Amnistia subito: l’impronunciabile parola Il Mattino di Padova, 1 agosto 2011 Marco Pannella ha in questi giorni interrotto un lunghissimo e pericoloso sciopero della fame e della sete, che aveva iniziato per portare all’attenzione di un’opinione pubblica distratta il disastro della Giustizia e le condizioni disumane delle carceri. Questa interruzione è avvenuta perché c’è stato un impegno del Capo dello Stato Giorgio Napolitano a dare il giusto valore alla lotta non violenta del leader radicale: da qui è nato un grande convegno per la riforma della giustizia che si è tenuto il 28 e il 29 luglio in una sala del Senato. Riportiamo parte dell’intervento del Presidente della Repubblica, perché è stato straordinario nel denunciare la sofferenza quotidiana di migliaia di esseri umani chiusi in carcere, e poi una riflessione di un detenuto sulla proposta di Marco Pannella di una amnistia subito per ricominciare poi con una Giustizia più giusta e più rapida. Il Presidente Napolitano: “Una realtà che ci umilia” Tra i problemi costantemente posti da Marco Pannella c’è stato certamente quello della giustizia, del diritto dei cittadini a una “giustizia giusta” e all’effettivo rispetto della loro dignità se colpiti da sanzioni per imputazioni o per condanne. Ora, quel che ci si vuole e ci si può proporre nel Convegno che si apre oggi non è una ricognizione o ricapitolazione esaustiva di infiniti confronti e scontri su tutti gli aspetti della questione giustizia. Si intende piuttosto mettere a fuoco il punto critico insostenibile cui è giunta la questione, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere, private della libertà per fini o precetti di sicurezza e di giustizia. I più clamorosi fenomeni degenerativi che si sono prodotti - in primo luogo quello delle condizioni delle carceri e dei detenuti - e anche le cause di un vero e proprio imbarbarimento di quella già pesante e penosa realtà, e anche le indicazioni circa possibili vie d’uscita, hanno formato oggetto di interventi di alto livello come quelli degli oratori che mi hanno preceduto. (…) Mi limiterò a ricordare come - e ve ne è abbondante documentazione - io sia tenacemente intervenuto, nei già trascorsi cinque anni del mio mandato, su preoccupazioni ed esigenze relative sia al superamento di gravi inadeguatezze e insufficienze del “sistema giustizia” in Italia sia al rispetto degli equilibri costituzionali nel rapporto tra politica e giustizia. (…) Quel che mi preme riprendere e sottolineare è un dato molto significativo emerso dagli interventi precedenti: e cioè il peso gravemente negativo di oscillanti e incerte scelte politiche e legislative. Oscillanti e incerte tra tendenziale, in principio, depenalizzazione e “depenitenziarizzazione”, e ciclica ripenalizzazione con crescente ricorso alla custodia cautelare, abnorme estensione, in concreto, della carcerazione preventiva. Di qui una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile - strutture pseudo - ospedaliere che solo recenti coraggiose iniziative bi-partisan di una commissione parlamentare stanno finalmente mettendo in mora. Evidente in generale è l’abisso che separa, come si è detto, la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona. È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo, arrendendosi all’obbiettiva constatazione della complessità del problema e della lunghezza dei tempi necessari - specie in carenza di risorse finanziarie adeguate - per l’apprestamento di soluzioni strutturali e gestionali idonee. C’è un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già prospettati e in parte messi in atto, come ha ricordato il sottosegretario Caliendo, ma esaminando ancora con la massima attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria. (…) È fondamentalmente dalla politica che debbono venire le risposte. Sappiamo che la politica, quale si esprime nel confronto pubblico e nella vita istituzionale, appare debole e irrimediabilmente divisa, incapace di produrre scelte coraggiose, coerenti e condivise. Ma non sono proprio scelte di questa natura che ogni giorno di più si impongono, dinanzi alla gravità dei problemi e delle sfide che ci incalzano non solo nel campo cui si riferisce questo Convegno ma in altri non meno fondamentali? Non dovremmo tutti essere capaci di un simile scatto, di una simile svolta, non foss’altro per istinto di sopravvivenza nazionale? Ci si rifletta seriamente, e presto, da ogni parte. 500 prescrizioni al giorno: l’amnistia dei ricchi e potenti Marco Pannella con i suoi scioperi della fame e della sete richiede a gran voce un provvedimento di amnistia sia per decongestionare le sovraffollate carceri italiane, dove si vive in condizioni disumane e in aperta violazione delle leggi, sia per alleggerire i carichi dei tribunali dove giacciono le pratiche di milioni di processi in attesa di essere definiti. La parola amnistia però per chi sta al potere è una parola impronunciabile, perché proporre amnistie significa perdere voti, un vero e proprio suicidio politico. Ragion per cui temo nessuno sarà mai così folle (a parte Pannella e i Radicali) da fare in Parlamento una proposta del genere. Quando Marco Pannella sostiene con forza che è necessaria l’amnistia, mette ben in evidenza una cosa che sicuramente è sconosciuta ai più: Ogni anno vanno in prescrizione qualcosa come 170 - 180.000 procedimenti. E cos’altro sono le prescrizioni se non amnistie? Un procedimento prescritto è un procedimento annullato, un reato che in pratica è come non sia mai successo. Probabilmente la maggior parte dei cittadini non sa questo, non sa che mediamente tutti i giorni vanno in fumo da 400 a 500 cause. Prescritte, o se si vuole, amnistiate. Come è possibile che avvenga questo? Avviene perché i Tribunali non riescono a tenere il passo con i procedimenti che giorno per giorno si formano, per cui tantissimi restano senza esito. E qui sta il punto. Se i tribunali non riescono a tenere il passo, forse è anche perché sono troppe le cause. Ci sono nel nostro Codice penale (risalente al 1931), nei vari Testi Unici sulle droghe, sull’immigrazione, nei vari decreti sicurezza una miriade di reatini minori di scarso o nullo allarme sociale che ingolfano all’inverosimile i Tribunali, rubano tempo prezioso ai magistrati e in tantissimi casi si concludono con nulla di fatto. Reati che andrebbero depenalizzati per permettere ai Giudici di dedicare il loro tempo e le loro energie ad altri più gravi. Ora come ora, con le prescrizioni, sta succedendo quasi il contrario. Sta succedendo che i Giudici riescono a portare a termine con certezza i casi riguardanti reati minori, i quali generalmente vengono commessi da poveri disgraziati senza difesa e ne lasciano sfuggire altri, anche di grande danno per la comunità, commessi da persone che si possono permettere buoni avvocati, capaci di procrastinare le udienze all’infinito fino a che non scatta la prescrizione. A tutto questo si aggiunge anche la beffa che chi ha rubato senza averne effettivo bisogno, paga i migliori avvocati e resta libero, mentre il poveraccio che ha rubato per vivere, oppure che è stato trovato in possesso di una irrisoria quantità di sostanza stupefacente, o fermato per clandestinità, violazione del Codice della strada e così via, finisce in carcere e sconta la condanna. Dal momento che i Magistrati riescono a portare a termine solo una certa quantità di procedimenti, non c’è altra soluzione che quella di eliminare dalle cancellerie quella parte di procedimenti riguardanti reati cosiddetti “bagatellari” e non violenti per poter lavorare sui restanti, più gravi. E questo si può ottenere solo attraverso un provvedimento di amnistia. L’amnistia non risolverebbe comunque da sola i giganteschi problemi della Giustizia, ci vuole anche una vera e radicale riforma, la quale per essere tale, deve avere come base il rinnovamento dei codici, che vanno adattati ai tempi. Antonio Floris, Casa di reclusione di Padova Giustizia: il carcere, il Comitato Nazionale di Bioetica e la tutela dei diritti umani di Lorenzo D’Avack Il Messaggero, 1 agosto 2011 La recente e faticosa denuncia di Marco Pannella sulla incivile situazione dei detenuti nelle prigioni italiane è divenuta finalmente oggetto di attenzione, almeno momentanea, nel mondo politico e giudiziario. Il capo dello Stato ha auspicato che il Parlamento si affretti a dare delle soluzioni coraggiose., senza ulteriori ritardi, non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria. Un appello che deve essere tenuto in massimo conto, dato che la riforma del sistema carcerario deve andare di pari passo con la tutela dei diritti fondamentali che ogni Stato garantisce ai suoi cittadini, sia uomini liberi che detenuti. Le presenti condizióni di elevato ricorso all’incarcerazione, di marcato sovraffollamento e di mancanza di spazi creano una situazione che non si limita unicamente alla sospensione del diritto di libertà, ma all’obliterazione di altri diritti irrinunciabili quali la salute, la dignità della persona, la tutela del malato, così da rendere la pena “disumana” e lontana dai nostri principi costituzionali. I problemi etici posti dalla protezione della salute e dall’accesso ai bisogni, anche i più elementari, diventano parte dei nodi rilevanti che emergono dal mondo carcerario. D’altronde, la prigione si presenta come un luogo di contraddizioni: contraddizione tra una esigenza sociale legittima di sicurezza e un indispensabile rispetto delle libertà e dei diritti individuali fondamentali; contraddizione tra una prigione che rende frequentemente malati e che rischia di condurre all’alienazione, fino anche al suicidio, e un diritto costituzionale alla salute; contraddizione tra il significato e la funzione della pena, fondata sul recupero sociale del detenuto e della sua responsabilità e l’incarcerazione in una proporzione sempre più ampia di persone che presentano gravi malattie mentali. Queste contraddizioni fanno dell’universo carcerario un rilevatore del modo in cui la nostra società applica i valori e le leggi che la fondano. Poiché la prigione è l’istituzione statuale con il compito di far applicare la legge, questa non può essere un luogo in cui il detenuto si veda negati alcuni diritti di rilevanza costituzionale e in specie fra questi il diritto alla salute. È noto ad esempio che il tasso dei suicidi della popolazione carceraria è di gran lunga superiore a quello della popolazione generale. Di questo problema di considerevole rilevanza etica e sociale si è interessato il Comitato nazionale per la bioetica (Cnb) con un parere “Suicidio in carcere. Orientamenti bioetici (2010)”. Le raccomandazioni alle autorità competenti sono state diverse, ma fra queste è opportuno ricordarne alcune: lo sviluppo di un sistema delle pene più aderente ai principi costituzionali (nuove normative per l’introduzione di pene principali non detentive e l’applicazione piena delle norme già esistenti che permettono alternative al carcere, come quelle per i tossicodipendenti); una maggiore trasparenza delle regole interne al carcere e una personalizzazione del trattamento, contrastando le pratiche “deresponsabilizzanti” che riducono all’impotenza e umiliano le persone detenute; il miglioramento della comunicazione fra i detenuti e il personale, in particolare la creazione di reti informali di ascolto e di supporto ai detenuti. Raccomandazioni finalizzate al rispetto dei diritti di cittadinanza e a “umanizzare il carcere”: restituire alle persone detenute un orizzonte di speranza e di autonomia. Il Cnb è organo di consulenza della presidenza del consiglio, del Parlamento e della società in genere ed è quindi auspicabile che le sue riflessioni sul sistema penitenziario vengano lette e tenute in considerazione. Certo è che l’appello del presidente Napolitano, il digiuno di Pannella, l’allarme di questi giorni si traducono in una riflessione etica con una necessaria ricaduta nel mondo politico. Tutti noi, in quanto collettività e in quanto cittadini, siamo responsabili del rispetto dei diritti fondamentali e ciò anche nei confronti delle persone incarcerate, sia quelle in attesa di giudizio e come tali presunte innocenti, sia quelle condannate in forza di un giusto processo “in nome del popolo italiano”. Giustizia: i presidenti Napolitano e Lupo non fanno notizia anche quando sono “notizia”… di Valter Vecellio Notizie Radicali, 1 agosto 2011 Che cos’è una notizia? Un evento di pubblico interesse, un qualcosa che riguarda più persone, e che può suscitare dibattito, riflessione. Un “fatto”, insomma. Se è così, al recente convegno “Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano”, promosso dal Partito Radicale, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio del Senato della Repubblica, le “notizie” non sono certo mancate. Vediamo. Prima notizia: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano pronuncia un discorso “pesante”, un discorso importante; un discorso scritto di suo pugno, soppesando parole, punti e virgole, con l’attenzione e la precisione del farmacista che dosa un farmaco. A parte il lusinghiero “ritratto” di Marco Pannella (“animatore di una lunga teoria di battaglie radicali nel Parlamento e nel paese ha sempre avuto un suo singolare timbro di assoluta autonomia da tutte le logiche di schieramento, di intransigenza morale e di forza nobilitatrice. Il filo rosso delle battaglie radicali è sempre stato essenzialmente quello dei diritti costituzionali e del progresso civile…”), il presidente sillaba che la questione giustizia è giunta a “un punto critico insostenibile…sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere, private della libertà per fini o precetti di sicurezza e di giustizia”. Non solo. Napolitano ha poi dice che “…le condizioni delle carceri e dei detenuti - e anche le cause di un vero e proprio imbarbarimento di quella già pesante e penosa realtà”; e ha poi pone l’accento sul “peso gravemente negativo di oscillanti e incerte scelte politiche e legislative. Oscillanti e incerte tra tendenziale, in principio, depenalizzazione e “depenitenziarizzazione”, e ciclica ripenalizzazione con crescente ricorso alla custodia cautelare, abnorme estensione, in concreto, della carcerazione preventiva”. Una realtà che “ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile - strutture pseudo - ospedaliere che solo recenti coraggiose iniziative bi-partisan di una commissione parlamentare stanno finalmente mettendo in mora”. Napolitano definisce questa situazione “abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona. È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita…”. Un’emergenza “assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già prospettati e in parte messi in atto, ma esaminando ancora con la massima attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”. Scelte, invoca, “che ogni giorno di più si impongono, dinanzi alla gravità dei problemi e delle sfide che ci incalzano… Ci si rifletta seriamente, e presto, da ogni parte”. Come si vede, un discorso pieno di “cose”; un discorso che giustificherebbe appieno una auto - convocazione delle Camere, per discutere sul che fare; e che dovrebbe/potrebbe costituire materia per la riflessione di editorialisti e commentatori. Silenzio, invece. Sono già tutti in vacanza? Oppure è scattata quella “fabbrica” ben più micidiale di quella del “fango”: la “fabbrica” che certe questioni “semplicemente” le ignora, le silenzia, le minimizza? Attenzione: il presidente parla di “punto critico insostenibile”; di “scelte politiche e legislative oscillanti e incerte”; di “abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale”… Accade tutti i giorni che il presidente della Repubblica si esprima in questo modo, con questa precisione, con questa accurata scelta delle parole, dei toni, delle pause? E se si tratta di un momento “non ordinario”, come mai non lo si coglie? Possibile che in nessuna redazione, nessun direttore, capo - redattore, editorialista, abbia percepito senso e significato dell’intervento del presidente? Non solo il presidente Napolitano. Ernesto Lupo è il primo presidente della Corte di Cassazione. Anche lui parla, dice cose importanti, cose “pesanti”. Dice, il presidente Lupo, che sono “indispensabili interventi legislativi idonei a non incrementare e anzi a ridurre progressivamente la popolazione carceraria”. Non solo. Aggiunge che è “indispensabile un progetto che punti alla riduzione della pena carceraria e che punti anche all’area della penalità”. Rivolge poi un appello ai colleghi perché facciano “un uso sempre più prudente e misurato della misura cautelare restrittiva: si tratta di uno strumento da mantenere nell’eccezionalità quando un altro strumento non può essere usato”. Perché “è urgente un ponderato e selettivo programma di depenalizzazione e di attribuzione al diritto amministrativo di molti dei reati puramente formali, accompagnato dall’introduzione di formule estintive del reato nell’ambito di condotte non gravi”. Quello che serve, quello che urge sono “indispensabili interventi legislativi idonei a non incrementare e anzi a ridurre progressivamente la popolazione carceraria”. Dunque: “indispensabili interventi legislativi…per non incrementare, anzi per ridurre progressivamente la popolazione carceraria”, indispensabile un progetto che punti alla riduzione della pena carceraria”; “uso prudente e misurato della misura cautelare restrittiva”… Parla chiaro, il presidente Lupo, e anche lui dice cose precise. Ma anche l’intervento del presidente Lupo non fa “notizia”. eppure di notizie, nel suo intervento, se ne trovano, eccome. Anzi: è proprio quell’intervento, la “notizia”. E invece… Intanto, uno dei sindacati della polizia penitenziaria, l’Osapp, informa che da oggi e per tre giorni i 360 detenuti del carcere maschile di Trani attuano lo sciopero della fame per denunciare, ancora una volta, il sovraffollamento e le carenti condizioni igienico - sanitarie delle strutture penitenziarie e la mancanza di un presidio medico fisso nel carcere tranese dopo le ore 22. Anche questa non è considerata “notizia”. Intanto, un detenuto di 63 anni della casa circondariale di Verona notifica, tramite i suoi legali, un atto di citazione contro il Ministro della giustizia per le condizioni in cui è costretto a vivere in carcere. L’atto, riferiscono i legali Guariente Guarienti e Fabio Porta, è volto ad ottenere, in sede civile, il risarcimento di un danno stimato in poco più di 5mila euro che sarebbe stato calcolato per i sette mesi trascorsi in carcere in una cella di 12 metri quadrati divisa con altre tre persone. Il detenuto, condannato a un anno e quattro mesi, peraltro avrebbe una invalidità riconosciuta al 60 per cento e soffrirebbe di una serie di disturbi che lo costringono all’assunzione costante di farmaci. Gli avvocati dell’uomo si sono avvalsi, per citare il Ministro della giustizia, di una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia che riguarda proprio l’Italia, una serie di leggi sulla detenzione carceraria e gli articoli 13 e 27 della Costituzione in tema di restrizione della libertà e di senso dell’umanità”. Anche questa non è considerata “notizia”. Chiudiamo con gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, quell’estremo orrore, come dice il presidente della Repubblica. Vai a capire perché lo chiamano “ergastolo bianco”. Perché quel “bianco” per qualificare l’infinita ‘prigionè degli internati negli Opg italiani? Cosa c’è di “bianco” nel finire - come si può finire - in quelle strutture? Perché è lì che può finire chi viene riconosciuto incapace di intendere e di volere. E lì, spesso, chi entra vi rimane per sempre. Nell’80 per cento dei casi la permanenza in Opg supera abbondantemente la durata della reclusione stabilita dal tribunale, le misure cautelari di sicurezza vengono prorogate di sei mesi in sei mesi. Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Aversa (Caserta), Napoli, Montelupo Fiorentino (Firenze), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mantova): è la mappa degli Opg italiani. Strutture che, dopo il reportage girato in occasione dei ‘blitz’ a sorpresa organizzati della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale, sono state definite le ‘Abu Ghraib’ del Belpaese. Oggi vi sono internate dalle 1.200 alle 1.500 persone. In principio erano i manicomi criminali. Poi nel 1978 arriva la legge Basaglia. E il nome cambia in Ospedali psichiatrici giudiziari. Non la sostanza, però: nei sei Opg, istituiti negli anni successivi alla legge 180, la commissione d’inchiesta di Palazzo Madama documenta sporcizia, degrado, misure di contenzione estreme, i ‘pazientì abbandonati a loro stessi. E c’è chi non ce la fa: nell’Opg di Aversa a inizio luglio le morti hanno raggiunto quota sette. Due dei pazienti deceduti, erano fra quelli considerati “dimissibili”. Lo denunciano le 24 associazioni che, nell’aprile scorso a Roma hanno lanciato la campagna Stop Opg. E una delle storie che raccontano è quella di un paziente di Aversa, 58enne con 3 figli, che si è tolto la vita proprio ad aprile dopo aver ricevuto la notizia di un’altra proroga della sua pena. Ma uscire dall’ospedale psichiatrico giudiziario è difficile. Secondo i dati raccolti dalla Commissione d’inchiesta sul Ssn, ci sarebbero più di 180 pazienti “dimissibili” perché socialmente non pericolosi, circa il 40 per cento del totale. Ma 6 su 10 rimangono dentro, con una proroga della “detenzione”. Il motivo è la mancanza di strutture disposte ad accoglierli: comunità, dipartimenti di salute mentale. Anche le famiglie spesso si tirano indietro. Ci sono pazienti che hanno collezionato 23 proroghe, con oltre 10 anni di permanenza supplementare. La Commissione ha ottenuto impegni per il superamento delle strutture, ma i problemi permangono. Tra gli Opg dove le cose sono andate peggio c’è sempre quello di Aversa dove sui 105 dimissibili solo 21 sono stati dimessi, 23 trasferiti e 2 deceduti. Dal lato opposto l’Opg di Reggio Emilia, dove sui 37 dimissibili sono effettivamente usciti 23 pazienti, 4 sono stati trasferiti e uno è deceduto. Dietro i cancelli degli Opg non si trovano solo autori di crimini efferati: c’è chi si è vestito da donna ed è andato davanti a una scuola 25 anni fa, chi nel ‘92 ha fatto una rapina da settemila lire in un’edicola fingendo di avere una pistola in tasca. Molti di loro hanno commesso un reato punibile con pochi mesi di prigione, come l’ingiuria. Eppure ci sono casi come quello di un ex paziente di 83 anni che ha finito di scontare la sua pena da 10 anni ed è ancora internato. Pochissimi i medici, spesso generici e non psichiatri, presenti appena 4 ore a settimana in strutture in cui si contano anche 300 persone. Sulla chiusura degli Opg si continua a dibattere, la Commissione vuole chiuderne almeno tre su sei e arrivare all’individuazione di nuove strutture a custodia attenuata da destinare al trattamento sanitario degli internati. E comunque, dopo i blitz, per la Commissione di Palazzo Madama gli Opg da bocciare erano cinque su sei. L’unico a salvarsi quello in provincia di Mantova, risultato in buone condizioni e con un’assistenza di qualità per le persone internate. L’avrete capito: anche questa non è considerata una “notizia”. Giustizia: lo stato dell’amministrazione penitenziaria… di Tullio Padovani (Ordinario di diritto Penale all’Universita di Pisa) Notizie Radicali, 1 agosto 2011 Quella che segue è la relazione del professor Tullio Padovani al convegno “Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano”, promosso dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio del Senato della Repubblica. La trascrizione è stata curata da Dario Vese. “Lo stato dell’amministrazione penitenziaria a me interessa soltanto per il suo stato finale: lo stato delle carceri e la condizione dei carcerati. Per definire la situazione delle nostre carceri e dei nostri carcerati si possono usare molte parole, si possono descrivere molte situazioni, si può passare in rassegna una serie pressoché infinita di mali, di disfunzioni, di orrori, ma poi alla fine si possono usare due parole sole. Sono quelle utilizzate in un recente libro di Lucia Castellano e Donatella Stasio, rispettivamente direttrice di carcere e giornalista, - che hanno scritto un volume che merita di essere letto: “Diritti e Castighi” - che per definire la condizione carceraria usano questa semplice espressione: “tortura legalizzata”. Una definizione forte. Drastica. A qualcuno potrà apparire eccessiva: in fondo il nostro sistema penitenziario si può ancora considerare a macchia di leopardo in cui le macchie nere sono certamente preponderanti ma esiste ancora qualche traccia di manto giallo. Rita Bernardini sul punto probabilmente avrebbe qualche perplessità. Può suscitare un moto di dubbio, di perplessità, l’uso dell’espressione tortura, in fondo si potrebbe dire che nessuno, o quasi nessuno, si propone di infliggere intenzionalmente sofferenze gratuite ed ulteriori rispetto a quelle connaturate all’esecuzione legittima della pena. La tortura quando non è il frutto di un’intenzionale inflizione di sofferenza è, o potrebbe essere, - siamo un paese dove le giustificazioni si comprano a buon mercato - una sciagurata eterogenesi dei fini. Deprecata, deprecabilissima. Esecrata, esecrabilissima, ma alla fine una eterogenesi dei fini. Perché il nostro fine è tutt’altro. Il nostro fine è quello di avere una situazione tale da consentire questo evento miracolistico che è rappresentato dalla rieducazione del condannato. Quindi eterogenesi dei fini perche fini altri da noi. Ma quando questi fini altri da noi si perpetuano nel tempo, per anni e per decenni, e assumono un carattere massivo e seriale, non si può più dire che sono altri da noi: sono i nostri fini. Noi possiamo negarli a parole ma dobbiamo riconoscerli nei fatti, come nostri. Perché noi li provochiamo, non altri. Certo, parlare di tortura legalizzata è un ossimoro perché la tortura non può essere legalizzata. Per giunta in un ordinamento come il nostro che non conosce neanche la tortura repressa, perché nonostante gli obblighi internazionali non abbiamo ancora trovato il tempo e il modo di prevederne l’incriminazione, mentre evidentemente conosciamo, sia pure nella forma di questa eterogenesi dei fini, che non è più eterogenesi ma è genesi nostra, la tortura accettata come una normalità. Una normalità che diventa normativa e che si fa regola in qualche modo, e si fa regola ad esempio attraverso quella strana formula che è la capienza tollerabile degli istituti penitenziari. In realtà non si tratta di una situazione normativa, non si tratta di una situazione che sia regola, ma è una situazione che ha un altro nome. Chiaro, univoco, indiscutibile: si chiama delitto di maltrattamenti in base all’art. 572 del codice penale. Questa non è una boutade polemica. Non lo è affatto. In un recente saggio che invito a leggere, perché val la pena verificare i termini positivi di qualificazioni tanto infamanti, di un professore di diritto penale, Alberto Gargani, si studia in termini di qualificazione normativa il sovraffollamento carcerario in rapporto alla violazione dei diritti umani. Dopo avere premesso che se situazioni come quelle rilevate nelle nostre carceri fossero constatate in un ambito privato, nessuno, ma proprio nessuno, dubiterebbe dell’applicabilità dell’art. 572. Io apro una parentesi e dico anche se si trattasse di animali nessuno dubiterebbe, perché abbiamo provvidamente inserito nel 2004 l’art. 544 ter, per cui situazionii come quelle che patiscono i nostri carcerati non le potrebbero patire dei gatti, dei cani, dei topi, delle cavie da esperimento, dei coleotteri. Ebbene dopo questa premessa sviluppa un’analisi condotta in punta di forchetta giuridica, con una conclusione univoca che riproduco tra virgolette: “Siamo di fronte ad un fatto conforme al tipo legale materialmente lesivo di beni penalmente protetti, che presenta peraltro una peculiare nota distintiva: il carattere massivo e seriale dell’offesa”. Ma non si tratta, dice Alberto Gargani, semplicemente di un fatto tipico, perché un fatto tipico alla fine può anche essere giustificato, nel nostro caso, di solito, si tira fuori la mancanza di risorse, “non abbiamo soldi”, “le carceri sono vecchie e non le possiamo rifare mica tutte di botto”. Esiste, in definitiva, secondo una prospettazione timida, una giustificazione che non viene allegata come tale ma che in sostanza viene portata come argomento a discapito, difensivo. Per non dire poi che il sistema è congeniato di modo che ciascuno possa fare tranquillamente il suo dovere, la sua piccola frazione di dovere funzionale, il cui esito sfugge al singolo ma si realizza nell’insieme di adempimenti: “Io pm faccio il mio ordine di carcerazione, poi non so nulla, non so dove va il detenuto. Io direttore lo accolgo, non posso non accoglierlo, e dove lo metto, lo metto insieme con gli altri. Ce ne sono già nove in una cella, e sarà il decimo. E così via, e così via”. Ognuno fa il suo però alla fine, cito ancora Gargani, “le condizioni inumane e degradanti in cui si traduce il sovraffollamento danno luogo ad una situazione tipica ed antigiuridica, espressione di un travalicamento dei limiti oggettivi del dovere, per cui l’insieme determina la circostanza che il carcere sia definibile, oggi, in Italia, un’ istituzione criminale”. Non criminogena, quello lo è sempre stata da quando è stata inventata, è un’istituzione criminale. Sono parole pesanti come macigni perché di per sé evocano uno scenario repressivo. In questo caso siamo in presenza della conclamata violazione dei diritti umani elementari. Si da luogo a una fattispecie antigiuridica di maltrattamenti. Un giudice che accerti, non si sa mai che magari condanni, ma che intanto accerti, accerti viva dio, dovrebbe esserci. Dovrebbe esserci innanzitutto sul piano interno, peraltro appare il più silente ovattato, con un esito davvero paradossale. Non dico che tutti siano silenti, e che tutti siano di ovatta, però non si può neanche dire che il moto di risposta corrispondente alla immane gravità della situazione sia in termine di proporzione. Peraltro se non c’è un giudice a Milano, se non c’è un giudice a Roma, a Palermo o dove che sia, c’è a Strasburgo: c’è stato per il caso Sulejmanovic. Purtroppo un caso ancora rimasto isolato per ragioni legate anche alle difficoltà di adire la giurisdizione internazionale da parte di detenuti. Sennò c’è persino all’Aja un giudice, perché un giudice all’Aja interviene sulle gravi ed estese violazioni dei diritti umani quando una giurisdizione interna non è in condizioni di agire. E la nostra non lo è in condizioni di fatto. Non facciamo finta che noi siamo un ordinamento civile. Non facciamo finta perché noi non siamo un paese civile. Sino a non molto tempo fa il paravento ideologico, di una situazione che è sempre stata grave, che è sempre stata drammatica, che ora è diventata criminosa ma che è sempre stata grave, era per così dire la crisi permanente dell’istituzione penitenziaria. “Non riusciamo a raggiungere le finalità che ci proponiamo di raggiungere con l’istituzione carceraria”, “non riusciamo a implementare” cioè a rendere operativa la funzione rieducativa, “faremo ogni sforzo nel limite del possibile”. Nessuno ignora o dovrebbe ignorare che la questione carceraria nasce col carcere stesso, e che vizi e storture accompagnano l’istituzione lungo tutto il suo cammino da circa due secoli. Come scrivono coloro che si occupano di queste cose, uno fra i più autorevoli, Foucault: “La riforma carceraria è praticamente contemporanea al carcere stesso, ne costituisce, per così dire, il programma genetico”. E non è mai venuto meno questo programma riformatore: è eterno. Carceri che non vanno, che non corrispondono all’ideale, che bisogna riformare. E allora si è sviluppata quella specie di inesausta utopia punitiva che ha moltiplicato di decennio in decennio le ideologie penitenziarie, nel senso marxiano di cattiva, anzi pessima, coscienza, che magari saranno anche ispirate alle migliori intenzioni ma che sono risultate incapaci di misurarsi con la realtà, e anzi sono servite ad occultarla, a mimetizzarla, a nasconderla, ad abbellirla. A imbellettarla, a mistificarla. Perché oggi nessuno, ma davvero nessuno, può razionalmente ritenere che la funzione rieducativa - qualunque cosa significhi rieducazione, non voglio entrare in questo tema - gia un programma sensato e praticabile in una dimensione carceraria. Nessuno. Sarebbe come pretendere di insegnare il mezzo fondo ad uno che ha le gambe legate e due enormi pesi nelle mani: questo è il programma di rieducazione. Quindi facciamola finita, non raccontiamoci le favole. Quello che dobbiamo dire a noi stessi è che non è possibile, o meglio dobbiamo sforzarci che non sia possibile, che il carcere diventi ulteriormente desocializzante. Ma al di là di questo, dobbiamo auspicare ed esigere in forma tassativa che il degrado delle carceri cessi, si ristabilisca il senso di umanità. Perché il degrado delle carceri misura il degrado della società, lo misura perfettamente. A meno che non ci si voglia rassegnare, e noi pare che su questa strada siamo allegramente avviati, ad una società in cui la belva è il volto e l’umano è la maschera. Oggi abbiamo superato anche i limiti di una presunta crisi funzionale. Non ce la facciamo a rieducare, non siamo ancora abituati a concepire congegni idonei allo scopo. Avere superato questa soglia, avere trasformato il carcere in uno strumento di tortura legalizzata, ha una sua utilità paradossale. Perché fa scendere il carcere dalla mitologia rieducativa al terreno della realtà vera, effettuale, insensibile agli orpelli retorici, alle dissimulazioni mistificanti. Riduce il carcere alla sua dimensione reale. E che cos’è il carcere nella dimensione reale? Il suo nocciolo duro qual è? Il carcere è una sofferenza legalmente inflitta. Punto. Il carcere è una sofferenza legalmente inflitta. Certo, non fa piacere sentir dire che un giudice infligge una sofferenza, un professore insegna un diritto della sofferenza. Ma è così. E se questo è il nocciolo duro quello che dobbiamo chiederci sempre è il “quale” sofferenza, e il “come” legalmente inflitta. Perché quale sofferenza non lo sa nessuno, non lo sa il giudice che infligge la sentenza, limitandosi a stabilire un certo numero di anni di reclusione. Una reclusione che si saprà cos’è solo dopo che un soggetto sarà passato attraverso il vaglio dell’amministrazione penitenziaria. È a quel punto che saprà se si trova in un carcere piuttosto che in un altro, sotto la vigenza di certi provvedimenti piuttosto che di altri, di un regolamento piutttosto che di altri; e siccome vale sempre la regola di Franz Von Liszt che non il giudice ma l’amministrazione penitenziaria determina il significato, il contenuto della decisione giudiziale, quindi non chi infligge la pena ma chi dirige il carcere attribuisce vita e forza alle minacce stabilite nel codice penale. È chiaro che la risposta a quale sofferenza, quale concreta, effettiva sofferenza, costituita da mille restrizioni che da una parte ci sono e dall’altra no, non la decide il giudice, non la decide il legislatore. Loro si limitano a stabilire un perimetro esterno: privazione della libertà personale. Quel che ci sta dentro è un lungo viaggio attraverso la discrezionalità amministrativa. Un viaggio che, trattandosi di una istituzione totale, cioè chiusa, opaca, e dominata da esigenze disciplinari autoreferenziali, si converte, non tende a convertirsi, si converte in arbitrio. In un arbitrio dominato dalle esigenze esclusive dell’istituzione. Goffman, Foucault non hanno scritto invano, si può far finta che non abbiano scritto, ma hanno scritto. E quel che hanno scritto non è controvertibile, perché ogni giorno verificato. Nel 1975 ci siamo incamminati allegramente sul cammino della dilatazione della discrezionalità amministrativa, e ci siamo complimentati con noi stessi. Abbiamo rotto quegli argini che pure esistevano, come giustamente dice Marco Pannella, nel regolamento Rocco. Nel regolamento Rocco, infatti, certi passaggi esigevano il giudice, non voglio dire che il regolamento Rocco fosse un monumento di legalità ma voglio dire che nel ‘75 ci si è consegnati mani e piedi all’amministrazione. Tutto è stato rimesso a questa discrezionalità. Una scelta univoca che porta a un solo risultato. È inutile far finta che poi questo risultato sia il frutto del caso: è frutto di una scelta. Una scelta però che non può tradursi nella violazione dei diritti umani, la Corte Costituzionale lo ha detto, lo ha ripetuto bontà sua: “L’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare il disconoscimento delle posizioni soggettive non è ammissibile per il primato della persona umana”. Tutte cose verissime, verissime, tanto più vere se si pensa che si riconnettono a un antico pensiero scettico che sulla rieducazione aveva certezze tetragone. “Lasciamo stare la rieducazione, e pensiamo ai diritti inalienabili e irrinunciabili del condannato. Di questi bisogna fornire garanzia, effettività, tutela.” Non la rieducazione che è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Che verrà se verrà. Che non sta nel nostro potere. Tutela dei diritti, garanzia dei diritti. Ma chi lo diceva? Lo diceva Alfredo Rocco, l’autore del codice penale, nel 1910, un uomo che oggi potrebbe essere presentato come un paradigma di autoritarismo, e invece no, era semplicemente un uomo che aveva una visione critica molto chiara e molto equilibrata. Di fronte a situazioni di questo tipo non c’è necessità giustificante, non ci sono risorse finanziarie che tengono. E, a scanso di equivoci, ce l’hanno detto le regole penitenziarie europee: “Le condizioni detentive che violano i diritti umani del detenuto non possono essere giustificate dalla mancanza di risorse”. Quindi non veniteci a raccontare che i soldi non ce li avete. E del resto è lo stesso ragionamento che sta alla base di quella sentenza della Corte Costituzionale tedesca, il Bundesverfassungsgericht, del marzo di quest’anno, che giudicando sul ricorso di un condannato che era stato detenuto in una cella di 8 mq ma in compagnia di un fumatore mentre lui non fumava, e con un bagno che non aveva la porta, potendosi fare la doccia solo due volte la settimana, quindi in condizioni inumane. Per questo chiedeva un indennizzo dopo l’esecuzione della pena, e l’amministrazione resisteva dicendo: “ma io non potevo spostarlo, quella era la situazione”. Anche se in Germania il tasso di riempimento è del 90%. E il Bundesverfassungsgericht che cosa gli ha detto? Se non potevi lo dovevi liberare! Non lo puoi tenere! Se lo tieni lo tieni solo a certe condizioni, sennò lo liberi! Lo liberi! O sei capace di adeguarti allo standard di umanità, oppure lo liberi. E il ragionamento è impeccabile. È assolutamente impeccabile. Perché si tratta in definitiva di rimuovere un illecito, non solo di ripristinare la legalità. Di rimuovere un illecito, di eliminare una criminosità. E quindi bisogna per lo meno eliminare il sovraffollamento, cioè la situazione visibile. La capienza tollerabile non esiste, perché la tollerabilità riguarda le istituzioni e non il corpo dei detenuti. La capienza è una sola. I soggetti destinatari sono molti: sono la classe politica, il legislatore. Il legislatore può fare moltissimo - sugli strumenti tecnici non mi soffermo, sono stati già dibattuti - anche se non mi nascondo che ha seri ostacoli sul proprio cammino, seri ostacoli legati alla funzione simbolica del carcere nell’opinione pubblica. Il fatto che il carcere deve essere sempre, deve essere nel senso che finisce sempre con l’essere, meno appetibile delle peggiori condizioni sociali del mondo libero. E quindi su questo si misura lo standard. Arbitrariamente, indebitamente. Però si misura su questo. E badate non è cosa di poco momento, perché nel 1895 un illustre visitatore di un carcere veneto si reca a visitare il carcere e lo trova in condizioni discrete, almeno ai suoi occhi. Dopo di che, esce e si pone un interrogativo drammatico: “In questi tempi di fame cronica nei contadini onesti domando io se il legislatore fa opera di provvida ed elementare giustizia quando lascia la pellagra e l’anemia, la malaria e la fame ai poveri onesti, per poi, a spese dei contribuenti, provvedere i malfattori di vitto e di alloggio, con gelosa cura dell’igiene e dei bisogni fisiologici umani”. Lo scriveva Enrico Ferri che forse non era ancora, ma lo stava per diventare, deputato socialista. Lo scriveva Enrico Ferri, figuriamoci cosa leggiamo sui giornali oggi. È un dato di fatto questo, che implica un’educazione. Senza contare alle altre difficoltà. Però una cosa sola vorrei dire alla fine, e chiudo con questa perché mi sembra interessante. Si ricollega al discorso sull’estensione della penalità che stamattina ha giustamente messo in campo il presidente Lupo. Questa espansione della penalità, e della penalità carceraria, avviene con strumenti diversi, l’intensificazione della recidiva, l’eliminazione e la restrizione di misure alternative, tutto gratis. Tutto gratis, nel senso che il legislatore presuppone che quello sia un elastico che si tira all’infinito. Non costa nulla. Ma come ha giustamente notato un giovane costituzionalista di ingegno: “una strana forma di cultura economica impone al legislatore di coprire con appositi stanziamenti di bilancio ogni spesa prevista dalle sue leggi, ma non i costi che derivano dalla loro esecuzione in via amministrativa o per opera della giurisdizione”. Per cui di fronte alla gigantesca domanda di giustizia penale è tutto gratis. Ma se qualcuno, qualcuno, una volta che il legislatore prevede nuove incriminazioni, se qualcuno quando si prevedono nuove fattispecie dicesse al legislatore: “Caro figliolo con quale danari pensi di far fronte alle nuove necessità degli uffici, alle nuove necessità penitenziarie? Tira fuori i soldini perché sennò tu non ti puoi permettere questo lusso. Tu hai 42.000 posti e 42.000 sono. Con quelli devi fare, se ne vuoi di più caccia i soldi”. Vedrai che anche la gente comincia a riflettere sulla necessità di un uso estremamente parsimonioso della sanzione penale, comunque commisurato ai propri mezzi. Non possiamo pretendere di viaggiare con una vettura che non siamo in grado di pagare. Giustizia: dll “allunga processi”… per alcuni ricchi e “allunga sofferenze” per tutti gli altri di Sandro Padula Ristretti Orizzonti, 1 agosto 2011 Il disegno di legge approvato al Senato il 29 giugno e riguardante le “modifiche agli articoli 190, 238-bis, 438, 442 e 495 del codice di procedura penale e all’articolo 58-quater della legge 26 luglio 1975, n. 354” non è solo una norma a favore di Berlusconi. Non è solo un modo per allungare il processo del Ruby - gate e giungere alla prescrizione del reato per cui è imputato il premier. Se fosse solo questo non ci sarebbe da meravigliarsi: da sempre i governanti della Repubblica italiana non vogliono essere giudicati da nessuno, nemmeno dalle parole di malcontento delle piazze di fronte a certi scandali, “depistaggi” e sporchi giri di affari e tangenti. In un certo senso, dal loro specifico punto di vista e secondo l’arte della Politica, fanno bene ad essere garantisti verso se stessi. Il problema è che non si limitano a ciò. Il dll “allunga processi” è infatti libertario per pochi e potenzialmente forcaiolo per molti altri. Da un lato non tutti gli imputati possono permettersi il lusso di pagare dei bravi e costosi avvocati e quindi di avvalersi della seguente modifica dell’articolo 190 del codice di procedura penale: “1. Le prove sono ammesse a richiesta di parte. L’imputato, a mezzo del difensore, ha la facoltà davanti al giudice di interrogare o fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore. Le altre parti hanno le medesime facoltà in quanto applicabili”. Questo punto del ddl è quello che sembra fatto su misura per una sola persona residente nel nostro paese. Paradossalmente ha ragione l’onorevole Casson nel dire che adesso Berlusconi potrebbe far “convocare come testimoni tutte le escort che operano a Milano”. Ma bisogna stare attenti quando si vogliono fare delle battute scherzose in una società ad alto grado di ignoranza e, pertanto, di populismo. Su certi argomenti delicati non c’è proprio nessun motivo ragionevole per sorridere e ironizzare. Prima di tutto, specie in un paese di continue prostituzioni politiche alla predominante, parassitaria e militarista volontà altrui sul piano interno e “atlantico”, le prostitute non sono moralmente inferiori a nessuno. In secondo luogo, ma non per importanza, il dll in questione peggiora il codice di procedura penale e la legge di riforma della giustizia del 1975. Esclude il rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo: “2 - bis. Quando, tenuto conto di tutte le circostanze, deve essere irrogata la pena dell’ergastolo, non si fa luogo alla diminuzione di pena prevista dal comma precedente”. Come se non bastasse, limita l’accesso ai benefici penitenziari a certi condannati : “4-bis. I condannati per il delitto di cui all’articolo 575 del codice penale, quando ricorrono una o più delle circostanze aggravanti previste dagli articoli 576, primo comma, numeri 2), 5), 5.1) e 5 - bis), e 577, primo comma, numeri 1) e 4), dello stesso codice, non sono ammessi ad alcuno dei benefici previsti dalla presente legge, esclusa la liberazione anticipata, se non abbiano espiato almeno i tre quarti della pena irrogata o, nel caso dell’ergastolo, almeno ventisei anni”. In pratica, viene limitato quasi del tutto l’accesso ai benefici penitenziari a chi è condannato per omicidio (articolo 575 codice penale) con una o più fra queste circostante aggravanti: “l’aver commesso il reato per eseguirne od occultarne un altro, ovvero per conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato” (comma 2 dell’articolo 61); il ricorso alla violenza sessuale (secondo la legge15 febbraio 1996, n. 66); atti persecutori (Art. 612 - bis); “contro un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ovvero un ufficiale o agente di pubblica sicurezza, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio” (5 - bis articolo 576); “contro l’ascendente o il discendente” (primo comma, n.1 articolo 577) ; “l’avere agito per motivi abbietti o futili” (numero 1 art. 61); “l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone” (numero 4 art. 61). Detto in parole molto semplici, è come se nell’articolo 577 del codice penale fosse stata quasi ripristinata la pena di morte e tutti parlano di ddl “allunga processi”! Sveglia! Il disegno di legge approvato al Senato è un pericolosissimo pastiche postmoderno che rende ancor più differenziata e peggiore la giustizia sia per quanto riguarda la “procedura penale” che il codice penale. Si muove in una direzione del tutto diversa da quella, auspicata dal presidente Napoletano, di una politica di “depenalizzazione”. Lo vogliamo dire che l’Italia ha tradito e tradisce troppe volte la propria Costituzione repubblicana ? Lo vogliamo dire che la giustizia è una cosa troppo importante per essere lasciata alle sole decisioni di questo o quel governo temporaneo? Giustizia: dll “allunga processi”… cari rapinatori e stupratori, vi spiego come la farete franca di Gianrico Carofiglio (Parlamentare Pd) Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2011 Signora presidente, visto che con apprezzabile coerenza la prima firmataria non ha ritenuto di rimuovere la sua firma dal testo in esame, ove mai il presente disegno di legge fosse approvato, verrà ricordato come legge Lussana. È bene rammentarlo, perché quando questa legge produrrà i suoi effetti (di cui ora fornirò un esempio pratico), potremo figurare lo scenario che verrà a definirsi in tutta l’Italia, quindi anche al Nord, e dunque anche nella città di Bergamo, da dove credo prevenga l’onorevole Lussana. Immaginiamo una banda di pericolosi rapinatori, magari provenienti da Paesi dell’Est, dal Nordafrica. Questa banda decide di dedicarsi alle rapine nelle ricche ville nelle immediate vicinanze di Bergamo. La banda non va troppo per il sottile (entrano, spaccano tutto, stuprano, picchiano, feriscono) e diventa il terrore della provincia. Naturalmente, scatta un’emergenza di polizia, per cui la procura, la Polizia di Stato e i Carabinieri si dedicano all’attività investigativa. Riescono a ritrovare, per esempio (succede), delle videoriprese e abbiamo, dunque, le loro facce, che sono molto ben visibili; in qualche caso, abbiamo le impronte digitali. Insomma, per farla breve, la Polizia arresta cinque, sei, sette rapinatori. Nell’attuale situazione della nostra legislazione processuale questi signori, consigliati da un difensore munito di un minimo di competenza, chiederebbero il giudizio abbreviato. Di fronte a una situazione normativa mutata a seguito di una legge come questa, prescindendo dalle questioni sulla ammissibilità del giudizio abbreviato (immaginiamo che non abbiano commesso omicidi, ma solo rapine, violenze e stupri), loro non lo chiederanno mai. Sarebbero pazzi a farlo, e lo sarebbero perché il processo si svolgerebbe più o meno nel modo che vado a raccontarvi. La difesa naturalmente deve fare il suo lavoro, e il suo lavoro è quello di tutelare i clienti, di cercare di ottenere la loro liberazione e di farli assolvere. Ottenere la liberazione non sarà difficilissimo in relazione alla scadenza dei termini di custodia e vi spiego perché. Come vi ho detto all’inizio, abbiamo delle videoriprese e delle impronte digitali: questo renderebbe superflua, per esempio, l’audizione di un gran numero di testimoni. Immaginiamo che per dieci o cinque rapine ci siano 100 testimoni potenziali, nessuno dei quali, di fronte a un quadro probatorio come quello che ho indicato (videoregistrazioni e impronte digitali), sarebbe necessario. La loro audizione sarebbe, per lo meno in quel numero, manifestamente superflua, ma non priva di pertinenza. Secondo la legge che voi volete approvare, tutti questi testimoni, essendo pertinenti, ancorché manifestamente superflui, dovranno essere ammessi dal giudice e, se il giudice non dovesse ammetterli, produrrebbe un provvedimento nullo, il quale farebbe cadere l’intero processo. Quindi, gli avvocati di questi rapinatori, efferati stupratori, chiederanno 100 testimoni a difesa sulle più varie circostanze, perché, come ho cercato di ricordarvi ieri, oltre alle circostanze che hanno a che fare con il fatto reato, costituiscono oggetto di prova, e quindi oggetto di questa disciplina e oggetto di un dovere di ammissione del giudice a pena di nullità, tutte queste altre belle cose: la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo e il luogo oltre ogni altra modalità dell’azione. Se avevano delle pistole o dei mitra, la difesa potrà chiederne accurate perizie, anche se la cosa non è interessante, per verificare specificamente - si tratta di cosa manifestamente superflua ma non priva di pertinenza - il loro livello di funzionalità; potrà chiedere ogni tipo di accertamento e testimonianza, per esempio, sulle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo; potrà convocare 100 testimoni per dire che a casa è un bravo ragazzo, ama i cani e tratta bene i bambini. Il processo, dunque, con l’ammissione di 200 testimoni comincia in tribunali in cui non si possono pagare gli straordinari al personale, per cui le udienze, tutte le udienze, finiscono alle ore 14. Dunque il processo comincia, e sapete come? Con l’audizione dei testi dell’accusa, magari le vittime, che i soggetti che le hanno rapinate, violentate e stuprate potranno direttamente interrogare, guardando negli occhi le persone cui qualche tempo prima hanno fatto qualcosa, allo stesso modo, guardandole negli occhi. Dopo questo interessante passaggio di esame diretto di cittadini - forse elettori leghisti della provincia di Bergamo - da parte di assassini e stupratori, seguirà tutta questa interessantissima fase di istruttoria dibattimentale in cui il tribunale non avrà alcun potere di intervento o di revoca su prove manifestamente superflue, ma pertinenti in astratto e che, in quanto tali, a seguito di questa modifica di legge, dovranno comunque obbligatoriamente essere ammesse. Il processo si trascinerà per un tempo assolutamente incontrollabile per il tribunale che, ad un certo punto, si troverà a verificare la prossima scadenza dei termini di custodia cautelare, per poi verificare invece che gli stessi sono scaduti, mentre l’istruttoria dibattimentale è ancora in corso per sentire “importanti testi”. Il giudice quindi, grazie alla legge Lussano, non potrà fare altro che scarcerare questi assassini, rapinatori o stupratori i quali usciranno dal carcere e faranno marameo ai cittadini, alla giustizia a alla decenza di questo Paese. Giustizia: Pannella in radio grida “amnistia” e critica la stampa per mancata informazione TmNews, 1 agosto 2011 “Amnistia, amnistia, amnistia per la giustizia”. Si è conclusa così - con la richiesta di “amnistia” scandita a voce alta - una conferenza stampa trasmessa su Radio radicale, durante la quale Marco Pannella e Rita Bernardini hanno parlato dell’emergenza carceri. Il leader radicale - che oggi ha annunciato la ripresa dello sciopero della sete per protestare contro quella che giudica una mancata copertura informativa del convegno sulle carceri al quale hanno preso parte il capo dello stato Giorgio Napolitano, del Senato Renato Schifani e il primo Presidente della Cassazione - ha affermato: “Chi non ha seguito Radio radicale non può sapere che ha detto quest’ultimo su depenalizzazione e decarcerizzazione, che rientra nell’impostazione complessiva dell’amnistia e indulto, che siano da traino ad altre riforme” nel settore carcerario. Pannella si è lamentato anche della mancata copertura informativa della conferenza stampa di questo pomeriggio. “Non c’è nessun giornalista. Certo, può essere seguita da casa o dal mare. Forse le agenzie lo seguiranno. Non ci sono giornalisti e non hanno domande da fare”, ha sottolineato il leader radicale. Dallo studio hanno poi salutato l’arrivo del Tg2: “Diamo atto”. Marco Pannella ha annunciato la ripresa dello sciopero della sete, oltre quello della fame, per denunciare quella che ha definito “una vera e propria Shoah da parte dei mezzi di informazione italiani”, a partire dal servizio pubblico radiotelevisivo, nei confronti dell’emergenza carceri e, in particolare, sul convegno promosso dai Radicali alla Sala Zuccari di Palazzo Giustiniiani con il presidente del Senato, Renato Schifani, e l’intervento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. “Questa due giorni di importantissimo, partecipatissimo e documentatissimo dibattito sulla drammaticità e illegalità del sistema carcerario italiano - ha detto Pannella stamane a Radio Radicale - ha dimostrato e attestato, con pubblico riconoscimento delle massime autorità dello Stato e dei vertici di magistratura e del mondo del diritto, la disumanità e la illegalità del nostro sistema prodotta da 60 anni di partitocrazia che hanno generato un sistema ormai antidemocratico. Ma i mezzi di informazione quando si affrontano i problemi veri di fondo del nostro paese, hanno di mostrato di essere capaci di trattare come nemico anche il presidente della Repubblica, Napolitano”. Lettera; giudici in carcere, un’idea da Torino di Riccardo Arena www.ilpost.it, 1 agosto 2011 Mandare i giudici in carcere può suonare come una battuta, o può ricordare un pensiero ricorrente in alcuni. E invece a Torino, e solo lì, i giudici sono andati a vedere come di fatto vengono eseguite le loro misure cautelari o le loro sentenze. Un evento tanto importante, quanto raro. Quanti giudici infatti conoscono il carcere? Quanti sono mai entrati nelle celle di un penitenziario per vedere le reali condizioni di vita dei detenuti? Quanti conoscono di fatto il modo in cui verrà eseguito un loro legittimo provvedimento restrittivo? Assai pochi. Anzi pochissimi. Un fenomeno davvero strano. Una mancanza davvero grave. È come se un chirurgo, dopo aver ben operato un paziente, si disinteressasse poi delle condizioni in cui vive quel paziente nel reparto ospedaliero. Strano, illogico e di poco buon senso. Un disinteressamento che diventa gravissimo per i giudici, vista la vergognosa condizione delle patrie galere. Galere dove, a causa delle condizioni disumane di vita, la detenzione si tramuta in maltrattamenti. Una carenza culturale e formativa, che a Torino (e soltanto lì) si è cercato di colmare. Nel mese di luglio infatti, grazie all’iniziativa presa dal Presidente dell’ufficio Gip, Francesco Gianfrotta e dal direttore del carcere di Torino Pietro Buffa, 13 giudici delle indagini preliminari sono andati in visita nel penitenziario le Vallette di Torino. Tutti ora hanno visto. Tutti hanno sentito la puzza di quelle celle sovraffollate. “È un’iniziativa che vuole aiutare noi magistrati a conoscere i luoghi in cui vivono le persone che sono in carcere per effetto delle nostre decisioni” Ha spiegato a Radio Carcere su Radio Radicale il giudice di Torino, Roberto Arata, tra i sostenitori di questa preziosa iniziativa e membro (guarda caso) dell’esecutivo di Magistratura Democratica. “E questo perché è importante aumentare il livello di consapevolezza nella magistratura su cosa è il carcere. Siamo noi magistrati a mettere le persone in carcere e spesso lo facciamo senza sapere dove li mettiamo. È quindi importante che i giudici sappiano cosa concretamente c’è dentro le loro decisioni, cosa c’è dopo”. Già cosa c’è dopo. Un dopo che significa sovraffollamento nel carcere di Torino. Che significa trattamenti disumani e degradanti. Il carcere di Torino infatti non è, nonostante gli sforzi del direttore Pietro Buffa, un carcere modello. Tutt’altro. È un carcere gravemente sovraffollato. Costruito nel 1978, potrebbe contenere meno di mille detenuti, ma oggi ne contiene ammassati più di 1.600. Un sovraffollamento che determina il tutto esaurito nel carcere di torinese. Nelle celle non c’è più spazio per nessun’altro. Grandi appena sei metri quadrati, ci vivono oggi cinque persone detenute. Ed è così che i detenuti a Torino vengono messi ovunque ci sia posto. Per terra nella palestra del carcere, per terra nelle salette per i computer o nelle camere di sicurezza e addirittura per terra lungo i corridoi. Un sovraffollamento che determina anche la morte. Ovvero la scelta di morire. Scelta disperata. Non a caso negli ultimi mesi sono già tre le persone detenute che si sono impiccate nel carcere di Torino. Persone che hanno deciso che quella non era più vita, neanche se si è detenuti. Dunque bene hanno fatto i giudici di Torino a capire com’è la vita nel carcere di loro competenza. Bene hanno fatto a vedere con i loro occhi l’insensatezza di condanne eseguite in quel modo. Un’iniziativa che forse, e c’è da augurarselo, verrà ripetuta anche a settembre coinvolgendo i giudici del Tribunale di Torino. Un’iniziativa che sarebbe logico e giusto estendere in altre città e in altri distretti giudiziari. E questo non solo a fini formativi e di valutazione del caso concreto, ma anche perché fare il giudice non è come far l’impiegato che, chiusa la pratica ed esaurito il suo compito, si disinteressa del dopo. Il giudice è, o almeno dovrebbe essere, colui che contribuisce all’armonizzazione del sistema. Nel suo prima e nel suo dopo. Piemonte: grido d’allarme dalle carceri… “una polveriera pronta a scoppiare” La Stampa, 1 agosto 2011 La sensazione è che ci sia qualcuno che ha nostalgia delle rivolte degli anni 70 del secolo scorso, con i detenuti sui tetti e le celle incendiate”. I radicali Igor Boni e Giulio Manfredi non vogliono passare per allarmisti, ma parlano di una situazione di sovraffollamento delle carceri piemontesi che “è un eufemismo definire preoccupanti”. Già, perché rispetto ad una capienza di 3.634 posti le strutture penitenziarie regionale ne ospitano 1.574 in più. In tutto 5.212, “un numero allarmante rispetto alle ispezioni di tre anni fa quando scoppiò l’emergenza carceri e a Ferragosto in Piemonte erano recluse 4.847 persone”. Nelle scorse settimane i radicali hanno incontrato gli agenti penitenziari e i rappresentanti sindacali e con le loro informazioni hanno costruito una mappa della situazione che mette in luce come “i dati piemontesi sul sovraffollamento sono in linea con la cronica “emergenza carceri” esistente nel resto d’Italia”. I due esponenti radicali parlano di una situazione “esplosiva” come dimostrano “i suicidi e i tentati suicidi, gli oltre 100 atti di autolesionismo registrati nella prima metà del 2011 (dato certamente sottostimato), le aggressioni da parte dei detenuti nei confronti degli agenti e le proteste, collettive e personali, contro l’indecenza anti - costituzionale delle carceri italiane”. Il carcere di Verbania registra l’indice di sovraffollamento più alto del Piemonte: 103 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 54. In termini percentuali significa il 90,7%. La situazione ad Alessandria (Don Soria) è migliore: 39 detenuti in più della capienza massima di 352 posti. Indice di sovraffollamento dell’11,1%. Il problema investe strutture piccole e medie strutture di detenzione ma, naturalmente, assume una dimensione più preoccupante alle Vallette di Torino, dove sono reclusi 462 detenuti in più che portano il numero complessivo di reclusi a quota 1.554. Secondo i radicali “il “Lorusso e Cotugno” rappresenta un’emergenza nell’emergenza” anche se Alba, Alessandria San Michele, Asti, Biella, Ivrea, Saluzzo, Verbania e Vercelli registrano dati sopra la media. Boni e Manfredi spiegano anche che “un aspetto troppe volte tenuto sotto traccia è la situazione drammatica che vivono tutti i giorni gli agenti di polizia penitenziaria, senza mezzi e con personale sottodimensionato rispetto alle esigenze. Non è un caso che il livello dei suicidi di chi svolge quel lavoro sia il più elevato tra tutte le professioni svolte in Italia”. Che fare, allora? I radicali chiedono che il Consiglio regionale del Piemonte istituisca il garante regionale delle carceri così come previsto dalla legge approvata nel 2009. Il motivo? L’articolo 2 della legge, infatti, il Consiglio Regionale avrebbe dovuto designare il garante “a inizio legislatura” ma sono “passati 16 mesi esatti e non è stata fatta la designazione nonostante siano giacenti da oltre un anno le candidature”. Secondo i radicali “serve una figura istituzionale a livello regionale che segua la situazione delle 13 carceri piemontesi e affianchi il lavoro degli operatori”. Perché è evidente che di fronte ad una situazione di emergenza “le visite ispettive di parlamentari e consiglieri regionali sono certo importanti e da incentivare, magari per andare a trovare anche i poveri cristi, ma non bastano”. Per questo i radicali chiedono al Presidente del Consiglio Regionale, Valerio Cattaneo, l’impegno a scegliere questa figura alla ripresa dell’attività consiliare. Piacenza: detenuta alle Novate tenta il suicidio, salvata appena in tempo www.ilpiacenza.it, 1 agosto 2011 Una donna detenuta alle Novate per omicidio ha tentato di togliersi la vita, la settimana scorsa, annodandosi un lenzuolo intorno al collo. Salvata dagli agenti di polizia penitenziaria. Torna a farsi sentire, anche a Piacenza, l’emergenza carceri. A lanciare l’allarme è Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe che rende noto un tentato suicidio, giovedi scorso, da parte di una detenuta italiana nel penitenziario piacentino. La donna, scrive in una nota l’esponente del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, detenuta per omicidio, ha tentato di togliersi la vita utilizzando le lenzuola. “Dopo essersi annodato il cappio intorno al collo si è lanciata nel vuoto. Solo grazie all’immediato intervento dell’agente di polizia penitenziaria in servizio nella sezione femminile è stata evitata un’altra tragedia: l’agente, è entrata nella stanza ed ha sollevato il corpo sulle sue spalle e poi, aiutata da un’altra detenuta, ha snodato il cappio e tratto in salvo” la donna. A giudizio di Durante, “gli eventi critici nelle 206 carceri italiane si susseguono al ritmo di oltre 200 al giorno”. “Questi eventi rendono ancora più difficile la gestione delle carceri, resa già drammatica dal sovraffollamento e dalla carenza di personale. In Italia - ammonisce - ci sono 25.000 detenuti in più rispetto ai posti previsti e mancano 6500 agenti. In Emilia Romagna mancano 650 agenti e ci sono 2.000 detenuti in più. A Piacenza - conclude - bisognerebbe incrementare l’organico di almeno 30 agenti”. Torino: paura alle Vallette, spari contro due auto degli operatori penitenziari Torino Cronaca, 1 agosto 2011 Nella mattinata di sabato alcune persone non identificate hanno sparato contro due auto di servizio parcheggiate nel viale del carcere. Nessun ferito, per l’Osapp è un’intimidazione “È chiaro l’intento intimidatorio nei riguardi del personale dell’amministrazione penitenziaria”, questo il commento del segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma Polizia Penitenziaria) Leo Beneduci, a seguito dei colpi di pistola sparati nella mattinata di sabato contro un’auto di un agente penitenziario e contro quella di un infermiere. Il tutto è avvenuto nel vialone attiguo al carcere delle Vallette, quando alcuni colpi sono stati sparati verso i mezzi da alcune persone sconosciute. Nessun è rimasto ferito, solo qualche vetro è andato in frantumi. “Le disastrose condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari - ha aggiunto Beneduci - non affliggono soltanto la popolazione detenuta, ma anche il personale che si trova ad affrontare i problemi dell’inarrestabile sovraffollamento in penuria di qualsiasi supporto. Non vorremmo perciò - ha concluso il segretario generale dell’Osapp - che, alla costante preoccupazione per quello che gli operatori penitenziari si trovano a fronteggiare quotidianamente nelle carceri, si debbano affiancare ulteriori preoccupazioni per pericoli provenienti dall’esterno”. Caserta: raccolta differenziata dei rifiuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere Il Mattino, 1 agosto 2011 Raccolta differenziata anche nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un accordo in tal senso è stato raggiunto nel corso di un incontro tra il sindaco, Biagio Di Muro, l’assessore comunale all’Ambiente, Donato Di Rienzo, la direzione del carcere sammaritano e la Ecological Service, che ha in appalto il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani. “Si tratta di un passo di notevole rilievo - ha spiegato Di Rienzo - se solo si considera che il carcere di Santa Maria Capua Vetere ospita attualmente circa novecento detenuti, ai quali vanno aggiunti il personale e i visitatori. E questi numeri aumenteranno quando sarà completata la nuova casa circondariale sammaritana, in avanzato stato di costruzione”. In base all’accordo nelle prossime settimane - ha precisato l’assessore - l’azienda che si occupa dei servizi ecologici fornirà alla casa circondariale tutti gli strumenti adatti alla selezione dei rifiuti e quindi potrà essere compiuto - dopo l’avvio della raccolta differenziata nell’area mercatale, che già sta dando ottimi risultati - un altro passo verso l’obiettivo di entrare nei cosiddetti comuni virtuosi per il rispetto e la tutela dell’ambiente”. Intanto, parallelamente, la Provincia ha impresso una netta accelerazione anche per il passaggio degli altri lavoratori del Consorzio di bacino, quelli impegnati nei diversi cantieri del servizio di igiene urbana, assicurato a 58 comuni. “Dal primo gennaio 2012- osserva l’assessore- se la legge attuale non dovesse essere modificata (e al momento non sembra esserci in Parlamento un orientamento in tal senso), siamo obbligati a subentrare con la nostra società provinciale all’attività svolta dal Cub. Stiamo lavorando, quindi, per non farci trovare impreparati: ed immaginiamo di assumere in carico il personale già ai primi di novembre”. Anche in questo caso le verifiche saranno capillari, per evitare che possa finire nel calderone chi non abbia titolo, come gli assunti dopo il 31 dicembre 2008. Genova: 60 milioni di € per un nuovo carcere, no all’ipotesi di un penitenziario galleggiante La Repubblica, 1 agosto 2011 Sessanta milioni di euro pronti per un nuovo carcere. Genova deve trovare l’area, poi potrà avviare i lavori per risolvere il sovraffollamento di Marassi, che verrà sottoposto a un profondo lifting. Ad annunciarlo Franco Ionta, il commissario straordinario per le carceri, nel corso del giuramento degli agenti della scuola penitenziaria di Cairo. “Per il piano sono stati stanziati 700 milioni di euro - fa sapere Donato Capece, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Sappe - che serviranno per realizzare 17 strutture e ristrutturarne 47. Il commissario ha parlato di Genova, ha detto che i soldi ci sono per il penitenziario, ma la città deve trovare dove realizzarlo”. Nelle prossime settimane verranno bandite le gare per la costruzione di nuovi padiglioni. “Conto entro la fine della legislatura - dice Franco Ionta - di poter portare a termine tutti i lavori previsti nel piano straordinario e parte dei nuovi istituti penitenziari che devono essere costruiti. Aumentare la capienza è fondamentale perché significa far stare meglio le persone e far lavorare meglio la polizia”. Sull’ipotesi delle carceri galleggianti sulle navi, che potrebbe dare una mano anche a Fincantieri, Ionta è scettico. “I miei progettisti al momento escludono una soluzione del genere, che crea molti problemi anche dal punto di vista ambientale e non consente quella sicurezza che un carcere deve garantire”. Dato che i tempi sono stretti e l’emergenza sovraffollamento incombe, il governo prende spunto dal modello americano. “Per ridurli a un massimo di 6 mesi, si è parlato dei sistemi modulari prefabbricati che costerebbero la metà, circa 24 milioni. Si crea la struttura in cemento, poi si infilano le celle in acciaio pronte. È come allestire una nave...”, aggiunge Capece. Idee, progetti. La sostanza, è che a ponente il nuovo carcere verrà costruito a Cairo. “Sicuramente - continua Capece - perché l’ipotesi di Cengio sta tramontando per questioni logistiche. Il carcere costerà circa 60 - 70 milioni e potrà ospitare 400 detenuti, permettendo di trasferire molti di quelli in eccesso a Marassi, che sono oltre 800 a fronte di una capienza massima di 435”. Il piano si basa su quattro pilastri. “Innanzitutto, le strutture e le ristrutturazioni permetteranno di creare 22 mila posti letto in più”. Poi il secondo pilastro. “Gli agenti sono pochi, 37 mila, e ne verranno assunti altri 1800 per sopperire all’emergenza. A Marassi, solo uno controlla un piano di 70 detenuti, con i conseguenti problemi di sicurezza e di lavoro perché è sottoposto a turni massacranti. Si sta discutendo anche della messa in prova per i soggetti non pericolosi e di potenziare gli arresti domiciliari per chi sconta pene fino a un anno. La strada per combattere il sovraffollamento è anche questa”. Sulmona (Aq): gli avvocati sono favorevoli all’ampliamento del carcere Il Centro, 1 agosto 2011 Gli avvocati del Foro di Sulmona sono favorevoli all’ampliamento del carcere. Lo evidenziano in un comunicato in cui, insieme alla Fondazione - Istituto per lo studio del diritto dell’esecuzione penale e del diritto penitenziario Onlus, esprimono il più vivo compiacimento per la decisione assunta dal ministero della Giustizia, d’intesa con l’amministrazione comunale di Sulmona. Una iniziativa che secondo gli avvocati peligni avrà conseguenze positive per l’intero territorio, sia sotto l’aspetto occupazionale che economico. “Diamo inoltre la notizia ufficiale”, spiega il presidente dell’Ordine degli avvocati, Gabriele Tedeschi, “della elevazione del carcere di via Lamaccio a livello di Centro penitenziario, con una capacità ricettiva prossima futura di 1.000 posti e quindi con possibilità di accoglienza per tutte le tipologie di detenuti. La decisione ministeriale anzidetta delinea infatti un quadro di nuove e stimolanti relazioni operative fra tutte le amministrazioni locali e la stessa istituzione penitenziaria sotto molteplici e concorrenti profili e rappresenta una ulteriore testimonianza”, conclude Tedeschi, “della tradizione sempre più forte che ormai dall’Unità d’Italia lega la città di Sulmona e l’Amministrazione penitenziaria dello Stato”. Nel ribadire il loro compiacimento per il progetto di ampliamento del carcere, che prevede un investimento già stanziato di 11 milioni di euro, il consiglio dell’Ordine forense e la Fondazione fanno presente di avere già impostato una serie di ulteriori iniziative “per testimoniare in termini di assoluta concretezza e di effettività la vicinanza delle istituzioni di Sulmona e del suo circondario alla realtà del mondo penitenziario, tra cui l’utilizzo dei detenuti negli enti e nei musei per favorire un loro graduale reinserimento nella società” Trani (Ba): detenuti in sciopero della fame, contro sovraffollamento e problemi igienici www.traniweb.it, 1 agosto 2011 Da lunedì 1 agosto e per tre giorni i 360 detenuti del carcere maschile di Trani attueranno lo sciopero della fame per denunciare, ancora una volta, il sovraffollamento e le carenti condizioni igienico - sanitarie delle strutture penitenziarie e la mancanza di un presidio medico fisso nel carcere tranese dopo le ore 22. Ne da notizia in una nota il sindacato Osapp della polizia penitenziaria. “Come organizzazione sindacale - spiega Mastrulli - siamo preoccupati per la risaputa mancanza di personale di polizia penitenziaria che i due Istituti di pena della città, da tempo, soffrono. Per questo chiediamo alle istituzioni regionali e centrali di predisporre un piano preventivo per far fronte ad un eventuale situazione emergenziale anche se, da quanto sappiamo, il dissenso dei detenuti sarà pacifico e democratico oltre che civile”. Sulla sicurezza delle carceri tranesi è stato inoltrata nei giorni scorsi una precisa nota al ministro dell’Interno (Roberto Maroni), al capo del dipartimento (Franco Ionta), al prefetto della Bat (Carlo Sessa), al presidente della provincia (Francesco Ventola) ed al sindaco di Trani (Giuseppe Tarantini) “senza ottenere - scrive Mastrulli - la sensibilità richiesta dal nostro sindacato”. Trento: i telefoni del nuovo carcere non funzionano, disagi per i detenuti Il Trentino, 1 agosto 2011 Carcere isolato da almeno due giorni. I telefoni del nuovo penitenziario di Spini di Gardolo non funzionano a causa di un fulmine che ha colpito l’impianto. Le conseguenze si sono fatte sentire soprattutto ieri mattina, quando diverse decine di parenti hanno dovuto attendere ore prima di far visita ai propri cari detenuti nella struttura. Infatti al carcere non era pervenuta la necessaria autorizzazione alla visita che viene inviata via fax dal tribunale. Senza autorizzazione, i parenti non potevano far visita ai detenuti, così alcuni di loro sono dovuti andare in tribunale a farsi consegnare una copia conforme dell’autorizzazione. Ma questa non è che una delle conseguenze. Non si sa, infatti, se vi siano stati danni all’impianto di allarme, che viaggia anche su una linea telefonica. Quello che è sicuro è che l’impianto per tutta la giornata di venerdì e per buona parte della giornata di ieri non ha funzionato. Caltagirone (Ct): aperta una Casa di accoglienza per i familiari dei detenuti La Sicilia, 1 agosto 2011 Oggi alle 19 il vescovo mons. Calogero Peri inaugurerà alla presenza del presidente dalla Provincia Regionale di Catania, Giuseppe Castiglione, di autorità civili e militari, la Casa d’accoglienza per i familiari dei detenuti. Una struttura che sorge nei pressi della Casa circondariale di contrada Noce, a circa sei chilometri da Caltagirone, sulla strada per Niscemi. Si tratta di un manufatto realizzato mediante la ristrutturazione di un ex rudere a pochi metri dal complesso carcerario. Ha lo scopo di accogliere i parenti dei detenuti che vengono da fuori Caltagirone, fornendo loro un luogo di ristoro durante le attese per i colloqui coi parenti reclusi. La realizzazione è stata possibile grazie all’impegno del direttore della Caritas diocesana, al contributo della Provincia Regionale di Catania e di tutte le comunità parrocchiali della Diocesi che in base alle proprie forze hanno contribuito. La Casa sarà gestita dalla Comunità religiosa delle Piccole Sorelle dell’Annunciazione. Una significativa risposta alla drammatica domanda di quanti colpiti già per la reclusione di un proprio congiunto, si trovavano ad affrontare i problemi connessi con la distanza del complesso carcerario dalla città, peraltro con pochi collegamenti. Disagi che si accentuano nei periodi invernali e in quelli estivi. Si consideri anche, che per i congiunti residenti nell’area della Sicilia occidentale, era quasi sempre necessario arrivare un giorno prima e pernottare, per essere presenti nelle prime ore dei giorni destinati ai colloqui. Siracusa: Progetto Liberamente, una nuova opportunità per non sbagliare più Gazzetta del Sud, 1 agosto 2011 Primo, lusinghiero, bilancio per il progetto sperimentale finalizzato alla inclusione sociale di soggetti adulti in esecuzione penale “Liberamente” partito qualche mese fa. L’iniziativa, finanziata dall’assessorato regionale alla famiglia è nata dalla sinergia tra il Consorzio Quark dell’Area Marina Protetta del Plemmirio e dalla delegazione di Agrigento di Marevivo e punta a fornire una “seconda opportunità” di vita, lontana dalla prima, ad una ventina di detenuti provenienti dalla Casa circondariale di Cavadonna, dall’Istituto penitenziario di Brucoli e dagli Uffici di esecuzione penale esterna. Il progetto, per la prima volta sperimentato in Italia, è adesso entrato nel vivo con una work esperience nell’Area marina protetta del Plemmirio, che si concluderà a settembre. Gli speciali “allievi”, hanno sin qui eseguito la raccolta dei rifiuti in tutti i 44 sbocchi dell’Amp, dove in alcuni casi è prevista la realizzazione di staccionate in legno; sistemato l’ingresso al Faro di Capo Murro di Porco, simbolo dell’oasi marina siracusana, dove sono stati pitturati anche i cancelli e ripristinato il giardino botanico dell’Arenella resort. In particolare, nello sbocco “2” e numero “44” dell’Amp del Plemmirio, sono state installate due “isole ecologiche” per la raccolta differenziata, con relativa raccolta sistematica dei rifiuti. I detenuti selezionati per il progetto “Liberamente”, stanno inoltre fornendo anche assistenza per il servizio di accompagnamento dei disabili al mare, a cura dell’Anfass che si avvale di mezzi di trasporto idonei forniti dal Consorzio Plemmirio. In questi giorni, gli allievi hanno pure effettuato un intervento di bonifica della piccola spiaggia di via Riviera Dionisio il Grande. Asti: Osapp; detenuto nel reparto isolamento aggredisce un agente polizia penitenziaria Adnkronos, 1 agosto 2011 Un detenuto nel reparto isolamento del carcere di Quarto d’Asti, secondo quanto riferiscono fondi di polizia penitenziaria, avrebbe aggredito questa mattina con un manico di scopa un sovrintendente che lo stava invitando a rientrare in cella. Immediatamente soccorso, l’agente è stato ricoverato in ospedale per una ferita al capo con trauma cranico. “La situazione ad Asti è esplosiva - commenta il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci - il personale è in agitazione dai primi di luglio perché la situazione è insostenibile: attualmente nel carcere ci sono detenute 389 persone a fronte di una capienza di 185. Mancano un centinaio di agenti - aggiunge - per questo chiediamo che il neo ministro della Giustizia pensi anche alle carceri, dotando la polizia penitenziaria degli strumenti idonei e facendo in modo che non presti più servizio in quei reparti dove sono presenti soggetti di conclamata violenza”. Firenze: Osapp; a Sollicciano agente preso a pugni da un detenuto Ansa, 1 agosto 2011 Per motivi sconosciuti, intorno alle 10 di stamani un tunisino detenuto nella nona sezione penale del carcere di Sollicciano di Firenze si è rifiutato di entrare in cella e ha preso a pugni un agente. A riferirlo è una nota del sindacato Osapp della polizia penitenziaria. L’agente sì fatto medicare al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni di Dio ed è stato dimesso con una prognosi di cinque giorni. Secondo il consigliere nazionale dell’Osapp Giovanni D’Aniello, si è trattato di ‘una violenza assolutamente gratuita e a farne le spese, ancora una volta, è il personale di polizia penitenziaria che opera in prima linea, sempre più spesso abbandonato al suo destinò. D’Aniello ricorda che l’agente aggredito era di turno dalle 8 alle 16, sia come capoposto del reparto penale (che conta circa 300 detenuti) sia della nona sezione (con circa 60 detenuti). E ha continuato: “Il carcere di Sollicciano sfiora di poco i 1.000 detenuti a fronte di una capienza di circa 500, mentre l’organico dei poliziotti è ridotto di circa il 30% sui 692 previsti”, complice, sempre secondo l’Osapp, “l’assoluto immobilismo del mondo politico, incurante finanche del monito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano”. Volterra (Si): la Compagnia della Fortezza sogna il riconoscimento di Teatro Stabile Ansa, 1 agosto 2011 Sono più di vent’anni che Armando Punzo lavora con i carcerati della Fortezza di Volterra, la grande Rocca rinascimentale da tempo casa di detenzione con una sezione anche di massima sicurezza, e oggi vuole che la sua Compagnia della Fortezza venga riconosciuta come Teatro Stabile, visto che la direttrice dell’istituto, Maria Grazia Giampiccolo non è contraria e ha aperto con coraggio quest’anno cortili e spazi interni anche a tutti gli altri spettacoli del festival Volterra Teatro. E il lavoro di Punzo questa volta è protesta verso il potere che uccide i sogni come il suo e dei suoi detenuti. Parte da “Giulietta e Romeo” di Shakespeare e si intitola “Mercuzio non vuole morire”, perché questi, all’amico Romeo che lo accusa di parlar di niente, risponde: “Giusto, giusto, io parlo dei sogni, che sono figli di una mente vagabonda pieni soltanto di vana fantasia”. Ma a Volterra Punzo, da anni, dimostra che è la fantasia a dare una coscienza diverse alle persone, ad abbattere metaforicamente i muri, a far entrare la città tra chi è condannato a non poterla più vivere. Sono così grandi vedute fotografiche di Volterra, in collage appena scomposti, a far da scenografia e sfondo al lavoro, al lungo duello di Mercuzio (interpretato dallo stesso Punzo) con Tebaldo Capuleti, che rappresenta il potere e la città, visto che il suo costume e quello degli altri attori - carcerati sono costruiti come rappresentazioni architettoniche, di una scala, di un palazzo, del celebre balcone di Giulietta. Tutto è stato costruito con pazienza e arte dai carcerati, perché il contributo per questa operazione grandiosa, che si ripete da 23 anni con echi anche internazionali, è di 3.500 euro in tutto. Ma questo non basta a tagliare le ali a Punzo e i suoi attori, che hanno in programma di realizzare anche un film, che racconti la storia della Compagnia della Fortezza, e intanto in scena vediamo passare l’uomo di Majakovskij con la valigia in cui è una lacrima per ogni cosa che ci dà dolore. “Ho bisogno di dar vita a un sogno”, ma anche chiaramente “Mentre loro disputano, i nostri figli migliori muoiono”, sono scritte che si calpestano all’entrata nel primo dei cortili divisi da inferriate, denominato ora Spazio Dalì, come gli altri sono Spazio Beckett, Brecht, Artaud, Leopardi, Pasolini e così via, luoghi della poesia e della parola che si fa corpo e azione, che risuona nei corridoi bassi e nelle stanze, dove si rincorrono i miti e le ossessioni, diavoli rossi come Ulisse che torna a casa, ma anche le parabole raccontate dal cappellano del carcere, come invito a cogliere il senso altro del tutto. Immigrazione: clandestini in carcere, la beffa dell’irregolarità che è diventata reato L’Unità, 1 agosto 2011 Sono molti i temi che sono stati affrontati dal convegno organizzato dai radicali italiani dal titolo “Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano”, fra i quali la richiesta di indulto e amnistia avanzata con forza da Marco Pannella. La preoccupante condizione delle nostre carceri ci offre lo spunto per ricordare i tanti stranieri (oltre un terzo dell’intera popolazione detenuta) che lì si trovano rinchiusi, tenendo conto di un dato: tra i reati più frequenti, quelli riguardanti violazioni delle regole d’ingresso e di soggiorno nel nostro paese sono ai primi posti. È evidente, quindi, che le nostre carceri sono affollate di immigrati detenuti per un reato che, fino a due anni fa, era solo un illecito amministrativo. Ornella Favero, direttore di Ristretti Orizzonti, ha ricordato quella che sembra essere una vera e propria beffa: gli stranieri condannati in Italia avrebbero la possibilità, a due anni dal fine pena, di ottenere l’espulsione. Ma, e appunto qui sta la beffa, le pratiche per il riconoscimento iniziano con tale ritardo che spesso si concludono a pochi mesi dal fine pena e, in questo caso, c’è da ritenersi fortunati. Infatti per molti altri, dopo il carcere, c’è il centro di identificazione ed espulsione, anche per mesi, in attesa dell’identificazione. Un governo che ha introdotto il reato e l’aggravante di immigrazione clandestina, che ha annunciato la tolleranza zero e ha sbandierato la pratica delle espulsioni, come spiega questa lentezza nel rimandare a casa propria chi, nel nostro paese, non ci vuole più stare? Sarebbe difficile spiegare, a quegli elettori che li hanno votati, perché tanto denaro pubblico viene speso per il mantenimento volontario di questa enorme schiera di “indesiderati”. Immigrazione: inferno Cie per i minori, da Ponte Galeria a Lampedusa di Stefano Galieni Liberazione, 1 agosto 2011 Di notte una prima telefonata: “Li stanno ammazzando di botte. Fate qualcosa”. Ponte Galeria, il Cie di Roma, 4 ragazzi algerini avevano tentato di fuggire, raggiunti prima ancora di essere riusciti a mettere piede fuori del centro, sono stati ammanettati e gettati a terra. Testimoni parlano di un pestaggio a freddo, a base di calci e manganellate. Le urla hanno risvegliato tutti i trattenuti del reparto maschile, la rivolta è divampata, c’è stato chi è salito sui tetti, chi ha cercato di difendersi, una decisione comune: nessuno sarebbe rientrato nelle gabbie senza riavere con se i 4 compagni. Risulta che le forze dell’ordine, in assetto anti sommossa siano intervenute con idranti ed estrema violenza, solo alle 4 del mattino le persone sono state rinchiuse, con i lucchetti nelle celle. Hanno iniziato uno sciopero della fame, fra loro i 6 cittadini albanesi con regolare passaporto rinchiusi senza alcun motivo. Manca invece uno dei ragazzi tunisini: 5 giorni prima dello scadere dei 6 mesi di trattenimento, è stato preso di notte, legato e portato in aeroporto. Viveva da tanti anni in Italia, la moglie è a Milano. Altri 16 “pericolosi clandestini” dovrebbero essere rimpatriati in tempi brevi, sono stati presi in una retata mentre compivano un reato efferato, lavoravano in nero ai mercati generali. Un parlamentare del Pd, l’onorevole Sarubbi, si è recato sul posto grazie alla sollecitazione costruita con la rete “LasciateCIEntrare” che comincia a dare i suoi frutti. Il deputato ha ottenuto che i reclusi ponessero fine allo sciopero della fame e della sete in cambio dell’agibilità del corridoio interno. “Le versioni fornite dalla questura e dai trattenuti sono discordanti - ha detto - ma ho visto svariati ragazzi con i segni di ferite”. Resta invece isolata Lampedusa dove di parlamentari ce ne sarebbe bisogno: giungono notizie di maltrattamenti ai minori non accompagnati tenuti, insieme agli adulti nel centro di Contrada Mbriacola. Nonostante la presenza di Save the Children, gli incidenti si susseguono, i ragazzi (poco più che adolescenti) non ce la fanno a stare rinchiusi in attesa di identificazioni che non giungono mai, tentano di fuggire, vengono ripresi e, secondo fonti attendibili, in casi specifici picchiati in maniera pesante. Dove è il tribunale per i minori in questo caso? O sono minori di serie B? Se i racconti che continuano a giungere dovessero essere - confermati questa volta l’Italia potrebbe anche vantarsi di aver violato la convenzione per i diritti del fanciullo. Il peggiorare della situazione nei Cie comincia a già a risentire della modifica introdotta da Maroni il ddl che sarà definitivamente approvato martedì al senato e che porterà a 18 mesi i tempi massimi di trattenimento. Di fatto questo già avviene (il decreto legge che introduceva il cambiamento è in vigore) e sono aumentati in maniera esponenziale i casi di autolesionismo e di tentativi di suicidio solo per miracolo non sfociati in tragedia. Ma occorre il morto per far capire che si stanno costruendo delle polveriere di sofferenza? In concomitanza con il voto in senato, martedì 2 agosto, associazioni, forze politiche come il Prc, la Cgil, il mondo che sta tentando di rompere il muro dell’indifferenza che circonda i Cie, faranno un presidio a Piazza Navona, a partire dalle 17.30. Ma dal fronte immigrazione giungono anche notizie di lotta auto organizzata. A Nardo, in provincia di Lecce, dove da due anni è in piedi un progetto di accoglienza e di difesa dei diritti del lavoro, ieri mattina è stata una giornata politicamente significativa. Ad un gruppo di lavoratori è stato chiesto di lavorare per una cifra irrisoria rispetto alla fatica da compiere, hanno incrociato le braccia, sono tornati al campo di accoglienza e hanno inscenato una protesta occupando la strada principale. Quattro portavoce in rappresentanza di diversi paesi di provenienza, dopo una assemblea che li ha visti discutere con altri colleghi impegnati a lavorare in altri terreni, hanno chiesto un incontro al questore. Pretendono che il loro contratto venga rispettato, e hanno esposto una piattaforma di rivendicazioni, altrimenti non lavoreranno. Le associazioni che gestiscono il progetto e la Cgil li difendono, potrebbe nascerne una importante esperienza di lotta. Mondo: quasi 3mila italiani detenuti in carceri straniere, 1.168 soltanto in Germania Italia Chiama Italia, 1 agosto 2011 Il record dei detenuti italiani all’estero è in Germania. Ma si trovano in tutto il mondo. E troppo spesso sono sottoposti a condizioni di vita lesive dei più elementari diritti dell’uomo. Italia Chiama Italia si è spesso occupato, come quotidiano online, dei detenuti italiani all’estero. Anche la politica che a Roma si dedica agli italiani nel mondo, ha cercato più volte di affrontare la questione del mancato rispetto, in certi casi, dei loro diritti umani. Dall’India alla Repubblica Dominicana, dagli Usa al Brasile, i connazionali dietro le sbarre sono moltissimi. Quasi 3mila. Per la precisione, secondo dati della Farnesina, 2.935; la maggioranza di loro è detenuta in Germania, che ospita in carcere ben 1.168 italiani. Seguito, tra gli Stati europei, da Spagna (488), Francia (214), Belgio (195) e Svizzera (79). L’America ha arrestato 426 italiani, e di questi ne ha già condannati più della metà: 214. Guardando all’America Latina, il record lo detiene il Venezuela (76), seguito da Perù (69) e Brasile (64). Troppo spesso i detenuti italiani all’estero vengono sottoposti a condizioni di vita lesive dei più elementari diritti dell’uomo e sovente non ricevono cure mediche adeguate, né un’appropriata difesa legale. Le denunce sono arrivate tante volte anche al nostro giornale. Le abbiamo sempre girate ai consoli e agli ambasciatori del posto in questione, ma non sempre le istituzioni italiane locali possono fare qualcosa; forse, non sempre lo vogliono davvero. Anche se Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri con delega agli italiani nel mondo, ha spiegato che il ministero degli Esteri, “presta particolare attenzione alla situazione dei nostri connazionali detenuti nelle carceri” all’estero, “effettuando visite consolari e garantendo l’assistenza necessaria”. Purtroppo, nella realtà delle cose, non è sempre così. L’augurio è che l’Italia possa interessarsi di più ai suoi figli che oltre confine vivono una vita dietro le sbarre. Mondo: virus informatico potrebbe aprire tutte porte delle carceri a controllo elettronico www.ictbusiness.it, 1 agosto 2011 Secondo un ricercatore specializzato in sicurezza informatica si potrebbe usare un virus per aprire le porte delle celle nei penitenziari di tutto il mondo, o almeno in quelli che usano sistemi elettronici per controllare le porte. Sarebbe possibile perché si usano gli stessi Plc presenti nelle centrali nucleari. Lo ha scoperto John Strauchs, che ha partecipato in prima persona allo sviluppo dei sistemi di sicurezza. Incuriosito dal virus Stuxnet, Strauchs ha infatti rilevato che le prigioni - almeno quelle degli Stati Uniti, si affidano agli stessi Plc Siemens presenti nelle centrali nucleari iraniane. Questi dispositivi sono stati il bersaglio del virus, come scoprimmo - con sgomento - lo scorso settembre (Stuxnet, il virus che colpisce le centrali atomiche). Basterebbe quindi modificare il codice esistente per aprire tutte le porte di un penitenziario di massima sicurezza, e probabilmente sarebbe (relativamente) facile attaccare più carceri nello stesso momento. Le potenziali conseguenze sarebbero a dir poco drammatiche, e probabilmente si potrebbe parlare di pericolo diretto per la sicurezza nazionale. Strauchs spiegherà i dettagli della propria scoperta alla conferenza DefCon di Las Vegas, che si terrà la prossima settimana. “La maggior parte delle persone non sa com’è progettata la porta di una prigione, e per questo nessuno se n’è mai preoccupato. In quanti sanno che sono costruite con gli stessi Plc delle centrifughe? (nucleari, ndt)”. Strauchs spiega di aver lavorato in collaborazione con la figlia, e di aver trovato il modo di aprire le porte in meno di tre ore. Per un malintenzionato basterebbe un investimento di poche centinaia di dollari per mettersi al lavoro. Il problema sarebbe dovuto da una parte ai Plc stessi, la cui progettazione risale a molti anni fa e non integra misure di sicurezza. E dall’altra ai sistemi Windows che li controllano, nei quali è possibile penetrare con tecniche più o meno complesse. Si potrebbe pensare che la necessità di un accesso fisico ai computer sia una buona garanzia, ma l’esperienza iraniana dimostra il contrario. Strauchs spiega infatti di aver visto guardie di sicurezza accedere al proprio account Gmail con i computer che controllano le prigioni; una porta sufficiente per qualsiasi attacco. Sarebbe possibile attivare l’apertura di emergenza di tutte le porte, facendo credere al sistema che ci sia un incendio in corso per esempio, per ottenere l’effetto desiderato. Oppure si potrebbe tentare di aprire una specifica porta, e con un pò di lavoro in più disattivare anche il sistema di allarme, per un’evasione perfetta.