Giustizia: intervista a Pannella, che annuncia un nuovo sciopero della fame per le carceri di Ambrogio Crespi www.clandestinoweb.it, 3 agosto 2011 La drammatica situazione delle carceri italiane e del sistema penitenziario sono da tempo oggetto della mia attenzione e delle mie battaglie. Per questo motivo sostengo la causa di Marco Pannella, che si batte per i diritti dei detenuti e per denunciare le condizioni di sovraffollamento e degrado in cui versano le carceri, che anche io ho voluto testimoniare nei docuweb realizzati proprio su questo tema così delicato. Marco Pannella ha annunciato la sua intenzione di riprendere lo sciopero della fame, e ha spiegato in un’intervista a Clandestinoweb le ragioni e l’urgenza di questa nuova lotta. Onorevole Pannella, ci vuole illustrare le ragioni per le quali ha preannunciato la sua intenzione di riprendere lo sciopero della fame? Oggi c’è un motivo in più, per continuare a sostenere e portare avanti le iniziative non violente che sono rivolte sempre in appoggio a qualcosa, per denunciare una situazione e superarla in ossequio alle leggi esistenti, chiedendo al potere di rispettare obiettivi e impegni. Durante il Convegno “Giustizia in nome del popolo sovrano” abbiamo udito le massime autorità dello Stato definire con chiarezza che la situazione della giustizia, e la situazione penitenziaria italiana, sono in modo intollerabile contro ogni tipo di legalità costituzionale, europea e internazionale. Quando questo viene dichiarato è dovere di ogni cittadino repubblicano rispondere al grido di dolore delle autorità, in questo caso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di Ernesto Lupo primo presidente della Corte di Cassazione e del presidente del Senato Renato Schifani; dobbiamo accorrere in aiuto e dare al massimo corpo, tempo e intelligenza perché quanto richiesto venga attuato e affinché si esca da situazioni dichiaratamente non costituzionali. Che valore e significato ha oggi la lotta non violenta? Pratichiamo la non violenza da quarant’anni. Rischiamo la vita, perché crediamo in questa forma di lotta con la quale disarmiamo la violenza dello Stato. Le massime autorità hanno ingiunto di uscire dall’illegalità indicando le riforme da attuare, a partire dalla decarcerizzazione e, a monte, la necessità di depenalizzazione. È necessaria una riforma legislativa per non punire con il carcere comportamenti che non lo giustificano. Noi riteniamo che questi obiettivi vadano aiutati anche con la non violenza, una forma di lotta che ha portato le uniche riforme civili in Italia. Qual è il bilancio del Convegno per la riforma della giustizia italiana promosso dal Partito Radicale, e svoltosi lo scorso 28 e 29 luglio? Dobbiamo ringraziare il presidente del Senato Renato Schifani e il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che hanno patrocinato il nostro Convegno. Non si è trattato solo di dare attenzione alla nostra causa. Sono state fatte delle affermazioni, che hanno riconosciuto la necessità e l’urgenza di riforme che immediatamente costringano le realtà pubbliche a uscire da una situazione criminale. Hanno parlato chiaramente dell’obbligo di uscire da una situazione di violenza e il presidente Napolitano ha usato termini e parole che in altri momenti avrebbero potuto essere attribuiti solo all’eccessivo Pannella. Giustizia: un libro per chi sa solo gridare: “In galera, in galera!” di Diego Gabutti Italia Oggi, 3 agosto 2011 Sulla bandiera dei pasdaran che hanno fondato la seconda repubblica sulle gogne e sulle corde insaponate c’era (e c’è) una scritta: “In galera! In galera!” Come la morte, alla cui ombra siamo tutti incamminati come criminali avviati ai campi di lavoro, anche la galera, per l’opinione forcaiola, è la grande eguagliatrice. Ai ceppi il criminale! All’inferno chi ha peccato! È la stessa opinione che, di fronte al massacro di Oslo e dell’isola dei cannibali, s’indigna e pesta i piedi sui giornali perché la pena prevista, per il mangiatore d’uomini neonazista che ha assassinato a fucilate decine di giovani e di giovanissimi, è di soli 22 o 23 anni di carcere (un carcere, s’aggiunge, forse neanche tanto duro). Ma come? Tutto qua? Quello prima piazza una bomba, poi imbraccia il fucile automatico e parte per la caccia grossa d’esseri umani, e se la caverà con così poco? Soltanto 23 anni? No, si merita minimo tre ergastoli a pane e acqua, tuonano i misericordiosi. Ma quale ergastolo, a morte, a morte, nessuna pietà, ululano come lupi mannari i cattivisti. Bè, non è un bel vedere, diciamolo, e neppure un bel sentire. Consiglierei perciò a tutti, ma in particolare a quanti non militano nei ranghi di chi tifa per la galera eguagliatrice come per una specie di partito politico fortemente identitario, la lettura d’un libro magari difficile, magari un po’ tecnico, eppure straordinario: “Giustizia assoluta e pena relativa” (Liberi Libri, pp. 184, euro 16,00) di Silvia Cecchi, magistrato a Pesaro e scrittice. Se gli opinionisti con la bava alla bocca, prima di dar fuoco alle polveri del prossimo editoriale sugli “schifosi fanatici di destra” o sul politico corrotto di turno, ne leggessero qualche pagina, magari in pantofole, davanti a una tazza di camomilla, ci guadagnerebbe il clima della repubblica. Viviamo nell’ombra delle carceri, vale a dire della punizione eguale per tutti, da quando la modernità ha stabilito che l’amministrazione della giustizia non distingue crimine da crimine o criminale da criminale quando passa alla sentenza. Possono esserci delle aggravanti, oppure delle attenuanti, ma alla fine quanti si sono resi responsabili d’un reato sono eguali non di fronte alla legge ma di fronte al codice penale, che prevede per tutti, in sostanza, una pena sola: la reclusione. Un killer di mestiere, che uccide nel nome della mafia o milita in una banda di terroristi, un assassino mosso dall’interesse o dalla brama di potere, va incontro alla stessa pena che tocca, scrive per esempio Silvia Cecchi, “al quarantenne dentista che i testimoni ci dipingono come professionista competente, gentile e scrupoloso, come fratello responsabile che si è fatto carico per vent’anni dell’educazione e sistemazione dei fratelli minori e figlio affettuoso” e che “uccide la sua ultima fidanzata ventinovenne preso nel vortice disperante e contingente d’un ennesimo fallimento affettivo” e tenta “subito dopo di morire lui stesso”. Che ci fanno fianco a fianco, nello stesso stabilimento carcerario, un tale che ha ucciso in una vampa di passione (e che un quarto d’ora dopo non farebbe niente a nessuno, e così un quarto d’ora prima) e il trafficante internazionale di cocaina o lo stupratore o il ladro in guanti gialli o il tizio che ha mancato di rispetto a un vigile urbano al semaforo? Giustizia: etica delle polizie e spirito liberista di Salvatore Palidda Il Manifesto, 3 agosto 2011 In Italia non c’è uno specifico codice deontologico della polizia di stato. Tutti ignorano la raccomandazione del “Codice Europeo di Etica per la Polizia”. Le infrazioni al G8 di Genova sono solo una parte Non bisogna mai stancarsi di ricordare che il paradosso - non casuale - del caso italiano sta nel contrasto più che palese fra una Carta costituzionale i cui articoli sono in maggioranza ancor oggi assolutamente validi dal punto di vista dello stato di diritto democratico e le pratiche abituali di quasi tutte le istituzioni locali e nazionali che oscillano fra illecito e lecito sino a scivolare in violazioni della democrazia e in reati anche gravissimi. Questa oscillazione o anamorfosi dello stato di diritto o coesistenza perpetua fra legale e criminale non riguarda solo i fatti tragici del G8 di Genova ma spesso il quotidiano di tanti rom, immigrati, marginali o sfortunati che vi incappano. Questo paradosso s’è imposto e rinnovato continuamente sin dall’entrata in vigore della Costituzione il 1 gennaio 1948, grazie a quel colpo di stato bianco del 18 aprile ‘48, e quindi ai quarant’anni di Democrazia Cristiana e in parte di compromesso storico, poi grazie a un centrosinistra in gran parte liberista e alla destra berlusconiana, postfascista e leghista che s’è sentita in diritto e dovere di fare dieci volte peggio. Come sanno bene gli addetti ai lavori (vedi www.poliziaedemocrazia.it), in Italia, ad oggi, non vi è uno specifico codice deontologico della polizia di stato e delle altre polizie; esistono solo degli indirizzi, dei comportamenti che sono definiti deontologicamente corretti. Peraltro, il “Codice di comportamento dei dipendenti delle Pubbliche amministrazioni” del 2000, all’art. 1, prevede espressamente la non applicabilità di questo codice alle forze di polizia e ha soppresso l’automatismo fra incriminazione dell’operatore e sua sospensione dal servizio. La situazione è ancora peggiorata prima e dopo il G8 di Genova (passando da D’Alema ad Amato sino a Berlusconi, con ministri dell’interno Napolitano, Bianco e poi Scajola). È infatti emblematico che nessun partito si sia preoccupato di chiedere l’adozione della raccomandazione emanata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 19 sett. 2001. Tale Raccomandazione (2001/10) riguarda il Codice Europeo di Etica per la Polizia (Ceep, per i 45 paesi membri del Consiglio d’Europa). Preparata dal Comitato degli esperti d’etica della polizia e dei problemi dell’ordine pubblico (Pc-Po), molto più dei tradizionali codici etici, il testo riguarda il quadro generale organizzativo delle forze di polizia, i rapporti con il sistema giudiziario, gli obiettivi, le pratiche e le responsabilità, offrendo quindi una guida per la redazione dei “Codici deontologici” delle polizie di ogni paese. Il Codice dovrà applicarsi “sia alle tradizionali forze di polizia pubbliche, sia ai servizi pubblici di polizia, che agli altri corpi organizzati e autorizzati pubblicamente” ed è composto da 66 articoli. Ovviamente questa raccomandazione va in parallelo con la richiesta d’adozione delle norme del protocollo contro la tortura, anch’essa disattesa dall’Italia. Se si guardano i 66 articoli della raccomandazione europea si può facilmente constatare che le polizie italiane sono in infrazione della quasi totalità di essi non solo in occasione di fatti del G8 di Genova, ma anche nel corso della maggioranza delle loro pratiche quotidiane e questo riguarda anche le polizie locali. Secondo alcuni addetti ai lavori sarebbero almeno duemila gli operatori della polizia di stato attualmente inquisiti per i più diversi reati. Se si considera ragionevolmente che il tasso di operatori denunciati o arrestati è relativamente basso perché in molti casi le vittime non possono osare denunciare (si pensi al caso del rom, del clandestino o anche del marginale italiano) o per l’omertà o la paura che pervade spesso lo “spirito di corpo” (basta pensare ai casi di operatori che per più di dieci anni non sono mai stati disturbati nella loro attività criminale) si può stimare che il “numero oscuro”, ossia i non-denunciati siano quantomeno il doppio di quelli denunciati. Ne consegue che il tasso di criminalità fra gli operatori di polizia risulta circa dieci volte più alto di quello di tutta la popolazione italiana adulta. Com’è noto, peggiore è il tasso degli inquisiti fra i parlamentari (più del 9%). In altre parole, si dovrebbe dire che si tratta di categorie socio-professionali ad alto rischio di devianza o criminalità. I democratici hanno mai riflettuto su questi dati? Hanno mai cercato di capire perché e come risanare questa situazione? Non è forse la discrezionalità incontrollata che scade nel libero arbitrio a favorire lo scivolamento in atteggiamenti, comportamenti e attività devianti? Non è forse lo “spirito di corpo” ad alimentare l’indifferenza, la tolleranza se non la complicità con la devianza di alcuni “colleghi”? Allo stato attuale le norme interne riguardanti le sanzioni nei confronti degli inquisiti nelle polizie sono sempre subordinate alla massima discrezionalità dei vertici locali e nazionali; può anche succedere che per lo stesso tipo di imputazione senza ancora condanna definitiva un questore approvi la sospensione dal servizio e un altro no. Solo in caso di arresto c’è sospensione automatica. Intanto, pare che ogni anno l’Italia paghi una multa perché condannata dalla Comunità europea per aver impiegato forze militari in servizio di ordine pubblico. E ancora peggio è che, da quasi venti anni, le forze di polizia e persino i vigili del fuoco reclutano solo ex-volontari dell’esercito che hanno fatto l’esperienza delle missioni militari all’estero. La ri-militarizzazione di tutte le polizie e persino dei pompieri fa parte, infatti, della “rivoluzione liberista negli affari di polizia” sfruttando anche la creazione del comparto sicurezza e il sistema maggioritario che ha eroso le possibilità di controllo democratico. Nelle polizie come in parlamento ci sono ancora dei democratici ma sembrano isolati e anche poco informati. Si capisce quindi che l’attuale maggioranza dei parlamentari di centro sinsitra e ancor meno di destra potranno lavorare per il risanamento democratico di istituzioni cruciali come le polizie; così i pochi magistrati che vorrebbero semplicemente perseguire i reati degli operatori delle polizie (come dei politici) sono additati come dei pazzi Savonarola. Ma sono questo parlamento e gli attuali vertici delle polizie che pretendono di scrivere le norme e applicarle per disciplinare la popolazione. Come se ciò non bastasse, il geniale ministro Maroni vuole attuare una grande innovazione: in giugno scorso ha nominato una commissione per l’aggiornamento della legge n. 121/81. Sceglierà solo “esperti” assai ossequiosi di cotanto ministro e degli attuali vertici delle polizie e così l’aggiornamento dello spirito “nei secoli fedeli” (al governo e ai vertici) sarà certamente prospettato in chiave liberista e quindi anche per esaltare il sicuritarismo localista, per la tutela del libero arbitrio e degli inquisiti. Lettere: carceri, ora la politica scelga da che parte stare di Alessandro Rosasco (Comitato nazionale di Radicali Italiani) Il Secolo XIX, 3 agosto 2011 Condivido completamente la lettera di Roberto Martinelli, del Sappe, il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria, in merito alla situazione carceraria che colpisce il nostro Paese e le nostre realtà locali. Proprio mentre scrivo vengo raggiunto dalla notizia che a Marassi un altro detenuto ha tentato di porre fine alla sua vita impiccandosi: è stato salvato appena in tempo grazie all’intervento della polizia penitenziaria. Ha ragione perfino sull’amnistia che non è certamente il rimedio risolutivo se non si sfruttasse poi quell’occasione per mettere mano a tutte quelle leggi criminogene che producono carcere anche per chi non dovrebbe starci. Pensiamo al dramma dei tossicodipendenti che non possono essere presi in carico dal circuito penale ma necessiterebbero invece di un percorso sanitario in grado di aiutarli ad uscire dalla condizione in cui si trovano. O i malati di Aids. Per non parlare delle leggi sull’immigrazione e sui recidivi che ingolfano le nostre carceri fino all’inverosimile. Che dire poi di quelle persone che vengono arrestate e rimangono in cella due o tre giorni per poi essere scarcerate costringendo quindi l’ufficio matricola ad aprire fascicoli inutili? Ci si risponde che i cittadini chiedono più sicurezza e quindi più carcere, ma siamo veramente consci di cosa succede dietro a quelle sbarre? Fermo restando il principio che chi viene riconosciuto colpevole è giusto che paghi, sono giuste tutte quelle pene aggiuntive dettate ad esempio dal sovraffollamento che nessun giudice ha però mai inflitto? La politica non può più girarsi dall’altra parte, ha il dovere di discutere, e subito, di questi problemi per dare delle risposte a una realtà che tutti ormai dichiarano insostenibile. Un sistema penale che ci umilia come Paese per usare le parole del Presidente della Repubblica Napolitano. Se il Governo, invece che continuare a promettere nuove carceri che o non verranno mai aperte (anche perché mancano gli stessi poliziotti) o verranno riempite il giorno dopo visto il tasso di ingressi che si registra ogni mese, decidesse di “legalizzare” le carceri, cioè farle rientrare nel dettato costituzionale di “luoghi di reinserimento”, non solo farebbe una cosa giusta ma arrivati a questo punto doverosa. Un appello va fatto anche ai detenuti ai quali dobbiamo chiedere di non rassegnarsi e di non cedere a gesti estremi di violenza sudi sé e sugli altri. C’è bisogno di continuare a lottare tutti insieme, con la nonviolenza, perché il nostro Paese torni ad essere democratico e a guardare agli istituti di pena non come delle discariche dove confinare tutto quello che non vogliamo vedere ma come dei luoghi capaci di restituire alla società persone in grado di camminare con le proprie gambe verso una nuova vita. Non è facile e non porta voti sostenere questo ma è una battaglia di civiltà e bisogna scegliere da che parte stare. Sardegna: personale medico, tecnico e infermieristico in carceri senza stipendio da 3 mesi Agenparl, 3 agosto 2011 “Il personale medico, tecnico e infermieristico che lavora a contratto negli Istituti di Pena della Sardegna non riceve lo stipendio da tre mesi”. Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” sottolineando che “per molti dei circa 250 operatori - di cui una settantina nel carcere cagliaritano di Buoncammino - la situazione finanziaria familiare è divenuta insostenibile”. “È una vicenda assurda - precisa Caligaris - in quanto la Regione ha da tempo stanziato le somme per la sanità penitenziaria. Deve ora intervenire il Ministero della Giustizia garantendo il pagamento degli stipendi arretrati relativi a dicembre 2010 e a giugno e luglio 2011. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non può contare sullo spirito di abnegazione e di sacrificio di persone chiamate ad un superlavoro per il sovraffollamento delle carceri e del Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino con detenuti affetti da patologie molto gravi”. “Incomprensibile e inquietante il ritardo nell’erogazione delle spettanze, tenuto conto - conclude la presidente di Sdr - che sono soldi dovuti in permanenza di contratto fino a quando la Regione non subentrerà a tutti gli effetti nella gestione della sanità penitenziaria come il Decreto del Presidente della Repubblica ha recentemente sancito. Il mancato pagamento sta provocando un ovvio malessere anche perché nel frattempo non sono stati sospesi né i pagamenti dei muti né le tasse e imposte”. Sardegna: bando di selezione per 100 tecnici assistenti sociali, contro l’emergenza carcere La Nuova Sardegna, 3 agosto 2011 Un progetto di aiuto e di occupazione professionale per far fronte all’emergenza carcere. Attraverso un piano di inserimento per 100 tecnici assistenti sociali, che verranno assunti a tempo determinato dal Ministero della Giustizia, prende il via un intervento di aiuto ai detenuti con l’obiettivo dell’inclusione sociale. I dati dell’esecuzione penale esterna in Sardegna sono tornati a livelli pre-indulto, con 1300 misure alternative alla detenzione già in corso e oltre 700 procedimenti pendenti. Al fine di contrastare l’emergenza nelle carceri e potenziare le capacità operative dell’intero sistema dell’esecuzione penale esterna, la Direzione generale dell’esecuzione penale esterna ha avviato il progetto “Master”, volto all’immissione nei propri Uffici locali Epe di un elevato numero di assistenti sociali. Il progetto prevede una selezione pubblica per 100 esperti in servizio sociale, in rapporto di consulenza libero professionale, di durata annuale e con un limite massimo individuale di 64 ore mensili. Gli interessati dovranno presentare le domande di partecipazione, entro e non oltre il 10 settembre 2011 tramite e-mail, all’indirizzo di posta elettronica: “epe.pr.cagliari@giustizia.it”. Il bando di selezione invece è disponibile al seguente link: http://www.assistentisociali.it/html/concorsi.htm. Umbria: Lisiapp; nelle carceri situazione insostenibile, al limite della criticità sociale www.informazione.it, 3 agosto 2011 Nella regione sono ospitati oltre 1.700 detenuti (solo 675 con residenza in Umbria) a fronte di una capacità di accoglienza dei quattro istituti di pena di 700 persone È particolarmente preoccupante la grave situazione del sovraffollamento e le conseguenti difficoltà gestionali ed organizzative in cui versano i quattro istituti di pena dell’Umbria”. È quanto dichiara in una nota il Segretario Generale del Lisiapp Dott. Mirko Manna in un ennesimo grido di allarme al quale si chiede alle autorità politiche e sociali un intervento “necessario ed urgente”. La particolare gravità della situazione delle strutture detentive dell’ Umbria, nelle quali sono ospitati ad oggi oltre 1700 detenuti, a fronte di una capacità di accoglienza di 700 detenuti, era stata oggetto di una specifica riunione svoltasi presso la sede della Presidenza della Regione, con anche la nostra sollecitazione. Al termine di quell’incontro (cui avevano preso parte anche la vicepresidente della Regione Umbria, Carla Casciari, il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, i rappresentanti delle Direzioni degli Istituti di pena, delle Amministrazioni comunali, delle Aziende Usl), la presidente della Regione Umbria si era impegnata ad assumere un’iniziativa formale verso il Ministero della Giustizia, per rappresentare una situazione che - come conferma la lettera inviata nei giorni successivi che aggiungeva tra l’altro - “arreca pesanti ricadute sullo svolgimento delle funzioni e competenze proprie della Regione, in particolare in materia di sanità penitenziaria e reinserimento sociale e lavorativo, rendendo altresì inefficaci gli interventi posti in essere da questa Amministrazione”. A questo si aggiunge il grido di allarme del Dott. Daniele Rosati Segretario Generale aggiunto del Libero Sindacato Appartenenti alla Polizia penitenziaria che sottolinea anche l’interessamento e l’intervento del consigliere regionale Franco Zaffini, il quale prendeva piena coscienza della problematica regionale confermando un sua personale iniziativa e del suo gruppo in regione. A tutto ciò conclude il numero uno del Lisiapp, rimaniamo in attesa di conoscere le varie iniziative che il dicastero della Giustizia adotterà rispetto all’impegno diretto della regione Umbria ha sottoposto con primaria importanza e nell’agenda politica di tutti gli esponenti politici della regione. Emilia Romagna: situazione carceraria in Regione, intervento del Consigliere Andrea Pollastri www.sassuolo2000.it, 3 agosto 2011 “Il Governo sta operano bene e quanto emerso lo dimostra”, a dirlo è Andrea Pollastri a margine di una discussione sulla situazione ceraceraria in Emilia-Romagna. Una seduta per il fare il punto sulla situazione si è recentemente svolta presso le Commissioni Politiche Sociali e Statuto, riunite in seduta congiunta alla presenza degli Assessori Carlo Lusenti e Teresa Marzocchi e del Provveditore Regionale all’Amministrazione delle Carceri Nello Cesari. Gli Assessori, riassumendo le attività intraprese dalla Regione: progetti di istruzione, formazione e inserimento lavorativo dei detenuti, esperienze di detenzione alternativa (ad es. in comunità), adesione al Protocollo “Teatro in carcere” e tutela della salute nelle carceri, così come previsto da un Decreto del 1 aprile 2008. In particolare per queste ultime attività verranno messi a disposizione 20 milioni di euro, 10 dal Governo e 10 dalla Regione. Inoltre il Piano Carceri definito dal Governo nel novembre 2010 consentirà di avere 1000 nuovi posti nelle carceri emiliano-romagnole: la nostra Regione, infatti, è prima in Italia per sovraffollamento. I motivi di questo fenomeno, ricordati da Cesari, sono diversi: innanzitutto l’aumento vertiginoso degli stranieri, che ormai raggiungono due terzi della popolazione carceraria, la lentezza dei processi, l’inattività di quattro sezioni, la mobilità di detenuti provenienti da altre Regioni e il gran numero di detenzioni di breve durata (a volte pochi giorni). Un altro problema citato dal Provveditore è la scarsità del personale di guardia, che arriva a toccare punte del 35%, anche a causa di distacchi per motivi famigliari o mancate assegnazioni. Certamente i problemi sono complessi ma le soluzioni possibili sono la “regionalizzazione” dei detenuti (favorendo il fatto che ogni Regione provveda ai propri), la velocizzazione dei processi, anche istituendo la presenza di un giudice direttamente presso i carceri, incentivo alle espulsioni, ad oggi notevolmente rallentate dalla Magistratura, sempre restia ad emettere i decreti di espulsione. Pollastri, intervenuto durante la discussione, ha sottolineato tre aspetti: l’aumento degli stranieri, le problematiche connesse alle attività ricreative presso la sezione femminile del carcere di Piacenza e se sia stato attivato, sempre presso lo stesso istituto penitenziario, il progetto di assistenza ai detenuti affetti di alcolismo. Rispetto ai progetti per Piacenza l’Assessore Lusenti ha affermato che da settembre sarà attivo un reparto di osservazione psichiatrica presso cui cinque detenuti potranno essere osservati fino a tre settimane: questo reparto, come richiesto espressamente da Pollastri sarà a disposizione unicamente degli emiliano-romagnoli. “Certamente – ha concluso l’azzurro – i problemi sono notevoli e la loro soluzione on appare facile: noto però che da parte di tutte le Istituzioni vi è la consapevolezza di cosa davvero serve. La relazione ci conferma che due aspetti su cui si sta impegnando il Governo, lotta all’immigrazione clandestina e riduzione dei tempi dei processi, sono necessità non solo per il sistema penitenziario ma per tutti i cittadini.” Perugia: detenuto 36enne si uccide col gas, terzo suicidio nelle carceri umbre da inizio anno www.umbria24.it, 3 agosto 2011 Un nuovo suicidio nelle carceri umbre. Stavolta è stato un 36enne a togliersi la vita a Capanne. E torna prepotentemente in auge la questione della vivibilità nelle carceri italiane in generale e umbre, in particolare. Un 36enne, originario di Rieti, si è suicidato nel carcere di Capanne, a Perugia. Secondo quanto si è appreso, il gesto risalirebbe alla giornata di martedì sera quando il detenuto, con precedenti per furto e droga, ha inalato gas da una bomboletta. L’uomo si è tolto la vita nel bagno e l’allarme è stato dato dal compagno di cella. Sono in corso accertamenti, la procura ha disposto l’autopsia. Ai primi di giugno era stato Nazzareno Matina, un ergastolano, a impiccarsi nel penitenziario di Spoleto. Episodio cui è seguita un’ondata di proteste, anche da parte della polizia penitenziaria per le condizioni di lavoro degli agenti e di vita per i detenuti. A gennaio, invece, era stato un 23enne, Michele Massari, a morire dietro le sbarre di Capanne. Anche lui con il gas inalato all’interno di un sacchetto di plastica. Si è parlato di suicidio, ma la mamma ha negato la possibilità: in ogni caso un altro segnale di malessere profondo. Della drammatica situazioni delle carceri umbre Umbria24.it si è occupata ripetutamente. Recentemente poi sono stati prima i Radicali con un blitz a Spoleto e poi la presidente della Regione, Catiuscia Marini, a chiedere l’intervento del ministro della giustizia. I dati parlano di un tasso di sovraffollamento del 75% rapportato alla capienza regolamentare degli istituti di pena, e del 6% rapportato alla capienza tollerabile (capienza regolamentare 954 posti, capienza tollerabile 1.564 posti) con 1.672 detenuti complessivi. Piacenza: da settembre alle Novate aprirà un reparto di osservazione psichiatrica www.piacenzasera.it, 3 agosto 2011 “Il Governo sta operano bene e quanto emerso lo dimostra”, a dirlo è il consigliere regionale piacentino Andrea Pollastri a margine di una discussione sulla situazione carceraria in Emilia-Romagna. Una seduta per il fare il punto sulla situazione si è recentemente svolta presso le Commissioni Politiche Sociali e Statuto, riunite in seduta congiunta alla presenza degli Assessori Carlo Lusenti e Teresa Marzocchi e del Provveditore Regionale all’Amministrazione delle Carceri Nello Cesari. Gli Assessori, riassumendo le attività intraprese dalla Regione: progetti di istruzione, formazione e inserimento lavorativo dei detenuti, esperienze di detenzione alternativa (ad es. in comunità), adesione al Protocollo “Teatro in carcere” e tutela della salute nelle carceri, così come previsto da un Decreto del 1 aprile 2008. In particolare per queste ultime attività verranno messi a disposizione 20 milioni di euro, 10 dal Governo e 10 dalla Regione. Inoltre il Piano Carceri definito dal Governo nel novembre 2010 consentirà di avere 1.000 nuovi posti nelle carceri emiliano-romagnole: la nostra Regione, infatti, è prima in Italia per sovraffollamento. I motivi di questo fenomeno, ricordati da Cesari, sono diversi: innanzitutto l’aumento vertiginoso degli stranieri, che ormai raggiungono due terzi della popolazione carceraria, la lentezza dei processi, l’inattività di quattro sezioni, la mobilità di detenuti provenienti da altre Regioni e il gran numero di detenzioni di breve durata (a volte pochi giorni). Un altro problema citato dal Provveditore è la scarsità del personale di guardia, che arriva a toccare punte del 35%, anche a causa di distacchi per motivi famigliari o mancate assegnazioni. Certamente i problemi sono complessi ma le soluzioni possibili sono la “regionalizzazione” dei detenuti (favorendo il fatto che ogni Regione provveda ai propri), la velocizzazione dei processi, anche istituendo la presenza di un giudice direttamente presso i carceri, incentivo alle espulsioni, ad oggi notevolmente rallentate dalla Magistratura, sempre restia ad emettere i decreti di espulsione. Pollastri, intervenuto durante la discussione, ha sottolineato tre aspetti: l’aumento degli stranieri, le problematiche connesse alle attività ricreative presso la sezione femminile del carcere di Piacenza e se sia stato attivato, sempre presso lo stesso istituto penitenziario, il progetto di assistenza ai detenuti affetti di alcolismo. Rispetto ai progetti per Piacenza l’Assessore Lusenti ha affermato che da settembre sarà attivo un reparto di osservazione psichiatrica presso cui cinque detenuti potranno essere osservati fino a tre settimane: questo reparto, come richiesto espressamente da Pollastri sarà a disposizione unicamente degli emiliano-romagnoli. “Certamente - ha concluso l’azzurro - i problemi sono notevoli e la loro soluzione on appare facile: noto però che da parte di tutte le Istituzioni vi è la consapevolezza di cosa davvero serve. La relazione ci conferma che due aspetti su cui si sta impegnando il Governo, lotta all’immigrazione clandestina e riduzione dei tempi dei processi, sono necessità non solo per il sistema penitenziario ma per tutti i cittadini”. Ascoli Piceno: neonato scomparso, il padre tenta suicidio in carcere Agi, 3 agosto 2011 Denny Pruscino, il padre del piccolo Jason il bimbo scomparso da Folignano (Ascoli Piceno) da almeno un mese, ha tentato il suicidio nel carcere ascolano, probabilmente ingerendo della candeggina. Lo conferma il suo legale, l’avvocato Felice Franchi, che si era recato nel penitenziario per un colloquio con l’uomo. Pruscino è stato trasportato in ospedale ma non sembra in pericolo di vita. Insieme ala moglie, Katia Reginella, sono stati arrestati il 20 luglio scorso con le accuse di abbandono di minore, maltrattamenti e occultamento di cadavere. Del bambino, nato il 9 maggio scorso, non si hanno ancora tracce. Mentre il padre dice che è ancora vivo, la madre sostiene che è morto in un incidente domestico avvenuto il 25 giugno scorso. Bolzano: fino al 18 agosto una “cella in piazza”, per sensibilizzare la cittadinanza Redattore Sociale, 3 agosto 2011 Fino al 18 agosto sarà possibile visitare la ricostruzione fedele di una cella per sensibilizzare sulla condizione dei detenuti. C’è tempo fino al 18 agosto. Tutti i giorni, dalle 8 alle 20, volontari e operatori a disposizione. Arriva anche a Bolzano l’iniziativa della Caritas “Cella in piazza”, che porta nelle principali città italiane una ricostruzione fedele di una cella, per sensibilizzare i cittadini sulle condizioni di vita dei detenuti. C’è tempo fino al 18 agosto per visitare la cella del capoluogo altoatesino, predisposta sul Ponte Talvera all’angolo della Passeggiata San Quirino. Tutti i giorni, dalle 8 alle 20, volontari, operatori e ospiti di Odòs saranno a disposizione dei cittadini per fornire informazioni. Sulla vita e le condizioni dei reclusi”. Con quest’azione - spiega Alessandro Pedrotti, responsabile del servizio Odos della Caritas per ex detenuti e persone in misura alternativa - vogliamo portare sotto gli occhi di tutti la realtà della detenzione, molto lontana dalla vita quotidiana del cittadino, e spiegare che è possibile anche mettere in pratica una pena diversa”. “Il sovraffollamento crea grossi problemi e impone una riflessione sul senso della pena e sulla possibilità di pene alternative alla detenzione in carcere” aggiungono Renato Bertuzzo e Heiner Schweigkofler, direttori della Caritas altoatesina, che riferiscono della precaria condizione in cui versa anche la casa circondariale di Bolzano, dove a fronte di una capienza massima di 90 detenuti, in realtà i reclusi sono in media 150. “Chiediamo che nella futura costruzione del nuovo carcere - incalzano i direttori - si prenda in considerazione anche la necessità di creare, già all’interno dell’istituto, dei percorsi di reinserimento sociale. Buone pratiche ci sono già e potrebbero essere adattate alla realtà dell’Alto Adige”. Sullo stato attuale del sistema carcerario interviene anche la presidente della Conferenza nazionale Volontariato Giustizia, Elisabetta Laganà: “Il numero in eccesso di persone incarcerate in Italia rende pressoché invivibile il carcere non solo per i detenuti, ma anche per gli stessi operatori penitenziari”. L’iniziativa “Cella in piazza”, che è sostenuta da provincia e comune di Bolzano e dalla Conferenza nazionale del Volontariato della Giustizia, prevede anche attività alternative, come la visita guidata della città alla scoperta dei luoghi che nella storia sono stati adibiti alla privazione della libertà. La gita è in programma lunedì 8 agosto dalle 17.30. Per informazioni: tel. 0471.054 080. Ancona: teatro-carcere; Don Giovanni finisce sotto processo… con i detenuti attori Corriere Adriatico, 3 agosto 2011 Debutta oggi nel carcere Barcaglione ad Ancona il progetto avviato dal sodalizio culturale maceratese Art’O. L’associazione maceratese Art’O, farà oggi il suo debutto nella casa di reclusione Barcaglione di Ancona. A dominare la scena del “Processo a Don Giovanni” - tratto dal Don Giovanni di Molière - ci saranno dieci detenuti- attori che hanno partecipato al corso di teatro tenuto in carcere. Lo spettacolo si pone a conclusione del laboratorio teatrale condotto in questi mesi dalle artiste maceratesi, Eleonora Khajeh e Francesca Rossi Brunori e la collaborazione di Francesca Marchetti, Presidente dell’associazione Art’O. “L’uso del teatro ai fini trattamentali spiegano le protagoniste del progetto - è uno dei percorsi rieducativi proposti dall’amministrazione penitenziaria per rafforzare il legame dei reclusi con la realtà esterna e orientare chi vive in uno stato di alienazione a causa della detenzione verso la riscoperta di sé, del proprio valore, e riappropriarsi della propria identità. Il progetto è stato avallato anche dall’Università di Macerata, dalla cattedra di Diritto Penitenziario, che dal prossimo autunno, darà la possibilità a giovani laureandi, di implementare le proprie ricerche, studiando da vicino le misure trattamentali ed il ruolo dell’associazionismo esterno all’interno delle carceri. Poche persone oggi sono a conoscenza dello sciopero della fame che Pannella ha iniziato nei mesi scorsi”. “Seppur il Barcaglione rappresenti il carcere modello della nostra regione, non possiamo che condividere la protesta dei Radicali contro la situazione inumana degli istituti di pena italiani: molte strutture sono fatiscenti, i detenuti sono costretti a convivere in spazi angusti e sovraffollati, il numero dei suicidi sulla popolazione detenuta continua a mantenersi su livelli altissimi, in molti casi l’esperienza del carcere è più criminogena che rieducativa”. “Ci permettiamo di criticare la violazione dei diritti umani in Libia, però non vediamo i trattamenti inumani che ogni giorno tolleriamo nelle nostre carceri, tuttavia un Paese civile non può permettersi di rimuovere, o di vivere come qualcosa che non tocca la sua identità, la sua morale, la sua coscienza; è scritto anche nella nostra Costituzione”. Immigrazione: rimpatri per legge, il Senato vota sì e la piazza protesta di Eloisa Covelli Il Riformista, 3 agosto 2011 Si è già concluso il sit-in a Piazza Navona quando il Senato vota il decreto Maroni sui rimpatri degli immigrati irregolari. Sono da poco passate le 19 e l’ormai ex decreto è diventato legge con 151 voti favorevoli e 129 contrari. Il governo ce l’ha fatta a convertire il provvedimento prima della pausa estiva. Le regole, che prevedono l’espulsione immediata degli immigrati “pericolosi” e il prolungamento da sei a 18 mesi della permanenza degli irregolari nei Cie, ormai sono norma di legge. Una cinquantina di persone si è data appuntamento ieri alle 17,30 nella piazza adiacente all’ingresso di palazzo Madama, ostruito dai lavori in corso. Cgil, Pd, Idv, federazione della Sinistra, Prc, Frisi, Articolo 21 e altre associazioni hanno organizzato nel giro di pochi giorni un presidio per dire no “all’obbrobrio giuridico”. Si passano il megafono davanti a uno striscione del Forum immigrazione del Pd per urlare le ragioni della loro presenza in piazza. Alcuni immigrati partecipano al sit-in a Piazza Navona. “La cosa che più detesto è l’idea di dover rinchiudere le persone - dice Jean René del Camerun - É tutto inutile, se non c’è la collaborazione dei paesi di origine è impossibile risolvere il problema”. “Gli immigrati ormai vengono considerati cibi per pesci”, ribatte Angela Spencer, originaria di Capo Verde. “Si legge chiaramente che nel decreto c’è solo una volontà repressiva”, dice Maria José Mendes. Nonostante la protesta e gli emendamenti dell’opposizione, non c’è stato nessun intoppo nel voto a Palazzo Madama, dove i tempi contingentati, previsti del regolamento, consentono alla maggioranza di approvare la legge prima di sera. Tutti respinti i 59 emendamenti dell’opposizione, anche se Marco Perduca, radicale eletto nella lista Pd, denuncia la presenza di “pianisti” in aula. L’unica concessione è stata l’approvazione in mattinata dell’ordine del giorno del Pd che impegna il governo a ripristinare il diritto dei giornalisti a entrare nei centri di identificazione, bloccato da una circolare del ministro dell’Interno. É per questa ragione che Roberto Natale, presidente del sindacato dei giornalisti, e Stefano Corradino, direttore di Articolo 21, sono in piazza. “Ma occorre vigilare - dice Corradino. Il governo, se vuole, una scappatoia la trova sempre”. In mattinata passa anche il durissimo ordine del giorni della Lega che impegna il governo a chiedere alla Nato di bloccare i clandestini provenienti dalla Libia. Norma “inapplicabile” e di “cattiva propaganda” per Giorgio Tonini, senatore del Pd. Mentre a Palazzo Madama sono in corso le dichiarazioni di voto, alcuni senatori vanno a fare un saluto ai manifestanti riuniti a Piazza Navona. “Si tratta di una vergogna che fa parte dei ricatti incrociati tra Berlusconi e Lega. La Lega fa vivere il governo in cambio di leggi xenofobe”, dice Felice Belisario, presidente del gruppo dei senatori Idv, mentre il suo collega di partito Stefano Pedica annuncia a breve una visita a Lampedusa, che “non è un centro, ma un lager, dove gli ospiti dormono accanto agli escrementi”. “E sintomatico che il nostro governo è l’unico a usare la parola immigrato clandestino - dice il vicepresidente dei senatori Pd, Vannino Chiti, a Piazza Navona - Negli altri paesi si parla di immigrati irregolari. Questo fa capire come non faccia nessuna distinzione tra chi non è regolare e chi invece sta aspettando l’asilo politico”. Nella giornata di ieri si registrano ancora tensioni nel centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto (Kr), “infettato” dalla rivolta degli immigrati di Bari. Mentre nel Cara pugliese, gli aspiranti rifugiati politici rispettano la tregua firmata con il prefetto vicario Antonella Bellomo, in attesa della riunione di oggi con il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano. Al Sant’Anna nella provincia di Crotone, il questore vicario Roberto Pellicone assieme al funzionario della prefettura, Fabrizio Gallo, incontrano le delegazioni di immigrati per placare gli animi. Fuori dal centro 150 uomini presidiano il centro più grande d’Europa. A Bari, come a Crotone, gli extracomunitari sono esasperati dalla lunga attesa per la richiesta d’asilo. Nel day after il giorno della rivolta si hanno i numeri ufficiali: 200mila euro i danni nel Cara di Bari, dove è stata completamente distrutta la mensa, 98 persone ferite, 29 in stato di fermo e un centinaio identificate. A Crotone, invece, i feriti sono 25 e quattro i fermati: uno del Niger e quattro della Nigeria. Ma proprio qui la tensione resta alta fino a pomeriggio inoltrato. Immigrazione: nei Centri attese fino a dieci mesi per la decisione sulle richieste d’asilo di Lorenzo Salvia Corriere della Sera, 3 agosto 2011 Hanno cambiato nomi, luogo e anche regole. A rimanere sempre uguali, nei centri per gli immigrati, sono invece i guai: un incubo per chi ci vive, un fastidio per chi ci abita vicino, un rompicapo per chi li gestisce. A guardare la cartina dell’Italia le strutture sono 31, capienza ufficiale 8.500 posti anche se spesso di stranieri ce ne sono molti di più. E se una volta li chiamavamo Cpt (Centri di permanenza temporanea) adesso bisogna distinguere. Quello degli scontri di Bari è un Cara, Centro di accoglienza per i richiedenti asilo. E la sorpresa, una brutta sorpresa, è proprio questa. Perché di solito sono le strutture più tranquille, o almeno così era prima delle ondate migratorie degli ultimi mesi. Nei Cara c’è chi scappa da una guerra ed ha fatto domanda di asilo politico per rimanere nel nostro Paese. Profughi che chiedono lo status di rifugiato. A Bari come a Gorizia, a Mazara del Vallo come a Salina grande, la vigilanza è soft e gli immigrati possono lasciare il centro anche se ad orari definiti. Il problema sono i tempi. In teoria qui non si dovrebbe restare per più di 35 giorni. Ma la realtà è diversa e c’è chi, per sapere se la sua domanda è stata accettata oppure no, deve attendere anche 10 mesi. “Stiamo studiando un piano - dice il sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano - per accelerare i tempi”. Già nei mesi scorsi sono aumentate, da 10 a 16, le commissioni che devono esaminare le pratiche. Ma evidentemente non basta. “Nei primi sette mesi del 2011 - dice ancora Mantovano - le domande sono state 45 mila, il triplo di quelle ricevute in tutto il 2010”. Un chiaro effetto di quello che è accaduto, e sta ancora accadendo, dall’altra parte del Mediterraneo. Ma basta accelerare i tempi (se così sarà) per placare le acque? Secondo Laura Boldrini - portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati - ci vuole una soluzione alternativa: “Chi si vede rifiutare la domanda di asilo, dovrebbe avere la possibilità di chiedere di essere rimpatriato volontariamente e con un incentivo economico. Altrimenti rischia di finire nel buco nero della clandestinità”. E qui si arriva all’altra faccia del problema. Perché se fino a qualche mese fa i centri per i richiedenti asilo erano relativamente tranquilli, quelli per i clandestini non lo sono mai stati. Si chiamano Cie, Centri di identificazione ed espulsione, sono 13 ed hanno un capienza di 1.814 posti ma anche stavolta è una cifra ufficiale spesso smentita da un’affollata realtà. Qui la vigilanza è tutt’altro che soft. Nessuno può uscire, nessuno può entrare tranne i parlamentari, come nelle carceri. La Federazione nazionale della stampa e l’ordine dei giornalisti hanno protestato per chiedere di aprire quei cancelli all’informazione. E di brutte storie da raccontare ce ne sarebbero parecchie. Via Corelli a Milano, Ponte Galeria vicino a Roma, corso Brunelleschi a Torino: scontri, evasioni e digiuni sono cronaca quotidiana. Qualche mese fa i Cie erano stati duramente attaccati da un rapporto di Medici senza frontiere: “Mancano i generi di prima necessità, la sanità pubblica è assente, in alcuni casi si usano psicofarmaci per sedare le persone”. Critiche che il governo ha respinto come “ideologiche”. Per poi, a metà giugno, allungare il tempo massimo di permanenza per arrivare all’identificazione. All’inizio era di due mesi, poi di sei, adesso siamo a 18, il massimo consentito dalla direttiva europea. Le strutture 13 Centri di identificazione ed espulsione, per un totale di 1.814 posti, costruiti in Italia. Nei Cie vengono trattenuti gli immigrati irregolari che devono essere rimpatriati. Il tempo massimo di permanenza è di 18 mesi. 15 Fra Centri accoglienza richiedenti asilo (Cara) e Centri di Accoglienza (Cda). I Cara sono i luoghi in cui vengono ospitati gli stranieri che chiedono asilo politico. La permanenza non dovrebbe superare i 35 giorni, ma prima di una risposta possono passare mesi. Spesso, nelle stesse strutture si trovano sia i Cara sia i Cda, destinati a garantire assistenza agli immigrati irregolari prima dell’ identificazione. In totale, i posti disponibili sono 5.389 (In alto, nella foto Arcieri, il Cara di Bari danneggiato dalla rivolta scoppiata ieri) 3 I Centri di primo soccorso e accoglienza. Possono ospitare 1.204 migranti Iran: la tortura dietro le mura di Evin www.italnews.info, 3 agosto 2011 In Iran le persone arrestate sono state spesso trattenute per periodi prolungati durante i quali è stato impedito loro ogni contatto con gli avvocati o la famiglia, sono state torturate ed è stato loro negato l’accesso alle cure mediche. Alcune sono state condannate a pene detentive al termine di processi iniqui. Altre, condannate in anni precedenti a seguito di processi iniqui, sono rimaste in carcere. Il regime iraniano cerca di nascondere tutto ciò e respinge ogni tipo di accusa. Secondo quanto riporta Radiozamaneh, Javad Shamghadari, il vice capo del cinema presso il Ministero iraniano della Cultura, ha detto che, contrariamente a quanto riportato, le condizioni nelle prigioni iraniane sono in realtà molto buone. ILNA ha citato Shamghadari dicendo: “Spero che i nostri amici giornalisti visitino il carcere di Evin in modo che possano vedere che Evin è esattamente come un albergo e in ottime condizioni”. Altri funzionari iraniani hanno parlato delle prigioni iraniane nel corso degli ultimi due anni. Nell’estate del 2009, quando un gran numero di manifestanti sono stati arrestati in tutto il paese, il capo delle carceri della provincia di Teheran ha dichiarato: “Le nostre celle sono come suite d’albergo, e non abbiamo celle in isolamento”. Nello stesso periodo, il capo della Commissione Sociale del Parlamento, Soleyman Jafarzadeh, ha dichiarato: “La Repubblica islamica, a differenza di altri Paesi, rispetta anche la dignità di criminali”, aggiungendo che le prigioni iraniane sono come gli alberghi”. Tuttavia numerose associazioni per i diritti umani hanno più volte denunciato le gravi condizioni dei prigionieri nelle carcere iraniane. Said Pourheydar, giornalista e attivista di Rahana, organizzazione che si occupa di diritti umani in Iran, ha raccontato la propria esperienza personale e quella di altri prigionieri politici di Evin, più in particolare del blocco 2A e dei blocchi 209 e 240. Riportiamo di seguito le sue parole. La tortura dietro le mura di Evin, di Said Pourheydar (traduzione di Daniela Zini) Ritornare su quanto è accaduto è, al tempo stesso, doloroso e amaro, ma io credo, fermamente, che potremo liberarci da questo sguardo all’indietro soltanto quando avremo vinto; sarà, allora, tempo di guardare in faccia quello che accadrà. Ho scelto di liberare il mio spirito da questi amari ricordi e di parlarne, nella speranza che il mondo possa rendersi conto delle torture che la nobile gioventù iraniana, amante della libertà, accusata di pensiero e di filosofia “verde”, ha dovuto subire tra le morse della tirannia. La tortura fisica Ho diviso una cella di tre persone del blocco 350 di Evin con un prigioniero, le cui torture fisiche e psicologiche avrebbero distrutto ogni persona di spirito libero. Aveva 25 anni ed era stato arrestato con accuse ingiustificate e infondate da agenti dei guardiani della rivoluzione all’aeroporto Imam Khomeini. Era stato trasferito al blocco 2 A di Evin e aveva sopportato torture fisiche e psicologiche inimmaginabili durante i 6 mesi del suo isolamento. Quelli che lo avevano interrogato gli avevano urinato in faccia. Era stato selvaggiamente picchiato ed era stato frustato sotto la pianta dei piedi. Aveva subito, a più riprese, l’elettroshock durante gli interrogatori; era stato talmente picchiato nei testicoli da perdere coscienza. Quelli che lo avevano interrogato avevano utilizzato pinze in diverse parti del suo corpo; tre di loro erano arrivati a trattarlo come un pallone, dandogli calci così violenti che i miei medici legali avevano, perfino, definito una forma di tortura, confermando le ferite al cranio e una frattura al naso. Una delle peggiori forme di tortura sopportata da questo carissimo amico era stata lo stupro da parte degli agenti dei guardiani della rivoluzione che lo avevano interrogato; avevano versato dell’adesivo plastico nell’ano, poi, lo avevano strappato una volta consolidato. Nonostante sia, ancora, dietro le sbarre, nonostante le torture brutali e inumane, rifiuta, sempre, di fare false confessioni. Durante un colloquio di tre ore su una panchina del blocco 350, un altro dei nostri innocenti compagni verdi detenuti mi ha raccontato le torture subite, quando era nel blocco 2A. Gli avevano gettato un secchio di acqua gelida ed era stato tenuto in isolamento per dieci giorni in una cella di 1,25 m. di altezza. Per ore, lo avevano costretto a restare in piedi, nudo, fuori, in pieno inverno. A più riprese, gli avevano spinto la testa nella latrina dei bagni mentre tiravano lo sciacquone. Lo avevano selvaggiamente picchiato, lo avevano, completamente, denudato e lo avevano malmenato durante gli interrogatori. Sono solo alcuni esempi di tortura che ha dovuto sopportare nei due mesi di isolamento nel blocco 2A. È stato trasferito, qualche mese fa, nel blocco 350 di Evin, dove attende il processo. Un’altra forma di tortura: obbligare i prigionieri a sedersi sul pavimento, nudi, mentre vengono colpiti alla schiena con randelli e cavi. Molti prigionieri sono obbligati a restare in piedi per ore. Due prigionieri hanno perso conoscenza dopo un tale trattamento. Si obbligano i prigionieri a prendere sostanze psicotrope. Hanno obbligato anche me. Li appendono per le spalle o per le gambe. Durante gli interrogatori, si blocca loro la testa al braccio di una poltrona e si prendono a calci le parti sensibili del corpo come i testicoli. Si obbligano i prigionieri a coricarsi sul ventre mentre due o tre persone camminano sulla loro schiena. Vi sono molte rotture di timpano a causa dei violenti colpi portati alla testa, al volto e agli orecchi. Si bendano, sovente, gli occhi dei prigionieri per impedire loro di reagire quando sono colpiti al volto. Non sono che alcuni esempi dell’infinità di metodi di tortura descritti da molti prigionieri politici, durante la loro detenzione nei blocchi 209, 240 e 2 A di Evin. Molti di questi prigionieri sono, attualmente, nel blocco 350 di Evin, o scontano la loro pena o attendono il loro verdetto, non sapendo cosa aspettarsi. La tortura psicologica Il dolore causato dalla tortura fisica può attenuarsi con il tempo, ma gli effetti della tortura psicologica persisteranno anni. Prima del mio arresto, il 5 febbraio 2010, a causa dei miei problemi cardiaci, prendevo, quotidianamente, una compressa di Pronol, un beta-bloccante da 10 mg. Oggi, il solo beneficio, ottenuto dai miei giorni passati in isolamento e dalle brutali torture psicologiche e fisiche subite, consiste nel prendere due o tre compresse di Pronol da 40 mg. al giorno, oltre a una infinità di sedativi che sono stato costretto ad assumere nei mesi che hanno seguito la mia liberazione dal carcere. L’impatto negativo sul mio psichismo ha, senza alcun dubbio, creato numerosi problemi nella mia vita quotidiana. Quasi tutti i prigionieri politici hanno fatto l’esperienza di una forma di tortura psicologica o di un’altra. Anche supponendo, cosa impossibile, che un prigioniero non sia stato sottoposto a pressioni psicologiche, il tempo passato in isolamento è di per sé una delle peggiori forme di tortura psicologica. Inutile dire che chiunque non abbia fatto l’esperienza dell’isolamento in prigione, fosse pure per una sola ora, non potrà mai capire appieno cosa significhi. Le simulazioni di esecuzione, una forma orribile di tortura psicologica sono molto diffuse nel blocco 2A. Tre prigionieri con i quali ho parlato nel blocco 350 mi hanno detto di averle subite e uno dei detenuti del blocco 350 mi ha descritto come avesse subito due simulazioni di esecuzione. Fanno visita al prigioniero prima dell’alba, mentre si trova in isolamento e gli dicono che, purtroppo, sarà giustiziato. Gli bendano, allora, gli occhi, lo legano e lo conducono nel cortile del blocco 2A. Mettono, poi, il prigioniero su uno sgabello, gli mettono un nodo scorsoio intorno al collo e gli chiedono quali siano le sue ultime volontà prima di essere impiccato. Un amico mi ha detto di essere rimasto in piedi, gli occhi bendati, il nodo scorsoio intorno al collo, alla prima simulazione per 30 minuti, mentre chi lo aveva interrogato gli spiegava che attendevano l’arrivo del responsabile della prigione, di un osservatore giudiziario e del medico legale prima dell’esecuzione del verdetto. Dopo una mezz’ora, lo avevano informato che, poiché il direttore della prigione era impossibilitato a venire e l’esecuzione doveva aver luogo prima dell’alba, l’impiccagione era rinviata di qualche giorno. Di certo, nessuno può comprendere appieno lo stato psicologico di un prigioniero politico costretto ad aspettare in piedi su uno sgabello, gli occhi bendati; nessuno può immaginare la sofferenza causata da un’attesa di quattro giorni prima di essere sottoposto alla stessa messa in scena. Quattro giorni più tardi, lo avevano, di nuovo, svegliato e lo avevano, di nuovo, condotto nel cortile del blocco 2A. Di nuovo, il nodo scorsoio intorno al collo, veniva messo sullo sgabello della morte. Gli veniva letto il verdetto della sua esecuzione. Gli venivano chieste le sue ultime volontà. Gli toglievano lo sgabello da sotto i piedi, ma la corda era troppo lunga e cadeva a terra; allora, le due persone che lo avevano interrogato e gli erano d’accanto scoppiavano a ridere e sentenziavano: “Questa volta, sei stato fortunato; la corda si è spezzata. Puoi tornare nella tua cella ora fino a quando decideremo di impiccarti.” Sono sicuro che vi ricorderete dei ridicoli processi messi in scena, nel 2010, dopo le elezioni presidenziali, e delle false confessioni di alcuni personaggi noti e meno noti, che seguirono. Erano stati costretti a testimoniare contro se stessi e il Movimento Verde. Il modo in cui sono stati condotti questi processi è una lunga storia di cui ho intenzione di descrivere i dettagli: come preparano i prigionieri, per giorni, a ripetere quello che dovranno dire in tribunale oppure come li costringano a farsi crescere i baffi prima del processo. Sono sicuro che vorreste sapere perché certi personaggi abbiano accettato di testimoniare contro se stessi e il Movimento Verde. Uno di questi personaggi di primo piano ha resistito alle pressioni di coloro che lo interrogavano per due mesi. Come ha, infine, ceduto? Un giorno, si sono presentati dalla moglie e dalla figlia di questo personaggio e le hanno portate in prigione con il pretesto di far incontrare loro, rispettivamente, il proprio marito e il proprio padre. Hanno chiesto loro di restare in una stanza nell’attesa dell’arrivo del prigioniero. La stanza aveva uno specchio trasparente. Il prigioniero era stato condotto dall’altro lato dello specchio. Gli avevano detto: “Come vedi, abbiamo portato tua moglie e tua figlia qui. Spetta a te decidere se vuoi parlare in tribunale o no.” Il prigioniero aveva continuato a rifiutare di confessare. Chi lo interrogava aveva, allora, chiamato il suo collega al telefono: “Haji, crede ancora che si scherzi.” Aveva riattaccato il telefono. La porta della stanza nella quale si trovavano sua moglie e sua figlia era aperta. Due prigionieri pericolosi e nerboruti, condannati per assassinio, erano, allora, entrati nella stanza. Chi lo interrogava gli si era parato davanti: “Vedi, fratello mio, quei due uomini accanto a tua moglie e a tua figlia; sono stati condannati a morte per assassinio. È da un pò che sono in prigione e non hanno contatto con una donna da molto tempo. Ti lascio un minuto per riflettere sulla tua risposta, vuoi o no andare in tribunale e sederti di fronte alle telecamere? Se la tua risposta è no, io dirò loro di iniziare là, proprio davanti a te.” Ed ecco come questo personaggio di primo piano è stato obbligato a testimoniare contro se stesso e gli altri. Questi sono solo tre esempi di tortura psicologica subita dai prigionieri politici del blocco 2A e dei blocchi 209 e 240. Ed è solo quello che è accaduto a 19 dei 160 prigionieri politici detenuti nel blocco di Evin con i quali ho avuto il privilegio di conversare per ore. Inutile dire che per comprendere la profondità della tragedia ed esporre, chiaramente, le gravi violazioni dei diritti umani, dovremmo prendere in considerazione tutto quello che centinaia di altri amici hanno subito prima e dopo la mia detenzione nel blocco 350 di Evin, senza dimenticare i detenuti in isolamento nei blocchi 209, 240 e 2A di Evin, nella prigione di Rajai Shahr o in altre prigioni iraniane. In quanto giornalista, recentemente uscito di prigione, attesto, che, a dispetto di tutte queste torture e persecuzioni, a dispetto dell’isolamento della società e della disperazione, i prigionieri del Movimento Verde Democratico, nelle morse di una dittatura, continuano a resistere con dignità all’interno del blocco 350 della prigione di Evin. Aspetto la liberazione di tutti questi combattenti della libertà e sono sicuro che il giorno in cui saremo tutti liberi giungerà prima di quanto immaginiamo. Repubblica Dominicana: colera tra i detenuti, a causa delle condizioni in cui versano le carceri Radio Vaticana, 3 agosto 2011 Casi di colera tra i detenuti, a causa delle condizioni antigieniche in cui versano le carceri che hanno facilitato il contagio: questa l’accusa mossa dalla Commissione per la Pastorale nelle carceri della Repubblica Dominicana alla Direzione nazionale delle prigioni del Paese (Dnp), che risponde affermando che la situazione è sotto controllo. L’agenzia Fides riporta la denuncia della Commissione che chiede pubblicamente alla Dnp trasparenza e una concreta mobilitazione in favore della prevenzione. Secondo i dati della stampa locale, finora nella Repubblica Dominicana sono morte di colera circa 92 persone, dopo che la malattia è tornata a diffondersi nel Paese dalla vicina Haiti, dove ha causato invece seimila vittime, in seguito all’emergenza causata dal devastante terremoto di un anno e mezzo fa. Siria: Al-Arabiya; forze sicurezza uccidono detenuti in carcere di Hama Aki, 3 agosto 2011 Le forze di sicurezza siriane avrebbero ucciso un gruppo di detenuti rinchiusi in un carcere di Hama, città della Siria centrale. Lo riferisce la tv al-Arabiya, che cita attivisti per la difesa dei diritti umani. La notizia giunge dopo che un attivista siriano basato in Libano, Omar Idlib, ha denunciato all’agenzia di stampa Dpa lo scoppio di un ‘incendiò in una prigione di Hama. Da tre giorni i detenuti rinchiusi nel carcere protestano in segno di solidarietà con la popolazione della città, teatro di una sanguinosa repressione delle proteste antigovernative. Da giorni detenuti protestano contro repressione Un incendio è divampato in una prigione di Hama, città della Siria centrale teatro negli ultimi giorni di una sanguinosa repressione delle proteste antigovernative. L’incendio è scoppiato dopo tre giorni di proteste, da parte dei detenuti rinchiusi nel carcere, in segno di solidarietà con la popolazione della città, assediata dai carri armati dell’Esercito siriano. “Colonne di fumo nero coprono l’area in cui si trova il carcere e le forze di sicurezza hanno circondato la zona”, ha detto Omar Idlibi, attivista siriano basato in Libano, all’agenzia di stampa Dpa. “Circa 200 carri armati sono dispiegati lungo la superstrada che porta al centro di Hama e nella località orientale di Dayr az-Zor - ha detto Idlibi. Le linee telefoniche sono interrotte e Internet è bloccato. A Hama si prepara un’operazione su vasta scala contro la città”.