di altre disfunzioni del sistema nervoso centrale. Ma è noto anche per essere usato dai veterinari per uccidere cavalli azzoppati o animali malati in stato terminale. È stato usato per la prima volta in Oklahoma nel dicembre 2010 e sei mesi dopo altri sei Stati avevano compiuto esecuzioni utilizzando per la prima volta il Pentobarbital: Alabama, Arizona, Mississippi, Ohio, Texas e South Carolina. Da rilevare che il 1° luglio 2011, la società farmaceutica danese Lundbeck Inc., che non è l’unica produttrice al mondo del Pentobarbital ma è l’unica con la sua filiale americana ad avere la licenza a produrlo negli Usa, ha annunciato che avrebbe posto rigidi controlli alla distribuzione del suo Nembutal (nome commerciale del Pentobarbital) per evitare il suo uso nelle iniezioni letali nei penitenziari americani. Il passaggio all’iniezione letale accomuna anche Cina e Vietnam. In Cina l’iniezione letale è quasi un privilegio, rispetto al comune colpo di fucile sparato al cuore o alla nuca del condannato: il rapporto segnale che “è molto spesso riservato a ex alti funzionari del regime condannati a morte e a cittadini stranieri”. Il nuovo metodo va comunque estendendosi nel paese attraverso l’uso di alcune unità mobile che a bordo di furgoni raggiungono il luogo del processo e procedono all’esecuzione direttamente sul posto, con il condannato che subisce l’iniezione letale mentre è legato a un lettino di metallo posto sul retro del furgone. La trovata, che è presentata come “meno traumatica per il condannato e più efficace come deterrente”, secondo “Nessuno tocchi Caino” avrà anche la conseguenza di “favorire il traffico illegale di organi dei condannati” dal momento che “le iniezioni lasciano intatto l’intero corpo e richiedono la presenza di medici, con gli organi che possono essere espiantati in un modo più veloce ed efficace che nel caso in cui i detenuti siano fucilati”. Anche in Vietnam l’iniezione letale ha fatto strada e da settembre 2011 sostituirà totalmente la fucilazione: il parlamento l’ha deciso all’unanimità nel giugno 2010 ricordando che “l’iniezione di veleno provoca meno dolore ai condannati e lascia intatto il loro corpo”. Inoltre “costa di meno e riduce lo stress psicologico degli addetti all’esecuzione”. Giustizia: ministro Palma e Ionta; due ore di colloquio sulle questioni penitenziarie Comunicato stampa, 4 agosto 2011 Si è svolto questa mattina un lungo incontro di lavoro tra il Ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma e il capo dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta, nel corso del quale sono stati affrontati i temi di maggiore rilevanza nell’organizzazione del sistema penitenziario. Al termine dell’incontro Franco Ionta ha dichiarato “Con il Ministro ci siamo soffermati sugli aspetti sui quali ho, negli ultimi giorni, adottati provvedimenti indirizzati al miglioramento della dignità della vita delle persone detenute e delle condizioni di lavoro del personale di Polizia Penitenziaria e un attento controllo sulle spese del sopravvitto. Con riferimento alle condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria - continua Ionta - che negli ultimi giorni, in alcuni istituti, è stata oggetto di aggressioni da parte di detenuti, è stato evidenziato che il sovraffollamento e la carenza degli organici sono certamente concause delle situazioni di tensione che determinano simili fenomeni, ai quali la Polizia Penitenziaria reagisce con professionalità e rispetto delle regole deontologiche. Ho riferito al Ministro che, anche riguardo al drammatico fenomeno dei suicidi in carcere, l’Amministrazione Penitenziaria pone la massima attenzione e, al di là dei necessari interventi di sistema diretti al miglioramento delle condizioni di vita e a specifici interventi di assistenza psicologica, i provvedimenti sul miglioramento della vita detentiva vanno certamente nella direzione di arginare atti di aggressività auto ed etero diretti. Il ministro Palma - conclude Ionta - mi ha assicurato che tra le priorità del suo programma seguirà con la massima attenzione gli interventi per la stabilizzazione del sistema penitenziario e le questioni che riguardano il Corpo di Polizia Penitenziaria”. Lettere: non si può assistere in silenzio al degrado nelle carceri umbre di Federica Porfidi (Presidente Conferenza Volontariato Giustizia Umbria) Ristretti Orizzonti, 4 agosto 2011 L’ennesimo suicidio nelle Carceri Umbre è un fatto grave e preoccupante. Dopo i ripetuti allarmi provenienti dalle Istituzioni Penitenziarie, dalle Forze di Polizia e dalle Istituzioni Umbre, rivolte al governo, niente è cambiato e l’aria nelle carceri umbre è sempre più pesante. Tanto più preoccupante è la situazione ora che siamo entrati nel mese più difficile dell’anno, il mese di agosto. Il momento è particolarmente delicato e andrebbe fatta un’azione di prevenzione particolare, soprattutto nei confronti di quei detenuti in disagio psichico che sempre di più affollano gli Istituti di Pena. Sappiamo che tale iniziativa è tanto più difficile quanto improbabile visto il periodo di ferie e di tagli alle ore di assistenti e psicologi che seguono la situazione. Non possiamo comunque assistere silenziosi al degrado verso cui sta precipitando la condizione dei detenuti italiani, che si ripercuote anche nella nostra Regione. Il sovraffollamento è il problema più evidente (la particolare gravità della situazione delle strutture detentive dell’Umbria, nelle quali sono ospitati ad oggi oltre 1700 detenuti, a fronte di una capacità di accoglienza di 700 detenuti è nota a tutti)ma non è l’unico. A rendere sempre più invivibile ed insopportabile la permanenza nella carceri è l’insieme dell’arretramento delle politiche rivolte alla popolazione detenuta: - drastica riduzione delle ore lavorative per i detenuti interne al carcere (pulizie, riparazioni, etc.); Riduzione che impedisce ai detenuti di procurarsi il sostentamento alle piccole necessità e che incide anche sulla vivibilità delle strutture che risentono di una minore pulizia ed igiene e di un sempre maggiore stato di tensione; - mancanza dei beni primari quali detersivi e prodotti per l’igiene personale che hanno impegnato le associazioni di volontariato per la fornitura e ricerca degli stessi; - riduzione delle ore del personale esterno incaricato (psicologi, consulenti etc.); - riduzione del personale penitenziario dovuta allo stop del turn-over; - riduzione delle attività trattamentali e di reinserimento dovute alla riduzione dei Fondi Nazionali, all’assenza del Fondo Sociale Europeo (impiegato in altri capitoli), alla riduzione generale dovuta ai Tagli al Sociale delle risorse destinate a Regioni e Comuni, che colpiscono da subito i soggetti considerati “meno meritevoli” ossia i detenuti. A fronte di questa situazione è urgente aprire un tavolo di confronto regionale tra Enti Locali, Istituzioni Penitenziarie e Associazioni di Volontariato per: definire azioni di pronto intervento che tamponino l’emergenza, ricostituire l’Osservatorio Regionale sulla Condizione Penitenziaria e Post Penitenziaria, verificare i motivi del ritardo della nomina del Garante dei Diritti dei Detenuti (atteso da sette anni),verificare i risultati del trasferimento delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia alla Regione, verificare lo stato di avanzamento della chiusura degli O.P.G. e del trasferimento alle Regioni del servizio, avviare iniziative strutturali destinate al trattamento ed al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti in Umbria. Lettere: Don Giovanni e le sue anime nel teatro dei detenuti di Ancona di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 4 agosto 2011 Il teatro per avere successo ha bisogno del pubblico, e su questo non ci piove. Quando il pubblico partecipa e porta con sé lo spettacolo anche fuori del teatro, si può dire che si da seguito allo stesso nel quotidiano, e così certamente è stato martedì 2 agosto, al Cinema Teatro Barcaglione, in realtà Casa di Reclusione di Ancona II, seconda al grande carcere di Montacuto. Il palco a livello del terreno, il prato discendente verso il mare lungo uno dei muri di cinta, era guardato da soli tre agenti di polizia penitenziaria, una commissario femmina, non è un refuso, un direttore maschio, qualche insegnante, impiegato, funzionario pubblico interessato al lavoro della detenzione, cioè del come rendere utile e non dannosa più di quanto non sia la permanenza dei carcerati in galera. Tutti siamo stati protagonisti del dramma a cielo aperto, perché registi ed attori avevano portato il disagio dalle celle al prato, e sul tema di Don Giovanni ladro e sciupatore di anime, alcuni hanno provato a liberarsi, altri fra noi spettatori hanno riso e partecipato commentando ad alta voce le qualità dei clown, dei jolly. Dieci uomini sono seduti in due file, sembra la sala d’aspetto di un dentista. Don Giovanni al centro con le sue malefatte, un servo che sembra un pastore che tenta di precederlo per paura di incappare in punizioni, le anime si alzano e cercano di guadagnare spazio, poi protestano. Il pubblico, gli altri detenuti, si riconoscono nelle mosse del mendicante “È proprio un napoletano” dicono i maghrebini, la donna Elvira sospira il suo dolore, ma non lo sfiora. Due fratelli lo perdonano, perché li ha salvati dai briganti, ma il perdono è a tempo. A tempo debito arriva la musica, vitale per il ragazzo al mixer, per il rapper che grida agli spacciatori ed agli sbirri la sua speranza, per la conclusione, che vorremmo fosse continuata, una musica che guarisce, e nel mezzo, quando Don Giovanni tira fuori un blues di speranza, anche se ammicca, lo vorrebbe dissimulare. Noi, gli spettatori, interrompiamo spesso, per ammirare la recitazione dei guappi, le maschere da avanspettacolo , e non abbiamo paura di essere ripresi. Alla fine resta il senso di essere stati lì, non nelle celle, mentre molti, o forse pochi, agenti erano impegnati in altri punti nevralgici, mentre ammiriamo il sole calare alle nostre spalle, con il tramonto che segna la fine del digiuno del Ramadan per molti, e si può mangiare al rinfresco, mentre altri parlano di aprire altri carceri, e invece si potrebbero aprire le porte di queste che già ci sono, almeno quelle interne, per essere operosi, provare la libertà, in attesa che arrivi. Grazie a chi l’ha reso possibile, Art’O di Macerata. Umbria: Verini e Bocci (Pd); situazione grave nelle carceri della regione Agi, 4 agosto 2011 È una “situazione sempre più grave” quella delle carceri umbre denunciata dai deputati del Pd Walter Verini e Gianpiero Bocci, che stamane hanno fatto visita al penitenziario di Capanne. Nell’istituto di Perugia negli ultimi due giorni un detenuto si è suicidato e un altro ha tentato di farlo ingerendo lamette da barba. “A Capanne - hanno detto in conferenza stampa - oggi nella sezione maschile ci sono 461 detenuti (compresi 6 disabili) a fronte di una capienza di 406 e, in quella femminile 83 detenute a fronte di 59 posti. Nella sezione maschile in circa 22 celle il terzo detenuto dorme con un materassino di gommapiuma di pochi centimetri poggiato a terra, mentre tra le donne ci sono celle con 6 detenute”. A fronte di questo, sui 379 agenti di polizia penitenziaria previsti, a Capanne ce ne sono 241. “È soprattutto grazie a loro, ai volontari, alla direzione del carcere, che la situazione è grave ma non ancora esplosiva - hanno rimarcato i due deputati del Pd - ma occorre subito fare qualcosa perché le condizioni di vita dei detenuti e di lavoro del personale sono davvero difficili. Certe notti c’è un solo agente per cento detenuti”. Per questo Verini e Bocci hanno contattato il nuovo ministro della giustizia Francesco Nitto Palma per chiedergli di fare qualcosa presto. Un altro aspetto su cui sono stati stimolati i parlamentari nel corso della visita è la carenza di materiale ricreativo: “Abbiamo già scritto al Coni per chiedere una rete di pallavolo e altre attrezzature - hanno detto - ma lanciamo un appello anche alle federazioni sportive e ai privati perché donino quello che possono: un pallone o una cyclette possono evitare gesti estremi perché tengono occupati i detenuti, danno uno scopo alla loro giornata”. Milano: reinserire i detenuti, l’impegno del nuovo direttore del carcere di Bollate Redattore Sociale, 4 agosto 2011 Un sistema strutturato che coinvolga carcere, enti pubblici e terzo settore per favorire il reinserimento sociale dei detenuti a fine pena. È il primo progetto a cui sta lavorando Parisi: “Qui ho trovato una realtà molto significativa”. Un sistema strutturato che coinvolga carcere, enti pubblici e terzo settore per favorire il reinserimento sociale dei detenuti a fine pena. È il primo progetto a cui sta lavorando il nuovo direttore del carcere di Bollate, Massimo Parisi. “Quando io e Lucia Castellano (ex direttore di Bollate e oggi assessore alla Casa del Comune di Milano, ndr) ci siamo incontrati per il passaggio di consegne, abbiamo convenuto sulla necessità di creare un sistema strutturato con l’esterno verso cui veicolare le scarcerazioni, con tanto di protocollo che definisca le procedure e i servizi delle istituzioni, oltre a quelli già offerti da altre realtà del territorio e del terzo settore”, dice il neo direttore. A partire da settembre, quindi, uno staff permanente lavorerà a questo progetto, con l’obiettivo di creare una regia stabile e permanente dei vari servizi già attivi sul territorio (sanitari, psichiatrici, di housing sociale) per “veicolare” e seguire al meglio la dimissione di ogni detenuto. “Il fine pena -aggiunge Parisi- è una fase molto delicata e, per tante persone che si trovano in carcere, persino traumatica”. Per questo necessita l’attenzione e il coinvolgimento di tutti gli attori sociali, a cominciare dai primi cittadini. “Ho già parlato con il sindaco di Bollate - rivela Parisi, poi vorrei coinvolgere man mano tutti i comuni che confinano con il carcere: Garbagnate, Rho e naturalmente Milano”. “Qui a Bollate ho trovato una realtà con tante offerte e opportunità formative per i detenuti, molto aperta all’esterno e veramente significativa, anche sotto il profilo della vivibilità”, dice Parisi, che nonostante la giovane età (42 anni) vanta già 18 anni d’esperienza nell’amministrazione penitenziaria. Dal 1993, infatti, per diversi anni ha lavorato come vicedirettore del carcere di Opera, per poi passare alla direzione delle case circondariali di Voghera, Sondrio e, dal 2004, Monza. Un’esperienza importante, quest’ultima, sia in termini di tempo che di numero di persone detenute (oltre 840), preludio ideale al passaggio al timone della casa di reclusione di Bollate, diventata un modello a livello nazionale proprio per i progetti di lavoro e di rieducazione. “A Bollate la vita quotidiana delle persone è dignitosa e comprende percorsi di reinserimento -dice il neodirettore: ci sono 120 detenuti che ogni giorno escono e altrettanti che fruiscono regolarmente di permessi premio. Sotto questo profilo, prometto a me stesso di mantenere questa linea”. Per quanto riguarda l’annoso problema del sovraffollamento degli istituti, da cui Bollate non è toccato se non in minima parte, Parisi dice che le soluzioni possono essere congiunte: “Accanto alla realizzazione di nuovi istituti, che già stanno sorgendo in alcune zone del paese, si dovrebbero adottare misure di diritto sostanziale, alternative al carcere, che incidano sull’area della penalizzazione. In sostanza, significa offrire sempre più servizi che creino le basi per l’effettivo reinserimento sociale degli ex detenuti, oltre che sensibilizzare la coscienza collettiva rispetto alla funzione rieducativa della pena”. Messina: Cgil; gli internati dell’Opg pagano le inadempienze del governo regionale La Gazzetta del Sud, 4 agosto 2011 “Gli internati dell’ospedale psichiatrico giudiziario Vittorio Madia pagano le inadempienze del governo regionale siciliano ma anche delle regioni che per bacino di utenza si appoggiano all’ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto”. Lo afferma in un comunicato inviato agli organi di informazione Elvira Morana, della segreteria della Cgil siciliana, a proposito della chiusura di un reparto dell’Opg di Barcellona disposta a seguito di visita ispettiva della Commissione parlamentare d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino (Partito democratico). La chiusura - sostiene la Cgil - “avrà la conseguenza di rendere ancora più invivibile la struttura che dovrebbe ospitare di norma solo 175 detenuti ma nei fatti ne ospita 366”. L’esponente della Cgil ha messo in rilievo che “la sanità penitenziaria già dal 2008 doveva transitare al sistema sanitario regionale”. Ciò non è avvenuto nonostante siano trascorsi 3 anni dalla riforma mai recepita in Sicilia. “Ancora oggi, stando all’ultimo Documento di programmazione economica e finanziaria, la Regione dovrà recepire il provvedimento nazionale con norme di attuazione mai emanate”. Secondo la Cgil non è giustificabile alcun ritardo, anche se da Palermo si sostiene la necessità di dover “quantificare le risorse che devono corrispondere le restanti regioni che si appoggiano all’Opg di Barcellona ed i costi del personale che transitano dal ministero della Giustizia alla sanità regionale”. Il sindacato lancia l’allarme su “un possibile disimpegno del ministero della Giustizia e su un intervento non adeguato da parte dell’assessorato alla Sanità”. Tutto ciò accade sulla pelle degli internati che “hanno bisogno - sostiene la Cgil - di cure e di locali adeguati. È ora - si conclude - che la Regione la smetta con gli alibi e provveda ad attuare agli obblighi di legge sul passaggio della sanità penitenziaria a quella pubblica e la Commissione parlamentare delinei un percorso indifferibile a difesa dei diritti degli internati”. Campobasso: due tentativi suicidio in poche ore, detenuti salvati da intervento polpen Ansa, 4 agosto 2011 Due tentativi di suicidio al carcere di Campobasso a distanza di poche ore. Il primo si è registrato ieri intorno alle 13 quando un detenuto italiano di 50 anni ha tentato di impiccarsi. Il secondo, in serata, ha visto protagonista un uomo di 30 anni che ha ingerito alcune lamette. In entrambi i casi il pronto intervento degli agenti della Polizia penitenziaria ha evitato il peggio. Da quanto si apprende i due detenuti non sono in pericolo di vita. Su questi episodi interviene il consigliere nazionale del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe), Aldo Di Giacomo. “Siamo di fronte a fatti che confermano il malessere che si registra nelle carceri italiane. Oggi siamo riusciti a salvare due vite - ha aggiunto - domani non si sa”. Il sindacalista pone l’accento sull’organico del carcere di Campobasso. “A giorni 12 poliziotti verranno trasferiti in un’ altra sede - commenta - e in questa maniera il problema dell’esiguo numero di operatori di polizia penitenziaria si accentua ancora di più”. Genova: pestaggio razzista nel carcere di marassi; vittima tenta suicidio, salvato da agenti di Marcello Zinola Il Secolo XIX, 4 agosto 2011 “La situazione è sempre più difficile”. Ieri gli agenti della polizia penitenziaria hanno sventato il tentativo di suicidio del detenuto maghrebino che, l’altro ieri, al quarto piano della sesta sezione, era stato vittima dell’aggressione a probabile sfondo razziale, da parte di altri otto detenuti italiani. L’uomo è stato salvato in extremis dalla polizia penitenziaria mentre stava tentando di impiccarsi nella cella dove era stato trasferito, per sottrarlo ad altri rischi. E, sempre ieri, a conferma della situazione di estremo disagio creata sia dal sovraffollamento(790 detenuti su 435 posti disponibili, 150 agenti mancanti negli organici del solo carcere di Marassi) un altro detenuto di origine maghrebina ha inscenato una protesta appiccando il fuoco alle suppellettili della sua cella. Il tutto mentre a Marassi e Pontecimo, come nelle altre carceri liguri, continua lo sciopero della fame lanciato dai Radicali, come forma di sensibilizzazione per l’amnistia e un intervento radicale sull’emergenza carceri. A Marassi e Pontedecimo dallo scorso 30 giugno, con modalità diverse, sono un’ottantina (76 alle Case Rosse, cinque a Pontedecimo) i reclusi che hanno aderito alla protesta. “Una situazione che è sempre difficile - conferma Fabio Pagani, segretario della Uil-pa - Perché non si intravedono soluzioni concrete a fronte di un quadro generale preoccupante”. Il salvataggio di ieri “è solo uno dei tanti e sono autentici miracoli perché noi lavoriamo con un organico sottodimensionato di almeno 150 unità, con magari due piani da controllare con un solo collega nei turni serali. Servirebbe, serve un piano generale serio e vero sugli organici del personale e privo di sole buone intenzioni sulla vita in carcere. Gli operatori sociali sono pochi, i detenuti sono costretti perlopiù all’ozio, le tensione sale, i problemi di convivenza sono sempre più difficili”. Anche per la situazione ambientale che costringe i detenuti in celle di 20 metri quadri con brande a tre piani. E gli agenti a operare spesso in condizioni altrettanto difficili. “L’estate è sempre stata una stagione difficile - aggiunge Pagani - ma ormai tutto l’anno è una stagione difficile e di tensioni”. Perugia: detenuto ricoverato a dopo aver ingerito lamette da barba Agi, 4 agosto 2011 Un tunisino di 24 anni, detenuto presso il carcere di Capanne, è stato ricoverato ieri sera all’ospedale Santa maria della Misericordia del capoluogo umbro dopo aver ingerito delle lamette da barba. Secondo quanto si apprende da fonti ospedaliere le condizioni dello straniero non sono comunque gravi e già in giornata potrebbe essere dimesso per fare rientro in carcere. Il tunisino si trova attualmente ricoverato nel reparto di gastroenterologia. Nella notte tra martedì e ieri, sempre nel carcere perugino di Capanne, un detenuto di 36 anni, originario di Rieti, aveva tentato il suicidio inalando il gas di una bomboletta. Immigrazione: da Bari a Crotone, la rivolta dei richiedenti asilo di Ruggiero Capone L’Opinione, 4 agosto 2011 Le immagini di guerriglia urbana dei giorni passati ci hanno raccontato le rivolte degli immigrati che, dopo aver abbandonato i centri d’accoglienza di Bari e Crotone, sfidavano la polizia su strade e binari. Scontri d’una ferocia sconosciuta alle forze dell’ordine italiane, e perché chi chiede il diritto d’asilo è pronto a tutto, soprattutto fugge da paesi dove la vita umana vale meno d’una bottiglia di minerale. Certo non c’è minaccia o ammonimento che possa sedare chi fin da bambino è costretto a lottare fino alla morte del proprio avversario, aguzzino. Oggi quei rifugiati identificano la polizia di stato come un aguzzino più che come benefattore. È evidente che la reclusione degli extracomunitari rivoltosi nelle locali carceri, per sottoporli a processo per violenza e resistenza alla forza pubblica, sia una stortura, uno spreco di tempo e risorse. Che senso possa avere rinchiudere un extracomunitario in un penitenziario, e per sei lunghi anni, ce lo dovrebbero spiegare il ministro Maroni e tutta quella dirigenza del Viminale che gongolava per aver piegato i rivoltosi a suon d’agenti in assetto antisommossa. Invece di svuotare le carceri, di bandire la reclusione, non facciamo altro che rimpinzare di nuova carne quell’enorme dio Moloc dagli occhi fatti di sbarre. I media dicono all’unanimità che hanno cominciato quelli di Bari, bloccando strade e ferrovie, prendendo a sassate e sprangate le auto della polizia. E c’è pure chi si dice certo che i migranti di Crotone li abbiano emulati nel pomeriggio, con blocchi stradali e sassaiole. Unica certezza sono i tantissimi feriti tra dimostranti e poliziotti. Infatti non è ancora certo chi abbia informato sui moti di Bari i reclusi nel centro accoglienza di Crotone. I migranti di Crotone non avevano saputo degli scontri nel Capoluogo pugliese da telegiornali, né da radio o siti internet. Soprattutto non sono muniti di telefonia mobile, né possono utilizzare telefoni pubblici dei centri d’accoglienza. Loro tramite col tessuto sociale italiano (e con le notizie dal mondo) sono agenti di polizia e personale civile (fatto anche di volontari) che prestano la loro opera presso i centri d’accoglienza. Quest’ultima parola da un volto buono (roba da pubblicità) a strutture di reclusione che l’Europa adibisce ai soli extracomunitari. Ergo, ad informare gli ospiti della struttura crotonese della rivolta nel barese non possono che essere stati degli italiani. È lecito interrogarsi sulle finalità della delazione. Una soffiata fatta da qualche volontario mosso da profonda indignazione e per semplice fine sociale, o dietro i moti di Crotone si cela una strategia dei servizi segreti e di qualche ufficio del Viminale? Perché i moti di Bari e poi di Crotone potrebbero rispondere alle esigenze di chi vorrebbe maggiori risorse e poteri per la polizia. Comunque finire sotto i riflettori, e per aver sedato le rivolte, serve comunque a rafforzare nel cittadino l’utilità della polizia nel dare maggior sicurezza al territorio. Un po’ come i furti nelle ville dei vip che, come al solito, permettono maggiori introiti alle società di vigilanza. E se a Crotone tutto sarebbe partito per una soffiata, non è da escludere che a Bari abbia giocato un forte ruolo qualche sobillatore italiano. Andiamo al sodo: il dubbio (forse la certezza) è che qualche barba finta abbia convinto i reclusi nel centro d’accoglienza che il permesso di soggiorno non sarebbe mai arrivato. Soprattutto che la loro vita in Italia sarebbe stata un prolungamento della prigionia libica, condizione a cui erano ridotti dal regime di Gheddafi. E perché molti degli “ospiti” nei centri sono scappati dai campi di concentramento della Tripolitania. Non dimentichiamo quanti extracomunitari africani sono stati uccisi dalla polizia di Gheddafi nei campi di prigionia, e poi sepolti nelle fosse comuni. Il silenzio della polizia italiana è a dir poco doloso. “Si è trattato soltanto di un’emulazione della protesta fatta a Bari”, ha detto all’Ansa il questore di Crotone, Giuseppe Gammino. Parole che traballano, perché gli scontri ad Isola Capo Rizzuto (Crotone) tra immigrati e forze dell’ordine sono stati inscenati da immigrati di nazionalità somala: immigrati in attesa del riconoscimento dello status di rifugiati politici, a cui qualcuno avrebbe detto “sarete rimpatriati con la forza entro settembre”. A sbugiardare la polizia c’è l’assenza di tabulati telefonici, utili a dimostrare contatti cellulari con gli immigrati che si trovano a Bari. Gli immigrati ospitati nel Cara di Isola Capo Rizzuto lamentano ritardi nella procedura di riconoscimento dello status e condizioni degne d’un campo di prigionia libico. Come ha dimostrato Laura Boldrini (portavoce dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati) “in Italia, a seguito del conflitto libico, sono arrivati circa 24 mila profughi, che vanno suddivisi tra rifugiati, cioè gente che fugge da una guerra e chiede protezione, e migranti economici, cioé persone che hanno perso il lavoro a causa della guerra”. Ergo sarebbe giusto incoraggiarli a tornare nei paesi d’origine con un rimpatrio assistito e incentivato, e non certo minacciare loro il carcere a vita (specialità della polizia italiana). E se per Vendola “gli incidenti sono il frutto avvelenato della disperazione...”, invece Isabella Bertolini parla di “strumentalizzazioni da parte della sinistra”... di “non condanna della violenza degli immigrati...”. È evidente che esecutivo ed opposizione non abbiano chiaro che si tratta di prigioni, e non certo di “centri d’accoglienza”. Alcuni volontari sostengono che le condizioni sanitarie e di reclusione sarebbero ben peggiori dei penitenziari, particolare che potrebbe costare all’Italia l’ennesima condanna per lesione dei diritti umani. Egitto: Bonino; no alla vendetta, il paese segua l’esempio del Sudafrica di Mandela di Yuri Bugli Europa, 4 agosto 2011 Le immagini dell’ottantatreenne Hosni Mubarak dietro le sbarre, visibilmente provato, hanno già fatto il giro del mondo. Il suo processo, iniziato ieri e aggiornato al 15 agosto, potrebbe concludersi con una condanna a morte. Di questo e del futuro dell’Egitto abbiamo parlato con Emma Bonino, da sempre protagonista delle battaglie per i diritti umani. “Nessuno tocchi Caino” e i radicali continuano a condurre una battaglia per la moratoria della pena di morte - esordisce la senatrice -. Un processo giusto va bene, ma l’esperienza ci dice che nel passaggio da regimi autocratici a forme di democrazia è molto importante stabilire meccanismi di giustizia transitoria, sulla base del principio per cui la giustizia non è vendetta”. Un processo in cui una parte del regime va sul banco degli imputati e un’altra è chiamata a testimoniare dei reati, pensiamo all’ex vice presidente Omar Suleiman. Tutto già visto. In Argentina, in Cile, in Sudafrica, dove però Mandela tutelò gli esponenti del precedente sistema politico. La Truth commission fu creata per evitare di scivolare nella vendetta. La commissione consentiva a chi ammetteva le proprie colpe circa i fatti di discriminazione razziale che avevano caratterizzato il paese, di scusarsi nei confronti delle vittime, favorendo il compimento della giustizia nei confronti della mera vendetta. Quale modello può adattarsi alla realtà egiziana? Quello della Truth commission è valido, ma anche altri. In Tunisia è stata creata una commissione d’indagine che raccolga le prove non solo dei passati misfatti, ma soprattutto delle vicende accadute durante le ribellioni di strada e gli atti di repressione che ne sono seguiti. Altri stati hanno scelto la formazione di una commissione internazionale d’inchiesta. Così è stato per il Bahrein che ha accettato una commissione, presieduta dall’egiziano Cherif Bassiouni, che avrà il compito di fare luce sulle violenze che hanno avuto luogo, accertando le responsabilità del regime. Obiettivo successivo sarà ottenere un tribunale misto locale-internazionale, o se possibile il deferimento alla corte penale internazionale. Come conciliare il ruolo della comunità internazionale con l’istanza di sovranità che rivendicheranno i fautori del cambiamento? Lo spirito nazionalista egiziano li ha portati al rifiuto di qualunque formula di monitoraggio elettorale della comunità internazionale. Sposando una linea di “non interferenza”, è stata declinata persino l’offerta di assistenza tecnica nel censimento da parte dell’Onu. La stessa esigenza di un sistema di giustizia transitoria comincia ora a farsi strada, in base a una necessità: i momenti di cambio di regime non si devono trasformare in giustizia sommaria. Questa era esattamente il tipo di giustizia che i regimi avversati esercitavano. Loro usavano tribunali sommari, loro mettevano in carcere senza prove, per reati di opinione. Un nuovo Egitto deve essere aiutato a riflettere sulla formazione di una nuova identità di stato di diritto. I militari svolgono un ruolo primario. Quando hanno preso il controllo del paese quello era l’unico percorso possibile. Oggi i rischi sono sempre più evidenti. C’è chi parla di un accordo abbastanza strutturato tra i militari, gli interessi che rappresentano e parte dei Fratelli musulmani, con grande sconforto delle forze liberali. Il referendum sulla costituzione è stato un po’ la dimostrazione di questo accordo. Sia i militari che l’organizzazione islamica hanno votato una proposta minimalista, per non dire di peggio, di riforma, mentre tutti gli altri avevano invitato all’astensione dal voto. Molte forze non avendo avuto tempo di organizzarsi hanno chiesto, inutilmente, il rinvio delle elezioni. Nel caso di un accordo tra esercito e Fratelli musulmani, che orizzonte si verrebbe a delineare? Non ne ho idea, credo che molti anche in loco procedano giorno per giorno, dando per scontato che le condizioni del contesto regionale, come gli sviluppi della vicenda libica, assumeranno un ruolo determinante. Mubarak e Gheddafi faranno la fine di Saddam? Spero proprio di no. Per assurdo Gheddafi è più tutelato dell’ex presidente egiziano. Su di lui pende un mandato della Corte penale internazionale, organismo che esclude la pena di morte. Una delle grandi contraddizioni della vicenda, in positivo, è che la Corte è intervenuta nell’indagine su mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu, in cui siedono superpotenze che ancora fanno ricorso alla pena capitale. L’impasse che blocca l’Egitto potrebbe favorire un’apertura al modo esterno, ma anche la sostituzione di un regime con un altro... Nessuno può ragionevolmente prevedere un’opzione o l’altra. Non vorrei forzare un paragone, ma le grandi rivoluzioni di Budapest e Praga hanno avuto sviluppi drammatici nei decenni successivi, prima di arrivare all’89. Credo che per l’Egitto siano aperte tutte e due le possibilità: proprio per questo la comunità internazionale ha il compito di dialogare con gli egiziani, nonostante le difficoltà che incontrerà, per prevenire derive che portino a nuove dittature uguali a quelle che sono state deposte.