Dopo la prigione, la fatica di ricostruirsi un futuro Il Mattino di Padova, 22 agosto 2011 La parola “sovraffollamento” riferita alle carceri evoca immagini di gente che soffoca in celle strette, con letti a castello a tre e quattro piani, e anche materassi per terra. Tutto vero, tranne l’illusione che la ricetta sia allora costruire altre galere. Bisogna piuttosto riflettere sull’inutilità di una pena passata in un posto dove la gran parte delle persone rinchiuse non può fare niente, se non “ammazzare il tempo”. A spiegare come esce una persona da un carcere così, con che prospettive, con che difficoltà e che paure sono due persone con due punti di vista diversi, ma in qualche modo complementari: la moglie di un detenuto, che in una lettera al compagno esprime tutta la sua angoscia per il futuro, e un detenuto uscito in detenzione domiciliare, che deve misurarsi con una vita tutta da ricostruire. Il carcere visto dalla parte di chi sta fuori, ad aspettare una persona detenuta Sono venuta da te oggi al colloquio ma c’è stato qualcosa tra noi che non ha funzionato, eri nervoso, distante, teso e un po’ assente e io sono uscita dal carcere con una domanda nella testa: se è successo qualcosa che non so. Non credere che io non mi renda conto di com’è la tua vita, di quanto è difficile andare avanti, giorno dopo giorno, senza che cambi mai niente e aspettando una piccola cosa come un’ora di colloquio, un giorno di permesso, una lettera di qualcuno dei tuoi. Posso solo immaginare come ci si sente a 35 anni a guardare la proprio vita e vedere solo carcere: carcere dietro di sé e, purtroppo, carcere davanti per i prossimi anni. Una ragazza che era vicino a me oggi a colloquio mi ha detto: “Il carcere è troppo duro e se non sei forte non ce la fai”. Io di te penso che sei forte altrimenti questi quasi 15 anni ti avrebbero ucciso, invece sei ancora in piedi e, anche se ci sono momenti in cui perdi la speranza, ti passa subito e per fortuna ti torna la voglia di combattere e di sperare. Io sono parte di questa speranza, la speranza che alla fine di questo tunnel buio che è il carcere per te ci sarà qualcosa di bello, finalmente. Ma sai, questa detenzione non è dura solo per te, lo è molto anche per me. Ti voglio tantissimo bene e mi fa male vederti soffrire, e poi, al contrario di tante donne che incontro ogni volta ai colloqui, io non sono abituata a niente di tutto questo. Entrare per la prima volta lì è stato difficilissimo, essere perquisita, sapere che se ti do un bacio ci sono occhi che scrutano, se ti parlo ci sono orecchie che ascoltano è qualcosa a cui non mi abituerò mai… Tu puoi pensare che io stia bene, in fondo, perché sono libera. LIBERA. Una parola enorme, lo so, ma tu non puoi sapere, perché non lo hai mai vissuto, che anche la vita da liberi ha i suoi dolori, la sua fatica. Quando io vengo da te, è come se non avessi altra vita che quella che ho lì con te. Per questo quando ti vedo stare male il tuo male lo porto via con me. Non mi piace essere quella che ti chiede di stare calmo, di avere pazienza, di non metterti nei guai. non mi piace per niente sprecare quel poco tempo a farti l’ennesima predica alla quale, in fondo, non credo neppure io, quando tu avresti solo bisogno di essere abbracciato, di avere un pò d’amore, ma in carcere l’unica cosa che non può entrare è l’amore. E noi purtroppo viviamo in questo paese dove tutti fingono di non sapere quel che succede dentro i muri alti di un carcere, dove ti richiamano perché hai dato un bacio alla tua donna che è li per ricordarti che sei vivo e non devi mollare. Quando sono ripartita oggi non ero serena perché mi accorgo che da un pò di tempo i nostri colloqui non ti fanno più stare bene, ma al contrario ti ricordano sempre di più tutte le cose che non hai. Lo so che è assurdo dirti di avere pazienza e che questo permesso prima o poi arriverà, mentre te lo dico penso che se fossi al tuo posto mi manderei a quel paese, ma io non posso dirti che questo, di sopportare e di non mollare. Mi piacerebbe incontrare quel giudice che ti ha condannato e chiedergli: come si fa a decidere che un ragazzo è socialmente pericoloso se per colpa di una serie di reati neanche troppo gravi nella società non c’è più rientrato da almeno 15 anni? E poi gli vorrei anche chiedere che cosa sarai a 40 anni, quando forse finalmente uscirai, dopo 20 anni di carcere e nessuna vita dietro le spalle e forse neanche una davanti? Chi ti insegnerà a vivere? Come farai di colpo a diventare un uomo normale? lo ci sarò ma chi insegnerà a me come aiutarti? Sarò capace di farlo? Basterò io a curare tutte le ferite che una vita da recluso ti ha inferto? Arrivo a casa e trovo una tua lettera, piena di emozioni come sempre. Mi dici una cosa che non mi hai detto al colloquio, che non lavori più, che il lavoro è poco e adesso tocca ad un altro. Non è per i 50 euro di paga, io so perché ti fa così male, perché ti hanno di nuovo lasciato da solo con i tuoi pensieri e con le tue angosce, che quelle poche ore di lavoro al giorno scacciavano per un pò. Ripiego la lettera, la metto in tasca e penso solo che vorrei salire in macchina, venire da te, e darti quel bacio di cui avevi tanto bisogno… La compagna di un detenuto Ho sempre lottato per restare una mente libera in un corpo ristretto Sono già due mesi che sono uscito dal carcere in detenzione domiciliare, e scrivo qualche riflessione a partire da una considerazione sul carcere vicino a dove abito. Da qualche tempo manca anche il sapone, lo portano dentro i volontari... Mi sembra un passo ulteriore verso il degrado totale e la perdita del senso della dignità di chi è detenuto. Bisogna insistere però nel far sì che le cose si vengano a sapere perché nessuno ne parla... è questo l’ostacolo più grande, non la mancanza di fondi ma la mancanza di visibilità, l’oblio in cui viene tenuta questa parte della società e della vita sociale, perché comunque di questo si tratta che piaccia o meno, di una parte della società e non di un altro pianeta. In due mesi tanti pensieri mi sono passati per la mente, ma sino ad un paio di settimane addietro non riuscivo a tenere la concentrazione per più di 10/15 minuti, questo, però, mi ha permesso di valutare bene le mie sensazioni, i mutamenti intervenuti, la reazione della mia famiglia al mio ritorno dopo questi tre anni e mezzo trascorsi in carcere, e quella del resto della gente. L’impatto interiore è stato forte, anche perché, per stare lì, non ho mai voluto entrare mentalmente nelle parte del detenuto ma ho sempre lottato per restare una mente libera in un corpo ristretto, e per questo avevo messo in naftalina una parte del mio sistema nervoso, e liberarlo da una prigionia nella prigionia non è stata assolutamente una passeggiata. Comunque di carcere nessuno vuol sentir parlare, non interessa, sembra che debba a tutti i costi restare fuori dalla vita delle persone “normali” perché è un altro mondo in un altro universo. Il punto è che anche in casa, dopo pochi giorni, c’è stata una reazione simile, come un rifiuto di accettare che il carcere può entrare nelle nostre vite. I miei proprio non l’hanno ancora digerito sia per loro che per me, mia moglie era preoccupatissima della mia reazione mentale, per lei e per i miei figli sono stati anni psicologicamente difficili. Mi viene spesso in mente quanto poco si affronta il problema della sofferenza dei famigliari e della vergogna e gogna che devono subire... so bene che quando si è dentro si cerca di vedere la situazione meno drammatica di quanto non sia, ma credo fermamente che se uno invece di scansarla la affronta per quello che è, non può non fare di tutto per non tornare più in carcere, se non per sé almeno per i suoi cari: questa è la vera presa di coscienza, l’assunzione di responsabilità che noi possiamo e dobbiamo fare. Personalmente non ho subito la resa dei conti in famiglia che spesso aspetta chi esce, e questo è sicuramente un aiuto mentale molto forte, forse perché, anche da dentro, la vita famigliare ho cercato di affrontarla in modo decentemente normale, senza raccontarsi favole. Questo mi ha fatto spesso star male alla fine dei colloqui con i miei famigliari, e alcune volte speravo addirittura che loro non venissero, ma è stato un bene aver voluto affrontare le cose senza nascondersi nulla, non si può e non si deve creare una situazione di finta tranquillità che non esiste solo per mascherare i problemi, perché alla fine il conto altrimenti arriva ed è sicuramente salato. Per ultimo vorrei fare pure una riflessione su quella panchina fuori dal carcere, dove, quando sono uscito, sono stato quasi tre ore in attesa che mi venissero a prendere, e pur essendo scombussolato dall’essere di punto in bianco messo fuori, non ho potuto fare a meno di pensare a tutte quelle persone, quei famigliari che aspettano per andare a colloquio, con davanti agli occhi quella costruzione, sinonimo di perdita di libertà, aspettano e sanno che dovranno farlo per anni: credo sia un po’ come morire lentamente. Marco L. Giustizia: amnistia; raccolta firme per convocazione straordinaria del Parlamento Notizie Radicali, 22 agosto 2011 Nota pubblicata su Facebook dall’On. Rita Bernardini su raccolta firme per Convocazione Straordinaria della Camera dei Deputati con all’ordine del giorno: “l’urgente discussione e votazione di un documento che fissi modi e tempi certi per l’esame di provvedimenti di amnistia, indulto, depenalizzazione e decarcerizzazione, capaci di confermare, integrare, perfezionare e rafforzare i risultati certi del progetto di Riforma strutturale e funzionale della Giustizia, per il ripristino della legalità Costituzionale e il rispetto delle Convenzioni europee ed internazionali di cui la Repubblica Italiana è parte.” Totale firme deputati = 54 Così suddivise per Gruppi Parlamentari: 38 Partito Democratico (compresi noi 6 Radicali); 10 Popolo delle Libertà; 3 Futuro e Libertà; 2 Udc; 1 Misto. Ricordo che perché ci sia la convocazione straordinaria della Camera occorrono 1/3 delle firme dei 630 deputati, cioè 210 firme. Pertanto, ne mancano 156. Giustizia: carcere di Rebibbia… e le altre, dov’è la Costituzione? di Salvatore Bonadonna Liberazione, 22 agosto 2011 La vigilia di Ferragosto sono andato a visitare Rebibbia con Emma Bonino e Rita Bernardini, aderendo alla giornata di digiuno per la legalità e la giustizia. Da quando non ho mandati istituzionali posso usufruire della amicizia e del comune interesse per la giustizia e i diritti umani con i compagni e le compagne radicali di Nessuno tocchi Caino. Per quanto si possa ancora considerare un carcere “migliore” di molti altri, Rebibbia soffre dello stesso sovraffollamento, della stessa condizione inumana, della stessa mancanza di trattamenti medici, psicologici, educativi delle altre carceri. Nessuna sentenza ha mai condannato a queste condizioni, nessun giudice ha deciso questo e, anzi, la Costituzione prevede che la pena debba essere finalizzata al reinserimento dei condannati nella società. Nelle carceri matura solo abbrutimento; si deve al senso civico dei detenuti se non stanno scoppiando le rivolte degli anni Settanta; e si deve alla attenzione alimentata dalla iniziativa non violenta di Marco Pannella e dei radicali che funziona come fattore di educazione civile e di presa di coscienza anche dentro queste istituzioni totali e chiuse. I direttori, il personale e la gran parte degli agenti sono consapevoli di questa condizione e, davvero, costituiscono una “comunità penitenziale”. Gli organici sono ridotti e gli agenti fanno turni stressanti e saltano ferie; i dirigenti sono impotenti di fronte alle domande di lavoro, di formazione, di studio che vengono dai detenuti. Le carceri sono una discarica sociale: tutto il disagio, tutto ciò che turba l’ordine benpensante, finisce in galera. Magari solo in via preventiva e provvisoria: oltre il quaranta per cento dei detenuti sono in attesa di giudizio e, statisticamente, la metà viene prosciolta; ma, intanto, saranno passati giorni, settimane, mesi, talvolta anni, di vita in un inferno per se e per la comunità sovraccaricata di tanta presenza. Finisce in galera chi ha fumato uno spinello e ha fatto il piccolo spacciatore di necessità; l’immigrato che risulta irregolare; il responsabile di un furtarello o di un diverbio con i vigli urbani. Una quantità di azioni frutto del disagio sociale sono considerati reati. Basterebbe depenalizzare e decarcerizzare una serie di reati, o di comportamenti considerati tali, per ristabilire una condizione minimamente vivibile, garantendo sanità e lavoro e formazione: quello che prescrive la Costituzione. L’affollamento a Rebibbia è di oltre il 70% superiore alla norma: per circa 900 posti regolari ci sono oltre 1.700 detenuti; in celle a 6 letti a castello, con un piccolo spazio dove sta il water e anche il lavandino ed un piccolo supporto per i fornelletti che servono da cucina interna. In altre carceri è anche peggio; ma non è una consolazione! Mancano i fondi e la falegnameria è in ristrutturazione da anni; funziona solo una officina per i fabbri; i muratori disponibili al “lavoro interno” non hanno i mezzi i materiali e i soldi per svolgere una attività che sarebbe assolutamente necessaria. La sanità, malgrado la buona volontà di taluni medici ed infermieri, è assolutamente insufficiente sia per le patologie leggere ed occasionali che per quelle più serie! Si continua a tenere in carcere gente che dovrebbe stare a curarsi in casa o in ospedale. Lo sbandierato decreto svuota carceri è stato un fallimento; il blocco della legge Gozzini e della legge Simeoni, che garantivano misure alternative al carcere e liberazioni anticipate, fa il resto. Si deve a questo centrodestra, garantista con se stesso e con i potenti e forcaiolo con i cittadini comuni e con i più poveri ed i più deboli, questo stato di cose. Ventisei provvedimenti sulla giustizia in questa legislatura berlusconiana non hanno portato alcun beneficio per i comuni cittadini e per i detenuti. Per questo, anche per questo, è giusta la richiesta di una amnistia che rimetta la giustizia nelle condizioni di funzionare senza l’arretrato di nove milioni di processi che durano in media dieci anni; un provvedimento che svuoti le carceri da tutta quella gente che non ha motivo di particolare pericolosità sociale per rimanerci; una riforma del codice penale e di procedura penale che inverta la linea della carcerizzazione sempre e per tutti. Avere il coraggio di una amnistia ufficiale e trasparente contro quella che avviene ogni anno per i circa duecentomila casi che vanno in prescrizione grazie alla disponibilità di mezzi e quindi di avvocati che allungano i processi, anche prima che Berlusconi pensasse di allungare i suoi, fino alle prescrizioni. Ho rivisto alcune persone che conosco da anni, casi che una giustizia giusta dovrebbe riesaminare e scarcerare; purtroppo non ho incontrato tutti quelli che avrei voluto! Ho visto persone che stanno dentro per residui di pena di poche settimane ma risalenti ad anni passati; ho visto quelli che non hanno i mezzi e gli avvocati per richiedere i loro diritti e che, dunque, continuano a restare in carcere; e anche quelli che non sono usciti con il decreto svuota carceri perché non avevano dove andare. Anche questo fa parte del dramma sociale. Come si vede il carcere continua ad essere una spia della società! Giustizia: le nostre prigioni… l’emergenza carceri vista dall’altra parte dello spioncino di Terry Marocco Panorama, 22 agosto 2011 La paura. La fatica. Le responsabilità che ti schiacciano. In cambio, 1.500 euro al mese e un’immagine negativa. Ecco l’emergenza carceri vista dall’altra parte dello spioncino. Il digiuno di Marco Pannella, l’intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la visita del nuovo guardasigilli Francesco Nitto Palma nelle carceri romane a Ferragosto: insomma, è di nuovo emergenza prigioni, sovraffollate all’inverosimile. Panorama ha voluto lanciare uno sguardo dentro le carceri attraverso gli altri “detenuti”, gli agenti penitenziari. Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), gli agenti sono 37.907 per 67.394 reclusi in 224 istituti di pena (di cui 19 carceri minorili) che potrebbero contenerne al massimo 45 mila. Considerati turni, ferie, malattie e servizi speciali, gli agenti penitenziari sono ancora pochi e poco pagati: lo stipendio base è di 1.500 euro. “Non abbastanza per tutto quello che facciamo: i poliziotti, gli psicologi, anche i magazzinieri” lamenta Carlo Traisi, assistente capo al carcere di Padova. “C’è tra di noi chi si è fatto un vero ergastolo, trent’anni dietro le sbarre” aggiunge Manuela Federico, 37 anni, prima donna al comando del carcere di San Vittore. Che non si pente della sua scelta e racconta: “Facevo l’avvocato e avevo una carriera davanti, quando ho detto alla mia famiglia quale sarebbe stato il mio lavoro, si sono messi a piangere”. I pregiudizi restano, come evidenzia uno studio promosso da Franco Ionta, a capo del Dap: il 32 per cento dei 1.000 intervistati ha sentito parlare della polizia penitenziaria solo in modo negativo, il 48 la conosce per incidenti o suicidi. Quando viene chiesto il livello di fiducia nelle forze di polizia, la penitenziaria è all’ultimo posto. E infine il 17 percento pensa che si chiamino ancora guardie carcerarie. Queste sono alcune loro storie raccolte in quattro carceri simbolo. Amerigo Fusco 37 anni, comandante capo del carcere di Opera, a Milano Quando torna a casa, la sera, spesso non resiste e finisce per vedere ancora una volta Brubaker, il film cult sul carcere Ha visto decine di volte Robert Redford che fa l’illuminato direttore di carcere quello resta il suo modello, anche se poi dice: “Non aedo in un rapporto fiduciario con i detenuti. Non si tratta di essere umani o disumani, si tratta di essere professionali”. Qui, dietro i muri di cemento, ci sono Totò Riina e Francesco Schiavone “Sandokan”, sottoposti al regime del 41 bis; ci sono Olindo Romano e Roberto Savi; i serial killer Gianfranco Stevanin e Marco Mariolini. “Il miglio verde7. Bellissimo film, ma qui non potrà esserci mai un rapporto così fra un agente e un detenuto. Le due posizioni restano distinte i rapporti di amicizia tra noi e loro non esistono. È un lavoro e noi non ci facciamo coinvolgere nelle loro vicende giudiziarie”. Eppure, si lamentano gli agenti, non hanno mai fatto una fiction sulla polizia penitenziaria. “Godiamo di pessima reputazione anche al cinema. In un film intenso come Sleepers siamo i violenti e i pervertiti”. Fusco passa tra i corridoi puliù e deserti. A Opera ci sono anche due moschee dalle pareti dipinte di verdino. “Abbiamo avuto terroristi arabi, per loro prima delle regole del carcere vengono quelle religiose. Se non gli permettiamo di pregare iniziano contestazioni violente. Se non ci togliamo le scarpe in quel pezzo di corridoio, non possiamo entrare”. Fusco è figlio d’arte suo padre faceva quel lavoro e lui ogni mattina si alza alle 6, arriva in carcere tiene una riunione con tutti i suoi E poi la giornata inizia, alzabandiera e perquisizione a sorpresa di alcune celle “Uno dei miei ragazzi mi ha fatto trovare sul tavolo una lettera su come loro vedono il comandante Hanno scritto: è una creatura senza nome che chiamiamo “signore” quando ci è davanti e “bastardo” appena d volta le spalle”. Antonino Portoghese 38 anni, vice sovrintendente. A capo dell’ufficio comando del carcere di San Vittore, a Milano La notte che a San Vittore portarono Oleg Fedchenko, il pugile ucraino che aveva ucciso con un pugno una donna filippina incontrata per caso su un marciapiede milanese, ad aspettarlo c’era lui: i capelli rossicci, le lentiggini come un ragazzino e i denti consumati dalle sigarette. “Gli tolsero le manette in dieci, ma poi restai solo io a portarlo dentro. Oltre i cancelli gli altri detenuti cominciarono a inveire contro di lui, a insultarlo, minacciarlo. Lui era chiuso in un silenzio assoluto, io gli camminavo a fianco e dovevo proteggerlo dagli altri. Non è facile, è da schizofrenia: devi scindere il tuo pensiero personale da quello che stai facendo. E quello che stavo facendo andava ben oltre il mio stipendio di 1.500 euro”. In una cella a due del reparto psichiatrico, Fedchenko, in maglietta gialla, fissa il televisore incassato nel muro, l’unico oggetto permesso nelle celle di questo reparto. Negli altri raggi le celle rigurgitano di uomini e oggetti, il gabinetto alla turca è attaccato alla cucina. “Devi osservare capire cosa succede in quei pochi metri quadrati: solo così compresi che cosa accadeva a un ragazzino polacco che non parlava più, si rifiutava di uscire nell’ora d’aria. Immobile sulla branda”. Lo aiutarono a parlare, a dire che a turno i compagni di cella, ragazzini come lui, ne abusavano. Il detenuto deve essere, secondo i termini usati dagli agenti: orientato, con spazio temporale regolare, lucido, collaborante. Quasi mai è così. “Una volta mi trovai di fronte un arabo detenuto per terrorismo; dovevo procedere alla perquisizione, ma piangeva e supplicava di non essere spogliato. Essere messo a nudo era contro il suo credo religioso. Capii che per lui era una violenza troppo grande, qualsiasi cosa avesse fatto. Così infilai le mani sotto la tunica e gli sfilai le mutande”. Domenico Maggio 45 anni, assistente capo al carcere di Padova, “dentro” dal 1992 Ci ha messo qualche anno, ma poi ha raggiunto il suo scopo: farsi costruire una guardiola all’incrocio dei tre corridoi che portano alle aule delle scuole del carcere di Padova, che lui controlla. Una gabbia dentro la gabbia. “Sono stato cameriere, perito elettrotecnico, poi mi sono arruolato a 23 anni per ripicca, non per passione”. Ogni giorno mette le mani addosso a 150 detenuti, li fruga prima che entrino nelle stanzette adattate ad aule. Su questi banchi in fila simili a una classe delle elementari ha studiato il serial killer Donato Bilancia. “Coltelli, lame: sanno nascondere in bocca una lametta e continuare a parlare”. Per 11 anni ha fatto le notti in sezione. C’è un solo agente a controllare 150 detenuti da mezzanotte alle 8 del mattino, camminando su e giù per i corridoi. Con una tensione che ti uccide. “Sei da solo, senza chiavi. Le chiavi sono quattro piani più sotto. Devi essere lucido, ma sei stanco. Oltre le sbarre magari c’è un uomo che sta male e l’istinto è quello di aprire, ma ti devi ricordare che sei solo. Se apri, sei morto tu. Se ti chiamano contemporaneamente da due celle diverse, non sai come fare, se devi salvare una vita e sei da solo non ce la farai mai. Guardi dallo spioncino, troppo piccolo, troppo buio. Non vedi neanche se quello sulla branda in alto sta male davvero”. Un agente giovane, appena entrato, non ce l’ha fatta, si è sparato. Maggio era qui quando Felice Maniero, Faccia d’angelo, il boss della mala del Brenta, mise in atto la più spettacolare delle evasioni: “La ribattezzammo Bussate e vi sarà aperto: uscirono in sei con la complicità di uno dei nostri”. Gli diedero 300 milioni e lui si aprì un ristorante. Pamela Bernasconi 36 anni, assistente nel carcere di Padova Sono poche le donne agenti dentro le carceri maschili, a loro è vietato salire nelle sezioni. Stanno negli uffici o in portineria, come è capitato all’inizio a Pamela Bernasconi, bella, bionda, fisico esile. “Un detenuto faceva le pulizie. Mi trovavo sola con lui. I colleghi mi avevano avvisato: dei detenuti non ci si può fidare mai. Entrarono in guardiola degli agenti che avevano appena finito una traduzione, appoggiarono le armi sul tavolo e uscirono. Io ero distratta, lui continuava a passare un cencio per terra scivolando sempre più vicino a me. Arrivò alle mie spalle senza che che ne accorgessi: se allungava la mano arrivava alle pistole. Mi sussurrò senza alzare gli occhi dal pavimento: “Agente mettile via, ci sono io, poi ti fanno rapporto”. Bernasconi va nelle scuole a raccontare che dentro il mondo ha un’altra prospettiva. “Ho piantonato tutte le donne assassine del Triveneto. Quando mi sono trovata davanti a una madre che aveva inferto 88 coltellate al suo neonato, l’ho guardata a lungo, ma non ho visto un’assassina, solo una donna disperata, presa da un raptus. E che mai lo avrebbe rifatto. E mi sono chiesta: a cosa serve per loro la galera?”. E quando non si riesce a salvare la vita a un detenuto che s’impicca? “Tu fai di tutto, ma fallisci. E poi vedi arrivare il magistrato che cronometra quanto ci sarebbe voluto per correre alla cella. Come se non contasse la paura che t’inchioda davanti a un uomo che ha deciso di morire. La disperazione che è anche nostra. Ho visto colleghi anziani piangere per non essere arrivati in tempo. Noi siamo dei perdenti, comunque”. Assicura che questo lavoro lo farebbe gratis, anche se i turni massacranti rendono difficile la vita fuori. “E se poi, come la maggior parte di noi, ci si accompagna con un collega, si rimane stritolati da turni sempre diversi. Siamo il corpo con il più alto numero di divorzi”. Anche lei non ce l’ha fatta, fuori: torna a casa ed è sola. Francesco Massimiliano Minniti 37 anni, comandante capo del carcere di Palmi (Reggio Calabria) In macchina tiene tutta la sua vita: una sacca con l’attrezzatura per fare arti marziali. Perché quando esce dal carcere che dirige e percorre quel pezzo maledetto di Salerno - Reggio Calabria die divide il nulla di Palmi dalla città, sa che la sua giornata finisce in palestra. A Messina ha studiato giurisprudenza, doveva fare il professore universitario. E invece da un anno e mezzo dirige quel cubo di cemento con le torrette dove un tempo c’erano le sentinelle (ora per scarsità di personale sono abbandonate). “Ho paura ogni giorno e so che quando smetterò di avere paura quello sarà un brutto giorno. I detenuti non dovrebbero conoscere i nostri nomi e invece sanno tutto, dai passi nel corridoio capiscono chi arriva e sanno anche se la moglie gli mette le corna”. Questo è un carcere per la ‘ndrangheta, ma pure per batterla fuori. “Perché solo se si capisce cosa succede in galera, quali sono le nuove alleanze, le dinamiche dei clan si può combatterla. Studiando qui il clan Pesce si è arrivati a capirne l’importanza a Milano, dove possedevano anche la discoteca Hollywood”. Un lavoro di intelligence importante, portato avanti dal Nic, il Nucleo investigativo. Eppure non è ancora abbastanza per togliergli di dosso l’immagine di sbirro. “Il carcere è un luogo fisico, forse un luogo dell’anima, non è certo un luogo comune. Invece noi viviamo di luoghi comuni. Eccoli: gli agenti di polizia penitenziaria sono ignoranti, brutti. Perché i cattivi sono brutti, e noi brutti lo siamo spesso. La galera invecchia: hai 50 anni e ne dimostri 70. Poi picchiamo i detenuti: come se un’agente che ha fatto dieci ore dentro con i piedi che gli fanno male, gli straordinari pagati a singhiozzo, una vita schifosa fuori, avesse come unico pensiero quello di menare i carcerati... Naturalmente siamo tutti fascisti, ma io in camera ho il poster di Enrico Berlinguer. E infine siamo corrotti. Qui dentro arrivano detenuti carichi di soldi, possono comprarci. E a volte succede. L’anno scorso ho arrestato uno dei miei ragazzi. Faceva telefonare con il suo cellulare. Lo hanno denunciato i suoi colleghi”. A Palmi due anni fa c’è stata l’evasione da film dei fratelli Zagari. “Sul blindalo che li portava in tribunale a Reggio Calabria hanno tirato fuori due pistole, hanno sparato, ferito il collega. Poi si sonò arresi”. Ma le armi dentro chi le porta? Non lo so”. Nicola Russo 46 anni, ispettore a Palmi, 30 anni di servizio in carcere Negli anni Ottanta fuori dal carcere di Palmi c’era un carro armato. Gli S - 2, i detenuti per atti terroristici, li avevano portati tutti lì, perché dovevano sentire di essere finiti ai confini del mondo: ma anche gli agenti, come le Br, erano confinati. “Ma loro continuavano a studiare in cella e a noi ci sputavano in faccia, ci disprezzavano, ci trattavano come degli inferiori. Secondini di merda, guardie, sbirri, servi dello Stato, tutto il giorno a chiamarci così”. Palmi era stato costruito dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per il gotha del terrorismo: Renato Curcio, Prospero Gallinari che qui si sposò, i neri Giusva Fioravanti e Pier Luigi Concutelli, i rossi Corrado Alunni e Mario Moretti e Adriana Faranda nella sezione femminile. E poi Toni Negri “‘o professore secco, secco”. “Sapevano che smontavamo alle 4 e a quell’ora facevano suonare l’allarme. Per non farcì uscire, per non lasciarci tornare a casa”. Allora ogni terrorista aveva tre agenti a controllarlo. “In cella si entrava se si era almeno in due, ci sfidavano, si cucivano le labbra, i genitali come Giorgio Panizzari, facevano scioperi della fame, scrivevano volantini che poi inghiottivano”. Nelle ore d’aria i terroristi si barricavano ai passeggi. “Ma il carcere era stato costruito apposta e noi avevamo un altro ingresso per stanarli”. Una porticina azzurra, nel cemento. Oggi in quei passeggi vanno avanti e indietro uomini vestiti in modo quasi elegante. Sono i capi della ‘ndrangheta. “Loro hanno un modo diverso di vedere il carcere. Loro la galera la sanno fare. Si rivolgono a noi con ossequio. Hanno la massima cura delle celle. I capi più anziani alle 5 del mattino sono già vestiti, hanno fatto tutte le pulizie e, seduti immobili sulle loro brande rifatte, ci salutano chiamandoci agente”. Giustizia: allarme dell’Osapp; i drastici tagli agli educatori sono carenza imperdonabile Ansa, 22 agosto 2011 “Il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nelle carceri italiane non può più prescindere dalla restituzione al sistema penitenziario degli strumenti e dei progetti per il trattamento e per il recupero sociale dei detenuti”. Lo sottolinea il sindacato penitenziario Osapp in una lettera inviata dal suo segretario generale, Leo Beneduci, ai gruppi parlamentari e ai componenti delle Commissioni Affari Costituzionali, Giustizia e Lavoro di Camera e Senato. La carenza di almeno il 30% di educatori e di addetti all’area socio - pedagogica rappresenta, per l’Osapp, una grave mancanza. “Nelle carceri italiane, non solo le promiscuità e i disagi (66.700 detenuti presenti per 45mila posti letto), ma anche l’eccessivo ricorso alla detenzione, meno che mai se intesa in forma cautelare o per reati cosiddetti bagatellari, nella completa incuria di mezzi e rapporti risocializzanti, ingenerano crescente insicurezza e nuove adesioni criminali in danno della collettività. Infatti - prosegue Beneduci - non sapremmo come definire altrimenti, se non con i termini incuria, indifferenza e incompetenza il processo che dalla metà degli anni ‘90 ha ridotto drasticamente l’apporto in carcere degli addetti dell’area socio - pedagogica”. L’Osapp calcola che, così facendo, “si è pervenuti agli attuali 30 minuti annui di osservazione e trattamento psicologico per ciascun detenuto, ovvero al blocco delle assunzioni degli educatori, benché figure chiave della rieducazione penitenziaria, dopo un concorso del 2004 non concluso per ingiustificabili impastoiamenti burocratici nel Dap e per un organico che, stimato per 10mila detenuti in meno degli attuali, presenta una carenza del 30% (953 educatori in servizio per 1.331 posti,), cos da ingenerare situazioni assurde quali quella di Napoli - Poggioreale con 7 educatori che dovrebbero provvedere per 2.700 detenuti”. “È chiaro che tali imperdonabili carenze provocano all’interno delle carceri sovraccarichi di lavoro, di responsabilità e di tensioni nei pochi donne e negli uomini della polizia penitenziaria in servizio, quale unica risorsa umana disponibile - conclude il sindacato - cos com’è altrettanto palese che il ministro Palma, nella prospettiva di interventi puntuali e risolutivi, non potrà trascurare alcuno degli aspetti controversi dell’attuale ed assolutamente deleteria realtà penitenziaria del Paese”. Lettere: un appello sulle carceri… diventino più umane! di Carlo Maria Martini Corriere della Sera, 22 agosto 2011 Quando, nel febbraio del 1980, entrai a Milano, era prevista una prima parte in automobile e una seconda a piedi, accompagnato da una presenza di decine di migliaia di ambrosiani. Nella parte percorsa in automobile vi fu un momento nel quale passammo vicino a un luogo dalle mura altissime. Compresi subito che si trattava del famoso carcere di San Vittore e diedi spontaneamente la mia benedizione a tutti i carcerati che vivevano là dentro. Dovetti imparare ben presto che in carcere non ci sono solo detenuti ma anche guardie carcerarie, militari, suore come la beata Enrichetta (detta la madre dei carcerati), beatificata a Milano poco tempo fa. Queste suore avevano deciso di vivere nel carcere per essere più vicine alle sofferenze di cui erano testimoni. Quando iniziai la visita pastorale, cominciando proprio dal carcere di San Vittore, venni a contatto diretto con tali sofferenze, soprattutto compresi che quella del sovraffollamento era quella da cui scaturivano molte delle altre. Le carceri che visitavo erano tutte piene sino all’inverosimile, ben al di là della loro capienza normale. In una cella per tre persone ne dormivano sei. Tutto questo conduceva a che il carcere divenisse non un luogo di redenzione, ma, per tanti, una ulteriore scuola di delinquenza, nella quale i detenuti più giovani venivano tenuti in balìa dei vecchi. Quante volte sono intervenuto per denunciare questo scandalo! Del resto questo costituiva un punto monotonamente fisso per il discorso del Procuratore all’inizio dell’anno giudiziario. Egli soleva insistere sulla eccessiva lunghezza dei processi e il conseguente ingorgo delle cause. Capisco bene che il rimedio a questo stato di cose era legato a una qualche modifica legislativa, fatta da esperti, e che il Parlamento era responsabile di omissione in questa materia, dove emerge la negazione di diritti umani. I veti incrociati delle varie posizioni e opposizioni non avrebbero mai risolto nulla. Debbo anche testimoniare che alcuni carcerati venivano radicalmente scossi dalla realtà del carcere e facevano, con l’aiuto dei cappellani, un vero processo di conversione. Non mi meravigliavo di questa potenza di Dio, legata spesso alla conoscenza della Parola. Tuttavia è sempre preferibile che questo calumino avvenga fuori delle realtà del carcere, che è piuttosto incline a favorire la nuova delinquenza. Perciò il fatto che tale questione rimanga ancora aperta come una ferita dolorosa mi turba profondamente. Lettere: le detenute per un carcere umano Il Piccolo, 22 agosto 2011 Cogliamo lo spazio, offerto da questo quotidiano, per comunicare a tutti i lettori e persone libere, che le donne ristrette nel carcere cittadino, stanno attuando uno sciopero, civile e pacifico, sul tema: “Legalità per la giustizia”. Abbiamo constatato il silenzio dei media e sparuti articoli sul tema di grande attualità, cioè le invivibili condizioni in cui sono costrette a sopravvivere le persone detenute nei vari carceri d’Italia. Coraggiosa la civile battaglia per migliorare il sistema giuridico, oberato da un elevato numero di procedimenti in corso, riassestando i tempi previsti nelle modalità, ostacolate dalla burocrazia e carenze di fondi e personale. Le donne detenute, di variegata età, con spirito positivo, affrontano i sacrifici che comporta lo sciopero, astenendosi dal prendere il cibo del carcere. Il nostro direttore, dottor Sbriglia, ha comunicato al ministero l’adesione alle proteste, civilmente espresse, con tutte le persone detenute in Italia, spesso otto detenute in celle capienti per tre e molto altro. Riaffermiamo il nostro coraggio di lottare per migliorare lo stato attuale delle carceri italiane, dove le persone detenute scontano le pene aggiuntive e la polizia penitenziaria, quanto i vari operatori preposti, svolgono il lavoro muovendosi in un lacunoso e incontenibile disagio “pratica strutturale”. Le donne detenute nel carcere di Trieste rivolgono apprezzamento per gli sforzi che la polizia penitenziaria dimostra in questa triste realtà. Non si può definire “riabilitativo” lo sconto di una condanna senza i presupposti che esso implica. Convivenze forzate, igiene precaria, sanità, lavoro, studi (sono carenti o assenti) si presentano quotidianamente in modo inaccettabile. Diversi sono i casi di autolesionismo ai quali amaramente assistiamo. I tagli decisi dal governo, rispetto ai fondi per il ministero di Giustizia, pongono ulteriori problematiche. Difficile o impossibile avere cure adeguate per chi soffre particolari patologie. Le donne detenute, con la concessione del direttore, hanno chiesto che il cibo non consumato, per lo sciopero in atto, venga consegnato al canile di Trieste. E le candele colorate e lavorate da alcune detenute, durante il corso professionale, appena possibile, verranno vendute, così il ricavato verrà versato al reparto di terapia intensiva dei bimbi all’ospedale Burlo Garofalo della città. Le detenute, donne, madri, mogli, nonne, ringraziano tutti i lettori di questo giornale per aver “regalato” la loro attenzione verso chi non ha voce, pur facendo parte del contesto sociale. Parecchie donne potrebbero scontare la pena reinserendosi con un lavoro e vicino ai propri cari, semplicemente tornando alla propria abitazione, seguendo i dettami di legge, con precisi obblighi e controlli. Confidiamo che questo accorato messaggio sensibilizzi le persone libere, perché chi ha sofferto nella vita può meglio condividere quelle che si respirano nelle carceri d’Italia. Speriamo che il nostro grido d’aiuto verso la legalità per la giustizia si espanda con incisività tra i media e varie forme d’informazione. Grazie a tutti. Le detenute nel carcere di Trieste Basilicata: Radicali in visita agli istituti penitenziari, per chiedere l’amnistia Adnkronos, 22 agosto 2011 I Radicali effettueranno visite nelle carceri lucane. Rita Bernardini, della Commissione Giustizia della Camera dei deputati, e Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali Lucani e componente della Direzione Nazionale, saranno martedì alla Casa circondariale di Matera mentre venerdì visiteranno la Casa circondariale di Potenza, il Carcere minorile del capoluogo ed il carcere di Melfi. Mentre la Comunità di Sant’Egidio, attraverso il suo portavoce Mario Marazziti, si schiera a favore dell’amnistia, prosegue l’iniziativa radicale sulla questione Giustizia - Carceri - dichiarano. Lo stesso Pannella ha ripetutamente sottolineato in questi mesi che l’amnistia è un provvedimento necessario per rimettere in cammino legale l’amministrazione della giustizia e per riportare le patrie galere, oggi luogo non di detenzione, ma di tortura per detenuti e agenti di polizia penitenziaria, nella legalità. Amnistia, dunque, come misura di clemenza, ma soprattutto come strumento tecnico indispensabile a far sì che il nostro paese onori il dettato costituzionale e le convenzioni internazionali. Amnistia - aggiungono - per sgravare le Procure dall’enorme carico di procedimenti, che ormai tra civile e penale assomma ad oltre 9 milioni di processi. Amnistia legale contro l’amnistia clandestina e di classe che ogni anno produce 170.000 prescrizioni. È la seconda iniziativa dopo lo sciopero della fame e della sete del 14 agosto a cui hanno aderito 2000 persone. In Parlamento, inoltre, i Radicali proporranno un ordine del giorno. Calabria: Sappe; 3.045 detenuti, rispetto a 1.875 posti regolamentari Ansa, 22 agosto 2011 Sono 3.045 le persone detenute nei 12 penitenziari della Calabria a fronte dei 1.875 posti disponibili. I dati, riferiti al 31 luglio, sono stati resi noti dal Sappe, il Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Il segretario generale del sindacato, Donato Capece, al termine di una visita in Calabria, ha evidenziato che resta altissimo il sovraffollamento penitenziario in Calabria. Nel corso dell’anno 2010, ben 49 detenuti hanno tentato il suicidio, riuscendo i nostri bravi Agenti di Polizia Penitenziaria a salvarli in tempo, 143 hanno compiuto atti di autolesionismo e 50 hanno posto in essere ferimenti. 3 detenuti sono morti suicidi e 2 per cause naturali. È evidente quanto il sovraffollamento delle strutture detentive calabre incida in questi eventi critici. Il costante e pesante sovraffollamento - prosegue Capece - fa fare ogni giorno alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria i salti mortali per garantire la sicurezza. A me sembra che le criticità penitenziarie calabresi, più volte rappresentate dal Sappe ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria romana, non vengano tenute nel debito conto: e la situazione rischia di esplodere ogni giorno. Auspico allora che il Ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma assuma quanto prima i non più rinviabili interventi risolutivi per la Regione Calabria. Capece ha inoltre evidenziato che nel 2010 le 23 manifestazioni di protesta hanno visto coinvolti complessivamente 609 detenuti e si sono concretizzate in scioperi della fame, rifiuto del vitto dell’Amministrazione e soprattutto nella percussione rumorosa dei cancelli e delle inferriate delle celle. Il Sappe torna quindi a proporre con urgenza un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia, che preveda circuiti penitenziari differenziati ed un maggiore ricorso alle misure alternative. Lazio: il Garante; garantire sostegno a detenuti musulmani durante il Ramadan Dire, 22 agosto 2011 Garantire, durante i Ramadan, il “pasto di rottura del digiuno” ed altri generi di conforto agli oltre 700 detenuti arabi e di fede musulmana reclusi nelle carceri del Lazio. È quanto prevede il programma umanitario dell’associazione “Alternativa culturale dei marocchini in Italia”, che si avvale della collaborazione e del sostegno del garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni. Il progetto, spiega una nota, riguarda le carceri di Regina Coeli, Rebibbia Nuovo Complesso, Velletri, Viterbo, Frosinone, Cassino, Rieti e il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria. A Regina Coeli sono già stati consegnati tre colli di datteri ed uno di libri sacri del Corano per la comunità araba e musulmana detenuta. L’iniziativa era stata inaugurata, in via sperimentale, lo scorso anno a favore dei detenuti di nazionalità marocchina. Il progetto di quest’anno, esteso a tutti i reclusi arabi di fede musulmana, prevede che una delegazione dell’associazione entri in carcere per preparare il pasto della rottura del digiuno con prodotti tipici rigorosamente consentiti dal regolamento penitenziario. Ai detenuti saranno offerti cibo, datteri, dolci tradizionali e libri. Della delegazione farà parte un imam autorizzato dal Ministero dell’Interno, che si occuperà dell’assistenza spirituale ai detenuti, della lettura e del commento dei testi sacri. Il digiuno durante il Ramadan è uno dei cinque pilastri dell’Islam. Durante il Ramadan, infatti, i musulmani praticanti devono astenersi, dall’alba al tramonto, dal bere, mangiare e fumare. “Quella dell’associazione Alternativa culturale dei marocchini in Italia è una iniziativa estremamente importante - ha detto il garante dei detenuti, Angiolo Marroni - perché ha una grande valenza sociale: quella di non far sentire abbandonati in terra straniera i detenuti stranieri presenti nelle nostre carceri, troppo spesso abbandonati al loro destino anche dalle proprie rappresentanze diplomatiche in Italia. Il contatto, sia pure occasionale, con il mondo esterno, soprattutto in un momento di estrema difficoltà nelle carceri come quello che si sta vivendo, potrebbe essere un ulteriore stimolo ad intraprendere con convinzione la strada del recupero sociale”. Milano: detenuto 32enne suicida nel carcere di Opera, aveva già cercato di togliersi la vita Agi, 22 agosto 2011 I precedenti tentativi di suicidarsi risalgono a quando il giovane era imputato per l’omicidio del ginecologo milanese Marzio Colturani, imbavagliato e ucciso nella sua abitazione milanese dopo una rapina, la notte del 13 novembre 2007 Aveva già tentato due volte di impiccarsi in carcere Serghiei Dragan, il 32enne moldavo che si è tolto la vita giovedì scorso nella sua cella di Opera, nel milanese. I precedenti tentativi di suicidarsi risalgono a quando il giovane era imputato per l’omicidio del ginecologo milanese Marzio Colturani, imbavagliato e ucciso nella sua abitazione milanese dopo una rapina, la notte del 13 novembre 2007. Durante il processo, che si è concluso con la condanna di Dragan a 24 anni e sei mesi di carcere, la difesa aveva chiesto di sottoporre il giovane a una perizia psichiatrica in seguito ai tentativi di suicidio. “Quando si ammazza un detenuto è sempre un momento molto doloroso - commenta Mirko Mazzali, presidente della Commissione Sicurezza al Comune di Milano - lo conoscevo perché era coimputato di un mio cliente. Nessuno lo ha salvato dopo i precedenti tentativi d’impiccarsi in carcere”. A Opera, Dragan, che continuava a definirsi innocente anche dopo la sentenza di condanna, non era considerato un detenuto a rischio e non era nel regime dei sorvegliati a vista. Reggio Calabria: testimone di giustizia si suicida ingerendo dell’acido muriatico Il Velino, 22 agosto 2011 Maria Concetta Cacciola,31 anni, testimone di giustizia, si è suicidata ingerendo dell’acido muriatico a Rosarno. La donna, secondo quanto riporta stamane la Gazzetta del Sud, era figlia di Michele Cacciola, a sua volta cognato del boss Gregorio Bellocco, capo dell’omonima cosca di ‘ndrangheta di Rosarno. Il marito di Maria Concetta Cacciola, inoltre, è Salvatore Figliuzzi, attualmente detenuto per scontare una condanna ad otto anni di reclusione per associazione di tipo mafioso. Nel maggio scorso la donna si era presentata ai magistrati della Dda di Reggio Calabria e, dopo avere fatto una serie di dichiarazioni, aveva iniziato il percorso di testimone di giustizia. Maria Concetta Cacciola era stata trasferita in una località protetta, dove era rimasta fino al 10 agosto scorso quando era tornata a Rosarno per riabbracciare i figli rimasti a casa dei nonni in attesa del perfezionamento delle pratiche per il loro trasferimento nella sede protetta. Secondo la ricostruzione del suicidio fatta dalla polizia, Maria Concetta Cacciola, mentre era a casa, si è chiusa in bagno, dove ha ingerito l’acido muriatico. La donna è stata trovata da alcuni familiari Taranto: Vitali (Pdl); mai detto che è carcere a 5 stelle, deposito querela per diffamazione Tm News, 22 agosto 2011 “Mi appresto a depositare querela per il reato di diffamazione aggravata nei confronti del segretario nazionale del Sappe Federico Pilagatti, concedendogli ampia facoltà di prova”. Lo ha detto l’onorevole Luigi Vitali, responsabile nazionale Pdl per l’Ordinamento penitenziario, per mettere definitivamente fine alla lunga coda di polemiche che è seguita alla visita nelle carceri di Bari e Taranto a Ferragosto. Il Sappe, così come alcuni esponenti parlamentari, avevano duramente criticato l’espressione di “carcere a cinque stelle”, attribuendola erroneamente all’onorevole Vitali che, invece, non lo ha mai dichiarato. “Nonostante avessi dichiarato dopo l’uscita di quel sindacato di non aver mai pensato e proferito le parole attribuitemi - ha spiegato, Pilagatti non solo non ne ha preso atto, ma ha anche rilanciato facendo diventare questione nazionale una notizia falsa, al punto da indurre anche in errore una dirigente tarantina dei Radicali, che sulla polemica aveva rilasciato alcune pesanti dichiarazioni, e da meritare l`intervento addirittura dell’onorevole Papa dal carcere di Napoli. Non avendo altra strada per tutelare la mia onorabilità - ha concluso il parlamentare del Pdl, ho deciso di porre fine a questa assurda polemica, querelando i responsabili dell’equivoco”. Trento: nonostante taglio fondi punta a business, coinvolgendo imprenditori esterni Ansa, 22 agosto 2011 Neppure il carcere più recente e moderno d’Italia è immune ai danni dei tagli ai budget. Imprenditori esterni però potrebbero trasformarlo in una reale struttura modello. Si tratta del penitenziario di Trento, aperto lo scorso dicembre, nuovo e moderno, con 220 detenuti, senza sovraffollamento. A spiegarlo sono il direttore, Antonella Forgione, e il comandante del reparto di polizia penitenziaria, Domenico Gorla. “Ci dicono che è la struttura più bella d’Italia - spiega Forgione - e ha davvero le potenzialità per tenere impegnato un detenuto per la maggior parte della giornata. Realizzare nella totalità l’obiettivo però richiede organizzazione e pure un cambio di mentalità degli operatori, quindi un po’ di tempo, oltre che personale e denaro, che invece scarseggiano”. Non che queste carenze li scoraggino, perché a Forgione e Gorla le idee non mancano. Hanno iniziato con l’esternalizzare il servizio di lavanderia, in cambio di sei detenuti assunti, fatto che si concretizzerà a breve. Ma attendono anche che qualche imprenditore si faccia vivo per sfruttare le serre, per cui danno a disposizione terreno e strutture, e la stessa operazione puntano a farla con le cucine, magari con una ditta di catering. Piacenza: De Micheli (Pd) in visita alle Novate; mantenere alta la guardia sui problemi Piacenza Sera, 22 agosto 2011 La parlamentare piacentina del Partito Democratico Paola De Micheli conferma il suo impegno e quello del Pd sul tema del carcere visitando, martedì 23 agosto alle 10, la struttura penitenziaria delle Novate. “Occorre mantenere alta la guardia sulla condizione dei detenuti e del personale di vigilanza perché arrivano segnali sempre più preoccupanti: l’episodio che si è verificato recentemente alle Novate, con l’incendio in una cella prontamente domato soltanto grazie al tempestivo intervento degli agenti di polizia penitenziaria, è l’ennesimo sintomo della situazione insostenibile di sovraffollamento che si vive nelle strutture carcerarie”. I numeri lo testimoniano: sono 67mila i detenuti all’interno delle strutture italiane per una capienza di 45mila posti. Il triste conto dei suicidi tra i detenuti è arrivato a quota 39 in soli otto mesi, e le risorse economiche mancano, se si pensa che per ciascun detenuto è possibile contare solo su 3,15 euro al giorno per spese di vitto e alloggio. Dalla parlamentare piacentina del Partito democratico arrivano così alcune proposte. “I dati dimostrano che chi meno rimane rinchiuso nelle strutture penitenziarie, meno delinque una volta uscito: per questo occorre accelerare il percorso della proposta di legge sulle pene alternative e quella nata all’interno dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà relativa al lavoro nel carcere. Il cardinale Carlo Maria Martini ha lanciato questa mattina un appello dalle colonne del Corriere della Sera, perché le carceri diventino più umane e individuando nel Parlamento i responsabili della situazione di stallo: con le nostre proposte crediamo sia possibile realizzare davvero quello che la Costituzione ci chiede anche per chi ha gravemente sbagliato”. Secondo Paola De Micheli, “per la struttura delle Novate è necessario ridurre il sovraffollamento, ma non mancano altre criticità, tra cui la manutenzione, la necessità di incrementare il numero degli agenti e del personale amministrativo, e la presenza degli educatori, solo due per oltre 350 detenuti. Questa visita - conclude la parlamentare piacentina - sarà così un momento di condivisione all’interno di un percorso quotidiano, per tenere accesi i riflettori sul mondo del carcere”. Messina: evasione in stile Papillon per due internati dell’Opg di Barcellona P.G. Gazzetta del Sud, 22 agosto 2011 Due internati del reparto di contrada Oreto, struttura esterna all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, emuli di Papillon, il protagonista del celebre film degli anni 70 interpretato da Steve McQueen e Dustin Hoffman, sono evasi all’alba di ieri, rubando un furgone, Fiat Scudo, donato dall’Arci e di proprietà del circolo interno all’Opg, denominato appunto “Papillon”. I due evasi, un siciliano e una calabrese, per nulla pericolosi, hanno riacquistato la libertà fuggendo, dopo aver sottratto le chiavi del furgone utilizzato dal reparto esterno dove sono ricoverati una dozzina di internati sulla via del reinserimento lavorativo. Gli evasi, senza soldi e senza meta, potrebbero essere riacciuffati presto ma fino a tarda notte nessuna traccia neppure del furgone. Nei panni di Papillon, l’internato siciliano definito troppo “mammone” che stava per essere dimesso e inserito in una comunità gestita dall’Asp. A far scattare la voglia di evasione vi sarebbe un episodio non trascurabile che l’uomo ha vissuto nei giorni scorsi, quando ha appreso che la madre - attualmente in vacanza a Vulcano - non voleva accoglierlo in casa e che pertanto doveva essere destinato ad una comunità per ex malati di mente. L’internato calabrese invece, definito semi incosciente, avrebbe seguito d’istinto l’ amico sposando con lui la voglia di libertà. Nulla esclude che i due possano essersi diretti alle isole Eolie o nel paese d’origine del siciliano. I due - così come ha ribadito ieri il direttore dell’Opg Nunziante Rosania - “non sono per nulla pericolosi”, tanto da essere stati destinati dopo apposita selezione al nuovo reparto esterno con sorveglianza attenuata di contrada Oreto. Reparto inaugurato lo scorso 8 aprile e che ospita 12 internati prossimi all’inserimento lavorativo e alla dimissione per un possibile reinserimento sociale. “In effetti - spiega il direttore sanitario Nunziante Rosania - i due potrebbero non essere considerati evasi, in quanto prossimi all’assegnazione alle famiglie di origine o in alternativa a comunità”. Entrambi, prosciolti dai reati commessi a causa della malattia, sarebbero stati già soggetti a continue proroghe della misura di sicurezza solo perché non sono state trovate nel frattempo sistemazioni alternative. Adesso scatterà il reato di furto del furgone, avendo sottratto le chiavi che erano in custodia ad un addetto del reparto esterno. La struttura di contrada Oreto, esterna rispetto al complesso edilizio penitenziario, dove sono sopitati 12 internati che usufruiscono delle normali terapie necessarie, consente agli ospiti libertà di movimento all’interno, nei cortili e nei giardini dell’edificio. La vigilanza è molto attenuata è affidata a personale parasanitario ed ad un sistema di video sorveglianza collegato con l’Opg. Nella struttura e nemmeno all’esterno, vi è la presenza di agenti della polizia penitenziaria i quali intervengono soltanto in casi di necessità o per le normali traduzioni. La direzione dell’Opg è convinta che i due, senza soldi, non potranno andare molto lontano. Nonostante l’evasione di ieri, avvenuta a quattro mesi dall’apertura, il direttore dell’Opg riconferma la validità del modello del reparto definito “assolutamente innovativo, rispetto allo standard penitenziario”. Vicenza: sovraffollamento caldo e tafferugli; in carcere vietato anche giocare a calcio Giornale di Vicenza, 22 agosto 2011 La decisione è stata presa dal direttore e resterà in vigore fino a settembre. Intanto la casa circondariale di via della Scola “scoppia”, con 362 detenuti. Cacciabue: “Devo tutelare agenti e reclusi, spero che gli animi si calmino”. “Riescono ad uscire in cortile, ma sono vietate fino a settembre le partite di calcio. Troppi tafferugli tra le varie etnie. Sono stato costretto a sospendere gli incontri almeno per un mese. In attesa che gli animi si calmino. Anche perché durante le risse sono stati coinvolti gli agenti costretti ad intervenire per sedare i facinorosi. E a Vicenza - dice chiaramente il direttore del carcere di S.Pio X, Fabrizio Cacciabue - non ci possiamo permettere di avere agenti in meno”. Trecento sessantadue detenuti il 14 e il 15 agosto nella casa circondariale di Vicenza hanno deciso di aderire alla protesta lanciata a livello nazionale dal partito radicale: alcuni hanno rifiutato il cibo, altri hanno battuto sulle grate con pentole e altri oggetti. Un modo per dire “non ce la facciamo più, siamo stanchi”. Rumore per portare all’attenzione un problema che è ben conosciuto a livello politico e sul quale non arrivano soluzioni. Il penitenziario di Vicenza é sovraffollato ed è al collasso da tempo. Lo hanno denunciato i sindacati, gli agenti di polizia penitenziaria e anche il direttore ammette che superata la soglia di 350 reclusi, che è quella di massima tollerabilità , qualche problema esiste con una pianta organica di operatori ridotta all’osso. Il ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta sarebbe contento: le assenze per malattia tra le guardie si sono abbassate del 70% solo nell’arco dell’ultimo anno. Un gesto di responsabilità anche nei confronti di colleghi che non ce la farebbero ad espletare tutto quello che viene richiesto quotidianamente in via della Scola. Tradotte, spostamenti per i vari lavori o iniziative che all’interno di S.Pio X non mancano, ma restano difficili da realizzare a causa di una situazione a cui non si riesce porre un rimedio definitivo. E liti e tafferugli tra reclusi non sono che l’ultimo campanello d’allarme. Del resto di parlamentari e consiglieri regionali a S. Pio X ne sono passati molti (ma non in quest’ultimo Ferragosto) e tutti hanno puntato il dito sui numeri, decisamente troppo consistenti per una struttura nata negli Anni Ottanta per 126 detenuti e 136 agenti. I primi sono almeno il triplo mentre i secondi, a fronte di una pianta organica di 191 agenti, devono arrangiarsi con 136 divisi in tre turni e spesso costretti a saltare ferie e permessi. Condizione difficile anche perché la maggioranza dei detenuti è di nazionalità straniera, rappresentata soprattutto da maghrebini rinchiusi per reati di spaccio e uso di sostanze stupefacenti. La maggior parte di loro è in attesa di giudizio per cui non possono fare richiesta del regime di semilibertà. Dati scoraggianti che si vanno ad unire al caldo, alle zanzare, all’impossibilità, a volte di uscire. “Riusciamo a portarli fuori - conclude il direttore - magari per meno tempo, ma con gli agenti a disposizione facciamo quello che possiamo. Certo, prendere certe decisioni fa male, però non posso prescindere dall’incolumità dei miei agenti e anche dei detenuti”. Insomma, il clima è teso. Del resto da almeno tre anni si attente il via libera per l’ampliamento che dovrebbe sorgere a ridosso dell’eliporto che non è mai stato realizzato, vicino la muro di cinta: circa 200 posti in più che nemmeno per l’anno prossimo saranno realtà visto che i lavori non sono ancora iniziati. L’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano, quando annunciò il decreto per lo stanziamento dei soldi, disse chiaramente che lo Stato avrebbe chiesto l’impegno di Comuni, Province e Regioni se dalla Comunità europea non fossero arrivate risorse. Ora, con la nuova manovra che sarà in discussione dalla prossima settimana, battere cassa negli enti locali, non servirebbe a nulla. È solo tempo perso. I detenuti attendono condizioni di vita migliori. E gli agenti aspettano di poter lavorare con maggior sicurezza. Cosenza: Corbelli (Diritti Civili); detenuto in attesa di giudizio rischia la cecità Ansa, 22 agosto 2011 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, in una nota, ha denunciato oggi “il caso di un detenuto cosentino, P.G., dipendente pubblico di 65 anni, incensurato, malato, da tre mesi in cella in attesa di giudizio, che sta diventando cieco in carcere, che chiede giustizia e la possibilità di essere curato e sottoposto subito a processo per dimostrare la sua innocenza”. L’uomo, ha riferito Corbelli, gli ha scritto una lettera dalla casa circondariale di Cosenza. “Dopo 45 anni di onesto lavoro a 65 anni - ha scritto l’uomo a Corbelli - sono stato arrestato e da tre mesi mi trovo sbattuto e sequestrato in una cella con l’accusa di non aver provveduto al fabbisogno familiare, di essere soggetto ad ubriachezza e per maltrattamenti alla famiglia. Per queste accuse, assolutamente non vere, sono da tre mesi in carcere, in attesa di giudizio, in una cella con altri sei detenuti. Sono ristretto in una stanzetta di 20 metri quadri. Domando: che giustizia è questa? È una giustizia giusta e umana, è uno stato di diritto quello che tiene un onesto dipendente in carcere, sequestrato, per accuse sono in grado di dimostrare assolutamente non vere, come testimonia tutta la mia vita?”. “Sto diventando cieco per il diabete - ha aggiunto l’uomo - che mi sta distruggendo. Scrivo questa lettera con molta difficoltà e a fatica, prima che i miei occhi non vedano più la luce. Mi aiuti, lei che si batte per difendere i diritti delle persone recluse, malate e abbandonate, faccia conoscere la mia storia, il mio dramma, la grande ingiustizia che sto subendo”. Sulmona (Aq): tre detenuti fermati con droga nascosta nel corpo Il Centro, 22 agosto 2011 Per ovviare ai controlli appositamente predisposti e rinforzati in occasione delle decine e decine di rientri di internati dalle licenze “ferragostane”, tre internati D.N.R e R.B. Ieri e S.M oggi, avevano nascosto hascisc e cocaina - per complessivi 13 grammi e ben 26 pasticche di droga sintetica - nel retto. La sostanza tuttavia non è sfuggita al fiuto dei cani dell’unità cinofila intervenuta appositamente da Avellino e ai controlli della polizia penitenziaria della Casa di reclusione di Sulmona sempre più specializzati in operazioni di questo genere. Sventato dagli agenti penitenziari spaccio di droga nel supercarcere sulmonese. “In occasione dei rientri dalle licenze da parte degli internati - spiega mauro Nardella, vice segretario provinciale della Uil - più di una volta si è avuto modo di stroncare le illecite introduzioni, per la Uil chiederà ancora una volta che la Casa di reclusione di Sulmona che ospita il più alto numero di internati in Italia venga dotata di una propria unità cinofila. Nell’attesa che si trovi una soluzione anche e soprattutto strutturale ridistribuendo su tutte le Case di reclusione d’Italia (la legge prevede che in ogni casa di reclusione può essere predisposta una sezione da adibire a casa Lavoro) le centinaia di internati presenti a Sulmona e molti dei quali tossico dipendenti e psicopatici, la Uil penitenziari invita l’Amministrazione Penitenziaria a prendere sul serio e prima che succeda qualcosa di molto grave la decisione di rimettere mano all’assetto della Cr di Sulmona, chiudendo la Casa di Lavoro o comunque riducendo drasticamente il numero di internati (se si ridistribuissero gli internati tra le case di reclusione di tutta la nazione Sulmona al suo interno avrebbe a che fare con soli 20 di essi) oltre che potenziando l’organico della polizia penitenziaria che malgrado il grosso risultato ottenuto non può più far fronte a carichi di lavoro sempre più pressanti e stressanti). Intanto - continua Nardella - la Uil si complimenta con i baschi blu della polizia penitenziaria capitanati dal neo comandante ed aitante Commissario Giuseppe Telesca e che ancora una volta hanno dimostrato di non essere secondi a nessuna forza di polizia in fatto di prevenzione del crimine e sempre più tra le più complete nell’esercizio delle funzioni di sicurezza”. Modena: rivolta al Cie, tre immigrati evasi e danni per ventimila euro La Gazzetta di Modena, 22 agosto 2011 Prima la colazione, poi la rivolta. In tempi di Ramadan, meglio partire rifocillati se si deve affrontare una giornata intensa, soprattutto se si prevede di affrontare militari dell’esercito italiano, poliziotti, carabinieri, polizia municipale e anche i vigili del fuoco. Ancora una rivolta al Cie, Centro identificazione ed espulsione, scoppiata all’alba, alle 4.30 e che ha tenuto impegnate praticamente tutte le forze dell’ordine che è stato possibile convogliare in quel di via La Marmora. Tre ospiti sono riusciti ad evadere, rinunciando “all’ospitalità” data loro nella struttura modenese, gli altri sono stati a fatica fatti rientrare. Eppure tutti i sessanta ospiti erano ormai ad un passo dal darsi alla macchia, dal riuscire, come accadde qualche mese fa, a fuggire scavalcando in più punti la recinzione. Uno, l’altra notte, ormai stava per riuscirci, ma è rimasto incastrato. Viene da pensare che per lui sarà per la prossima volta. Solamente la notte prima una ventina di uomini avevano praticamente fatto le prove generali, protestando, sfasciando e raggiungendo il tetto. Ma il pronto intervento ancora della polizia e dai carabinieri aveva fatto rientrare i venti rivoltosi, che si erano scatenati dopo aver cenato, come prevede il Ramadan, dopo il calar del sole. Come sempre accade in questi frangenti, il conto lasciato sul campo è salato: si parla di almeno ventimila euro di danni, tra porte, finestre, suppellettili, armadi, armadietti e altra attrezzatura, tutto distrutto. Inoltre ora la tecnica utilizzata per cercare la fuga di massa è cambiata, non più il tetto come meta, ma i cancelli, le cancellate principali. Tutti quelli che sono in “agitazione” si portano, una volta raggiunta, alla cancellata e a forza di vari spintoni, in sessanta, riescono a sfondarla. Dopodiché sono nel cortile, sono nel “circuito” esterno della struttura e solamente la recinzione li separa dalla città , dalla libertà. È successo così l’altra notte e persino i vigili del fuoco, con gli idranti, hanno dovuto raffreddare i tunisini scatenati. Bisogna considerare che, qualora venissero riacciuffati, i tre farebbero un po’ di carcere, circa due mesi, poi, scontata la pena, sono liberi. Clandestini, ma liberi. Quelli che restano al Cie vi restano per mesi e poi vengono espulsi. Ovvio che questo non va giù a questi sessanta ospiti: si tratta di tunisini “post decreto” che si sentono “discriminati” rispetto altri “lampedusiani” più fortunati. Daniele Giovanardi, presidente Misericordia: “Per come si stanno organizzando, per come si comportano durante le rivolte o i semplici tafferugli, questo “contingente” è formato da malfattori comuni, ex carcerati, gente che poco ha del profugo in senso stretto. Quello dei Cie è un problema sociale: le carceri sappiamo come sono messe, i Cie sono strutture non adatte a queste situazioni, la magistratura non può non essere chiamata in causa. Ma non esiste una bacchetta magica, occorre affrontare però il problema e con celerità”. Forti preoccupazioni intanto dai sindacati di polizia, in attesa di provvedimenti e contromosse che Giuseppe Pinto, il nostro nuovo questore presente l’altra notte ai disordini, un esperto in questioni d’immigrazione, sta per apportare. Dal Siulp preoccupazioni innanzitutto per l’incolumità di chi (8 soldati e tre poliziotti) è in servizio nella struttura: le rivolte sono sempre più studiate e organizzate da personaggi che sanno gestire, sanno come muoversi e comportarsi. Il Sap, tramite il vice segretario provinciale Ottorino Orfello, chiede che vengano utilizzati, all’occorrenza o meglio ancora in pianta stabile (e già da oggi qualcuno di loro presterà servizio a Modena) i poliziotti del reparto mobile di Bologna, disponibili e attrezzati per l’evenienza in modo specifico. Si tratterebbe di poter contare su una decina di uomini in più, un vero toccasana per un contingente, quello modenese, ridotto all’osso e che già fa fatica , e tanta, nel cercare di mantenere l’ordine pubblico, il normale servizio di pattugliamento nel territorio cittadino. E pensare che persino la presenza dei militari, i soldati che fanno sorveglianza alla struttura, era stata messa in dubbio: il loro “contratto” col Cie di Modena è stato rinnovato sino alla fine dell’anno. Gran Bretagna: tutto esaurito in carcere, rischio violenze sui nuovi arrivati La Stampa, 22 agosto 2011 Le carceri d’Inghilterra e Galles hanno quasi raggiunto il tutto esaurito. A gonfiarle oltre modo sono le centinaia di violenti arrestati durante i tumulti delle settimane scorse e condannati dai tribunali distrettuali. Una situazione che ha suscitato preoccupazione ai vertici del sistema penitenziario. Molti dei nuovi arrivati, infatti, erano incensurati e non sanno come vanno le cose in prigione: la loro incolumità, specie se fanno i parte della “gang” sbagliata, potrebbe essere a rischio. Ecco perché ai direttori delle carceri è stata inviata una circolare in cui si raccomanda di “tenere d’occhio l’umore e l’atmosfera” di ogni galera. “Nel corso degli ultimi giorni - si legge nella mail spedita dal vicedirettore del sistema penitenziario Andrew Cross ai capi delle carceri e “intercettata” dal Guardian - abbiamo ricevuto informazioni riguardo a possibili conseguenze legate all’arrivo dei responsabili delle violenze. Se, da una parte,’ il processo d’inserimento prevede che i detenuti siano messi al corrente dei rischi che corrono nel rivelare il loro indirizzo di residenza, la loro eventuale gang di appartenenza, la squadra di calcio sostenuta o la loro fede, sarà il caso di assicurarsi che lo staff dia dei ragguagli verbali quando ha a che fare con chi in prigione non c’è mai stato”. Il pericolo c’è ed è serio. Tre giovani “matricole” sono state malmenate al riformatorio di Cookham Wood, nel Kent, e due di loro sono finite all’ospedale, benché i funzionari dell’istituto si siano detti sicuri che l’incidente non può essere “collegato ai tumulti”. Sia come sia, è meglio prevenire che incerottare. Il problema, però, è che solo 1439 posti sono rimasti liberi nelle prigioni del Regno Unito: con la popolazione carceraria finita per la prima volta oltre quota 86 mila è dura tenere a bada gli animi. E le contaminazioni. Secondo Geoff Dobson, vicedirettore del Prison Reform Trust, a causa di questo picco certe prigioni si stanno trasformando in “magazzini umani”. “A rinchiudere persone che sono state condannate per la prima volta in condizioni di sovraffollamento, senza poter offrire programmi d’inserimento al lavoro o corsi d’insegnamento, si va incontro alla probabilità di avviarle per direttissima alla carriera criminale”. Come dire: siamo sicuri che la tolleranza zero invocata da David Cameron non faccia, in certi casi, più male che bene? Le corti d’appello paiono averlo capito. E hanno iniziato a ridurre le pesantissime sentenze elargite in primo grado. Come i cinque mesi inflitti a Ursula Nevin, 24 enne di Stretford madre di due figli, la cui colpa è stata quella di aver accettato in regalo dalla sua coinquilina un paio di short saccheggiati la notte prima. Il giudice della Manchester Crown Court ha trovato la condanna “sbagliata in principio” visto che la donna non aveva preso parte ai tumulti e ha convertito la pena in 75 ore di lavori sociali non retribuiti. Siria: la Croce Rossa spera di cominciare molto presto visite ai detenuti Tm News, 22 agosto 2011 Il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) spera di poter visitare “molto presto” le migliaia di prigionieri detenuti dall’inizio della contestazione in Siria. Lo ha indicato il portavoce dell’organizzazione a Damasco, Saleh Dabbakeh. “Il presidente del Cicr, Jakob Kellenberger, durante la sua visita a Damasco il 21 e il 22 giugno, ha fatto una richiesta in questo senso”, ha indicato Saleh Dabbakeh, portavoce del Cicr nella capitale siriana. “Ci sono state discussioni con le autorità e siamo fiduciosi di poter iniziare le visite molto presto”, ha affermato senza voler indicare date precise. Più di 10mila persone sono attualmente detenute nelle carceri siriane, secondo organizzazioni di difesa dei diritti umani. Durante la sua visita, Kellenberger aveva ottenuto anche la promessa di un accesso alle zone calde della Siria. Delegati si sono così potuti recare a Daraa, Idleb, Deir Ezzor, Hama e fornire aiuti alla popolazione, ha precisato Dabbakeh. L’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ha indicato la settimana scorsa che esistono ormai “le prove” di “crimini contro umanità” commessi in Siria, invitando il Consiglio di sicurezza a rivolgersi alla giustizia internazionale. Ha precisato che il suo organismo ha stilato un elenco di 50 dignitari del regime siriano ritenuti responsabili della violenta repressione, tra cui torture e omicidi. Libia: ribelli liberano detenuti anti-regime, tenuti in carcere in condizioni disumane Ansa, 22 agosto 2011 Gruppi di ribelli libici, durante la loro avanzata verso Tripoli, hanno liberato diverse decine di detenuti dalla prigione di Maya, a circa 25 chilometri a ovest della capitale, secondo quanto ha potuto constatare sul posto un corrispondente della France Presse. Nella prigione erano rinchiusi detenuti anti - Gheddafi. Molti erano particolarmente magri e alcuni avevano segni di torture. I prigionieri erano rinchiusi in 20 in celle di nove metri quadrati, in un’afa soffocante.