Giustizia: Cassazione; custodia cautelare lunga… anche con il rito abbreviato di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2011 I termini di durata massima decorrono sempre dall’ordinanza di ammissione. Le sezioni unite dirimono il contrasto: irrilevante la necessità o meno dell’integrazione probatoria. Per la fase del giudizio abbreviato, i termini di durata massima della custodia cautelare decorrono dall’ordinanza di ammissione, anche nell’ipotesi di rito non subordinato a integrazione probatoria. Lo ha precisato la Cassazione, sezioni unite penali, con la sentenza n. 30200/11. A sollecitare l’intervento dei giudici, il ricorso proposto da un uomo accusato di reati associativi e raggiunto, a scopo preventivo, da un’ordinanza di custodia cautelare. L’applicazione della misura segna solo l’inizio della vicenda. Il Gip emette decreto di giudizio immediato e la difesa deposita richiesta di rito abbreviato, non condizionato dall’acquisizione di nuove prove. Il processo si chiude con sentenza di condanna a nove anni di reclusione, ma la questione è tutt’altro che definita: l’imputato avanza un’istanza con cui chiede dichiararsi la perdita di efficacia della misura carceraria per scadenza dei termini. La data di decorrenza - secondo il suo assunto - doveva individuarsi in quella in cui era stato emesso il decreto di fissazione dell’udienza camerale, trattandosi di un atto “sostanzialmente equipollente all’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato”. Contraria è l’opinione del pubblico ministero, cui concorda il giudice, che rigetta l’istanza. Il termine di fase del giudizio abbreviato -osserva - va computato a decorrere “non dalla data di fissazione dell’udienza con decreto, ma dalla celebrazione della stessa introdotta dalla ordinanza ammissiva del rito”. La querelle non si compone e il caso arriva alle sezioni Unite, chiamate a far luce sul dies a quo del termine di fase di cui all’articolo 303, comma 1, lettera b-bis, del Cpp. Al Collegio, in sostanza, si chiede “se i termini di durata massima della custodia cautelare per la fase del giudizio abbreviato, non subordinato a integrazione probatoria e disposto in seguito alla richiesta di giudizio immediato, decorrano dall’emissione del decreto di fissazione dell’udienza in esito alla menzionata richiesta o dal provvedimento con cui, in detta udienza, si disponga di procedere nelle forme del giudizio abbreviato”. La sezione rimettente, difatti, non concordava con quell’orientamento per il quale la decorrenza dei termini dovesse calcolarsi diversamente ove la richiesta di abbreviato fosse condizionata o meno dall’integrazione probatoria. Secondo tale tesi, i termini di fase - per l’abbreviato non condizionato - decorrevano dall’emissione del decreto di fissazione dell’udienza, essendo il giudice tenuto solo a valutare i requisiti formali di ammissibilità della domanda. Diversamente - in caso di abbreviato subordinato a integrazione probatoria - lo stesso termine andava individuato nella data di emissione dell’ordinanza dispositiva del rito, stante l’esigenza di una valutazione giudiziale più ampia. Le sezioni Unite, richiamato il procedimento di disciplina del rito abbreviato, risolvono il quesito respingendo l’ipotesi di una diversa decorrenza dei termini di fase. Ai fini del computo dei termini di decorrenza della custodia cautelare - si legge nella sentenza - “non è possibile una differenziazione del regime del rito abbreviato, che è disciplinato in modo unitario, a seconda del tipo di richiesta, condizionata o meno a integrazione probatoria”. Va stabilito, pertanto, il principio di diritto per cui i termini di durata massima della custodia cautelare per la fase del giudizio abbreviato, “anche nella ipotesi di rito non subordinato a integrazione probatoria e disposto a seguito di richiesta di giudizio immediato, decorrono dall’ordinanza con cui è disposto il giudizio abbreviato”. Giustizia: bando per 100 assistenti sociali da destinare a Uffici di esecuzione penale esterna Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2011 Bando per 100 assistenti sociali che si occuperanno dei detenuti assegnati agli arresti domiciliari. La candidatura va inviata entro il 10 settembre 2011. La Direzione generale dell’esecuzione penale esterna - dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - ha avviato il 19 luglio una selezione pubblica per titoli e colloquio d’idoneità per l’istituzione di un elenco di 100 esperti in servizio sociale cui attingere per il conferimento di incarichi in regime di consulenza. A sostenere il concorso pubblico c’è il M.A.S.T.E.R. Non si tratta di un percorso formativo, ma dell’acronimo del Progetto Mantenimento e accrescimento degli standard trattamentali e di reinserimento. Che nasce dall’esigenza di garantire l’accrescimento degli standard trattamentali minimi, assicurati dagli Uffici di esecuzione penale esterna, nei confronti degli ammessi alle misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento alla detenzione domiciliare. Nessuna traccia sulla Gazzetta ufficiale serie concorsi, la procedura è stata pubblicata solo on line sul sito istituzionale del ministero della Giustizia, alla voce Concorsi, esami, assunzioni. Niente limite d’età, per candidarsi servono il titolo di studio richiesto per l’esercizio della professione o titolo equipollente, l’abilitazione all’esercizio della professione, l’iscrizione all’Albo e il possesso di patente categoria “B”. La domanda di partecipazione alla selezione, intestata al Provveditorato della Regione di residenza del candidato, dovrà essere inoltrata all’indirizzo di posta elettronica, scelto nell’elenco degli indirizzi pubblicati sul sito della Giustizia, entro e non oltre la data del 10 settembre 2011. Il concorso per titoli e colloquio, prevede l’attribuzione del punteggio più alto (4 punti) al titolo di studio, seguito dal master post laurea (3 punti) o da un dottorato (2 punti) o, ancora, da pubblicazioni inerenti il ruolo (1 punto). Fanalino di coda ogni anno di attività svolta alle dipendenze di un’amministrazione pubblica e/o privata o in attività libera, ai quali sono attribuiti 0,25 punti. Lettere: potrebbe capitare prima o poi anche a loro… di Carmelo Musumeci Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2011 Leggo sul Corriere di domenica 21 agosto 2011 che Alfonso Papa, deputato del Pdl indagato nell’ambito dell’inchiesta sulla P4 e detenuto nel carcere di Poggioreale, in una lettera pubblicata dal quotidiano “Il Mattino” lamenta: “In questi luoghi vi è un’umanità sovraffollata che sposta tavoli e letti a castello anche a tre per fare attività (…) ventidue ore al giorno chiusi in cella sono una forma di tortura (…) nelle perigliose e imprevedibili onde della vita, un tale approdo potrebbe capitare prima o poi anche a loro”. Innanzitutto tengo a trasmettere la mia personale e collettiva solidarietà, da parte degli ergastolani ostativi di Spoleto in lotta per la vita, all’uomo Alfonso Papa. Al deputato Alfonso Papa invece ci viene spontaneo chiedere: dov’era quando lei e la sua maggioranza, per soli scopi elettorali, approvavano leggi liberticide, cancerogene, forcaiole e di parte, per riempire le carceri di barboni, extracomunitari e tossicodipendenti? Come mai solo ora si accorge di quello che accade nelle nostre patrie galere? Non poteva visitare le nostre carceri come parlamentare e non come ospite? E perché solo ora si accorge che le carceri in Italia sono luoghi spaventosi, pieni di squallore, sporcizia e disperazione? Spero che l’uomo e deputato Alfonso Papa lasci presto il carcere e che dopo ricordi al suo partito e al Parlamento che noi non siamo solo detenuti, siamo anche persone con sentimenti e pensieri. E che per avere una società migliore bisogna iniziare prima ad avere carceri costituzionalmente legali e legittimi. Spero che l’uomo e deputato Alfonso Papa, una volta fuori, ricordi alla società, cosiddetta civile, che l’Assassino dei Sogni (come io chiamo il carcere) è molto più meschino, criminale e violento dei suoi prigionieri. E che nella stragrande maggioranza dei casi oggi in carcere ci sono poveri, migranti, tossicodipendenti e sofferenti psichici. I veri criminali, quelli che contano, quelli veri, lo sappiamo tutti dove sono e dove stanno: liberi felici e potenti, l’importante è che ogni tanto ricordino che “Potrebbe capitare prima o poi anche a loro”. Lettere: il lavoro dietro le sbarre degli angeli dei detenuti di Agnese Moro La Stampa, 29 agosto 2011 Il nostro Paese è fondato su alcuni basilari principi, su scelte talmente semplici da poter sembrare scontate. Salvo diventare straordinariamente difficili quando si tratti di attuarle. Una di queste semplici scelte è quella di rispettare ogni essere umano, portatore, in quanto tale, di diritti inviolabili che nascono prima di qualunque legge: la Repubblica, infatti, riconosce tali diritti (non li crea), e li garantisce. Basterebbe un obiettivo così grande a giustificare e ad animare la vita di un Paese per molti, molti anni. Questa dignità assoluta dell’uomo, per la nostra Costituzione, vale anche quando questi compia cose sbagliate. Anche molto sbagliate. È questo, mi sembra, il senso dell’articolo 27, comma 3: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È un articolo ampiamente violato - spesso al di là della volontà degli operatori - in carceri sovraffollate, dove può scoppiare la violenza, con pochi educatori, dove manca un’assistenza sanitaria decente, in cui è difficile studiare o lavorare, e praticamente impossibile avere una vita affettiva degna di questo nome. Molti contributi alla rieducazione vengono da fuori, attraverso un volontariato poco conosciuto, ma di grandissima qualità. Ci sono poi persone, gli ergastolani cosiddetti “ostativi ai benefici penitenziari”, principalmente condannati per la loro partecipazione alle attività della criminalità organizzata, che consideriamo addirittura irrecuperabili, non in base ad un loro rifiuto di cambiare, di rivedere criticamente la propria vita e le proprie scélte, di riconoscerle sbagliate e di riorientare la propria esistenza, ma perché, per una varietà di motivi, non sono collaboratori di giustizia. Non possono godere di alcun beneficio, neanche dopo molti anni di carcere. L’ergastolo per loro è senza uscita. Da alcuni anni queste persone lottano per far conoscere la loro situazione attraverso una campagna che si chiama “Mai dire mai” (www.informacarcere.it), nel corso della quale sono stati fatti scioperi della fame, in carcere e fuori (nel 2007 un migliaio di ergastolani, sostenuti da 10.000 persone fra amici e parenti, hanno fatto lo sciopero della fame ad oltranza), un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, e appelli, in particolare uno al Presidente della Repubblica, che conteneva la richiesta, provocatoria, di avere la pena di morte al posto dell’ergastolo ostativo. “L’ergastolo uccide più della pena di morte, lasciandoti in vita il corpo, ma ammazzandoti l’anima”. Promotore della Campagna è Carmelo Musumeci, 56 anni, ergastolano ostativo, all’epoca dell’arresto “malavitoso”, oggi scrittore e poeta. Alla fine del 2010 ha pubblicato il libro “Gli uomini ombra e altri racconti”. Nei venti anni passati in carcere ha completato gli studi (era potuto andare a scuola solo fino alla seconda elementare); ha preso nel 2005 la laurea breve in giurisprudenza; nel maggio di quest’anno ha conseguito la laurea specialistica. In quella occasione, per la prima volta in venti anni, è uscito dal carcere, incontrando la famiglia, e potendo abbracciare per la prima volta i suoi nipoti. Questi successi ha potuto conseguirli anche grazie al sostegno di Nadia Bizzotto e Giuseppe Angelini della Associazione Comunità di Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi. La Comunità, tra le tantissime attività di condivisione e di fraternità in cui è impegnata, ha anche il progetto “Oltre le sbarre”, un percorso rieducativo, del quale anche Carmelo ha potuto usufruire. La Comunità, inoltre, ha sottoscritto con gli ergastolani una lettera aperta a Papa Benedetto XVI perché prenda a cuore la loro situazione e li sostenga nella loro battaglia contro una pena senza termine. Credo che persone che tornino ad amare la società in cui vivono, a rispettare gli altri esseri umani e i loro diritti, e se stessi, devono avere la possibilità di tornare tra noi. Per fare, liberi, la loro parte. Modena: il carcere S. Anna, una vergogna per la nostra città di Antonio Ramenghi La Gazzetta di Modena, 29 agosto 2011 Per andare al carcere di S. Anna bisogna usare l’auto: non esiste, per arrivarci, il servizio di autobus. L’ho scoperto qualche giorno fa recandomi al S. Anna e mi è parso un segno dell’abbandono nel quale la città ha lasciato il suo luogo di pena. Venerdì scorso sulla Gazzetta il collega Cioce ha raccontato in modo puntuale i tanti problemi che affliggono il carcere fin sulla soglia, a cominciare da quel recinto assolato, senza neppure un servizio, con appena alcune panchine arrugginite, nel quale i parenti attendono per far visita ai famigliari detenuti. Una volta dentro, e dopo il colloquio con la direttrice Rosa Alba Casella, ho avuto chiaro lo stato del nostro carcere e ho potuto constatare con quanto impegno, quanta energia e tanta intelligenza, viene gestita una realtà che, purtroppo, è simile alle altre istituzioni carcerarie del nostro Paese. Una situazione che ha fatto dire di recente al presidente Giorgio Napolitano che quella delle nostre carceri “è una realtà che ci umilia in Europa”. Si dirà che gli istituti di pena dipendono dal Governo e dalla amministrazione centrale, ed è vero: la causa prima dello stato umiliante delle nostre carceri sta nel Parlamento e nel Governo che non destinano i fondi necessari a garantire quel minimo di agibilità e di decoro che anche le carceri dovrebbero avere. Alex Zanotelli, scriveva ieri su queste colonne, delle spese militari, degli enormi investimenti in armi che fa il nostro paese a fronte dei sacrifici richiesti ai cittadini in questo momento di crisi economica. E ho pensato che se solo una minima parte di quelle spese fosse destinata alle carceri, potremmo toglierci di dosso questa vergogna. Pare invece che, salvo le battaglie condotte da Marco Pannella, questo argomento non interessi più nessuno e nessuno più voglia occuparsene. Ma anche qui, come per altre questioni, a fronte delle nefaste politiche del governo centrale, l’amministrazione locale ma soprattutto la comunità locale può, e a mio avviso dovrebbe, intervenire ben al di là del meritevole impegno che sta mettendo quel manipolo di volontari che opera al S. Anna. Sono tanti i terreni di possibile intervento dentro il carcere, a cominciare dal dare un lavoro, oltre agli otto che si occupano dell’orto, almeno ai 170 detenuti definitivi (su 406) che potrebbero essere utilizzati da aziende esterne per semplici lavori che magari oggi vengono fatti svolgere in paesi dell’est o dell’Asia. Possibile che nessuna delle nostre imprese, nessuna coop, nessun artigiano, voglia, con profitto, utilizzare questa forza lavoro consentendo ai carcerati di avere un minimo reddito ma, soprattutto, di svolgere una attività e magari imparare un mestiere? E così per la piccola manutenzione: possibile che la città di Modena non sia in grado di fornire al proprio carcere, qualora ne nasca l’esigenza, quelle minime attrezzature che consentano di avere l’acqua fresca e che solo in forza di un appello fatto dal nostro giornale si sia sopperito, grazie ad alcuni privati, alla sostituzione dei congelatori guasti? Altrettanto si può dire per che riguarda l’istruzione, la lettura nella lingua madre (su 406 detenuti 250 sono stranieri) di libri nella lingua madre, e altro ancora. Al termine della visita al S. Anna ho avuto la netta sensazione di un carcere pronto e disponibile a interagire con la città, desideroso di migliorare le condizioni degli agenti e dei detenuti ma che molto prima delle sue mura Modena abbia alzato nei suoi confronti una propria barriera, ben più alta. Una barriera che non è oltrepassata neppure dall’autobus. E questa non è civiltà. Frutta e verdura dal carcere, clienti in fila per l’acquisto Pomodori da conserva a 30 centesimi al chilo, melone a 1,75 euro, peperoni da 1,60 a 2 euro, sempre di produzioni biologica. Erano questi i prezzi praticati ieri mattina al piccolo mercato davanti al carcere S.Anna dove i volontari di Carcere Città hanno allestito il punto vendita. La provenienza? Tutto a chilometro zero e anche meno visto che le decine di ortaggi e frutta nelle cassette provengono dall’orto annesso al penitenziario modenese dove otto detenuti zappano, sarchiano e annaffiano le piante assistiti da due agronomi. Il risultato? Eccellente, a giudicare dalla piccola folla, soprattutto i residenti del quartiere, che nell’ultimo sabato di ogni mese, da aprile a ottobre, fanno la fila per comprare, i prodotti biologici a prezzi da mercato contadino. Milano: a San Vittore casi di Tbc, in una lettera i detenuti chiedono condizioni migliori Affari Italiani, 29 agosto 2011 Parlano di una situazione “tragica” per il sovraffollamento e per la mancanza di agenti di polizia penitenziaria, nonché di casi di “tubercolosi” i detenuti di una cella del carcere di San Vittore in una lettera in risposta a un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 19 agosto scorso. “Siamo un gruppo di detenuti del carcere di San Vittore che, oltre a voler contestare alcune delle parole pubblicate nell’articolo del 19 agosto 2011 intitolato “Le pene alternative riducono i reati”, vuole inoltre contribuire, essendo i diretti e reali interessati, sulla tematica delle effettive condizioni carcerarie”, si presentano i detenuti. “Nell’articolo viene citato il carcere di San Vittore, dove viene descritta una piccolissima parte e realtà del carcere, riguardante il beneficio consistente nell’apertura delle porte delle celle in modo da permettere la circolazione nei corridoi, per poter diminuire la problematica dei sovraffollamenti e del caldo nelle celle, beneficio destinato esclusivamente a coloro che dichiarano di avere problemi di tossicodipendenza, realtà quindi che non coincide con le reali e complessive condizioni dei restanti e più numerosi raggi e, di conseguenza, detenuti, come al contrario è stato pubblicato”. Secondo chi scrive, “la situazione all’interno del carcere è tragica, dove numerose celle sono destinate a ospitare anche 11 detenuti in stanze da pochi, e non sufficienti, metri quadrati, e molte delle quali senza docce o bagni dignitosi, e se si include, a queste tragiche condizioni, il fatto che vengono concesse non più di 3 ore al giorno d’aria, in una stagione, come l’estate milanese, calda e afosa, è inevitabile parlare di una evidente e chiara situazione di violazione dei più basilari diritti dell’uomo, tutelati e protetti non solo dagli organismi internazionali, ma in primis dalla nostra Costituzione. Inoltre l’assenza delle guardie nei corridoi, spesso per molte ore della giornata, non è in grado di assicurare la sicurezza necessaria in caso di malumori (malori, ndr) o emergenze sanitarie, cosa gravissima se si tiene conto che in questi giorni si è manifestata, in alcuni soggetti, una grave malattia infettiva come la tubercolosi”. Per i detenuti, dunque, “in un paese come l’Italia, che si dichiara libero e democratico, dove i principali e più basici diritti vengono, o dovrebbero essere, tutelati e garantiti, è vergognoso trovare luoghi, costituiti e destinati al reinserimento nella società e a una effettiva rieducazione dei detenuti, dove si possono trovare condizioni di vita disumane e inaccettabili e che per di più si allontanano dagli obiettivi reali per il quale sono stati istituiti”. Tuttavia, si legge nel documento, “la cosa maggiormente vergognosa è che San Vittore è prevalentemente un carcere cosiddetto di ‘transitò, destinato principalmente a coloro che sono in attesa di giudizio, quindi, di conseguenza, una buona percentuale di detenuti riceverà sentenze di innocenza poiché o non sussiste il fatto o perché ha già scontato la pena durante la lunga attesa per un dignitoso e giusto processo (attesa che può anche superare i 10 mesi), condanna per il quale il detenuto ha dovuto accettare condizioni di vita impensabili, simili maggiormente a una tortura, piuttosto che una detenzione svolta nel rispetto della dignità umana e finalizzata al recupero dell’individuo e non alla sua emarginazione”. Si chiedono quindi i detenuti: “Chi pagherà per tutte queste violazioni e offese alla dignità umana? I tempi di eventuali risarcimenti sono epici e il più delle volte si evitano tali questioni puntando a buttare discredito sul risarcente, ricercando un passato delinquenziale oppure si trovano altre scusanti e giustificazioni finalizzate a non risarcire il danno subito per una detenzione svolta da innocente, oppure a risarcire con la minor somma possibile. La realtà dei fatti è che, sicuramente, chi è a capo di tutto ciò o ha il potere di cambiare in meglio il sistema giudiziario e renderlo più efficiente, o non è all’altezza del suo compito e come uno scarica barile punta a delegare alle prossime generazioni, amministrazioni o altro l’onere di risolvere efficacemente la problematica in questione, lavandosene così le mani e lasciando di conseguenza le carceri e il sistema penitenziario in pieno disfacimento, logoramento e soprattutto sovraffollamento, sporcandosi così le mani della vita di migliaia di persone, macchiandosi inoltre della colpa di negligenza e disinteresse, dimenticandosi che in gioco non ci sono in ballo oggetti, ma al contrario la vita di persone”. Viterbo: Sposetti (Pd); carcere dimenticato e lasciato solo, serve l’intervento del Dap www.tusciaweb.eu, 29 agosto 2011 Trent’anni l’età media dei reclusi a Mammagialla. Bassa. Più alta quella del personale addetto al controllo e alla sicurezza del carcere viterbese, che almeno con l’esperienza cerca di sopperire a organici sottodimensionati e una popolazione carceraria ben oltre la capienza prevista. Una visita la domenica mattina alla struttura restituisce l’immagine di tanto impegno in un mare di difficoltà. Lunghi corridoi uguali a se stessi, reparti dove un poliziotto è costretto a farsi in tre e a lavorare anche per gli altri due colleghi previsti (ma solo sulla carta). Ieri mattina il parlamentare Pd Ugo Sposetti ha visitato il carcere e il quadro che ne emerge non è dei più confortanti. “Si tratta della terza struttura detentiva del Lazio - spiega Sposetti - e viene subito dopo Rebibbia e Regina Coeli, ma non sembra proprio godere delle attenzioni che merita”. Un problema non solo di Viterbo, ma comune a molte carceri italiane. “Solo che qui il quadro è più complesso, perché si tratta di una struttura che ospita diverse sezioni, compresa quella di massima sicurezza e oggi, dopo il distaccamento di Pier Paolo D’Andria, non c’è più nemmeno un direttore a tempo pieno. Quello di Civitavecchia si deve occupare di entrambe. In questa situazione non si può non sottolineare il grande impegno quotidiano della polizia penitenziaria e degli operatori che mettono tutta la loro professionalità per dare il massimo e sopperire alle carenze. Un impegno serio, che merita risposte adeguate. Oggi, invece, l’assenza di un direttore a “tempo pieno” rischia di vanificare la buona organizzazione che c’è”. Il lavoro di 540 poliziotti previsti lo fanno in 360. Ogni anno ne vanno in pensione circa tredici e non tutti sono sostituiti. In compenso la popolazione carceraria, che dovrebbe essere di 430 unità arriva fino a 740. Con questi numeri, solo lo spostamento dalla cella ai luoghi in cui svolgono attività lavorative, di svago o al piazzale per l’ora d’aria, diventa un’impresa. Portata comunque a termine ogni giorno. A Mammagialla per le attività sociali occupa un’intera ala. Qui le celle lasciano spazio a laboratori. C’è chi realizza modellini di nave, chi dipinge, c’è anche una moschea e il barbiere. Ironicamente ribattezzato taglia gole e orecchie. “Il lavoro portato avanti dai volontari è encomiabile - spiega Sposetti - sopperendo alle mancanze dell’amministrazione penitenziaria”. Oltre al teatro c’è il lavoro vero e proprio. Si coltiva la terra e gli ortaggi sono venduti. Gli operatori interni cercano di rendere più vivibile la vita nel carcere, anche per chi viene a visitare parenti reclusi. È stata organizzata anche un’area colloqui verde. All’aperto, seppure circoscritta da una recinzione. Oltre la quale restano i problemi. Perché tra i 740 detenuti ci sono mafiosi, camorristi, ex terroristi o pedofili e violentatori che devono stare lontani dagli altri. Oltre agli ingestibili, quelli che non riescono ad adattarsi al regime carcerario e per i quali Viterbo è per la gran parte meta predestinata. A ogni tipo va data una risposta diversa, ma non sempre è possibile. Nell’area sanitaria si effettuano esami per gran parte delle specialità, tuttavia il settore risente degli stessi problemi di quello “civile”. Mammagialla è stato inaugurato nel 1993 e avrebbe bisogno di manutenzione agli impianti, ma i fondi non ci sono. “È carcere fuori dalla città - conclude Sposetti - e probabilmente fuori anche dai pensieri delle istituzioni locali. Con le informazioni raccolte intendo rivolgermi al giudice Franco Ionta, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, innanzitutto per chiedere di risolvere il problema del direttore, ma anche per sollecitare interventi sui problemi che mi sono stati documentati dal personale in servizio. È stata una mattinata istruttiva e utile, una visita da ripetere per stare vicino alle tante persone che con serietà svolgono il proprio dovere fra tanti problemi”. Gela (Ct): carcere in costruzione da 30 anni, inaugurato 2 volte ma chiuso, scoppia polemica Agi, 29 agosto 2011 Le carceri siciliane scoppiano, ma a Gela una struttura nuova di zecca resta chiusa, paralizzata da una singolar tenzone tra Comune e Dap. “Tutti gli adempimenti che dovevano essere compiuti da Comune, Provincia e Regione sono stati regolarmente espletati. Adesso aspettiamo risposte da Roma”. È quanto afferma il sindaco di Gela, Angelo Fasulo, a proposito del carcere di Gela, inaugurato già due volte e ancora chiuso. Il primo cittadino in particolare replica al Dipartimento di amministrazione penitenziaria che in una nota precisava che il carcere è inutilizzabile a causa di un insufficiente approvvigionamento idrico non imputabile all’amministrazione penitenziaria. “Credo che sia opportuno fare chiarezza sull’argomento - ha dichiarato il sindaco Fasulo - l’allaccio idrico al carcere è stato completato dalla ditta incaricata già a fine maggio e tutti i problemi di approvvigionamento idrico sono stati abbondantemente risolti. Gli arredi sono stati regolarmente consegnati e tutto questo è stato tempestivamente comunicato al ministero che, addirittura, ha chiesto all’amministrazione di provvedere a sistemare e pulire la strada d’accesso per poter programmare l’inaugurazione. La strada è stata immediatamente pulita e sistemata ma ad oggi non ci è stata comunicata alcuna data d’apertura. Se il carcere non viene aperto è solo perché il ministero non ha provveduto al trasferimento del personale necessario”. Il carcere di Gela venne progettato nel 1959 e approvato definitivamente nel 1978 mentre i lavori iniziarono nel 1982. Dovrebbe ospitare cento detenuti. Osapp: aprire al più presto carcere a Gela “Urge aprire la nuova struttura penitenziaria di Gela, paralizzata da ritardi”. Lo afferma Mimmo Nicotra, vicepresidente generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, che aggiunge: “In un momento delicato come quello attuale, in cui le carceri sono sovraffollate, l’apertura del carcere di Gela, che dovrebbe ospitare centro detenuti, sarebbe di aiuto. E permetterebbe di avvicinare detenuti e anche poliziotti penitenziari che da oltre 20 anni sono in giro per l’Italia prima e per la regione dopo ed aspettano ancora di raggiungere la terra di origine. Per questo - conclude Nicotra - chiediamo a gran forza un incremento delle unità di polizia penitenziaria in Sicilia, anche alla luce della imminente uscita dai corsi dei neo agenti il prossimo settembre, ed invitiamo il sindaco di Gela, Angelo Fasulo, che ha sollevato il problema col Dap, ad unirsi a noi la prossima settimana, quando effettueremo un sopralluogo nella struttura”. Interrogazione parlamentare dei Radicali C’è anche il carcere di Gela, atteso da 50 anni, inaugurato quattro anni fa, ma ancora non in funzione, nella polemica sollevata da una interrogazione a causa del sovraffollamento degli istituti penitenziari. Una interrogazione parlamentare dei Radicali, riporta i dati raccolti dall’Associazione “Detenuto Ignoto”, l’Italia ha circa 40 “carceri fantasma”: da Ferrara a Reggio Calabria, da Pesaro a Monopoli, a Gela, strutture costruite, talvolta già arredate, e poi lasciate lì, vuote e mai utilizzate. Emblematico - in questa situazione di emergenza - viene definito il caso del carcere di Gela. Si fa riferimento al fatto che la struttura, dopo 50 anni di lavori e ben due inaugurazioni, l’ultima nel 2007, con una cerimonia alla presenza dall’allora ministro della giustizia Clemente Mastella e costata oltre 5 milioni di euro, consegnato all’amministrazione penitenziaria nel 2009, è ancora inutilizzato, e il Comune paga per la sorveglianza. “Nel sistema penitenziario italiano non esistono strutture fantasma - si legge nella replica del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria - Non ci sono infatti disponibili strutture penitenziarie inutilizzate - precisa il Dipartimento -. Il carcere di Arghillà è stato inserito nel Piano carceri ed è stato già redatto il crono programma che prevede l’ultimazione della struttura in circa 180 giorni a partire dall’inizio dei lavori”. Quanto al carcere di Gela, “la cui capienza è di 50 posti, è tuttora inutilizzabile a causa di un insufficiente approvvigionamento idrico non imputabile all’Amministrazione penitenziaria”. I dati del sistema carcerario italiano sono allarmanti. Le cifre parlano di un sistema al collasso: 66.942 detenuti, al 31 luglio, nei 207 istituti penitenziari italiani, a fronte di una capienza regolamentare di 45.681 unità. Politica e istituzioni, recentemente sollecitate dal monito del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si interrogano sulle possibili soluzioni al drammatico sovraffollamento delle carceri. Tra le strutture ancora chiuse, in Basilicata il carcere di Irsina, vicino Matera, costruito negli anni 80 con una spesa di oltre 3 miliardi di lire, fu aperto per un anno, poi chiuso. Molti i casi in Puglia. Nel barese, Minervino Murge, finito ma mai entrato in funzione. E a Monopoli la struttura, abbandonata da 30 anni, è occupata da un gruppo di cittadini sotto sfratto. In provincia di Foggia, non sono mai stati aperti Volturata Appula, rimasto incompiuto, Castelnuovo della Daunia, finito e arredato, Bovino, 120 posti, e Orsara. Chiuso, dopo essere stato inaugurato e aperto, il carcere campano di Gragnano, in provincia di Napoli. Pronto anche Morcone, in provincia di Benevento, ma mai messo in funzione. Busto Arsizio: ispezione a sorpresa dei Radicali; questo è un luogo di tortura Varese News, 29 agosto 2011 La denuncia dei Radicali dopo un’ispezione a sorpresa nella casa circondariale: struttura invivibile, carenza d’acqua, detenuti costretti in cella anche per 23 ore al giorno. “Amnistia o indulto le uniche soluzioni”. Il carcere di Busto Arsizio? “Un luogo di tortura e di illegalità messo in opera da uno stato fuorilegge”. Non usa mezzi termini Valerio Federico, componente del Comitato di Radicali Italiani, dopo l’ispezione a sorpresa realizzata nella mattinata di lunedì 29 agosto alla casa circondariale di via per Cassano, insieme al deputato radicale Marco Beltrandi, a Sergio Besi (dell’associazione Luca Coscioni) e a Roberto Sartori in rappresentanza di Exodus, la fondazione creata da don Antonio Mazzi. “Non siamo noi a dirlo - continua Federico - ma la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e la stessa Costituzione italiana. Il carcere di Busto è il secondo in Italia per sovraffollamento, dopo quello di Lamezia Terme, e questo non soltanto aumenta il tasso di autolesionismo e suicidi, ma rende impossibile il recupero della persona, a scapito della sicurezza dei cittadini”. L’ispezione, che rientra nell’ormai classico “giro” effettuato dai Radicali nelle carceri italiane per raccogliere dati statistici e testimoniane dei detenuti, ha sconcertato anche Marco Beltrandi: “Questa struttura ha più problemi della media nazionale, e non solo per l’affollamento, ma anche per altre ragioni: non ci sono spazi esterni, in media un detenuto passa appena 4 ore al giorno fuori dalla cella, e in alcuni casi, come per il reparto infermeria, scendiamo addirittura a un’ora. Questa situazione nega ai detenuti i più elementari diritti civili e umani, ma rende anche impraticabile la finalità costituzionale di reinserimento nella società: anzi, molti carcerati, dopo questa esperienza, sono terrorizzati da quello che potrà accadere loro quando usciranno. Non è solo una questione di etica e civiltà, ma anche di sicurezza, quella che una struttura così non garantisce”. I dati raccolti nel corso della visita e snocciolati da Sergio Besi impressionano: 424 i detenuti ospitati dalla struttura (167 la capienza prevista, poco meno di 300 quella massima tollerata), di cui addirittura il 70% sono stranieri e il 50% ancora in attesa di giudizio, mentre solo il 25% ha un lavoro. “In molti casi - spiega Besi - non è rispettata neppure la disponibilità di 3 metri quadrati calpestabili a persona, sancita dalla Corte dei Diritti dell’Uomo. Il personale del carcere è sotto organico di almeno 70-80 persone, per non parlare delle altre carenze: l’acqua è insufficiente e consente di farsi una doccia solo un giorno su due, anche in estate, il reparto disabili è pronto da almeno 5 anni e non è mai stato aperto, metal detector e apparecchi per le radiografie sono inutilizzati. E l’unico spazio dignitoso, il campo sportivo, verrà probabilmente eliminato per far posto all’ampliamento della struttura, peraltro ancora sulla carta”. “Laddove non c’è rispetto della vita umana - aggiunge Roberto Sartori di Exodus - non ci può essere nemmeno finalità educativa: così il carcere diventa soltanto una scuola di violenza”. La Fondazione ha anche consegnato al vicecomandante Antonio Coviello una serie di domande, riguardanti le condizioni della struttura (dalla salute all’igiene ambientale, dal lavoro al benessere psicofisico dei detenuti), a cui i responsabili del carcere sono chiamati a rispondere per iscritto. La strada per uscire da questa situazione, secondo i Radicali, è già tracciata: “Amnistia e indulto sono le uniche risposte immediate - dice Marco Beltrandi - per quanto impopolari. Non è vero che creerebbero problemi di sicurezza: il tasso di recidiva di chi ha beneficiato dell’indulto è di molto inferiore a quello dei detenuti che escono dopo aver scontato la pena. L’amnistia è anche l’unico modo per ridurre drasticamente il numero delle cause pendenti, ponendo le basi per una seria riforma della giustizia. Siamo riusciti, grazie anche alle iniziative non violente condotte in molte carceri italiane, a ottenere che il Parlamento si riunisca in una sessione dedicata all’emergenza carceri, ci auguriamo che finalmente la classe politica si faccia carico del problema”. Già oggi, nel pomeriggio, è prevista una nuova ispezione, questa volta nel carcere di Como. Cagliari: Sdr; anche Uil denuncia rischio sicurezza a Buoncammino Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2011 “Anche la segreteria provinciale di Cagliari denuncia il rischio sicurezza nel carcere di Buoncammino. La situazione è particolarmente delicata nella sezione femminile dove talvolta una sola Agente deve garantire la vigilanza per 26 donne private della libertà, una decina delle quali extracomunitarie, con problemi di convivenza e dov’è ristretta anche una donna incinta di due gemelli”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” con riferimento alla lunga nota che Michele Cireddu, segretario provinciale di Cagliari della Uil Penitenziari, ha inviato al Provveditore regionale Gianfranco De Gesu. “La situazione critica per la sicurezza - continua Caligaris - può determinare condizioni di invivibilità qualora venga meno il senso di responsabilità delle detenute. Lo sforzo delle Agenti è quindi ancora più apprezzabile se si considera che le recluse, soprattutto durante i mesi estivi, non hanno adeguate e sufficienti opportunità di lenire le tensioni con corsi o iniziative. L’area educativa infatti avrebbe necessità di spazi e di risorse maggiori per poter garantire costantemente attività destinate al reinserimento sociale delle detenute”. “A rendere ancora più difficile la vita lavorativa della Polizia Penitenziaria di Buoncammino, sottodimensionata di almeno 60 agenti, sono - ricorda Caligaris - i continui piantonamenti in ospedale per detenuti gravemente ammalati. Nelle ultime settimane si sono verificati ben 4 casi drammatici che hanno richiesto l’impiego di 35 agenti e il mantenimento in servizio in Istituto di alcuni per 12 ore consecutive. Insomma ben oltre i limiti della sopportazione. Si continua ad ignorare il diritto costituzionale della salute e principio del buon senso che suggerisce la permanenza in strutture alternative degli ammalati con gravi patologie”. “Non si possono - conclude la presidente di Sdr - ulteriormente ignorare le pesanti condizioni di vita dei detenuti e del personale nella struttura di Cagliari. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria invece manifesta scarsa sensibilità. Il segnale più evidente è nelle continue nuove assegnazioni alla Sardegna di reclusi. Nel fine settimana appena trascorso sono arrivati infatti nell’isola 80 cittadini privati della libertà. Una nuova iniezione di disagio e preoccupazione per tutti gli operatori del sistema penitenziario. La Sardegna insomma si conferma un’isola ad alta vocazione di servitù detentiva”. Bari: Osapp; casi di Tbc all’Ipm “Fornelli”… e la profilassi non esiste Ansa, 29 agosto 2011 Casi di Tbc si registrano nell’istituto per minorenni di Bari “Fornelli”: lo rende noto il vicesegretario nazionale del sindacato di Polizia Penitenziaria Osapp, Mimmo Mastrulli, secondo il quale “ulteriori casi risulterebbero nei penitenziari per adulti del sud Regione, tra cui sicuramente Lecce”. “In Puglia - sottolinea Mastrulli - sono incarcerate 4.475 persone, di cui 237 donne ed una decina di bambini, ospitati nei cosiddetti nidi detentivi”. L’Osapp denuncia “la mancanza di strumenti a tutela dell’incolumità fisica per il personale penitenziario e rileva che purtroppo, dopo il rumore dei quattro casi di maggio, nulla di sostanziale e strutturale è stato fatto in tema di prevenzione sanitaria”. “Non si registrano interventi di profilassi, tantomeno al personale - afferma Mastrulli - è stata fornita la prevista dotazione individuale di protezione”. Alla gravità della “preoccupante situazione di sovraffollamento”, si aggiunge quindi, secondo l’Osapp, il problema della assistenza sanitaria nei penitenziari che non sono dotati “di un adeguato continuativo servizio medico, specialistico, infermieristico e di base oltre al fatto che esiste una incredibile carenza di medicinali, a volte anche salva vita per i reclusi”. Vibo Valentia: Sappe; agente aggredito da detenuto, con pugno in faccia Agi, 29 agosto 2011 Un agente della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Vibo Valentia è stato aggredito da un detenuto che, all’interno della sala colloqui, gli ha sferrato un pugno in faccia. Lo rendono noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Damiano Bellucci, segretario nazionale. L’agente, secondo quanto riferito, si trova in ospedale e non conosciamo la prognosi. “La situazione del carcere di Vibo - commenta il Sappe - resta drammatica, al pari delle altre carceri calabresi. A Vibo sono previsti 201 agenti di polizia penitenziaria, ma ce ne sono solo 170. Di questi, 50 sono distaccati in altri istituti e 28 sono impiegati al nucleo traduzioni e piantonamenti. Solo 77 agenti prestano servizio all’interno delle sezioni detentive. Finora, nonostante i tanti appelli lanciati al Dipartimento e alle altre autorità cittadine, nulla è stato fatto. A questi problemi - continua il Sappe - si aggiunge la carenza di risorse economiche e il sovraffollamento dei detenuti”. Messina: la Crivop Onlus visiterà detenuti nelle carceri della Spagna Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2011 La Crivop Onlus (Cristiani Italiani Volontari Penitenziari) di Messina è stata invitata a partecipare con una propria delegazione, ad una missione che prevede di effettuare delle visite guidate in tre Istituti Penitenziari della capitale in Spagna. La Remar, un’organizzazione non governativa spagnola, il cui nome significa “Riabilitazione degli Emarginati”, ed é nata, nel 1982 a Vitoria (Spagna), dal desiderio di fornire aiuto per le persone vittime dell’emarginazione. La delegazione, composta da tre soci più il Presidente Nazionale, partirà Mercoledì 31 agosto 2011 per fare rientro il 9 settembre 2011 con un volo aereo da Roma/Madrid e viceversa. Visite guidate negli Istituti Penitenziari: Centro Penitenciario de Soto del Real - Madrid V Soto del Real - Madrid (Spagna) Km 44 da Madrid; Centro Penitenciario Alcala Meco - Mujeres - Madrid I Alcalá de Henares - Madrid (Spagna)Km 34 da Madrid; Centro Penitenciario de Cuenca Cuenca - Castilla - La Mancha (Spagna) Km 168 da Madrid. Saluzzo (Cn): “Allegro ma non troppo”, va in scena lo spettacolo dei detenuti Ristretti Orizzonti, 29 agosto 2011 Gli attori della Casa di Reclusione “R. Morandi” di Saluzzo presentano dal 21 al 24 settembre lo spettacolo “Allegro ma non troppo” realizzato con la regia di Grazia Isoardi e coreografie di Marco Mucaria. Lo spettacolo, di produzione Voci Erranti Onlus, andrà in scena il 21 e il 22 alle ore 18 e il 23 e 24 alle ore 16 e 18. La prenotazione è obbligatoria e deve essere effettuata entro il 10 settembre contattando dal lunedì al venerdì i numeri 0172. 89893 ( ore 9-17,30 ) cell 392.9020814 ( ore 18-20 ). “Il lavoro di quest’anno con i detenuti del Laboratorio Teatrale si è svolto ascoltando le musiche sinfoniche - spiegano i responsabili del progetto. Non per sfida o presunzione, quanto per la curiosità e la necessità di un confronto con qualcosa di molto bello. Il carcere è il luogo brutto in assoluto, le condizioni di vita sono pessime, il rischio di diventare più brutti e cattivi è quasi inevitabile. Il teatro in carcere cerca di portare qualche stimolo di vita, la possibilità di raccontarsi, la ricerca personale e collettiva di qualcosa di bello e di buono. Attraverso l’ascolto i corpi hanno raccontato e le parole sono andate in libertà. “Allegro ma non troppo” nasce come incontro con la musica e il pubblico, è l’appuntamento dell’anno tanto atteso dagli attori per la necessità di confrontarsi e misurarsi con la vita reale. Avere Bach, Mozart, Vivaldi, Chopin, Verdi, Ravel…come compagni di viaggio è un’esperienza straordinaria, un nutrimento per le orecchie e per lo spirito che ci permette di elevare l’anima fino a ritrovare noi stessi.” Bologna: il carcere minorile del Pratello porta in scena i popoli del Mediterraneo Redattore Sociale, 29 agosto 2011 “Riva Sud Mediterraneo” è la rassegna teatrale che vede coinvolti anche 12 ragazzi, tra ospiti del Minorile e di altre comunità. In scena i testi di Al khamissi, Al-Aswani, Djebar, Mahfuz, Bowles e Canetti. Il Nord Africa sarà protagonista delle sei serate di “Riva Sud Mediterraneo”, rassegna di teatro voci e musiche organizzata dal Teatro del Pratello, Teatrino Clandestino/SpazioSì, Tra un atto e l’altro, Medinsud e Lalage Teatro che vedrà protagonisti, oltre a 5 attori professionisti della scena bolognese, anche 12 ragazzi tra ospiti del Carcere minorile del Pratello (1), della Comunità pubblica per minori (5) e di altre comunità di recupero (6). “Il progetto della rassegna è inserito nel loro percorso educativo - spiega Paolo Billi, regista che, con il Teatro del Pratello, da 12 anni porta il teatro all’interno della struttura - e loro sono i veri protagonisti della manifestazione, anzi sono i padroni di casa perché fanno entrare il pubblico e gli attori in casa loro e non sono solo gli ospitanti ma sono impegnati per il successo delle serate”. Oltre a essere i protagonisti sul palco nella serata di apertura della rassegna, in cui si leggeranno brani dello scrittore egiziano Kaled Al Khamissi, i ragazzi saranno impegnati come tecnici e aiuto in sala nelle serate successive in cui andranno in scena testi di Ala Al-Aswani, Assja Djebar, Naguib Mahfuz, Paul Bowles ed Elias Canetti. “La scelta di parlare di ciò che accade sull’altra sponda del Mediterraneo attraverso le voci di autori arabi è maturata lo scorso febbraio - racconta Billi - L’attenzione si è concentrata su alcuni autori arabi e due occidentali che avevano un legame particolare con il Maghreb, Bowles e Canetti”. La scelta dipende anche dal fatto che molti dei ragazzi del Minorile o delle comunità sono stranieri di origine maghrebina e parlare della loro terra, spiega il regista, “era un modo per coinvolgerli maggiormente nel progetto”. I 12 ragazzi (di cui 4 sono di origini arabe) sono stati coinvolti anche nella scelta delle musiche e delle canzoni per “introdurre nello spettacolo le sonorità che oggi si possono ascoltare sulla sponda sud del Mediterraneo”. Oltre a essere protagonisti della serata dedicata a Kaled Al Khamissi, “Voci dai taxi del Cairo”, i ragazzi del Minorile si occuperanno anche delle serate successive come aiuto in sala o tecnici. “I ragazzi sono assunti dalla cooperativa Teatro del Pratello - spiega Billi - Il loro lavoro è iniziato a luglio con il laboratorio di scenotecnica in cui hanno costruito le scenografie, è proseguito ad agosto con la realizzazione dello spettacolo e si conclude con la rassegna, che li vede coinvolti non solo come attori ma anche come tecnici”. Immigrazione: tentano la fuga del Cie, 4 arresti La Repubblica, 29 agosto 2011 Alle cinque del mattino sono saliti sul tetto. Si sono calati giù con una corda. E hanno cominciato a correre. Una fuga di massa organizzata quella che ieri mattina hanno tentato i migranti detenuti nel Centro di identificazione ed espulsione di viale Europa al quartiere San Paolo di Bari. In trenta sono entrati in azione all’alba. Sono usciti dai moduli-dormitorio in silenzio e si sono arrampicati sui tetti della struttura. Poi hanno provato a saltare le recinzioni del centro per scappare. Ma gli agenti di polizia in servizio al Cie si sono subito accorti del tentativo di fuga degli stranieri. Ventisei magrebini sono stati subito bloccati prima che potessero allontanarsi. Altri due tunisini invece, nel salto dell’alta recinzione, si sono fratturati le caviglie e non sono riusciti a correre. I poliziotti li hanno fermati in pochi minuti. Sono stati poi soccorsi dal personale del 118 e un’ambulanza li ha trasportati all’ospedale San Paolo per essere medicati. All’appello mancavano solo due tunisini. La loro fuga è durata poco. I migranti sono stati rincorsi e presi a pochi metri di distanza. La rivolta è stata così sedata e i ribelli sono stati fatti rientrare nei moduli. Per i quattro tunisini invece sono scattate le manette. Sono stati arrestati con l’accusa di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale durante la tentata fuga. Due poliziotti infatti sono rimasti feriti nella colluttazione e medicati al pronto soccorso dell’ospedale San Paolo. I sanitari hanno riscontrato loro lesioni giudicate guaribili in cinque giorni. L’ultima protesta all’interno del Cie di Bari era avvenuta circa due mesi fa. Lo scorso 5 giugno a scatenare la rissa tra i prefabbricati della struttura furono due cittadini marocchini. I magrebini, di 30 e 27 anni, chiesero di poter vedere in tv, su un canale arabo, la diretta della partita di calcio Marocco-Algeria, ma, al rifiuto ricevuto dagli agenti in servizio, incitarono tutti i detenuti a ribellarsi. Un gruppo di stranieri tagliò e sradicò le grate in ferro della finestra del dormitorio e scavalcò il muro di cinta nel tentativo di fuggire. Carabinieri, poliziotti e militari dell’esercito furono aggrediti con calci e pugni. Il bilancio fu di cinque tra militari e agenti feriti con fratture e contusioni e nove migranti, di nazionalità tunisina tra i 20 e 30 anni, arrestati con le accuse di resistenza, violenza e lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato dei moduli del centro. Libia: liberati 10mila detenuti, altri 50mila ancora “dispersi” dopo occupazione di Tripoli Tm News, 29 agosto 2011 Oltre 10mila detenuti sono stati liberati dalle carceri libiche dopo che le milizie ribelli hanno conquistato Tripoli, ma almeno altri 50mila risultano ancora dispersi: lo hanno reso noto fonti militari del Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt). “Il numero di persone arrestate negli ultimi mesi dal regime è stimato fra i 57mila e i 60mila” ha spiegato il portavoce militare del Cnt, colonnello Ahmed Omar Bani, esprimendo preoccupazione per la sorte dei detenuti di cui non si è trovata traccia e invitando “tutti coloro che abbiano informazioni su quanto accaduto nelle carceri” a fornire la propria testimonianza o a “rendersi complici dei possibili crimini commessi”. Amnesty: archivi prigioni rischiano di andare persi Gli archivi delle prigioni e altre informazioni di grande importanza rischiano di andare persi poiché i centri di detenzione sono in condizioni d’insicurezza e i documenti vengono distrutti o portati via. È quanto ha verificato la delegazione di Amnesty International presente in Libia, che ha chiesto al Consiglio nazionale di transizione (Cnt) di proteggere queste prove in luoghi sicuri e di rivolgersi a coloro che hanno sottratto documenti affinché vengano restituiti. ‘Gli archivi delle prigioni e altre prove - ha dichiarato Claudio Cordone di Amnesty International - possono essere di grande importanza per eventuali futuri processi relativi ai crimini commessi sotto il regime del colonnello Gheddafi. Queste prove potrebbero far venire alla luce informazioni sui prigionieri scomparsi in Libia negli ultimi decenni, comprese le migliaia di persone catturate dalle forze pro-Gheddafi dall’inizio della rivolta. Il 28 agosto, la delegazione di Amnesty International ha visitato la prigione di Abu Salim, rinvenendo documenti sparsi in giro nel cortile del carcere e in buste situate in almeno due stanze. Tra i documenti rinvenuti in giro c’erano dossier di prigionieri detenuti per zandaqa (eresia), il reato per il quale venivano condannati molti oppositori di Gheddafi; un documento che ordinava l’espulsione di una donna somala sieropositiva e un altro relativo a un libico accusato di aver commesso attentati terroristici in Iraq. I ricercatori di Amnesty International hanno visto persone aggirarsi tra i documenti della prigione di Abu Salim. Alcuni li portavano via come souvenir, nonostante le proteste dei parenti di un uomo ucciso in quella prigione nel massacro di 1200 detenuti avvenuto nel giugno 1996. Non vi erano guardie né altre persone che vigilavano sulla documentazione sparpagliata in giro. I prossimi giorni - ha concluso Cordone - rischiano di essere decisivi per conservare i documenti delle prigioni, delle basi militari e anche delle abitazioni private degli ex dirigenti del regime. Dev’essere fatto ogni sforzo per conservarli e metterli al sicuro, in modo che si possa stabilire la verità e si possano portare di fronte a un giudice i responsabili. Radicali: Cnt abolisca pena di morte e riconosca Corte Penale Internazionale Un appello per il rispetto dei diritti umani in Libia, da qualunque delle fazioni in lotta arrivino le offese, è arrivato dal Partito Radicale nonviolento. Riferendosi all’appello con cui la Lega Araba ha invitato l’Onu allo scongelamento dei beni libici e a dare al Consiglio nazionale transitorio (Cnt) il seggio della Libia al Consiglio di sicurezza dell’Onu, il co-vicepresidente e senatore Marco Perduca ha ricordato che “a tutto ciò occorre accompagnare la certezza del diritto”, ovvero si deve anche chiedere al Cnt “di ratificare tutti gli strumenti internazionali dei diritti umani a partire dall’abolizione della pena di morte e il riconoscimento della competenza della Corte Penale Internazionale sul futuro di Gheddafi, la cui resa va trattata dall’Onu proprio perché questi venga estradato all’Aja quanto prima”. Khamis Gheddafi responsabile massacro detenuti Membri della famigerata 32/ma Brigata Khamis, guidata dal sanguinario figlio di Muammar Gheddafi, sarebbero responsabili del massacro di 45 detenuti uccisi il 23 agosto in un magazzino a Khalida Ferjan a Salahaddin, un sobborgo a sud di Tripoli. Lo denuncia Human Rights Watch che ha raccolto la testimonianza di un sopravvissuto e di altre tre persone detenute fino a pochi giorni prima del massacro. Il sopravvissuto, Abdulrahim Ibrahim Bashir, 25 anni, ha raccontato che il 23 agosto le guardie della Brigata Khamis hanno aperto il fuoco sui prigionieri dal tetto. Secondo un ex detenuto, Moiayad Abu Ghraim, 28anni, la responsabilità del magazzino era affidata a Muhammad Mansour, della stessa brigata. India: italiani condannati all’ergastolo, l’alta corte dice sì all’appello Ansa, 29 agosto 2011 L’Alta Corte di Varanasi, in India, ha accolto l’istanza d’appello per Tomaso Bruno e Elisabetta Boncompagni, in carcere da un anno e mezzo a Varanasi perche accusati della morte del loro compagno di viaggio Francesco Montis. La decisione è stata notificata anche al nuovo pubblico ministero, a un mese dalla condanna all’ergastolo per i due ragazzi italiani che sono ancora rinchiusi nel carcere indiano. L’Alta Corte ha emesso anche un’ordinanza affinché il tribunale di Varanasi trasmetta con celerità tutta la documentazione relativa al caso di Tomaso ed Elisabetta. La richiesta di libertà su cauzione, invece, sarà discussa a fine settembre. Soddisfazione è stata espressa dalla madre di Tomaso, Marina Maurizio, che si aspettava una notizia positiva dai legali dello studio Titus che seguono la vicenda. “Speriamo che l’udienza d’appello possa aprirsi in tempi brevi - ha detto la donna - ma è importante che anche la diplomazia faccia il suo corso”. Egitto: durante rivolta almeno 100 detenuti morti, inchiesta condotta solo in cinque penitenziari Ansa, 29 agosto 2011 Almeno centro prigionieri sono stati uccisi durante e dopo la rivolta popolare di inizio anno in Egitto, lo afferma l’organizzazione non governativa egiziana in un rapporto pubblicato oggi, denunciando “crimini atroci”. L’inchiesta dell’Iniziativa egiziana per i diritti della persona, Eipr, si è concentrata solo su cinque penitenziari egiziani, tra cui Tora al Cairo e al-Qatta a Gizeh. In seguito alla rivolta del 25 gennaio scorso, che ha portato alla caduta del regime dell’ex presidente Mubarak l’11 febbraio, diverse prigioni sono state teatro di massacri o evasioni di massa. Dal 29 gennaio al 20 febbraio, “oltre 100 prigionieri sono stati uccisi e centinaia ferite in cinque prigioni”, secondo l’Eipr, precisando che il bilancio delle vittime nei penitenziari potrebbe essere più elevato. Si tratta di “omicidi deliberati e che non hanno nessun legame con tentativi di evasione o di ammutinamento”, spiega l’organizzazione. Palestina: 150 prigionieri nelle carceri di Gaza liberati per la Eid al-Fitr InfoPal, 29 agosto 2011 Questa mattina, in occasione della Eid al-Fitr, la festa che celebra la fine del mese di Ramadan, il ministero dell’Interno del governo di Gaza ha rilasciato 150 detenuti penali. L’Eid verrà festeggiata tra due giorni. Secondo quanto riferisce il nostro corrispondente da Gaza, 55 tra i prigionieri che rilasciati passeranno le festività a casa, con i loro familiari, e poi faranno ritorno in carcere, in quanto devono scontare una pena per i crimini commessi. Per gli altri la liberazione sarà definitiva, a meno che non commettano altri reati.