Giustizia: l’amnistia è l’unico provvedimento possibile per le carceri di Giulia Crivellini Terra, 28 agosto 2011 “Il sovraffollamento nelle carceri rappresenta un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Così ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione del convegno di fine luglio organizzato dai Radicali. Nel frattempo qualche cosa si è mosso. Già, perché al consueto appuntamento estivo del ferragosto in carcere quest’anno hanno aderito ben 2000 persone, oltre ad un consistente numero di parlamentari, consiglieri e figure istituzionali. L’urgenza, infatti, è divenuta oggi sinonimo di insostenibilità, non solo sul piano della dignità (minima!) da garantire a ciascun individuo, ma altresì su quello della dignità di uno Stato che deve recuperare spazi di legalità, per “tornare ad essere in qualche misura democratico”. Se un barlume di luce è stato fatto, le soluzioni, però, sembrano vagare nell’oscurità. I Radicali dicono forte e chiaro: amnistia! Il filo da tirare per arrivare a riforme complessive in tema giustizia. Il neoarrivato Guardasigilli risponde: nessuna amnistia; piuttosto depenalizzazione dei reati minori, revisione dei meccanismi di custodia preventiva e avanti col “piano carceri”. Dietro, l’eco di un’opinione pubblica che non ritiene sufficiente la misura suggerita da Pannella, in parte celando il timore di un’ondata di criminali in giro per le strade. A questo punto, un’opera di verità si rende necessaria. Sì, perché l’amnistia ha un significato ben preciso, che deve essere conosciuto per poter esserne riconosciuta la validità. In primis, amnistia significa cura per uno Stato con febbre a 40. Per un malato che ha l’aspirina a portata di mano non solo è inutile, ma può essere addirittura mortale attendere mesi prima che i medici trovino l’antibiotico. Mi si dirà: allevia, ma non cura. E poi: racchiude un morbo, perché usciranno indiscriminatamente tanti criminali. E qui si entra nel cuore della questione: la portata “emergenziale” di questo strumento è rafforzata da una valenza fortemente strutturale. Non solo porta sollievo al nostro Stato “umiliato” (cit. Napolitano) e al lavoro dei magistrati, i quali si vedrebbero ridotti i processi penali a 1 milione e mezzo dai 4 e mezzo pendenti, ma anticipa quelle stesse riforme strutturali da tanti richiamate. Le anticipa perché, come istituto delineato dal diritto penale, le contiene in sé stesso. L amnistia, infatti, non viene concessa a mo’ di indulgenza o carità, ma deve seguire dei criteri precisi, collegati agli anni ancora da scontare oppure alla tipologia di reato. Si potrebbe, ad esempio, far rientrare nel suddetto provvedimento tutti quei reati considerati “minori”, o perché senza vittima o perché non più avvertiti come tali dalla società (ed “inutili”). Ma, soprattutto, si potrebbero far rientrare quelle “emergenze sociali”, quali le tossicodipendenze e l’immigrazione, che non sono riuscite a trovare, sino ad oggi, adeguate soluzioni di politica (appunto) sociale e che per questo vengono relegate nel dimenticatoio carcerario. Insomma, perché fare domani (e quando?) misure di depenalizzazione di reati che già oggi, proprio con questa misura, possono essere prese? Consideriamo, poi, che non si tratterebbe solo di alleviare le condizioni dei tanti, troppi, malati di giustizia, ma di permettere e costringere la classe politica ad intervenire davvero. Risulterebbe, così, essere l’anestesia che crea quell’ arco temporale indispensabile e irrinunciabile ad ogni intervento. È su questo terreno che la politica deve giocare la sfida. Se continuare a percorrere la strada delle promesse e della non-credibilità, divenendo ogni giorno più fragile, oppure, invece, decidere di dare un segnale serio ed immediato. E questo segnale ha un solo nome: amnistia. Giustizia: la ricetta delle associazioni contro il sovraffollamento di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 agosto 2011 Limiti all’utilizzo della custodia cautelare in carcere, abrogazione della legge ex Cirielli sulle recidive, modifica delle norme Fini-Giovanardi sulle droghe, estensione delle misure alternative, disposizioni particolari per gli immigrati condannati, introduzione della messa alla prova anche per gli adulti, introduzione delle entrate scaglionate in relazione alla capienza delle carceri, chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, istituzione del Garante nazionale dei detenuti. Sono i nove nodi cruciali, gli ingredienti della ricetta individuata da un cartello di associazioni che lavorano nel campo della giustizia per risolvere il problema numero uno delle carceri nostrane, il sovraffollamento. E soprattutto per far tornare l’intero sistema penale italiano in condizioni di legalità. Sono anche i punti cardine sui quali lavorare per un disegno di legge che in autunno le associazioni vorrebbero depositare in Parlamento. Una volta appurata “l’evidente inefficacia” del Piano di edilizia penitenziaria del commissario straordinario all’emergenza carceri nonché capo del Dap, Franco Ionta, le associazioni A buon diritto, Antigone, Acli, Arci, Beati i costruttori di pace, Fp-Cgil, Forum Droghe, Giuristi democratici, Magistratura democratica, Ristretti Orizzonti e Unione delle camere penali si sono fatte promotrici di una “riforma sostanziale del Codice penale”. Per le associazioni, devono innanzitutto diminuire le fattispecie di reato. Intervenendo soprattutto su quelle norme altamente criminogene come la legge Fini-Giovanardi nelle cui maglie troppo spesso finiscono i tossicodipendenti e che poca differenza mette tra i piccoli spacciatori e i grandi narcotrafficanti. In sostanza, vanno “ridotte drasticamente le pene per lo spaccio di droghe leggere e riviste una serie di norme che ostacolano il percorso riabilitativo alternativo al carcere”. Particolare attenzione va messa poi sulle misure alternative che, spiegano operatori e giuristi, sono “l’unico strumento per evitare il rischio di recidiva” tanto stigmatizzata dalla ex- Cirielli, meglio nota come “legge salva-Previti”. Ma il primo punto da rivedere per combattere il sovraffollamento carcerario, spiegano le organizzazioni del cartello, è l’uso della custodia cautelare. In effetti, un monito a ridurre l’applicazione del provvedimento è arrivato perfino dal commissario dei Diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, che ha definito “inaccettabile” avere nelle prigioni del continente un 25% di detenuti ancora in attesa di giudizio. Hammarberg, bontà sua, ha evidentemente steso un velo pietoso sulle nostre celle dove addirittura il 43% dei reclusi attende anche solo il primo grado di giudizio. Il problema, come spiega il magistrato Cascini, sta nelle leggi. E infatti anche due recenti sentenze della nostra Corte costituzionale hanno dichiarato illegittime altrettante norme che obbligano i giudici a imporre la custodia cautelare in carcere. Giustizia: dal fatto alla persona… così il diritto penale è andato alla deriva di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 agosto 2011 Dal Consiglio d’Europa il monito del commissario Hammarberg contro l’abuso della custodia cautelare, che è uno dei nodi da affrontare per combattere l’illegalità del sistema penale. Giuseppe Cascini, segretario dell’Associazione nazionale magistrati e esponente di Magistratura democratica, dal Consiglio d’Europa arriva il monito del Commissario dei diritti umani, Thomas Hammarberg, a limitare l’uso della custodia cautelare. La percentuale di detenuti italiani sottoposti a questa misura è del 43%, molto al di sopra della pur preoccupante media europea del 25%. C’è da parte dei magistrati italiani un abuso di questo strumento? In primo luogo va tenuto presente che nel nostro sistema la custodia cautelare è tale fino all’ultimo grado di giudizio mentre in quasi tutti gli altri ordinamenti europei l’esecuzione della pena comincia con la condanna di primo grado. Comunque, da noi il numero di detenuti anche in attesa della prima sentenza è molto elevato e sicuramente maggiore che nel resto d’Europa. Sarebbe però semplicistico attribuire l’eccesso solo alle scelte dei magistrati. Deriva invece in primo luogo dalla legge stessa, che spinge il giudice verso un’applicazione rigorosa dei meccanismi cautelari. E, oggettivamente, è anche una conseguenza dell’inefficienza del sistema: più il processo è lungo più tende ad espandersi alla custodia cautelare. Come dire: l’inefficienza del sistema la paga l’imputato? Sarebbe inutile negarlo. Ma la sofferenza del sistema penale italiano sta nel paradosso che da un lato si ha un numero di detenuti superiore alla capienza e dall’altro c’è una crisi di inefficienza che comporta l’ineffettività della sanzione penale per moltissimi comportamenti, con circa 300 mila reati che ogni anno vanno in prescrizione. È un effetto immediato delle politiche criminali del nostro Paese su cui dovremmo riflettere, altrimenti si gira a vuoto. La politica deve preoccuparsi di affrontare le cause dell’eccesso di penalità. Cause che Md e altre organizzazioni hanno elencato in un documento da trasformare in autunno in una proposta di legge. Il presupposto da cui vi muovete è l’inefficacia del Piano carceri del governo, perché? Costruire nuove carceri in questo momento è assolutamente inutile. I carceri maggiori sono sovraffollati ma ne abbiamo moltissimi altri che non hanno raggiunto la capienza massima. La crisi del sistema penitenziario è più legata alla carenza di organico di polizia penitenziaria, di educatori, di psicologi, che alla mancanza di posti letto. Dobbiamo invece riflettere sulla composizione della popolazione carceraria per capire che si è passati da un diritto penale del fatto a un diritto penale della persona. Un terzo dei detenuti infatti è recluso per reati legati agli stupefacenti o si tratta di tossicodipendenti con reati contro il patrimonio commessi per esigenze di approvvigionamento, e quasi altrettanti sono gli stranieri accusati di reati minori contro il patrimonio. Andando a guardare le statistiche si vede che il trend ascensionale inarrestabile della popolazione detenuta inizia dal 1990, subito dopo la riforma Jervolino-Vassalli sugli stupefacenti dell’89 e la legge sull’immigrazione del ‘92. Questo trend venne rallentato nel ‘93 quando il referendum cancellò le quantità minime personali riportando una maggiore differenziazione tra consumatore e spacciatore? Sì, il referendum ha corretto le distorsioni maggiori, altrimenti oggi avremmo 100 mila detenuti anziché 60 mila. Ma l’impostazione repressiva confermata dalla Fini-Giovanardi, con minimo 6 anni di pena per questi reati, è rimasta. È difficile immaginare che una legislazione che dà come unica risposta al fenomeno stupefacenti la repressione penale non produca carcere. È lapalissiano. Il documento però individua nove punti fondamentali da affrontare per tornare ad un sistema penale legale. Quali sono gli altri nodi? Dalla fine degli anni 90 il legislatore ha compiuto una scelta demagogica sulle politiche securitarie, cominciando una rincorsa emergenziale che prevede il carcere come unica risposta di contrasto ai fenomeni di devianza marginale. Una serie di riforme di carattere processuale più che sostanziale hanno inciso in maniera determinante sul funzionamento dei meccanismi sanzionatori. Il paradosso è che alcune di queste leggi hanno allargato la forbice, come la Cirielli che da un lato accorcia i termini di prescrizione - e quindi è un regalo a tutti coloro che per la prima volta incappano nella legge, come ad esempio gli autori di corruzione, evasione fiscale, truffe comunitarie, ecc. - dall’altro invece dà un fortissimo giro di vite nei confronti di soggetti recidivi. E questo determina le famose porte girevoli. Sì, il carcere si alimenta sempre degli stessi soggetti. Su 60 mila detenuti poche migliaia sono per reati legati alla criminalità organizzata, qualche decina per terrorismo, pochissimi per il grande spaccio di stupefacenti... Praticamente non abbiamo invece detenuti per corruzione, per bancarotta o per evasione fiscale. Mentre la stragrande maggioranza sono reclusi per furto, rapina, ricettazione o piccolo spaccio. Una certa rilevanza ha perfino il numero di immigrati arrestati per la vendita di prodotti contraffatti che rientra in quelle condotte marginali tipiche dei migranti del tutto prive di una reale offensività nei confronti della collettività. Questo è il dato. E da dieci anni il legislatore ripropone - con la propaganda ma anche con le leggi - il carcere come unica risposta possibile. Lei è favorevole alle misure tampone dell’amnistia e dell’indulto? L’amnistia da sola non serve a niente perché non sarebbe applicata a quelle fattispecie di reato di cui abbiamo parlato che determinano il sovraffollamento. L’indulto invece aiuterebbe a svuotare le carceri, ma per poco tempo. L’amnistia però cancellando i reati anche di chi è libero aggraverebbe l’inefficienza del sistema penale. Però sfoltendo i processi pendenti aiuterebbe a ripartire da una condizione più “normale”, non crede? Sicuramente sarebbe utile a eliminare l’arretrato degli uffici giudiziari: la follia del 2006 fu di fare l’indulto senza amnistia, col risultato che ancora oggi celebriamo processi per reati coperti da indulto. Però se questi provvedimenti non vengono accompagnati da interventi di riforma del sistema, nel giro di un paio d’anni siamo d’accapo. Il neo ministro Nitto Palma dice che vanno aumentate le misure alternative. Cosa risponde? In realtà dal 2000 in poi c’è stata una stretta alle misure alternative che si sono ridotte a un terzo di prima per una scelta precisa del legislatore che ha inventato lo slogan della “certezza della pena”. Secondo alcuni avvocati di Forum Droghe, sui reati connessi alle sostanze c’è una maggiore rigidità a concedere misure alternative. È d’accordo? Intanto c’è da dire che questo tipo di imputati è perlopiù scarsamente assistito perché il sistema della difesa d’ufficio non funziona. E poi: ci rendiamo conto che il reato di spaccio di stupefacenti in questo Paese ha la stessa pena dell’omicidio? E che non c’è alcuna differenza tra le sostanze stupefacenti? Quindi il messaggio che viene dal legislatore è un messaggio di rigore elevatissimo. Parliamo poi di soggetti spesso recidivi, portatori dunque del marchio infamante che il legislatore ha deciso di creare. Si può avere una giurisprudenza critica, ma non ci si può stupide se il messaggio passa. Perché tutta la macchina penale - dalla polizia agli investigatori - si orienta su questi diktat. I Radicali propongono di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale. Lei è d’accordo? No. Sarebbe un errore perché in un paese come l’Italia dove la politica non brilla per imparzialità, attribuire a qualche organismo la scelta dei reati da perseguire rischierebbe di alterare il principio d’uguaglianza. Se davanti all’enorme massa di notizie di reato si crea una discrezionalità dell’azione penale, la soluzione non sta nel rendere questo difetto del sistema un meccanismo legale. Dobbiamo invece adeguare le risorse al numero di reati da perseguire e cambiare le politiche criminali. Come mai la chiusura degli Opg è una delle nove priorità individuate nel documento delle associazioni? Il problema degli Ospedali psichiatrici giudiziari è molto serio e ancora una volta dipende dalla legislazione. Il sistema penale applicato ai malati psichici è basato sul Codice Rocco, precedente alla riforma Basaglia, secondo il quale un malato psichico senza alcun accertamento di responsabilità se viene considerato pericoloso va rinchiuso. La reclusione come risposta alla malattia e non al crimine. E questa è una condizione di illegalità. Gli Opg sono un capitolo diverso della stessa storia: l’incapacità dello Stato di affrontare un fenomeno di disagio rispondendo con la rimozione dei corpi delle persone. L’approccio culturale è lo stesso: tossicodipendenti, immigrati clandestini, malati psichici, li tolgo dalla circolazione e tranquillizzo così le ansie securitarie. Il paradosso è che siamo tornati all’approccio securitario dopo una serie di riforme illuminate. Ritornando al modello culturale del codice Rocco, siamo passati dallo stato sociale allo stato penale. E, come dicevo prima, da un diritto penale del fatto a un diritto penale della persona. Giustizia: crescono i reati creati dalle tensioni sociali, è uno degli effetti della crisi di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 28 agosto 2011 Rabbia e insofferenza. Difficoltà a convivere. E in più ad alimentare le tensioni la crisi economica. Molti reati - con l’esclusione di omicidi e rapine - sono in aumento. Rosario Vitarelli, presidente dell’Osservatorio per la Sicurezza e la legalità della Regione Lazio, parla di “degenerazione sociale”. E avverte che c’è una “certa recrudescenza nelle manifestazioni di violenza e di aggressività”. I romani non sanno convivere. Rabbia e insofferenza hanno preso il sopravvento. E i recenti omicidi, come altri fatti di cronaca, ne sono una testimonianza diretta. Con il ricorso alle armi da fuoco sempre più frequente. Molti dei 28 delitti del 2011 sono collegati all’aumento di alcuni reati già nel 2010. Secondo un’indagine quinquennale dell’Osservatorio per la Sicurezza e la Legalità della Regione Lazio - presieduto da Rosario Vitarelli, già dirigente della polizia, all’Antimafia e all’Anticrimine in Questura - per l’anno scorso i dati Sdi (provenienti da tutte le forze dell’ordine), confermano nella Capitale e in provincia la diminuzione di omicidi volontari (21 contro i 40 del 2009) e di rapine (-5,9% rispetto al 2009 e -30,4% sul 2006), ma segnalano an- ‘s che l’aumento di altre fattispecie: tentati omicidi (+20,2%), lesioni dolose (+5,6%), percosse (+1,5%), minacce (+2,2%), ingiurie (solo in città: +2,9%), danneggiamenti (+8,4%). Un quadro che ha portato a un incremento di delitti rispetto al 2009 (+4,9%), anche se il calo di reati nel triennio precedente (-19,3% solo sul 2006) rimane consistente. C’è un collegamento con la crisi economica? “C’è una degenerazione sociale. La crisi ha un duplice effetto negativo - spiega Vitarelli: accresce le possibilità d’infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia locale - che si previene attaccando i patrimoni mafiosi, come confermato dagli ultimi risultati raggiunti con le recenti normative antimafia - e si riversa nei contesti metropolitani e familiari, alimentando tensioni che possono sfociare in episodi di violenza anche gravi. Ciò è confermato dall’aumento di reati specifici rispetto, ad esempio, al calo di rapine, conseguito grazie al capillare controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine”. C’è chi accosta gli omicidi a Roma con quelli di mafia. È sbagliato? “Mafia e criminalità comune rimangono due aspetti da tenere ben distinti sia sul piano della repressione sia su quello della prevenzione: non si può confondere i diversi fenomeni, come se l’uno derivasse dall’altro. L’analisi degli scenari degli ultimi episodi ci induce, come sottolineato dal prefetto Pecoraro e dagli organi di sicurezza, a escludere azioni di grandi organizzazioni criminali. Gran parte di questi delitti è collegata a scontri fra gruppi locali per lo spaccio di droga e altre attività illegali, a conflitti interpersonali e familiari, a moventi passionali. Le infiltrazioni mafiose ci sono ma i clan investono a Roma perché la considerano una piazza tranquilla. Può accadere, come per gli omicidi Frau e Salomone, che la Capitale venga scelta come luogo per delitti eccellenti. Ma è raro”. Roma sta scoprendo i lati peggiori di una metropoli mondiale? “Indubbiamente c’è una certa recrudescenza nelle manifestazioni di violenza e aggressività in ambito urbano, soprattutto in alcuni contesti periferici. Ma è improprio accostare questa realtà ai livelli di tensione sociale e di insicurezza propri di altre grandi metropoli europee. Basti pensare agli ultimi fatti accaduti a Londra. Roma è e rimane, nonostante tutto, una delle capitali più sicure d’Europa. E non ci sono certo elementi che possano legittimare analogie con la realtà criminale degli anni 70”. Che responsabilità hanno le istituzioni e la politica? “Le istituzioni devono saper fare squadra nella lotta alla criminalità, senza alcuna strumentalizzazione politica. Non ci possono essere inutili divisioni su questo fronte ma tutti dovrebbero far prevalere il senso di responsabilità e coesione istituzionale che sono il presupposto di ogni efficace intervento di sicurezza urbana. Dobbiamo preservare quel clima di collaborazione costruttiva che ha portato in piazza, il 19 luglio scorso al Pantheon - per ricordare l’uccisione del giudice Borsellino e pochi giorni dopo l’omicidio Simmi a Prati, tutti i rappresentanti delle istituzioni locali. Ma è bene ricordare anche le parole di don Lorenzo Milani: “A nulla serve avere le mani pulite se le si tiene in tasca”“. Purtroppo, come dimostrano gli 800 mila euro di finanziamento non usati dal Comune per il vigile di prossimità e quindi persi, anche quando i mezzi ci sono non vengono utilizzati... “I fondi stanziati per la sicurezza territoriale devono essere adeguatamente utilizzati a livello locale, se ciò non accade è un vero peccato. La Regione mette a disposizione dei comuni e dei municipi risorse da sfruttare pienamente per rendere vivi, vissuti, vitali, e sicuri, tutti gli ambienti urbani. Perché, e i dati lo confermano, la violenza prolifica proprio laddove mancano gli spazi di socialità, di aggregazione, di cultura”. Giustizia: Sinodo Valdese; nelle carceri italiane non garantiti i diritti umani Ansa, 28 agosto 2011 Nelle carceri italiane non sono garantiti i diritti umani: il monito, attraverso l’approvazione di un ordine del giorno, viene dal Sinodo delle chiese Valdesi e Metodiste in chiusura a Torre Pellice (Torino). Di fronte al sovraffollamento degli istituti penitenziari in Italia (67 mila detenuti a fronte di una capienza di 45 mila), il Sinodo ha ricordato come la mancanza di risorse non può giustificare condizioni detentive che violano i diritti umani. Inoltre ha segnalato il problema delle difficoltà di accesso, soprattutto per i detenuti stranieri, all’assistenza spirituale, concludendo: “per noi credenti in Cristo occorre uscire dal torpore e far risuonare dai tetti la parola di Gesù… fui prigioniero e veniste a trovarmi. Quando l’avrete fatto a uno di questi minimi, l’avrete fatto a me”. Lettere: la crisi economica oscura definitivamente il dramma delle carceri di Riccardo Polidoro* Ristretti Orizzonti, 28 agosto 2011 L’appello del Capo dello Stato, i numerosi digiuni di protesta e le visite di Ferragosto non sono bastati ad accendere i riflettori sull’illegalità che si consuma negli Istituti di Pena Italiani, ancora più accentuata nel periodo estivo. Eppure un serio discorso economico sul carcere può e deve essere affrontato. Nulla di concreto è programmato ed un’altra estate sta finendo, lasciando, come sempre, i detenuti e i loro familiari, soli a combattere contro ingiuste sofferenze. Non vi è dubbio che risolvere la terribile crisi economica che si sta abbattendo sul nostro Paese sia la priorità da affrontare, ma tra le misure che il Governo e il Parlamento si accingono ad adottare non ve n’è alcuna che riguarda l’esecuzione della pena. Si dirà: ma perché pensare al carcere se è necessario far quadrare i conti e sanare il bilancio dello Stato? Si dirà: se proprio l’argomento deve essere affrontato, l’unica possibilità sarebbe quella di tagliare i fondi destinati agli Istituti di Pena, come si è fatto sistematicamente negli ultimi anni! Duplice errore ! La gestione economica delle carceri è disastrosa e tagli non è possibile più farne, perché si è giunti al limite massimo, oltre il quale c’è il baratro. Proviamo allora a ragionare. Dal 2000 ad oggi le carceri sono costate 2miliardi e mezzo di Euro all’anno. L’80% di tale cifra è speso per il personale, circa 48.000 dipendenti. Il 13% è speso per i detenuti. il 4,4 % per la manutenzione delle strutture. Il 3,4% per la gestione (acqua, luce, gas, ecc.). Le ultime finanziarie hanno imposto tagli ogni anno, con una riduzione diseguale delle risorse: 5% sul personale, 31% sul resto. Con l’aumento delle presenze dei detenuti e la sistematica diminuzione del finanziamenti, si è giunti a prevedere, per ciascun detenuto, € 3,95 al giorno per i pasti e 11 cent, per le attività scolastiche, culturali e sportive. Ulteriori tagli sarebbero criminali (Dati elaborati da “Ristretti Orizzonti”). Inoltre va sottolineato che il costante sovraffollamento genera malessere non solo per i detenuti (che pur dovrebbero essere tutelati), ma tra lo stesso personale dell’Amministrazione Penitenziaria, con una ricaduta economica disastrosa. L’Osapp, uno dei Sindacati della Polizia Penitenziaria, in questi giorni ha diffuso dati spaventosi: nel 2011, per il clima incandescente che vi è negli Istituti di Pena, circa 8.000 agenti sono stati vittime di aggressioni, con il risultato di 5.600 giornate di lavoro perse, ma retribuite, più le spese di ricovero, esami clinici e cure a carico della sanità pubblica, per una spesa complessiva per l’erario di circa 1 milione di Euro. La Polizia Penitenziaria rappresenta solo il 13% del comparto sicurezza (carabinieri, polizia, ecc...), mentre in tale comparto coloro che ottengono periodi di convalescenza per infermità dipendenti da cause di servizio sono per il 40% appartenenti alla polizia penitenziaria. È necessario, allora, nell’affrontare la crisi economica, parlare anche di carcere. Tra riduzioni delle pensioni e aumento dell’iva, si discuta anche di questo. Si tengano presenti le proposte che l’Avvocatura e le Associazioni indicano da tempo, per diminuire la popolazione carceraria e non si continui a invocare il carcere per ogni evento drammatico riportato dai media, come recentemente è stato fatto dal Ministro dell’Interno e dal neo-Ministro della Giustizia, che hanno invocato il carcere con l’istituzione di un nuovo reato: l’omicidio stradale o a mare, fattispecie già previste dal Codice Penale. Un serio discorso economico anche sull’esecuzione della pena contribuirà a sanare il bilancio dello Stato e a restituire dignità non solo ai detenuti e al personale dell’Amministrazione Penitenziaria, ma allo stesso Paese. * Presidente “Il Carcere Possibile Onlus” - Camera Penale di Napoli Lazio: il Garante; nelle carceri della regione 2. 000 detenuti in più rispetto alla capienza Agi, 28 agosto 2011 Resta critica la situazione nelle 14 carceri della Regione Lazio. Secondo le stime del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al 20 agosto i detenuti presenti erano 6.539, oltre duemila in più rispetto alla capienza regolamentare. I dati sono stati diffusi dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. “Nonostante la mobilitazione di questi mesi - ha detto Marroni - e gli autorevoli interventi sul tema come quelli del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, del cardinale Carlo Maria Martini e del neo ministro alla Giustizia Francesco Nitto Palma, a livello politico manca ancora quella spinta che possa consentire di passare dalle parole ai fatti. È, infatti, evidente che ogni soluzione adottata si è rivelata inutile, e che occorre un intervento di sistema per risolvere l’emergenza carceri”. Rispetto all’agosto 2010, quando i detenuti erano 6.287 (5.853 uomini e 434 donne), il numero dei reclusi è aumentato di 252 unità. “I dati sono impressionati - ha aggiunto il Garante. Dall’inizio del 2011 i detenuti nel Lazio sono cresciuti di 162 unità, passando dai 6.377 di gennaio ai 6.539 attuali. Questo nonostante l’adozione di misure, come il Decreto svuota carceri, che avrebbero dovuto favorire il calo delle presenze. Nelle ultime settimane, nelle carceri della regione, abbiamo invece registrato situazioni paradossali: celle per 5 detenuti che ne contengono 11, locali destinati allo svago e alla ricreazione trasformati in celle, un solo agente di polizia penitenziaria che custodisce reparti con centinaia di persone. Una situazione drammatica di cui, davvero, non si riesce a vedere la fine”. I casi più problematici di sovraffollamento si registrano a Latina, dove i detenuti raggiungono il doppio della capienza regolamentare, a Viterbo e Frosinone con un esubero rispettivamente di 300 e 200 detenuti. Situazione preoccupante anche a Regina Coeli e Rebibbia dove si segnalano 500 detenuti in più. Solo nella sezione femminile cento donne oltre le 274 regolarmente previste. Ma il problema trascende il sovraffollamento e i tagli di budget, interessando anche la mancanza di personale di polizia penitenziaria. Nel nuovo carcere di Rieti, per la carenza di personale, sono stati attivati solo 120 posti sui 306 disponibili. A Velletri, sempre per lo stesso problema, resta chiuso il nuovo padiglione con oltre 200 nuovi posti. “Secondo le ultime cifre diffuse di recente dalle organizzazioni sindacali - ha concluso Marroni - solo nel Lazio mancherebbero 810 agenti di polizia penitenziaria, di cui 200 unità a Viterbo, 90 a Regina Coeli e 250 a Rebibbia N.C. Fra sovraffollamento, carenze di personale e mancanza di mezzi”. Sicilia: Osapp; la sanità penitenziaria ancora al palo, regione rimane ultima in Italia Il Velino, 28 agosto 2011 “Il 5 settembre prossimo la Sardegna si aggiunge alle Regioni che si sono fatte carico della sanità penitenziaria. È stato infatti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 20 agosto il provvedimento che mette fine alla sanità intramuraria penitenziaria”. A dirlo è Mimmo Nicotra, vice segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp. “La Sicilia ancora una volta si mantiene all’ultimo posto assieme alla Valle d’Aosta - commenta il sindacalista. In soli due mesi il provveditore Gianfranco De Gesu ha percorso la Sardegna, nonostante il caldo di questi giorni, in lungo e in largo per rendersi conto in che condizioni versano le carceri della regione. E il risultato non si è fatto attendere, con il passaggio della sanità penitenziaria alla Regione e la prossima apertura di altri 2 Istituti. La Sardegna inizia così - conclude Nicotra - la risalita verso condizioni migliori. Lo stesso non avviene in Sicilia”. Pisa: carcere invivibile, la Provincia lancia un appello al ministro Nitto Palma Ansa, 28 agosto 2011 “Situazione al limite al carcere Don Bosco di Pisa: 371 detenuti a fronte della capienza di 250; 147 agenti di custodia contro un organico previsto di 254”. È il contenuto di una lettera appello che la Provincia di Pisa invierà al ministro della giustizia Nitto Palma. In una nota, la Provincia ricorda che un analogo appello, rimasto inascoltato, venne inviato l’anno scorso all’allora ministro Angelino Alfano. Nei giorni scorsi, la struttura è stata visitata dal presidente della Provincia Andrea Pieroni, dal vicepresidente Alessandra Petreri e dal consigliere Massimiliano Casalini. “Purtroppo - dichiara Pieroni - il quadro si conferma molto grave e in continuo deterioramento, date le carenze di ogni tipo: da quelle per i beni di uso comune, come saponi e carta igienica, a quelle di personale, per non parlare di quelle strutturali. Scriverò al ministro Nitto Palma sollecitandolo a prendere atto di quanto accade a Pisa: una politica carceraria seria non può constare solo nell’annunciata campagna di costruzione di nuove sedi detentive, ma anche nella doverosa cura di quelle giù esistenti”. Oristano: il ministero ora accelera, entro l’anno l’apertura del nuovo carcere La Nuova Sardegna, 28 agosto 2011 Entro l’anno aprirà i battenti il nuovo carcere di Massama. Lo ha annunciato il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Gianfranco De Gesu. Il funzionario, accompagnato dal direttore della casa circondariale di Oristano, Pierluigi Farci, ha visitato la nuova struttura. Dopo anni di ritardi causati soprattutto dalla carenza di risorse, nei prossimi mesi dovrebbero iniziare le operazioni di trasferimento dei detenuti e del personale. La nuova struttura sorge a pochi centinaia di metri dalla frazione di Massama. La nuova struttura ha una storia lunga e tormentata. Ora sembra che questa storia sia arrivata all’epilogo e l’apertura del carcere rappresenta l’occasione per garantire una nuova e adeguata struttura al capoluogo e di restituire alla città l’antico palazzo dei Giudici d’Arborea. A mettere le ali al trasferimento pare sia stato il ministero, che vuole a tutti i costi avviare entro l’anno almeno una parte del progetto “piano carceri”, con l’immediata dismissione delle strutture fatiscenti che sono al collasso. L’ultimo dato, è del mese di giugno, ha messo in evidenza che nell’isola il sovraffollamento delle carceri ha superato quota 15 per cento. Nelle carceri sarde ci sono quasi 300 presenze in più, così come è insufficiente anche il personale. “La mia è stata una visita informale, ma ho potuto verificare lo stato dei lavori del nuovo carcere di Oristano - ha spiegato il provveditore regionale Gianfranco De Gesu. La struttura è praticamente ultimata, manca solo qualche piccolo dettaglio. Posso confermare che abbiamo già pronti gli arredamenti per le celle e per gli uffici. Mi rendo conto, per averlo già provato durante la mia precedente esperienza nazionale, che non è facile affrontare un trasferimento”. Trasferirsi nel nuovo carcere comporterà una serie di adempimenti. “Ci sono problemi di vario genere che certamente condizioneranno gli spostamenti dalla vecchia alla nuova sede - aggiunge il provveditore De Gesu - noi ci stiamo preparando comunque. Appena il Ministero delle infrastrutture ci cederà la struttura, saremmo pronti ad avviare il trasferimento”. Il provveditore non vuole aprire una polemica con il sindacato, che ancora oggi ritiene il personale insufficiente per garantire l’apertura del carcere di Massama. “Come ho detto dovremo affrontare gli imprevisti che non mancheranno in fasi come questa, ma credo che il personale sarà motivato a lavorare in una struttura nuova e altamente tecnologica. Quando si parla di strutture fatiscenti - ha concluso il provveditore Gianfranco De Gesu - va ricordato che queste sono inadeguate non solo per il detenuto, ma anche per il personale. In questi mesi che ci separano dal trasferimento riusciremo senz’altro a superare anche queste problematiche”. Attualmente nel carcere di piazza Manno sono rinchiusi 97 detenuti mentre il personale disponibile, oltre gli amministrativi è di quasi 100 unità. Nel nuovo carcere, quando sarà operativo al cento per cento, potranno essere ospitati quasi 400 detenuti. Quattro volte tanto, quindi. È chiaro che per garantire tutto questo sarà necessario adeguare il personale. Si sa da lungo tempo che i sindacati sono contrari ad aprire il nuovo carcere con l’organico attualmente in dotazione nella vecchia struttura di piazza Manno: “Ribadisco quanto detto anche di recente: è impensabile aprire la nuova struttura senza adeguare il personale - ha denunciato Roberto Picchedda, segretario regionale Uil penitenziari, anche a nome delle altre organizzazioni sindacali. Quella struttura non può essere gestita da soli 79 agenti. O non si vuole capire questo o si fa solo del fumo per nascondere la realtà delle cose”. Del problema si discute da tempo: “Abbiamo sollecitato più volte il ministero a fare chiarezza su questo problema. Così come abbiamo chiesto un incontro con il Provveditore per discutere proprio di queste problematiche. La Sardegna non può essere sempre succube delle decisioni cadute dall’alto - ha aggiunto Roberto Picchedda - per avere una idea di come siamo trattati basta ricordare che con un decreto sono state chiude tre scuole per agenti in Italia, compresa quella di Monastir. Proprio ieri, il Ministero ha revocato quell’atto ed ha deciso di tenere aperta quella di Verbania”. Livorno: il carcere della Gorgona costa troppo e il ministero vuole chiuderlo Il Tirreno, 28 agosto 2011 Mentre le carceri italiane scoppiano, alla Gorgona il penitenziario funzione bene, come ha scritto il regista Paolo Virzì sul Tirreno dopo una visita all’isola: i detenuti lavorano all’aperto, coltivano la terra e allevano animali. Eppure è già pronta la pratica di chiusura. Il carcere costa troppo. Ma basterebbe - suggerisce Virzì - vendere i prodotti agroalimentari prodotti sull’isola perché il carcere si mantenesse da solo, creando anche ricchezza. Cagliari: a Buoncammino anche una detenuta slava incinta di due gemelli Ansa, 28 agosto 2011 “Una giovane donna slava, al terzo mese di gravidanza, è reclusa nel carcere cagliaritano di Buoncammino. Si tratta di una ragazza che aspetta due gemelli ed è già madre di quattro bambini rimasti in un campo nomadi a Latina, dove anche lei ha la residenza. Le sue condizioni sono incompatibili con la carcerazione specialmente in un Istituto in cui il sovraffollamento, in questi giorni sono 530 i detenuti tra cui 26 donne, non può garantire uno stato di benessere adeguato al periodo di gestazione”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso la situazione di V.D. 28 anni, slava ma da molti anni in Italia. “Non è la prima volta - sottolinea Caligaris - che una donna incinta finisca a Buoncammino. Ultimamente però sempre più spesso donne incinte vengono recluse nelle strutture penitenziarie isolane trascurando la logica che suggerisce la loro permanenza in un ambiente sano per il nascituro e quindi meno opprimente per la gestante”. “È evidente - ricorda ancora la presidente di Sdr - che una donna in attesa di un bambino non può restare dentro una cella se non altro per avere garantite condizioni igieniche adeguate e la necessaria dieta alimentare. Non può essere ignorato il fatto che nello specifico si tratta di una gestazione di circa 14 settimane di due creature in crescita nella fase dello sviluppo più delicato per la vita. Una condizione critica per la madre”. “Sarebbe quindi opportuno un immediato provvedimento del Magistrato per consentire alla donna di attendere l’eventuale processo e/o pagare il suo debito con la giustizia in un ambiente più ospitale. La presenza della detenuta incinta del resto crea ansia e preoccupazione tra gli operatori penitenziari. È infatti evidente che in casi così delicati non basta la pur immancabile sensibilità dei Medici e delle Agenti di Polizia Penitenziaria e neppure quella delle compagne di cella e di sezione. Lo sforzo organizzativo e la solidarietà hanno permesso alla giovane di essere collocata nella cella “nido” a due letti, ma le condizioni di vivibilità che il carcere di Buoncammino è in grado di offrire - conclude Caligaris - non sono certo idonee alla situazione. Per questo è indispensabile il gesto umanitario di un Magistrato che consenta alla giovane donna di essere collocata in una struttura protetta dove possa anche riabbracciare i suoi bambini”. Bari: Osapp; agenti maschi nel reparto femminile, dignità negata per detenute e poliziotti Ansa, 28 agosto 2011 “Nei reparti detentivi della sezione femminile del carcere di Bari manca la polizia penitenziaria femminile e si utilizza inopportunamente quella maschili”: lo denuncia in un comunicato l’Osapp, sindacato di polizia, che ritiene l’impiego “scandaloso e fuori dal rispetto umano per la figura della donna reclusa, oltre che per l’integrità e l’immagine del Corpo di Polizia Penitenziaria”. “Siamo consapevoli - afferma il vicesegretario generale nazionale Osapp, Domenico Mastrulli - del gravissimo momento di criticità per la Regione Puglia, a quota 4.475 detenuti contro le 2.458 unità regolamentari per sovraffollamento detentivo, per gli spazi ridotti e obsoleti, per il sistema inefficiente a causa della riduzione di stanziamenti che le varie Finanziarie hanno portato nei diversi Dipartimenti dello Stato. Ma non possiamo certamente accettare ed ingoiare senza alcuna civile e democratica reazione che nei Reparti detentivi femminili, per carenza di Polizia dello stesso sesso, sia impiegato quello maschile, un reparto di uomini tra l’atro carente di oltre 100 unità”. L’Osapp annuncia una prima manifestazione il prossimo 5 settembre davanti al carcere di Foggia. Catanzaro: detenuta nigeriana condannata alla lapidazione, 500 firme per salvarla Agi, 28 agosto 2011 È stato raggiunto l’obiettivo prefissato delle 500 adesioni per la petizione promossa da una delle maggiori associazioni mondiali americane per i diritti umani (Care 2) che, a sostegno della campagna umanitaria iniziata, un mese fa, dal Movimento Diritti Civili ha lanciato una straordinaria petizione on line internazionale (Appeal to save Kate - Appello per salvare Kate) indirizzata al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, consultabile sul sito www.thepetitionsite.com. Lo rende noto il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, promotore della campagna a favore di Kate Omoregbe, la giovane nigeriana di 34 anni, detenuta nel carcere di Castrovillari (dove sta finendo di scontare una condanna a quattro anni e quattro mesi) che ha chiesto asilo politico per poter restare in Italia (dove si trova da dieci anni, con regolare permesso di soggiorno) e non essere espulsa per evitare, nel suo Paese (da dove è fuggita dieci anni fa per difendere la sua libertà e la sua fede cristiana), il patibolo per il suo rifiuto di sposare una persona molto più grande di lei, che non ama, e di non volersi convertire alla religione musulmana”. “In pochi giorni la petizione - afferma Corbelli - ha fatto registrare 500 adesioni da oltre 50 Nazioni di tutti i cinque Continenti. Adesioni oltre che dall’Italia dai Paesi più lontani dell’America, dell’Asia, dell’Australia, dell’Africa, dell’Europa: dal Brasile, dal Canada, dal Costarica, dal Bangladesh, dalla Malesia, dall’India, dal Sudafrica, dal Pakistan, dalla Russia, dal Messico, dalla Colombia, dall’Australia. Oltre naturalmente a tutti i maggiori Paesi europei e altre Nazioni di altri Continenti. Un successo di partecipazione straordinario. Intanto dopo la stampa calabrese (impegnata, come sempre, a sostenere le campagne umanitarie di Diritti Civili), l’Avvenire, il Tg3, Studio Aperto, anche l’Unità dedica oggi (venerdì) un’intera pagina al caso di Kate Omoregbe e alla battaglia del Movimento Diritti Civili”. Corbelli dopo aver ricevuto, nel mese di luglio, una lettera della ragazza, con una accorata richiesta di aiuto, ha subito promosso la campagna umanitaria per salvare Kate e la scorsa settimana si è recato nel carcere di Castrovillari ad incontrarla”. A sostegno della campagna umanitaria di Diritti Civili sono state già presentate due interrogazioni parlamentari bipartisan, ai ministri dell’Interno, Roberto Maroni, e della Giustizia, Francesco Nitto Palma, di tredici senatori. Caserta: poliziotto penitenziario arrestato con l’accusa di violenza sessuale su detenuto Ansa, 28 agosto 2011 Un assistente della polizia penitenziaria è stato arrestato oggi dai suoi stessi colleghi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Il poliziotto che prestava servizio nell’istituto è accusato di violenza sessuale: secondo quanto accertato dagli agenti, avrebbe avuto rapporti sessuali con un detenuto di origini asiatiche, che era addetto ad alcuni servizi lavorativi. L’inchiesta è partita alcuni mesi fa quando ai poliziotti del locale carcere, coordinati dal commissario Michele Fioretti, sono giunte alcune voci sulle insane abitudini del collega. Un’indagine discreta, poi l’informativa alla procura e la richiesta firmata dal gip e messa in esecuzione nella giornata di oggi. Reggio Calabria: a Palmi incendiata l’auto di un agente di Polizia penitenziaria Gazzetta del Sud, 28 agosto 2011 Due episodi criminosi nel breve volgere di una settimana. È la Polizia Penitenziaria ad essere finita nel mirino di ignoti che, nella giornata di ieri e nei giorni scorsi, sembrano aver indirizzato dei messaggi ben precisi. Come si apprende dalla breve nota diramata nella giornata di ieri, dal vice segretario generale dell’organizzazione sindacale della Polizia Penitenziaria (Osapp), Mimmo Nicotra, ignoti hanno incendiato l’autovettura di un assistente di Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale di Palmi. “Quest’ultimo episodio - scrive Nicotra - segue purtroppo il recente rinvenimento di tre proiettili destinati, via posta, ad altrettanti appartenenti al Corpo in servizio anch’essi nella provincia reggina”. “Sono sicuro che le autorità locali e nazionali - conclude la sua breve nota il vice segretario regionale - terranno alta la soglia di attenzione e porranno in essere ogni utile iniziativa per far luce su questi recenti episodi che hanno interessato la Polizia Penitenziaria”. Il primo episodio risalirebbe allo scorso 19 agosto, quando, secondo notizie non confermate direttamente dagli organi predisposti, presso l’ufficio postale di Palmi sarebbero stati rinvenuti alcuni proiettili destinati, pare, ad alcuni appartenenti in servizio presso il carcere di Reggio Calabria. In quella occasione, lo stesso Nicotra rivolse un accorato appello al neo ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma “al fine di giungere ad una svolta sostanziale nell’attuale sistema penitenziario. Il fallimento della politica penitenziaria, durante l’incarico del ministro Angelino Alfano, è sotto gli occhi di tutti e il Meridione è stato il più colpito dalle leggi di questa politica incompetente”. Una poca attenzione che si è tradotta in una difficile posizione per il Corpo. “A farne le spese - concludeva in quell’appello al guardasigilli Nicotra - , più di altri e ad essere lasciata sola nelle case circondariali, anche rispetto alle crescenti minacce provenienti dalla criminalità organizzata, è ancora una volta la Polizia penitenziaria, i cui strumenti e il cui ruolo devono, invece, essere rivalutati”. Bologna: all’Ipm del Pratello teatro estivo dimezzato dai tagli Dire, 28 agosto 2011 Parlare, attraverso il teatro, delle rivolte nel nord Africa con i ragazzi seguiti dai servizi della giustizia minorile al Pratello. Torna per la quarta edizione la rassegna “Riva sud mediterraneo”, realizzata dalle compagnie Teatro del Pratello, Teatrino clandestino, Tra un atto e l’altro, Medinsud e Lalage teatro, che quest’anno sarà ospitata nel cortile della comunità per minori del Pratello, a Bologna. Sotto la regia di Paolo Billi, dal 29 agosto al 3 settembre, saranno messi in scena sei racconti sulla vita in Egitto, Algeria e Marocco, attraverso gli occhi di scrittori come Nagib Mahfuz, Assia Djebar, Al Khamissi, Ala Al-Aswani, Elias Canetti e Paul Bowles. Ogni serata sarà introdotta dalle riflessioni dello scrittore Tahar Lamri e degli storici Gianni Sofri e Luca Alessandrini. Anche questa rassegna, che rientra nel cartellone Bologna estate e che è costata 12.500 euro, è stata dimezzata dai tagli. “Il progetto iniziale, articolato su due settimane tra il San Vitale e il Pratello, non è andato in porto - spiega Billi, questa mattina in conferenza stampa a Palazzo D’Accursio - per la contrazione incredibile dei fondi. Speriamo si possa fare l’anno prossimo”. Alla rassegna contribuiscono con 3.000 euro ciascuno il Comune, Legacoop e Unipol, a cui si sono aggiunti anche 14 osti ed esercenti del Pratello. Altri 2.500 euro sono rimasti scoperti e gli organizzatori contano di coprirli con gli incassi delle serate (cinque euro il biglietto). Sul palco saliranno cinque ragazzi che vivono nella comunità minorile, a cui si aggiungono un detenuto nel carcere del Pratello e due sempre seguiti dai servizi di giustizia minorile che arrivano da Imola e da Ravenna. “La qualità dei risultati prodotti vale il rischio di una fuga - afferma il direttore del Centro di giustizia minorile dell’Emilia-Romagna, Giuseppe Centomani - i nostri educatori devono avere quattro occhi invece che due, ma i risultati giustificano opgni difficoltà organizzativa e gestionale. Siamo disposti a pagare questo prezzo per fare teatro”. Insieme ai ragazzi seguiti dalla giustizia minorile ci saranno anche attori del calibro di Angela Malfitano, Francesca Mazza, Fiorenza Menni, Luciano Manzalini e Maurizio Cardillo. Nella comunità minorile di Bologna, spiega il direttore Lorenzo Roccaro, al momento vivono sette ragazzi. “In un anno transitano in comunità circa 90 minorenni - spiega Roccaro - in media restano uno o due mesi come custodia cautelare, in attesa di essere collocati in altre realtà per il reinserimento”. Viene trattenuto per più tempo, invece, chi inizia un percorso a Bologna. A questi 90 ragazzi si aggiungono i 130 accessi in media ogni anno al centro di prima accoglienza, dove i minorenni arrestati rimangono per un massimo di 96 ore in attesa dell’ordinanza del giudice. “La maggior parte dei ragazzi che gestiamo è di origine straniera - spiega Centomani - di loro e della loro cultura conosciamo molto poco”. Per questo, anche attraverso il teatro, “cerchiamo un’interazione per costruire un miglior reinserimento nella società. Cosenza: detenuti “armati” di pennello si cimentano con le arti visive Gazzetta del Sud, 28 agosto 2011 Si è concluso, con la cerimonia di premiazione dei vincitori, “Cariati in Arte”. Il concorso di pittura estemporanea, organizzato dall’associazione “Vivi il Centro Storico”, alla terza edizione, nella serata finale ha fatto registrare tantissimi visitatori, tra cui turisti ed emigranti, convenuti a piazza Friozzi per ammirare i quadri dei partecipanti, alcuni giovanissimi, ispirati al tema “Cariati, tra storia e scorci prospettici”. Un’iniziativa di successo, riproposta per il terzo anno consecutivo con lo scopo di promuovere il territorio e valorizzare gli scorci della cittadella medioevale e che, nel contempo, lancia un segnale di solidarietà verso chi è meno fortunato. Infatti, all’interno del concorso, è stata creata una sezione speciale riservata ai detenuti dell’istituto penitenziario di Rossano. Alcuni membri dell’associazione, Nicola Agazio e Genesio Ciccopiedi, ne spiegano la motivazione: “Abbiamo voluto far sposare l’arte con la solidarietà e l’inclusione sociale, rivolgendoci a quelle persone che hanno perduto la libertà e che, proprio attraverso la bellezza e la creatività dell’arte, la possono in un certo qual modo recuperare”. Anche quest’anno, “Vivi il Centro Storico” ha inteso devolvere il ricavato della vendita dei quadri dei detenuti all’Airc. Il sindaco Filippo Sero, soddisfatto per la manifestazione che si sta ponendo sempre più all’attenzione del territorio, ha rimarcato come questa si inserisca nella linea di apertura e dialogo con le altre istituzioni adottata dall’amministrazione comunale sin dal suo insediamento. Per quanto riguarda il concorso, per alcuni giorni le vie, le piazze e il corso principale del borgo antico hanno ospitato gli artisti in gara, impegnati a cogliere e tradurre in arte, angoli, prospetti, paesaggi e sfumature della caratteristica cittadella fortificata. Gli elaborati, dal termine della prova esecutiva fino alla conclusione della cerimonia di premiazione, sono restati a disposizione dell’organizzazione per l’allestimento dell’esposizione itinerante. Una giuria composta da una parte tecnica e una popolare ha assegnato, poi, i premi in denaro a Michele Tucci, primo classificato, consegnato da Franco Morelli, presidente della commissione bilancio della Regione Calabria; a Gabriele Fuoco, secondo classificato, donato dalla cittadina delegata allo spettacolo Assunta Trento, che ha sottolineato, nel contesto della premiazione, la volontà dell’amministrazione a proporre e dare continuità a eventi di qualità come questo, e a Isabella Tucci, terza classificata, premiata da Nicola Agazio. I detenuti partecipanti hanno fatto pervenire una lettera, letta nel corso della serata, in cui si rammaricavano di non aver potuto ammirare dal vivo le bellezze naturali di Cariati, affermando che, però, “dietro ogni tela c’è il pensiero, la passione, le emozioni e gli stati d’animo di ognuno”, sentimenti espressi nella creatività dell’arte; i detenuti di Rossano hanno ringraziato, nella stessa missiva, gli organizzatori per la singolare iniziativa che li ha fatti sentire protagonisti e, soprattutto, persone utili agli altri con la donazione in favore dell’Airc. In rappresentanza dell’istituto penitenziario ha ritirato i riconoscimenti, per la sezione speciale a loro dedicata, il vicario episcopale don Pasquale Madeo. Questi i nomi: il primo premio speciale a Salvatore Lotaro, il secondo a Giovanni Musone e il terzo a Gravina Ulca. Immigrazione: scontri nel Cie Ponte Galeria, agenti aggrediti con sassi e bottiglie Dire, 28 agosto 2011 “Sono stato informato che nel Cie di Ponte Galeria, a Roma, ieri sera verso le 23 una cinquantina di cittadini extracomunitari detenuti all’interno del Centro ha aggredito, con sassi e bottiglie di vetro, il personale in servizio di vigilanza per poi darsi alla fuga. A seguito degli scontri diversi militari e poliziotti sono dovuti ricorrere alle cure dei medici a causa dei traumi riportati”. Lo fa sapere Marco Comellini, segretario del Pdm, Partito per la tutela dei diritti di militari e forze di polizia. “Quanto accaduto - dice - è solo l’ennesima conseguenza del fare di un governo irresponsabile e disorganizzato che è sempre troppo impegnato a cercare di sopravvivere ai suoi stessi disastri per rendersi conto delle disumane condizioni di detenzione cui sono costretti nei Cie i cittadini extracomunitari. Condizioni che diventano sempre più spesso occasioni di inaudite violenze nei confronti dei poliziotti e dei militari in servizio”. “I ministri Maroni e La Russa devono aspettare che ci sia il morto per intervenire? Se non sono capaci di gestire la situazione lo dicano chiaramente. Ai militari e poliziotti feriti - conclude Comellini - vanno tutta la nostra solidarietà e gli auguri di pronta guarigione”. Libia: tre italiani detenuti per un mese, sono stati liberati dai ribelli Corriere della Sera, 28 agosto 2011 Un mese nelle carceri del Rais. Mentre fuori infuriava la guerra civile. È la disavventura di tre italiani arrestati e detenuti in condizioni durissime, e liberati solo tra domenica e lunedì scorsi, quando Tripoli è caduta in mano ai ribelli. Si tratta di Antonio Cataldo, 27 anni, di Chiusano di San Domenico in provincia di Avellino, Luca Boero, 42 anni, genovese (ascolta il suo racconto raccolto via telefono); Vittorio Carella, 42 anni, di Peschiera Borromeo in provincia di Milano. Farnesina e Viminale hanno smentito che si tratti di contractor (agenti di sicurezza privata, ingaggiati per affiancare e istruire le milizie ribelli), e non si conoscono ancora i motivi per cui sono entrati in Libia dalla Tunisia. Si sa però che non sono riusciti a raggiungere Tripoli perché lo scorso 23 luglio sono stati catturati dalle milizie lealiste che controllavano la zona di confine. Trenta giorni in un carcere nella capitale, probabilmente la prigione di Abu Salim, teatro di violenze ripetutamente denunciate da Amnesty International e del massacro di 1.200 prigionieri politici nel 1996, o nelle immediate vicinanze. Poi, lo scorso 21 agosto, la liberazione. Gli insorti durante la loro avanzata hanno man mano spalancato le porte delle carceri liberando tutti i detenuti anti-Gheddafi, e tra questi anche i tre italiani. Testimoni raccontano che erano “molto scossi” e che hanno riferito di aver subito “violenze” durante la detenzione. Indossavano stivali e borse militari. Una volta liberi comunque, i tre italiani sono stati presi in consegna dai ribelli, che li hanno accompagnati all’Hotel Corinthia di Tripoli, dove si trovano anche molti degli inviati italiani e internazionali che stanno raccontando la guerra. Sabato i tre - assieme ai quattro giornalisti italiani rapiti due giorni fa dai gheddafiani - torneranno in patria a bordo di una nave che salperà da Tripoli. Tra gli episodi di carceri “liberate” dai ribelli si ha notizia della prigione di Maya, a circa 25 chilometri a ovest della capitale. Nella prigione erano rinchiusi detenuti anti-Gheddafi. Molti erano particolarmente magri e alcuni avevano segni di torture. I prigionieri erano rinchiusi in 20 in celle di nove metri quadrati, in un’afa soffocante. Cina: proposta di legge per far “scomparire” i dissidenti, legalizzerebbe il “confino” Ansa, 28 agosto 2011 Il governo cinese sta progettando di cambiare il suo codice penale in modo da rendere legali le “scomparse” di dissidenti, un sistema di repressione largamente usato a partire dall’anno scorso. Gli emendamenti proposti alla legge che prevede l’istituto della “residenza sorvegliata”, una variante degli arresti domiciliari, permetterebbero alla polizia di detenere per sei mesi i sospetti in località di sua scelta senza l’obbligo di avvertire le loro famiglie. Di fatto questo è quello che è successo nei mesi scorsi a decine di attivisti per i diritti umani e di dissidenti, il più noto dei quali è l’artista Ai Weiwei, detenuto per tre mesi prima di essere rilasciato alla fine di giugno. Lo “scomparso” di più antica data è l’avvocato Gao Zhisheng, del quale si sono perse le tracce da oltre un anno. A partire da febbraio, quando le autorità hanno moltiplicato le misure repressive per timore di un contagio sulla popolazione cinese delle cosiddette “primavere arabe”, alcuni dei dissidenti più in vista, tra cui l’avvocato Teng Biao e lo scrittore Yu Jie, sono “scomparsi” per mesi, durante i quali sono stati interrogati e intimiditi. Nicholas Bequelin, ricercatore di Human Rights Watch esperto della Cina, afferma che gli emendamenti, se saranno tradotti in legge, indicherebbero una “preoccupante espansione dei poteri della polizia” e confermerebbero “l’evidente crescita del ruolo dell’apparato di sicurezza” cinese che, a suo avviso, si è verificato negli ultimi anni. Bequelin sottolinea che gli emendamenti sono in contraddizione con gli obblighi che la Cina ha assunto firmando la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici. Pechino ha sottoscritto la Convenzione nel 1998, ma l’Assemblea Nazionale del Popolo, equivalente di un Parlamento occidentale, non ha ancora ratificato l’adesione. Human Rights Watch, un gruppo umanitario basato a New York, ha sottolineato in un rapporto diffuso all’inizio dell’anno che Pechino non ha tenuto fede alle promesse contenute nel piano per il miglioramento dei diritti umani pubblicato nel 2009, nel quale si affermava la volontà di rafforzare la protezione di una serie di diritti civili e umani. “Se queste proposte diventeranno legge - sostiene Joshua Rosenzweig, attivista basato ad Hong Kong dell’organizzazione umanitaria Dui Hua (Dialogo) - sarà fondamentalmente una legittimazione delle sparizioni forzate, che abbiamo visto sempre più frequenti nell’ultimo anno”. Rosenzweig ricorda che il processo per far diventare legge le nuove proposte durerà alcuni mesi, e che “da oggi ad allora molte cose potrebbero cambiare”. Iran: dirigente partito opposizione condannato a 6 anni di carcere Adnkronos, 28 agosto 2011 È stato condannato a sei anni di reclusione Amir Khorram, uno dei dirigenti dello storico partito politico d’opposizione iraniano, Movimento per la libertà (Nehzate Azadi). Lo riferisce Radiofarda, spiegando che Khorram è stato riconosciuto colpevole dal Tribunale della Rivoluzione di Teheran per aver attentato alla sicurezza nazionale, partecipando a manifestazioni antigovernative e per aver rilasciato interviste ai media stranieri, danneggiando - si sostiene - l’immagine della Repubblica Islamica. Amir Khorram era stato arrestato nel dicembre 2009 a Teheran, in occasione delle manifestazioni antigovernative di Ashura, ed era poi stato rilasciato, dietro il pagamento di una cauzione, dopo aver trascorso 50 giorni di reclusione nel carcere di Evin. Stando al sito, Khorram tra pochi giorni dovrebbe rientrare in carcere per scontare la pena. Il Movimento per la libertà è stato fondato nel 1961 e ha svolto un ruolo molto importante durante la rivoluzione iraniana del 1979. Attualmente il partito non è riconosciuto dalla Repubblica Islamica e svolge, in modo clandestino, attività politiche. Il Movimento per la libertà negli ultimi anni si è schierato con il fronte riformista iraniano. Iran: saranno liberati cento detenuti politici, alcuni coinvolti nelle proteste di piazza Adnkronos, 28 agosto 2011 Il leader supremo iraniano, l’ayatollah Alì Khamenei, ha ordinato la liberazione di cento detenuti politici, compresi alcuni coinvolti nelle dure proteste seguite, nel 2009, alla contestata rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad. La decisione è stata riferita stasera dall’agenzia di stampa semi-ufficiale Mehr e coincide con gli ultimi giorni del Ramadan islamico, mese tradizionalmente dedicato al perdono. La Mehr ha scritto che “con l’assenso del leader supremo, 100 prigionieri condannati per crimini contro la sicurezza hanno avuto garanzia di essere amnistiati. Alcuni di loro sono stati implicati nella rivolta post-elettorale due anni fa”.