Giustizia: Radicali; carceri come la pena di morte, costringeremo il Parlamento ad agire di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 agosto 2011 Inarrestabile, come ogni estate Rita Bernardini, deputata Radicale eletta nelle liste del Pd, gira senza sosta e senza preavviso per le carceri italiane. In questi giorni sta visitando gli istituti della Basilicata ma è ad Aieta, in quel di Cosenza, quando i suoi colleghi di partito Donatella Poretti e Marco Perduca l’avvertono che il traguardo delle 105 firme da raccogliere al Senato per convocare una seduta straordinaria di entrambi i rami del Parlamento, come prevede l’articolo 62 della Costituzione, è stato raggiunto. Anzi, superato, arrivando a quota 128. Dunque si farà, per discutere di amnistia, indulto, depenalizzazione e decarcerizzazione. E sarà la quarta convocazione straordinaria nella storia d’Italia. Un altro gol messo a segno dal partito più cocciuto d’Italia, incoraggiato dalle parole non certo rituali che il presidente Giorgio Napolitano ha usato lo scorso 28 luglio per definire lo stato della giustizia penale italiana: “Una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile” a cui la politica deve trovare soluzioni “non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”. Tra i senatori straordinariamente al lavoro a causa della manovra economica, i Radicali hanno raccolto le firme di oltre un terzo dei componenti, anche grazie all’atteggiamento “morbido” del capogruppo Pdl Gaetano Quagliariello. Onorevole Rita Bernardini, come prevede che andrà alla Camera? A Montecitorio abbiamo già raccolto una sessantina di firme ma c’è un problema di reperibilità dei deputati, in questi giorni ancora in ferie. Però non è strettamente necessario, perché in base all’articolo 62 della Costituzione “quando si riunisce in via straordinaria una Camera, è convocata di diritto anche l’altra”. Cosa chiedete al Parlamento? All’ordine del giorno della seduta straordinaria c’è la discussione di un documento nel quale vengono fissati i modi e i tempi certi per l’esame di amnistia, indulto, depenalizzazione e decarcerizzazione. Ma non era già successo nel gennaio 2010, quando una serie di mozioni Radicali orientate a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario furono approvate alla Camera? Delle 20 proposte che allora portammo a Montecitorio, e che vennero calendarizzate solo perché cominciammo uno sciopero della fame, ne vennero approvate con il parere favorevole del governo solo 12, quelle che prevedevano la depenalizzazione e la decarcerizzazione. Ma non hanno sortito alcun effetto. Motivo per cui ricominciai lo sciopero della fame e al 25esimo giorno l’allora ministro Alfano mi mandò il suo ddl con il provvedimento “svuota carceri” che mi sembrava abbastanza soddisfacente ma che purtroppo nel suo iter parlamentare venne via via spolpato dei suoi contenuti, peggiorato, per volontà di Idv, Lega ma anche di parte del Pd. Venne stralciata la “messa alla prova”, e i domiciliari nell’ultimo anno di pena vennero di nuovo vincolati al parere del magistrato di sorveglianza. Così, invece di 10-11 mila persone, alla fine la legge 199 approvata nel dicembre 2010, la cosiddetta “svuota carceri”, liberò solo 3 mila detenuti. Però fu grazie alle nostre iniziative se ci arrivammo. Il neo ministro Nitto Palma a Ferragosto ha stroncato l’ipotesi di amnistia e indulto ammettendo solo la possibilità di ampliare il plafond della legge 199 e di estendere le misure alternative. Pensate davvero di convincerlo? Sì, almeno ci proviamo. Di depenalizzazione e decarcerizzazione se ne parla da una vita ma nessuno si è mai mosso. Anzi, hanno aumentato le fattispecie di reato. Ora debbono trovare innanzitutto il modo di spegnere l’incendio di illegalità delle carceri italiane. Per noi l’amnistia è l’unico modo, ma non abbiamo preconcetti davanti ad altre soluzioni, se le hanno. E se sono in grado di approvarle domani. Peccato che per fare una legge semplicissima come lo “svuota carceri” il Parlamento ci ha messo 10 mesi. Con l’amnistia non si risolve solo il problema del sovraffollamento ma si va ad incidere su quei 4 milioni di processi penali pendenti dei quali ogni anno quasi 200 mila cadono in prescrizione. Si tratta di un’amnistia di cui nessuno però si assume la responsabilità. Dall’aborto al divorzio, conosciamo le battaglie improbabili vinte dai Radicali, ma ci sono in questo Parlamento orecchie pronte ad ascoltare? Le cerchiamo. Noi non vogliamo vincere, vogliamo convincere. Ed è una battaglia, quella delle carceri, che riteniamo transnazionale, come con la pena di morte. L’importante è che si aprano spazi di confronto perché le opinioni si formano solo così, nel contraddittorio. Certo, se ci fossero un può di telecamere a riprendere la scena, sarebbe più facile costringerli ad agire, invece di piangere e basta. Giustizia: Vietti (Anm); contro sovraffollamento si ricorra molto di più a pene alternative Adnkronos, 25 agosto 2011 “Si ricorra in modo più massiccio a misure alternative alla detenzione”. È l’esigenza sottolineata dal vicepresidente del Csm Michele Vietti, intervenuto al Meeting di Rimini sul tema della giustizia e delle carceri. “Bisogna trovare misure strutturali e non che durino lo spazio di un mattino, come purtroppo talora è successo”. Per Vietti bisogna anzitutto “ripensare alle misure alternative alla detenzione e rimodularne i presupposti, non scaricandone la responsabilità solo sui magistrati di sorveglianza ma fornendo delle precise linee guida”. ietti si proclama “favorevole a che il Parlamento affronti in una sezione ad hoc il tema carceri, che è quanto mai urgente e drammatico. Lo stesso Presidente della Repubblica Napolitano ha chiesto di riflettere su ogni strumento che possa essere ritenuto opportuno e ciò consente una riflessione sul tema a 360 gradi”. Il vicepresidente del Csm resta convinto che “il problema delle carceri non si risolve con interventi occasionali: ci vogliono interventi strutturali, tra cui credo vada posto anzitutto il tema del ricorso a misure alternative alla detenzione, con una necessaria rilettura della loro natura e dei loro presupposti, che dia ai magistrati tranquillità nella loro applicazione, consentendo di immaginare che il carcere non sia l’unico rimedio per punire i colpevoli di reati”. Moratoria su introduzione nuovi reati “Una moratoria generale sulla introduzione di nuovi reati”. È quanto propone il vicepresidente del Csm Michele Vietti che, intervenendo al Meeting di Rimini, osserva: “abbiamo un sistema sanzionatorio penale molto farraginoso e pesante, che finisce per intasare completamente il sistema processuale”. Per Vietti, quindi, “continuare a moltiplicare i reati come ad esempio ora per quanto riguarda il cosiddetto omicidio stradale, vuol dire diminuire le possibilità di arrivare a effettive condanne dei colpevoli. Non introduciamo più nuovi reati per un arco di tempo -propone il vicepresidente del Csm- ne abbiamo già a iosa”. tal proposito, Vietti afferma: “ho sentito con piacere il ministro della Giustizia Palma parlare di depenalizzazione: mi auguro che finalmente si proceda su questa strada, visto che finora si è marciato in direzione opposta con l’introduzione continua di nuove specie di reato, basti pensare al reato di immigrazione clandestina e ora a quello di omicidio stradale”. Per il vicepresidente del Csm occorre “uscire da questo circuito perverso, per cui ogni problema si risolve introducendo un nuovo reato, per di più in un sistema ad azione penale obbligatoria, facendo così scattare più procedimenti penali e intasando un meccanismo che, ovviamente, non è a portata illimitata: più processi allora muoiono e più colpevoli restano impuniti, magari anche a causa dell’accorciamento dei termini della prescrizione. Non è questo -conclude Vietti- un buon servizio reso al Paese”. Reato di clandestinità inutile e dannoso Il vice presidente del Csm favorevole alla depenalizzazione dei reati minori e ribadisce “introdurre il reato di immigrazione clandestina non è servito ad accelerare le espulsioni” Roma - 25 agosto 2011- “Una moratoria generale sulla introduzione di nuovi reati e depenalizzare quelli minori”. È quanto propone il vicepresidente del Csm, Michele Vietti che, intervenendo al Meeting di Rimini, osserva: “Abbiamo un sistema sanzionatorio penale molto farraginoso e pesante, che finisce per intasare completamente il sistema processuale”. Per Vietti, la soluzione migliore sarebbe quella di non introdurre nuovi reati per un arco di tempo limitato. “Ho sentito che il ministro Palma parla della depenalizzazione dei reati minori. Mi auguro che si vada in questa direzione, che nel recente passato si è fatto sempre il contrario”, prosegue il vice presidente del Csm, che a tal proposito cita il caso del reato dell’ immigrazione clandestina. “Spesso - rileva Vietti - si pensa che i problemi si risolvono introducendo un nuovo reato. Ma, in un sistema ad azione penale obbligatoria come il nostro, più reati si introducono, più scattano i procedimenti e più il meccanismo si intasa.” Per altro, il vice presidente della Consiglio Superiore della Magistratura, considera che l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina “non è servito, come era nelle intenzioni, a favorire la celerità delle espulsioni. Immettere l’immigrato nel sistema giudiziario finisce solo con il rallentare i tempi di giudizio in merito”. Vietti si è poi detto “favorevole a che il Parlamento affronti in una sezione ‘ad hoc’ il tema carceri, che è quanto mai urgente e drammatico”. Quello delle carceri resta infatti una nota dolente anche nella questione immigrazione. Negli istituti penitenziari soggiornano attualmente circa 25mila stranieri che rappresentano il 30% della popolazione carceraria. Il vicepresidente del Csm resta convinto che “il problema delle carceri non si risolve con interventi occasionali: ci vogliono interventi strutturali, tra cui credo vada posto anzitutto il tema del ricorso a misure alternative alla detenzione”. Giustizia: Ugl; serve segnale forte su miglioramento condizioni vita e lavoro nelle carceri Adnkronos, 25 agosto 2011 “Le parole del vicepresidente del Csm rafforzano ciò che l’Ugl chiede da tempo: una riforma strutturale della giustizia e la definizione di misure alternative alla detenzione”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, commentando l’intervento di Vietti al Meeting di Cl ed evidenziando come “nonostante il sistema sia prossimo ad un blocco totale, ad oggi non è stata ancora messa in agenda una discussione seria sulle criticità e sui problemi degli istituti di pena, di cui risentono, in primo luogo, gli agenti della polizia penitenziaria”. “Chiediamo che dal guardasigilli e dalle autorità preposte arrivi presto un segnale forte sulla ripresa dei lavori per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro all’interno delle carceri e ci auguriamo che gli appelli del Capo dello Stato e di altri numerosi rappresentanti istituzionali, nonché dell’Ugl - conclude - vengano accolti per una seria risoluzione dei disagi che attanagliano il sistema”. Giustizia: Osapp; necessario prevenire più che reprimere ripetuti atti violenza in carcere Ansa, 25 agosto 2011 Secondo l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria): “c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo di gestire, nelle attuali carceri, i detenuti violenti sugli altri e su loro stessi, altrimenti non si spiegherebbe perché siano quasi sempre gli stessi quelli che aggrediscono i poliziotti penitenziari, gli altri detenuti e che si auto-lesionano”. È questo il commento con cui il sindacato degli appartenenti alla polizia penitenziaria, per voce del segretario generale Leo Beneduci, esprime le proprie perplessità sulla duplice aggressione a due diversi poliziotti penitenziari, da parte dello stesso detenuto, il 19 e il 22 agosto scorsi, presso il nuovo complesso di Roma-Rebibbia. “Il 22 agosto, addirittura, l’aggressione è avvenuta durante il consiglio di disciplina interno convocato a seguito della precedente aggressione del 19 - prosegue il sindacalista - il detenuto ha colpito l’ispettore di polizia penitenziaria presente facendogli sbattere la testa contro lo spigolo di un armadio. Ma quello che ci mette ‘sull’avvisò è che lo stesso detenuto, trasferito da Napoli-Poggioreale, avesse al proprio attivo altre aggressioni, nonostante le quali non si è ritenuta necessaria alcuna precauzione a tutela del personale.”. “Dati gli scarsi risultati sino ad oggi ottenuti, non invochiamo né riteniamo particolarmente opportune, a parte le responsabilità penali e disciplinari da perseguirsi celermente e secondo norma, - indica ancora il sindacato - per situazioni quali quella indicata come per le restanti aggressioni sul territorio (oltre 800 dall’inizio dell’anno) modalità di detenzione e di custodia maggiormente repressive ma solo forme di adeguata prevenzione.”. “Invece che sottoporre i detenuti più violenti, ad ogni evento, a veri e propri tour da un istituto penitenziario all’altro, con il risultato di aggiungere aggressioni ad aggressioni, si dovrebbero istituire apposite strutture o sezioni detentive con personale sia di polizia penitenziaria e sia dei profili pedagogico e sanitario-psicologico, professionalmente in grado di comprendere e di intervenire, riguardo a comportamenti spesso determinati da un profondo disadattamento sociale o che possono riguardare condizioni personali o familiari di particolare disagio”. “Se la pena da scontarsi, deve servire, come prevede la nostra Costituzione alla rieducazione dei detenuti - conclude Beneduci - è il carcere che deve adeguarsi ed affinare i propri strumenti rispetto ai ristretti e non viceversa, sennò, come purtroppo accade ogni giorno di più, è solo la polizia penitenziaria a pagarne le conseguenze”. Giustizia: i dieci anni del “braccialetto” più caro e più inutile d’Italia di Maurizio Tortorella Panorama, 25 agosto 2011 Varato nel 2001, in via sperimentale, per sorvegliare chi è agli arresti domiciliari, è costato 110 milioni di euro, ma ne è stata usata solamente una decina di esemplari. Eppure, potrebbe contribuire a risolvere l’emergenza carceri. Potrebbe essere di platino e tempestato di diamanti grossi come il Koh-i-Noor, per quanto costa. Invece è fatto di pochi fili elettrici e di qualche sensore, annegati in 45 grammi di plastica anallergica. Ecco a voi il monile più caro e più inutile nella storia della giustizia italiana: il braccialetto elettronico per il controllo a distanza dei detenuti. Lanciato in pompa magna il 5 aprile 2001 da Enzo Bianco, ministro dell’Interno del governo di Giuliano Amato, da allora il più tecnologico degli strumenti carcerari è stato fatto indossare in tutto a una decina di persone agli arresti domiciliari. Per una spesa folle, che il prossimo 31 dicembre arriverà a circa 110 milioni di euro: quasi 11 milioni per ognuno dei braccialetti usati. È istruttivo ripercorrere la storia ormai decennale di questo spreco assurdo, proprio nel momento in cui le prigioni esplodono, con 67 mila detenuti stipati in celle che potrebbero contenerne 44 mila, e mentre il governo ha difficoltà a pagare gli straordinari ai 38.750 agenti di custodia. E lo scandalo è doppio: perché i braccialetti elettronici da noi si sono rivelati esclusivamente un costo inutile, visto che al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dichiarano che “quasi sicuramente oggi non ne funziona più nemmeno uno”. Però in molti paesi vengono utilizzati per decine e decine di migliaia di reclusi (riquadro a destra), alleggerendo i penitenziari e liberando cospicue risorse economiche. Va detto che la sperimentazione andò male fin dall’inizio. Nel 2001 il governo Amato aveva stipulato contratti con cinque aziende fornitrici e Bianco aveva annunciato che 400 apparecchi sarebbero stati messi a disposizione di giudici e polizia in cinque città: Milano, Roma, Napoli, Torino e Catania. In realtà quelli utilizzati furono pochissimi. Probabilmente vennero anche scelti male i soggetti cui applicarli. Il 21 aprile 2001 il braccialetto numero 1 fu stretto alla caviglia destra di Cesar Augusto Albirena Tena, un peruviano condannato in primo grado a 5 anni e 8 mesi per traffico di droga. Per 60 mila lire al giorno la ditta garantiva che, se si fosse allontanato di 10 metri dalla centralina, collegata al telefono della sua minuscola abitazione milanese, sarebbe scattato un allarme nella centrale operativa e in questura; altrettanto sarebbe accaduto se avesse tentato di manomettere l’apparecchio. La sirena partì alle 11.04 del 26 giugno: Cesar Augusto aveva tagliato la plastica e la corda. Altrettanto accadde il 25 luglio 2002, sempre a Milano: a “evadere” fu un ergastolano messinese il killer Antonino De Luca, ricoverato all’ospedale Sacco di Milano. Alla fine dell’anno Mario Marino, che a Catania aveva scelto il braccialetto per scontare a casa una pena per rapina, se lo sfilò esasperato: “Suonava ogni 5 minuti, anche di notte” spiegò. “Alla fine ho rotto tutto. Sapevo che così sarei tornato in carcere: ma lì, almeno, avrei potuto dormire”. Quei primi insuccessi, era ovvio, dovevano essere messi in conto. Invece accesero polemiche strumentali, anche perché fu chiaro da subito che la sperimentazione, disorganizzatissima, non era mai decollata davvero. I giudici non chiedevano i braccialetti, per i quali occorreva comunque l’assenso del recluso, e nei rari casi in cui accadeva le questure non sapevano trovarli in tempi rapidi. Il nuovo governo decise quindi di rivedere tutto e il 6 novembre 2003 (ministro dell’Interno era Giuseppe Pisanu) venne firmato un contratto unico, stavolta con la Telecom, che comprendeva noleggio degli apparecchi, installazione dei braccialetti e assistenza al controllo. L’intesa prevedeva un costo di 10 milioni 369 mila euro per il 2003, più un canone annuo di 10,9 milioni dal 2004 al 2011. In totale poco più di 97,5 milioni, che andavano a sommarsi ai soldi già spesi nei primi due anni della sperimentazione che il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (il Sap-pe) oggi calcola in altri 10 milioni. Che cosa il nuovo accordo prevedesse dal punto di vista operativo lo ha raccontato nei dettagli Gianfilippo D’Agostino, direttore del public sector dell’azienda, ascoltato l’11 maggio 2010 dalla commissione Giustizia della Camera: “Il Viminale ci chiese di riorganizzare la sperimentazione, sempre con 400 braccialetti, ma allargandola a tutto il territorio nazionale. E la Telecom dispose un servizio attivo 24 ore al giorno, con una grande centrale di controllo installata a Oriolo Romano, ben protetta e collegata :on tutte le questure d’Italia. L’allarme avrebbe suonato al più tardi dopo 90 secondi dalla fuga o dalla manomissione degli apparecchi. E dal 2003 a oggi non abbiamo rilevato alcun problema operativo”. Il vero problema è che, in quella medesima audizione, incalzato dalle domande della deputata radicale Rita Bernardini, il manager della Telecom ammise che in quel momento le unità attivate erano appena 6 su 400. Interrogata da Panorama, l’azienda delle telecomunicazioni conferma che non importa il numero dei braccialetti funzionanti: la centrale di Oriolo è attiva e il servizio viene comunque garantito. Così, fino al prossimo 31 dicembre, lo Stato ha continuato e continuerà a pagare quasi 11 milioni d’euro l’anno, per nulla. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, dice: “Visto lo scarso utilizzo del braccialetto ho parlato con la Telecom per vedere cosa si poteva fare, ma l’azienda ha dato attuazione all’accordo regolarmente”. Aggiunge il ministro: “Lo scarso utilizzo del braccialetto comunque non dipende da noi. È la magistratura che ne dispone l’utilizzo. Al Viminale dobbiamo controllare che chi è agli arresti domiciliari non scappi; ma è solo un giudice che decide se utilizzare o meno tali strumenti: può farlo, ma non lo fa”. Maroni ha ragione Vari magistrati, sentiti da Panorama, dimostrano addirittura di non sapere che la sperimentazione sui braccialetti è ancora in corso. Uno dei pochi che risponde a tono è Enrico Tranfa, presidente del tribunale del riesame a Milano: “A me” dice “non è mai capitato un avvocato che ne richiedesse l’uso. Il sistema però mi pare macchinoso. E comunque o un imputato è affidabile e allora ottiene gli arresti domiciliari, oppure non lo è. Forse si potrebbe rendere obbligatorio il controllo elettronico come una terza via più restrittiva”. Anche Donato Capece, segretario del Sappe contesta le procedure, troppo complesse ma soprattutto che la gestione degli apparecchi sia stata affidata alle questure: “Doveva essere la Polizia penitenziaria a occuparsene” sostiene. “Noi siamo sul campo e conosciamo i diretti interessati”. Certo, con 110 milioni si sarebbe potuto costruire un carcere modello come quello di Trento, varato nel 2010 e costato per l’appunto 112 milioni. “Peccato” dice Capece “che oggi ospiti 100 detenuti sui 350 previsti. Del resto, anche progettare nuove prigioni senza agenti di custodia non ha molto senso”. Ne ha ancora meno costruirne senza completare la strada d’accesso: è accaduto ad Arghillà, alle porte di Reggio Calabria (300 posti). È stato completato nel 2004, da allora mancano 100 metri di asfalto di collegamento con l’autostrada. E costerebbero sicuramente meno di un braccialetto. Dove funziona (bene) Negli Stati Uniti è in uso da oltre un decennio. Può essere applicato a chi sta agli arresti domiciliari o in attesa di giudizio e dimostri di non essere pericoloso. Lo hanno imposto al boxeur Mike Tyson e all’ereditiera Paris Hilton. Nel maggio scorso l’ex direttore del Fmi Dominique Strauss-Kahn, accusato di violenza sessuale, è uscito di prigione pagando la cauzione e proprio accettando il braccialetto. In Gran Bretagna dal gennaio 1999 ne fruiscono per gli ultimi due mesi di detenzione i detenuti con condanne inferiori ai 4 anni. Sono circa 15 mila. In Germania dal maggio 2000 li usano i detenuti in libertà condizionata. In Francia dal novembre 2009 il braccialetto è applicabile a chi debba scontare gli ultimi 4 mesi di una pena inferiore ai 5 anni. Nei Paesi Bassi dal 1995 il sistema è applicato ai detenuti con pene inferiori ai 6 mesi e vicini alla scarcerazione. In Svezia è in vigore dal 1994. Per ora è limitato ai detenuti con pene inferiori ai 2 mesi, ma ora il parlamento studia un progetto per ampliare i termini. Giustizia: caso Franceschi; madre a Parigi per nuova protesta, oggi anniversario morte Adnkronos, 25 agosto 2011 Ricorre oggi il primo anniversario della morte di Daniele Franceschi, il 36enne di Viareggio (Lucca) morto in circostanze mai chiarite nel carcere di Grasse, nel sud della Francia, dove era detenuto con l’accusa di falsificazione e uso improprio di carte di credito in un casinò della Costa Azzurra. La madre, Cira Antignano, accompagnata dall’avvocato Aldo Lasagna, è tornata a Parigi, dove dice di essere pronta a incatenarsi davanti all’Eliseo per mantenere alta l’attenzione sulla vicenda. La signora Antignano cerca, da un anno, di riavere indietro dalle autorità transalpine gli organi del figlio, tuttora in Francia, dove sono stati espiantati per l’autopsia. Dalle lettere del figlio emergerebbero maltrattamenti subiti nella struttura penitenziaria di Grasse, confermati anche da alcune testimonianze raccolte in carcere. Dall’autopsia eseguita in Francia, Daniele sarebbe morto per cause naturali. Ma la signora Antignano, quando poté vedere la prima volta il figlio, in quell’occasione, per l’autopsia a Nizza, lo trovò con il volto tumefatto e il naso fratturato. Elementi confermati dall’esame autoptico svolto in Italia. Il problema, tuttavia, è quello delle probabili lesioni interne, che i medici e le autorità del carcere francese avrebbero sottovalutato, fino alla morte di Daniele. L’impossibilità di svolgere un’ulteriore autopsia e la rimozione degli organi interni dal cadavere, il suo stato di elevata decomposizione, non hanno permesso di chiarire i dubbi. “Io - afferma Cira Antignano - voglio giustizia, anche se so solo che non potrò mai darmi pace”. Giustizia: spunta un decreto legge per l’omicidio stradale di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2011 Non sembra solo una boutade estiva: il reato di omicidio stradale potrebbe essere istituito presto, anche con un decreto legge. Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che ne aveva parlato nella conferenza stampa di Ferragosto, sembra determinato ad andare avanti. Nel frattempo, ieri la Cassazione ha depositato due sentenze che vanno nella direzione di responsabilizzare chi commette mancanze che nuocciono alla sicurezza stradale. Sul fronte della nuova fattispecie di omicidio la possibilità di un intervento per decreto è filtrata ieri come indiscrezione. Di certo c’è che Maroni sta procedendo a ritmo serrato e di concerto con il suo collega della Giustizia, Francesco Nitto Palma. Sono stati ascoltati esperti ministeriali e la Fondazione Aida, tra i soggetti che da più lungo tempo chiedono l’istituzione del reato. Ci sono da individuare bene le violazioni che farebbero scattare l’accusa di omicidio stradale e al momento sembrano sicure solo quelle di alcol (si sta valutando oltre quale tasso alcolemico) e droga. Ma soprattutto vanno superati alcuni scogli di natura costituzionale, tra cui l’arresto del responsabile a distanza di ore o giorni dal fatto (la cosiddetta flagranza differita). “Secondo noi - dice Umberto Guidoni, segretario generale della Fondazione Ama - ogni obiezione va superata: spesso, anche nelle ultime settimane, chi ha causato gli incidenti più gravi aveva già subito la sospensione o addirittura la revoca della patente, sempre per alcol o droga. Quindi è unpe-ricolo pubblico, il che giustifica la custodia cautelare. Per lo stesso motivo, è bene anticipare già al primo omicidio (commesso in stato di forte ebbrezza o sotto effetto di stupefacenti) la revoca a vita introdotta un anno fa dalla riforma del Codice della strada solo peri recidivi”. Sul fronte della Cassazione, due sentenze depositate ieri dalla terza sezione civile riconoscono la responsabilità dell’azienda di autotrasporto per il colpo di sonno di un autista troppo anziano e del costruttore dell’auto in caso di mancata apertura dell’air-bag. La sentenza 17507 ha confermato la decisione della Corte di appello di Bologna che aveva configurato il nesso di causalità tra l’incidente mortale occorso a un autotrasportatore 69enne e il fatto che l’azienda gli avesse affidato la guida di un autoarticolato pesante oltre 20 tonnellate nonostante il Codice della strada (articolo 115, comma 2) ne vieti la guida a chi ha più di 65 anni (estensibili a 68, con la legge 120/10). Si è ritenuto che il colpo di sonno, accertato come origine del sinistro, possa essere messo in relazione all’età: il legame sta nel fatto che la resistenza fisica degli anziani è inferiore e che, anche alla luce dì ciò, sembra essere stato scritto l’articolo 115. La sentenza 17526 ha invece stabilito che non si può escludere la responsabilità del costruttore dell’auto in un caso di mancata apertura dell’airbag avvenuto nel lontano 1998 (a dimostrazione di quanto lunghe siano cause del genere, che richiedono dettagliate e costose perizie tecniche). La Corte di appello di Genova aveva dato torto all’infortunato (in seguito deceduto) che aveva chiesto risarcimento per ferite aggravate dal mancato funzionamento del dispositivo: i giudici genovesi si erano basati su una perizia che aveva stabilito come il primo urto non fosse tanto forte da comportare l’apertura dell’airbag. Ma poi l’auto era precipitata dal viadotto che stava percorrendo e su questo secondo urto la sentenza di appello non si era pronunciata. Di qui la sua cassazione con rinvio. Giustizia: 19enne scherza con una pistola giocattolo, ucciso dai carabinieri di Mario Diliberto La Repubblica, 25 agosto 2011 Due colpi sparati di istinto. Per fermare un malvivente che sembrava pronto a premere il grilletto. Sotto le pallottole del carabiniere è invece caduto un ragazzo di diciannove anni che si era mascherato per fare uno scherzo a una coppia di amici. È morto così William Perrone, studente di Laterza, cittadina in provincia di Taranto. Il suo dramma va di pari passo con quello dell’appuntato di quarant’anni che ha tirato fuori la pistola di ordinanza per sparare contro chi riteneva un pericoloso malvivente. I due colpi hanno centrato al petto e alla gola il ragazzo che è morto sul colpo. Per movimentare la serata della comitiva, William aveva ideato una finta imboscata a una coppia di amici. Voleva terrorizzarli. E poi chiudere lo scherzo con una risata. Si è infilato una tuta da meccanico e ha inforcato degli occhialoni da lavoro. In testa, poi si è piazzato un turbante. Per completare il look da malavitoso ha impugnato una pistola giocattolo, a cui aveva tolto il tappo rosso. Con l’aiuto di alcuni amici, poi, ha piazzato sul selciato alcuni sassi. Lo sbarramento doveva servire a bloccare l’auto delle vittime. Proprio la tecnica usata due anni prima da un maniaco che per mesi ha terrorizzato i fidanzatini in cerca di intimità. Quelle grosse pietre sistemate sulla strada che costeggia la pineta di Selva San Vito hanno insospettito alcuni automobilisti. Alla centrale dei carabinieri è giunta la segnalazione ed è scattato il controllo. Così all’appuntamento con lo scherzo di William non sono arrivati i suoi amici ma due militari. Lui ha sentito il rumore dell’auto ed è balzato all’improvviso dal muretto a secco dietro il quale si era nascosto. L’appuntato ha visto quella canna brunita sbucare nella notte e ha fatto fuoco dalla sua auto. I proiettili hanno frantumato il finestrino della gazzella e non hanno dato scampo al ragazzo. William è morto sul colpo tra le urla disperate degli amici. Sul caso indaga il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio. Già oggi saranno riascoltati alcuni testimoni e sarà disposta l’autopsia. È stato aperto un fascicolo di inchiesta e si sta valutando l’ipotesi di reato. Tutti gli amici di William già interrogati hanno confermato la storia della burla. Il diciannovenne viveva con i genitori, due commercianti della zona. Aveva appena terminato il liceo e si era iscritto all’università. Ma sognava anche la carriera militare, proprio nei carabinieri. Dopo il diploma, infatti, aveva chiesto di essere arruolato come sottufficiale. Sardegna: in vigore il decreto legge, la Sanità penitenziaria regionale passa alle Asl L’Unione Sarda, 25 agosto 2011 La Sanità penitenziaria sarà di competenza delle Asl. Il 20 agosto è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale (numero 140) il decreto legislativo sul passaggio delle competenze dallo Stato alla Regione sulla materia. Passati 15 giorni dalla data di pubblicazione il decreto legge entrerà in vigore. In pratica il 5 settembre verranno “trasferite al Servizio sanitario della Regione tutte le funzioni sanitarie svolte nell’ambito del territorio regionale dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Dipartimento per la giustizia minorile, comprese quelle concernenti il rimborso alle comunità terapeutiche, sia per i tossicodipendenti che per i minori affetti da disturbi psichici, delle spese sostenute per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica dei detenuti”. “Nelle Aziende sanitarie sul cui territorio sono presenti istituti penitenziari con una capienza complessiva di oltre 500 detenuti, o istituti sede di Centro Clinico, o quando presenti più istituti anche di diversa tipologia (minorili, femminili), l’indicazione è di istituire una struttura con autonomia organizzativa; nelle Aziende sanitarie sul cui territorio sono presenti Istituti di pena per minorenni, Centri di Prima Accoglienza o comunità (come nel caso della Asl 8 di Cagliari) l’indicazione è di istituire una specifica unità operativa o uno specifico servizio multidisciplinare”. I medici e gli infermieri a tempo indeterminato, sino a oggi alle dipendenze del ministero della Giustizia, al momento dell’entrata in vigore del decreto legge verranno trasferiti nel Servizio sanitario locale. Tutto da definire, invece, il tipo di inquadramento che sarà individuato “ nelle categorie e nei profili individuati da tabelle redatte entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto”. Entro il 15 novembre Stato e Regione dovranno inventariare e i beni e le attrezzature del ministero di Giustizia che verranno trasferiti alle Asl. Il passaggio più importante sarà sul trasferimento dei fondi che il ministero del Tesoro dovrebbe assegnare entro la fine dell’anno. (a. a.) Taranto: Vico (Pd); nel carcere si perde senso della giustizia, condizione “senza scampo” Adnkronos, 25 agosto 2011 Una situazione strutturale difficile e il vistoso sovraffollamento: è quello che denuncia il deputato del Partito democratico Ludovico Vico al termine della visita nel carcere “Carmelo Magli” di Taranto. “Muri insalubri - ha affermato - dove l’umidità scava anche quando la canicola di questi giorni non dà tregua. Tre metri quadri che non lasciano spazio neanche ai pensieri. Un pasto caldo e una doccia calda solo al mattino. E la sera solo piatti e docce fredde, sia che sia agosto o dicembre. E se non c’è gasolio, inutile anche solo sognare il ristoro di un po’ di aria condizionata. Al bagno senza carta igienica o sapone. Il carcere delle guardie penitenziarie - ha proseguito - è uguale al carcere dei suoi ospiti: 660 detenuti e 325 uomini e donne in divisa che insieme condividono il dramma di una condizione che non offre scampo sia a chi ha commesso un reato e lì dovrebbe rieducarsi o a chi ha scelto il carcere come lavoro e missione. La visita di Vico, che ha incontrato operatori e detenuti, è durata circa tre ore. “Qui dentro - ha detto Vico - si corre il rischio di perdere il senso della giustizia, malgrado l’impegno e la volontà, quasi eroiche, delle guardie e della struttura dirigenziale che, malgrado i tagli, gli straordinari cancellati e le indennità di missione ferme al 2010, cercano di non perdere di vista mai la dignità e il decoro di luoghi che malgrado siano nati per scontare una pena non possono dimenticare l’umanità che va riconosciuta a chi lavora o a chi è qui perché ha commesso un reato”. Il sovraffollamento è il problema più evidente. “In un carcere che potrebbe ospitare al massimo 400 persone, oggi ve ne sono oltre 600 - ha detto ancora Vico - e sfido chiunque anche a parlar solo di normalità in un luogo dove quattro letti in una cella non ricordano affatto né un Grand Hotel o una pensioncina di infimo livello”. “Un sovraffollamento che i detenuti pagano stando stipati come sardine e lavandosi il meno possibile perché la struttura carceraria non riceve neanche più i fondi per detersivi o prodotti per l’igiene personale ma che le guardie carcerarie non subiscono menò, ha affermato il parlamentare del Pd. Insieme a lui c’erano i rappresentanti dei sindacati di categoria di Cgil, Cisl, Uil e Sinappe. “Condividiamo l’appello fatto dal presidente della Repubblica Napolitano - ha sottolineato Vico - e siamo sempre più convinti che in quei tagli operati dal Governo non sia mai stata presa in considerazione, neanche lontanamente, la brutalità o la violenza anche solo psicologica che cade sulle spalle di chi ogni giorno è costretto a confrontarsi con tanta desolazione”. Vico ha visitato il carcere di Taranto accompagnato dalle guardie carcerarie. “Ma il Governo non fornisce più i farmaci e ha tagliato di oltre la metà l’assistenza psicologica nei confronti dei detenuti provenienti da esperienze particolarmente drammatiche e riconosce solo quattro educatori ad una platea di disperazione così ampia - ha spiegato il parlamentare - malgrado qui non molto tempo fa si sia registrato un altro terribile episodio di suicidio in cella”. “Intanto il carcere di Taranto cade a pezzi in ogni suo angolo senza che venga fatta nessuna opera di manutenzione ordinaria. Dalle celle, al refettorio, dalla stanza del direttore ai locali della Caserma delle guardie penitenziarie tutto è corroso dall’incuria e dall’abbandono - ha dichiarato Vico - si è autorizzati a chiedere aiuto solo in caso di crollo”. “Una situazione indicibile che rende pallido e inutile il Piano Carceri di questo Governo che si occupa delle opere mastodontiche ma dimentica di chiudere le crepe o impermeabilizzare un tetto. Così a crollare - ha concluso - non sono soltanto i muri ma il senso dello Stato e la fiducia nei confronti di una sistema che dovrebbe essere garanzia di recupero, reintegrazione e lavoro degno”. Torino: Osapp; un “inferno” dentro e fuori il carcere per la polizia penitenziaria Ansa, 25 agosto 2011 “A Torino, alla polizia penitenziaria in servizio presso il locale istituto penitenziario Lo Russo Cutugno, in termini di disagio e di rischio anche per la propria incolumità fisica non sembra mancare più nulla, visto quello che è costretta a vivere all’interno e all’esterno della struttura” è questo l’amaro commento dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) riguardo alle situazione incresciose che con sempre maggiore frequenza comportano conseguenze e danni per il personale di polizia penitenziaria del capoluogo piemontese. Secondo quanto scrive Leo Beneduci segretario generale del sindacato in un missiva all’indirizzo del Ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma e del capo dell’Amministrazione penitenziaria Franco Ionta: “Già nella caserma agenti, nonostante le vane promesse-affermazioni del direttore, manca l’acqua calda e, nonostante la calura, non ci si può lavare se non in maniera parziale e con l’acqua fredda, ma nella mensa del personale non c’è alcun impianto di condizionamento dell’aria (sic!), mentre in alcune sezioni mancano gli ascensori e pullulano zanzare ed altri insetti (sotto gli elevatori fermi vi sarebbe ristagno d’acqua con fuoriuscita di miasmi), con detenuti costretti a dormire in terra all’interno delle cd. camere di sicurezza per quanto ne consegue in termini di inigienicità degli ambienti”. “A ciò si aggiungerebbero per il personale gravi problemi sanitari e di contenzione de detenuti nelle strutture ospedaliere esterne - prosegue il sindacato - visto quanto accaduto lo scorso 23 agosto con un detenuto di origine marocchina, risultato positivo al test sulla TBC e ricoverato presso l’Ospedale Amedeo di Savoia, che avrebbe sfondato il vetro del locale in cui è piantonato obbligando una pattuglia auto-montata con ulteriore personale a stazionare all’esterno nel timore di una possibile evasione”. “Non vorremmo che il mancato ricovero del detenuto presso l’apposito e maggiormente idoneo repartino de Le Molinette sia stato determinato dallo scarso gradimento per il soggetto manifestato da qualche sanitario - conclude Beneduci - ma visto lo stato di abbandono, il disinteresse e l’evidente disamore che i responsabili territoriali dell’Amministrazione penitenziaria riservano alla polizia penitenziaria di Torino, sono solo uno strenuo senso del dovere ed uno spirito di sacrificio senza eguali giustificano la costante permanenza in servizio, a tali condizioni, delle donne e degli uomini del Corpo”. Roma: Osapp; le carceri cittadine sono sovraffollate e il Comune non se ne occupa Il Velino, 25 agosto 2011 Roma è sede di due degli istituti penitenziari più rilevanti e più sovraffollati sul territorio nazionale: Regina-Coeli con 1.150 detenuti per soli 730 posti e il Nuovo Complesso di Rebibbia con 1.700 detenuti per 1.230 posti, eppure sono pressoché inesistenti iniziative del Campidoglio in favore e nell’interesse sia degli operatori penitenziari e sia della popolazione detenuta”. Lo afferma, in una nota, il segretario generale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria, Leo Beneduci. “A suo tempo da parte del sindaco Alemanno - prosegue il leader dell’Osapp - ci era pervenuta la notizia assai gradita dal tutti gli addetti e per certi versi rivoluzionaria della nomina di un poliziotto penitenziario quale Garante dei detenuti per Roma Capitale che sicuramente, per esperienza e professionalità, avrebbe dato impulso e concretezza al settore. Purtroppo il provvedimento è stato immediatamente revocato per pressioni anche di carattere politico non meglio identificate e dopo la nuova nomina di Garante dei detenuti del Comune di Roma, per e nelle carceri romane, non si sente più parlare, atteso che gli unici interventi di rilevo risulterebbero essere quelli del Garante regionale. È un vero peccato - conclude Beneduci - che, con un’amministrazione penitenziaria in assoluta penuria di mezzi e di risorse in ambito centrale e regionale, a Roma ci vengano a mancare a mancare l’apporto ed il sostegno dell’amministrazione comunale, per delle scelte del Primo Cittadino Alemanno che, in ambito penitenziario, sono risultate completamente sbagliate e proprio quando, invece, sarebbe il momento di rivalutare dal punto di vista normativo il ruolo e i poteri dei sindaci nell’ambito delle carceri italiane. Pesaro: Sappe; agenti maschi in servizio nella sezione donne, denuncia a prefetto e procura Ansa, 25 agosto 2011 Molto spesso negli ultimi due mesi solo agenti di polizia penitenziaria di sesso maschile hanno prestato servizio, anche se non in tutti i turni, nella sezione femminile del carcere di Villa Fastiggi a Pesaro. È la denuncia del sindacato di polizia penitenziaria Sappe, il cui segretario regionale Aldo Di Giacomo ha contattato il prefetto. Di Giacomo intende anche presentare un esposto alla Procura della Repubblica. Di norma nelle sezioni femminili dovrebbero lavorare solo agenti donne e gli uomini dovrebbero intervenire solo in casi straordinari e con funzioni di supporto. Ma a Pesaro gli uomini hanno lavorato nel reparto femminile con una certa continuità. Secondo Di Giacomo, è una cosa scandalosa, che offende la dignità sia delle recluse sia dei colleghi. I quali debbono affacciarsi nelle celle durante la notte e sbirciare dagli spioncini nei bagni per verificare che le detenute non mettano in atto gesti autolesionistici. “In 12 anni di attività sindacale, anche a livello nazionale, non mi era capitato nulla del genere” incalza il segretario del Sappe. Per altro la stessa emergenza era già avvenuta, sempre a Pesaro, qualche anno fa, ma si era risolta nel giro di poco tempo. Secondo Di Giacomo non è un problema legato alle ferie (e neppure al sovraffollamento delle carceri), ma di mancata organizzazione. Molte agenti di polizia penitenziaria sono andate in pensione e non sono state sostituite. Ma questo stato di cose non può essere accettato, bisogna intervenire. Livorno: nel carcere è emergenza igienica, supermercato regala carta igienica e sapone La Nazione, 25 agosto 2011 Quasi 800 confezioni di carta igienica, oltre 1.100 tra spazzolini da denti e saponi per l’igiene personale, oltre 600 dentifrici. È il materiale consegnato stamani al carcere delle Sughere , a Livorno, per fronteggiare l’emergenza più volte denunciata negli ultimi mesi dal garante dei detenuti Marco Solimano. I prodotti sono stati messi a disposizione dall’Unicoop Tirreno dopo le richieste ricevuta da Solimano e dal senatore del Pd Marco Filippi che a Ferragosto avevano visitato il penitenziario livornese e avevano ribadito l’urgenza di un contributo per i detenuti. “Tante volte abbiamo detto del sovraffollamento inaccettabile per un qualsiasi Paese civile - ha dichiarato Solimano prima della consegna del materiale - In più c’è il completo abbandono da parte del ministero che da più di un anno non rifornisce i magazzini con i prodotti per l’igiene. Questo è un aiuto concreto, ma anche una testimonianza simbolica che vuole richiamare le istituzioni al loro compito”. “Non è un’iniziativa strumentale o politica - spiega Filippi - Nasce da un’esigenza effettiva, perché aldilà delle pene da scontare (e a Livorno sono molti i detenuti in attesa di giudizio), i detenuti vivono in tre in celle da 8 metri quadri con uno stanzino di un metro quadro in cui ci sono la latrina, la dispensa e il fornello per cucinare. Tutto con le temperature che noi non riusciamo a tollerare neanche in riva al mare”. Alle Sughere, in occasione della consegna, oltre alle associazioni di volontariato che quotidianamente si occupano dei detenuti (Arci, Comunità di Sant’Egidio, Lila P24), anche l’assessore comunale al sociale Gabriele Cantù: “Livorno sente il carcere come una sua parte – dice. La situazioni delle carceri sono una spia del livello di democrazia del Paese. Chi è dentro ha sbagliato, ma la punizione dev’essere dignitosa”. Brescia: si progetta di raddoppiare la capienza del carcere di Verziano Giornale di Brescia, 25 agosto 2011 C’è un grande Verziano nel futuro di Brescia. Il documento di piano che andrà a comporre il piano di governo del territorio parla di un vistoso prolungamento del carcere oggi esistente tanto da riunire in un sol luogo le due case circondariali della città e chiudere, finalmente, la vecchia struttura di Canton Mombello. In questo modo verrebbe risolto il problema del decentramento della struttura, non più quindi in pieno centro città, ma soprattutto migliorerebbero le pessime condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere per mancanza di spazi adeguati, e le guardie penitenziarie a lavorare. Ancora non è dato sapere cosa sorgerà al posto di Canton Mombello, l’amministrazione comunale non ha svelato i suoi piani a riguardo, ma la priorità ora è chiudere la struttura che è quasi costantemente in situazione di sovraffollamento. La creazione di un Verziano bis, che dovrebbe nascere come un vero e proprio prolungamento del primo, verrà inserita all’interno di una apposita variante del Pgt che lo renderà realizzabile anche secondo le previsioni del piano regolatore vigente, qualora si decidesse di non da corso alla variante urbanistica. Ma l’ampliamento del carcere non è l’unica novità inserita nel Pgt a proposito della zona di Verziano. È previsto infatti l’arrivo di 59.546 mq di nuove costruzioni: quattromila di costruzioni direzionali, 42.439 mq di residenziale libera e 13.107 di edilizia convenzionata. Fra il Verziano e il Villaggio Sereno, insomma, verrebbe a crearsi un altro polo residenziale da riempire alle porte della città. Spoleto (Pg): Patrizia Cristofori (Comune); nel carcere c’è una situazione drammatica Il Messaggero, 25 agosto 2011 “La situazione all’interno del carcere di Maiano si fa ogni giorno più drammatica, è un’impasse che rischia di ripercuotersi anche a livello sociale”: a parlare è il presidente del Consiglio Comunale di Spoleto Patrizia Cristofori a pochi giorni dall’appello delle organizzazioni sindacali alle autorità competenti di fronte all’incremento costante del numero dei detenuti e alla contemporanea carenza di organico. “Pur trattandosi di un problema di carattere nazionale sui cui si sono concentrare anche le attenzioni del Presidente della Repubblica, la situazione in Umbria e soprattutto all’interno del carcere spoletino ormai ha superato anche i livelli di guardia. Abbiamo più volte sollecitato le istituzioni competenti e ci siamo impegnati in diverse occasioni per portare all’attenzione generale un problema che sarebbe sbagliato considerare solo una grave questione di sicurezza all’interno della casa di reclusione, basti pensare soltanto alle implicazioni di carattere socio-sanitario, le cui problematiche e i cui costi gravano anche sulla sanità locale. Le tante voci che si sono sollevate rischiano di restare inascoltate e il procrastinarsi della situazione rappresenta un segnale allarmante perché di fronte a questo stato di cose il tempo che passa senza alcuna soluzione rischia di rendere estremamente difficile il lavoro delle guardie carcerarie e di compromettere in senso lato gli equilibri della coesione sociale”. “Ci siamo occupati più volte del problema, insieme al sindaco e alle forze politiche della città. In consiglio comunale ci sono state diverse mozioni, interrogazioni, riunioni. Abbiamo anche prodotto un documento a firma dei capigruppo e abbiamo incontrato la Regione, insieme alle istituzioni carcerarie e alle organizzazioni sindacali, per prendere in esame l’intera situazione, sollecitando tra l’altro l’ispezione ministeriale. “È urgente - conclude la Cristofori - che i parlamentari del territorio riprendano un’azione forte presso le più alte istituzioni per risolvere nel più breve tempo possibile un problema che genera un clima di invivibilità e di tensione non più sopportabile sia per i detenuti che tutti il personale del carcere”. Trieste: Famulari (Comune); in carcere condizioni pessime, aggravate dal caldo Ansa, 25 agosto 2011 Le condizioni del carcere di Trieste sono “pessime”. Lo ha affermato l’Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Trieste Laura Famulari al termine di una visita alla casa circondariale del capoluogo triestino. “Ho avuto modo di constatare di persona le pessime condizioni, aggravate dal grandissimo caldo di questi giorni, in cui le donne e gli uomini detenuti anche nel carcere di Trieste, come nel resto del territorio nazionale, sono ridotti a vivere - afferma Famulari. Donne e uomini che dormono su materassi a terra, celle sovraffollate, surriscaldate e prive spesso di un frigorifero funzionante, condizioni di vita al di fuori dei parametri di legge, ma soprattutto irrispettose della dignità umana, che è un diritto di tutti”. Le detenute hanno stigmatizzato il numero estremamente ridotto di detenute impiegate in borse lavoro, a causa della carenza di fondi (1 donna su 35, per qualche ora al giorno). Al termine della visita, l’assessore, che ha elogiato il lavoro del personale del carcere, ha garantito il proprio impegno a tenere alta l’attenzione sulle problematiche evidenziate dai detenuti e dagli operatori e a sensibilizzare in merito gli organi competenti per individuare soluzioni praticabili, nonché ad approfondire il percorso per l’introduzione della figura del Garante dei detenuti. Venezia: i Comitati del territorio chiedono notizie sul progetto per il nuovo carcere La Nuova Venezia, 25 agosto 2011 “Adesso che il nuovo ministro accelera, anche gli enti locali a più livelli devono farsi sentire per chiarire la questione del nuovo carcere veneziano”. Chi pensava che con il passaggio di consegne al governo la questione della nuova casa circondariale prevista nel nostro Comune passasse in secondo piano, o che la vicenda subisse dei rallentamenti, si deve ricredere. Le dichiarazioni recenti del ministro della Giustizia Nitto Palma, che ha sostituito Angelino Alfano ora alla guida del Pdl, sul sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani, compreso il carcere veneziano di Santa Maria Maggiore, e l’urgenza di risolvere l’emergenza carceri, fa riemergere attuale anche la questione della nuova struttura che dovrà sorgere in terraferma, spostato da Campalto, com’era previsto in un primo momento scatenando le ire dei comitati, a Cà Solaro e di seguito a forte Pepe. Il comitato sorto per contrastare l’ipotesi di Cà Solaro chiede di avere chiarezza e di capire se la proposta della Regione, che ha accolto l’indirizzo della Municipalità di optare per forte Pepe, abbia fatto breccia a Roma. A fine luglio, infatti, un gruppo di cittadini accompagnati dai rappresentanti della Municipalità aveva incontrato il vicepresidente della Regione, Marino Zorzato. Un faccia a faccia breve e conciso, chiesto dagli stessi abitanti per chiarire la situazione. La Municipalità in quell’occasione aveva consegnato al vicepresidente Zorzato l’ordine del giorno nel quale si esprimeva in favore del sito di Cà Noghera bocciando quello di Cà Solaro, prendendo, al contrario del Comune, una netta posizione. Una vicenda che si è trascinata per mesi. In un primo tempo la scelta era caduta nella zona delle ex caserme di via Orlanda, poi però, vista la contrarietà della popolazione e le manifestazioni che si sono susseguite, il Comune ha fatto ulteriori proposte, nessuna delle quali però, è risultata adatta allo scopo e l’ulteriore passaggio del Consiglio comunale è stato quello di individuare altri due siti, da una parte un’area della Fondazione Querini Stampalia a Cà Solaro, oppure il gioiellino militare del campo trincerato di Mestre che si trova a Cà Noghera, abbandonato da anni all’incuria e alle erbacce. Nel mezzo c’è stata anche la polemica sul Cie, il Centro identificazione ed espulsione per gli immigrati clandestini, sfumata da sola. “Visto che il ministro Nitto Palma ha inserito tutte le nuove carceri in corso di realizzazione - spiega il comitato - compreso quella di Venezia, vorremmo che gli enti locali accertassero qual è la situazione sui progetti della Casa circondariale che dev’essere realizzata ex novo, ci faremo carico di sentire nuovamente la Regione per capire esattamente a che punto si trova la pratica e interesseremo la Municipalità e il Comune”. Gli abitanti, dunque, chiedono di conoscere come si sta evolvendo la vicenda, dopo il silenzio ufficiale durante l’estate, anche perché qualcuno sosteneva che nell’area di forte Pepe sarebbe servita una bonifica del terreno, o almeno una verifica del suo stato, oltre allo sfalcio dell’erba. Immigrazione: la Libia cambia volto, ma sui rimpatri forzati nulla cambierà Liberazione, 25 agosto 2011 Lo ha già chiarito il ministro La Russa, “nell’incontro fra Berlusconi e il rappresentante del Cnt Jibril, in programma a Milano, si parlerà anche di contrasto all’immigrazione clandestina” L’obiettivo è semplice, malgrado la ventata di democrazia che investe l’intera costa nordafricana, nelle sue differenze, anche con la “nuova Libia” vanno ripristinati gli accordi già stipulati con Gheddafi. Soldi e armi in cambio dell’esternalizzazione delle frontiere e del contenimento degli aspiranti richiedenti asilo nei centri di detenzione libici. Forse, se e quando si insedierà un nuovo governo (il condizionale è d’obbligo) si avrà magari una formale ratifica della Convenzione di Ginevra, che il colonnello aveva sempre rifiutato, ma c’è dar credere che non avverranno modifiche sostanziali. Un paese di transito come la Libia difficilmente potrà essere considerato paese sicuro in cui i diritti verranno rispettati, più facile pensare che a Tripoli o a Bengasi si continuerà a fare il lavoro sporco, né più e né meno di quanto accaduto sin ora, anche limitando il lavoro dell’Unhcr. Del resto una parte consistente dei dirigenti del Cnt fino a poco tempo fa ha giocato un ruolo determinante nell’amministrazione di Gheddafi, si tratta in gran parte degli stessi ministri che hanno avuto mano libera nell’applicare gli accordi. E se dal Pd arrivano flebili richieste di revisione dei patti con Tripoli, la maggioranza, una volta tanto compatta, sembra invece premere affinché al più presto si tomi a rispettare il trattato che permette ampia discrezionalità nei rimpatri. Tra l’altro, il trattato del 2009 conteneva il versamento di 5 miliardi di dollari in 20 anni, ufficialmente a titolo di risarcimento per le vergogne coloniali. In epoca di grandi manovre e di sacrifici chissà se quel capitolo di spesa verrà mai preso in considerazione. Ma quanto sta avvenendo è in linea con le relazioni con gli altri paesi in fase di transizione dopo la primavera araba. I governi provvisori di Tunisia ed Egitto, stanno già obbedendo alle disposizioni del governo italiano. Anche nelle fasi più cruente della rivolta egiziana non si è interrotto il rimpatrio coatto di persone sbarcate soprattutto a Lampedusa e in Sicilia, ma gli episodi più gravi si vanno registrando nei rapporti con la Tunisia. Operatori dell’Arci presenti a Lampedusa hanno denunciato il ripristino del respingimento collettivo e ad un centinaio di profughi è stato impedito l’attracco a Lampedusa e sono stati rispediti in Tunisia, ignorando le direttive europee e internazionali in materia, scavalcando anche la Bossi Fini e le disposizioni ministeriali. Libia: le storie di sangue del carcere di Abu Salim Ansa, 25 agosto 2011 Da qui, in un certo senso, era partita la prima scintilla della rivoluzione libica contro il regime del colonnello Gheddafi. Da qui ora i ribelli lanciano la loro offensiva finale contro le ultime sacche di resistenza rimaste leali al colonnello nella capitale. Il quartiere di Abu Salim, nel sud di Tripoli dove si combatte nelle strade e da dove i soldati del rais sparano i loro colpi di mortaio, è un nome che ricorre spesso nella storia recente della Libia. Un nome che, finora, evoca solo storie di sangue. A innescare la protesta che da Bengasi si è poi diffusa in tutto il Paese, nel febbraio scorso, erano stati i familiari di detenuti uccisi nel 1996 nel supercarcere di sicurezza che si trova proprio nel cuore di Abu Salim e dove in passato sono stati rinchiusi molti oppositori politici del regime. Secondo Human Rights Watch, la prigione fu teatro di una repressione di massa, attuata in seguito a una rivolta dei carcerati, in cui furono uccisi a colpi di kalashnikov e granate oltre 1.200 detenuti. Una vicenda che non si è mai riusciti a ricostruire in maniera chiara e che ha lasciato i parenti delle vittime senza risposte. A metà febbraio, a Bengasi, molti di loro erano scesi in strada per chiedere la liberazione del loro avvocato, arrestato per “aver diffuso false informazioni” e poi rilasciato dopo poche ore. A loro si erano poi aggiunti altri dimostranti, al grido di “Gheddafi vattene” e “Libia libera”. Da quelle prime manifestazioni è poi divampata la rivolta che ha portato in questi giorni alla caduta di Tripoli. Una delle prime cose che hanno fatto i ribelli quando sono entrati nella capitale la sera del 21 agosto è stata liberare i prigionieri del carcere-bunker. Le strade di Abu Salim sono diventate poi nei giorni successivi uno dei principali teatri di scontro tra i ribelli e forze dei lealisti. Stati Uniti: dopo l’assoluzione di Dsk… non prendiamo a modello la giustizia americana Panorama, 25 agosto 2011 Gli hanno tolto il braccialetto elettronico. Dominique Strauss-Kahn, l’ex numero uno del Fondo Monetario Internazionale, è di nuovo libero. Il procuratore ha fatto marcia indietro e il giudice, che non aveva esitato a rinchiuderlo (preventivamente) nelle carceri del Rikers Island, ha archiviato il caso. Non sta a me imbastire un processo “altro”. La verità dei fatti (che non sempre - va detto - coincide con quella giudiziaria) la conoscono soltanto i diretti interessati, e a me non importa fantasticare d’ipotesi e congetture. Una cosa è certa però: la testimone chiave era così poco attendibile da indurre il procuratore a ritirare l’accusa per assenza di prove in grado di accertare la colpevolezza dell’indagato “oltre ogni ragionevole dubbio”. La giustizia americana funziona così. Dichiarazioni mendaci, quelle della cameriera, per sua stessa ammissione. Intercettazioni che l’hanno colta in fallo. Credibilità insufficiente. Questa volta però l’America non ha fatto sognare. Sono bastate le accuse di una singola persona per farne finire in galera un’altra. E sia chiaro: poco importa che quella persona fosse una donna, di colore, una cameriera o una prostituta. Gli alfieri del politicamente corretto di rosa bordati sono prontamente scesi in campo per difendere la donna vilipesa, discriminata, raggirata. Peccato che qui il sesso non c’entri nulla, neanche il colore della pelle, né la professione. Si tratta di un principio fondamentale: l’indagato è indagato, non colpevole. La presunzione di innocenza fino a prova contraria. Una regola di civiltà, che le democrazie occidentali si sono date per tutelare la singola persona, nella consapevolezza che la giustizia umana è fallibile. E che con la vita degli altri non si gioca. Parlo di quelle garanzie legali, che in Italia abitualmente vacillano. Parlo di abuso della carcerazione preventiva. Questa volta la performance americana non è parsa più attenta, più rispettosa, più civile. Certo, difficilmente in Italia il caso si sarebbe chiuso in modo così celere con un procuratore che fa un mea culpa pubblico in una conferenza stampa. Tuttavia l’onta non la porta via il vento. La gogna mediatica, la dignità calpestata. Quella “perp walk”, che ha costretto DSK a camminare ammanettato dopo l’improvviso arresto tra un’orda di fotografi e di telecamere. Immagini che hanno fatto il giro del mondo. “Le immagini del potente ridotto in cattività”. E, per favore, tenete da parte l’argomento (pseudo femminista) della puttana vilipesa o dell’immigrata discriminata. Qui di certo c’è solo una cosa: lo sputtanamento a buon mercato. Stati Uniti: carcerato affida il suo appello ad uno striscione aereo Ansa, 25 agosto 2011 Vadim Vassilenko, detenuto dal 2007, chiede solo che venga iniziato il processo. Ha noleggiato un Cesna per diffondere la sua volontà sopra i cieli di Mahattan. Dalle sbarre della prigione ai cieli di Manhattan. L’ultima trovata di un carcerato esasperato è stata quella di affidarsi ad un appello ‘aereò. Vadim Vassilenko, in prigione in attesa di giudizio dall’autunno del 2007, non chiede però la grazia, ma solo di comparire davanti alla corte. Dopo avere inutilmente cambiato quattro avvocati difensori, ha pensato di attirare l’attenzione sul suo caso in modo molto particolare: ha noleggiato un Cesna 172 per due ore (pagando 1.250 dollari), e lanciato il suo messaggio ‘dall’altò, chiedendo che venga iniziato il processo. “Vassilenko - In carcere da 5 anni, nessun processo. È legale?”, si leggeva nello striscione che ha sorvolato Manhattan fino a Brighton Beach, Brooklyn, dove il ragazzo abitava prima di finire in galera. Vadim, 44 anni, è stato arrestato per aver copiato i numeri di 95.000 carte di credito, ma non è la prima volta che si mette nei guai. Già nel 2006 era finito dietro le sbarre per trasferimenti illeciti di denaro, ma dopo alcuni mesi uscì per buona condotta. Il pilota Michael Arnold, presidente della compagnia Arnold Aerian Advertising, è subito finito in mezzo alle polemiche per aver lavorato per un “artista della truffa”. “Il mio mestiere è fare pubblicità, non giudicare l’integrità delle persone - si giustifica - e io sono stato regolarmente pagato per il mio lavoro”.