Giustizia: Fabbrica Italiana Reati Estivi… di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2011 Nel codice già 34 tipi di omicidio Perché, allora, quello “stradale”? La politica propone leggi per compiacere il popolo, ma la giustizia è amministrata dai giudici. C’è l’art. 575 codice penale: omicidio. Reclusione non inferiore ad anni 21. Però, se ci sono circostanze aggravanti (art. 576) la pena è l’ergastolo. E quando ci sono? Se si uccide per commettere un altro reato; se si uccidono i genitori o i figli; se si uccide per motivi abbietti o futili o con sevizie, con il veleno o un altro mezzo insidioso; se si uccide con premeditazione; se chi uccide è un latitante o un associato per delinquere che vuole sottrarsi all’arresto; se si uccide per commettere un abuso sessuale o uno stalking; se si uccide un poliziotto. Poi c’è l’art. 577: omicidio di coniuge, fratelli, genitori figli, anche adottivi, o un affine in linea retta (da 24 a 30 anni). Quindi l’art. 578, infanticidio, da 4 a 12 anni perla madre che, in condizioni di abbandono materiale e morale, uccide il neonato immediatamente dopo il parto. E ancora: art. 579 (omicidio del consenziente - il reato che sarà contestato a chi cercherà di sfuggire all’indegna legge sul testamento biologico - da 6 a 15 anni), art. 580 (istigazione o aiuto al suicidio, da 5 a 12 anni), 584 (omicidio preterintenzionale, quando l’omicidio è conseguenza non voluta di uno schiaffo o un pugno, per esempio, da 10 a 18 anni), che diventano da 13 a 27 (art. 585) se ci sono le 10 circostanze aggravanti di cui all’art 576. Ma non è finita qui perché, se non voglio uccidere nessuno ma rubare o minacciare sì, e se, a questo punto, qualcuno muore (art. 586), mi condannano come se avessi commesso un omicidio colposo. Ma le pene sono aumentate. E poi, finalmente, c’è l’art. 589: omicidio colposo. Anzi, omicidi colposi. Quello semplice, da 6 mesi a 5 anni; quello commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (da 2 a 7 anni); quello commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da un ubriaco o un drogato: (da 3 a 10 anni); e, infine, se muoiono più persone si può arrivare fino a 15 anni. Se fate i conti scoprite che abbiamo 34 reati di omicidio, puniti con pene che vanno da 6 mesi all’ergastolo. Adesso che si sono inventati “l’omicidio stradale” ne avremo 35. Solo per completezza, si tenga presente che le pene massime, tranne l’ergastolo, possono essere aumentate fino a due terzi per la recidiva. Non dico che non ci siano differenze tra omicidio doloso, preterintenzionale e colposo ma, insomma, 3 reati di omicidio con pene variabili tra un minimo e un massimo dovrebbero bastare. Facciamo un po’ di calcoli. L’omicidio volontario, quando uno vuole proprio ammazzare la sua vittima, ci si mette di impegno e lo fa, dovrebbe essere più grave di quello colposo, quando tizio non vuole ammazzare nessuno; è uno scriteriato, un pazzo, un imprudente, un imbecille, tutto quello che volete, ma non è spinto da volontà omicida. Se questo è vero (e finora nessuno mai l’ha dubitato, ma è anche vero che sono tempi bui per la ragione) questi due tipi di omicidio non possono essere puniti nello stesso modo. Se condanniamo all’ergastolo chi ha commesso il più grave degli omicidi volontari (che so, un figlio sano di mente che ammazza la madre e il padre torturandoli e violentandoli) non possiamo dare la stessa pena a uno che ha ammazzato un certo numero di persone mentre guidava ubriaco o drogato. Non so quanto si meriti quest’ultimo, ma certamente molto meno del primo. Questo tipo di discorso vale per tutti i tipi di omicidio, anche all’interno delle tre macro categorie di cui sopra: ogni situazione umana è diversa dalle altre e quale essa sia lo si capisce alla fine del processo, non prima. Nello stesso modo l’omicidio volontario meno grave che si possa ipotizzare (non mi azzardo a fare esempi, una volta ne ho fatto e uno mi hanno sotterrato di critiche) è senz’altro meno grave dell’omicidio colposo che ho portato ad esempio più sopra. Insomma, bisogna riuscire a capire che, al di là dell’emozione del momento, la valutazione della gravità del reato e della giusta pena che si deve infliggere dipende da due tipi di accertamento: uno tecnico-giuridico (in quale delle 35 categorie sopra elencate ci troviamo?) e uno etico-sociale (quanto è stato cattivo il reo?). Questo è il lavoro dei giudici. Che, naturalmente, lo possono fare bene o male. Se non ci fossero errori, si tratterebbe di giustizia divina, non umana. Il problema è che, quando la gente pensa che il giudice ha sbagliato, il presunto errore è sempre sul versante etico-sociale: ha giudicato l’omicida più cattivo (raramente) o più buono (quasi sempre) di quanto il popolo vorrebbe. Il che è assolutamente normale. Le vittime non hanno il dovere di essere imparziali e il resto dei cittadini è portato, per fortuna, a simpatizzare con le vittime piuttosto che con i carnefici. Ma questo non vuol dire che la giustizia la possa amministrare il popolo. Diventeremmo un Paese barbaro, proprio come quei Paesi in cui non si applicano i codici ma la legge divina, cioè quella in cui il popolo si riconosce e che gli piace tanto. Quando i cittadini smetteranno di volersi sostituire ai giudici e quando i politici smetteranno di emanare leggi inutili al solo scopo di compiacerli (il riferimento all’omicidio stradale spero sia evidente) cominceremo ad allontanarci da mister Lynch e dalla sua legge. Che sembrano davvero tanto vicini. Giustizia: quando i magistrati cambiano idea… a furor di popolo di Adriano Sofri Il Foglio, 18 agosto 2011 L’uomo (albanese, in questo caso) che guidando ubriaco e contromano ha provocato la morte di quattro giovani francesi, e ferito un quinto, è stato arrestato ieri, dopo essere stato denunciato sabato a piede libero per omicidio colposo, lesioni e guida in stato di ebbrezza. Al momento in cui scrivo, si aspetta una conferenza stampa in cui i magistrati spiegheranno perché hanno cambiato il loro provvedimento. Però, a occhio e croce, credo di saperlo. Forse non quello che diranno nella conferenza stampa, ma la motivazione vera, che è l’indignazione larga suscitata dal mancato arresto, e l’uso che prontamente un paio di ministri ne hanno fatto per proporre una nuova configurazione di reato, l’omicidio stradale. Ma allora, se a distanza di qualche giorno l’arresto è stato deciso, vuol dire che era possibile, e magari doveroso, e dunque non c’era e non c’è bisogno di un nuovo reato da aggiungere a un pletorico codice penale. Che un magistrato decida come gli sembra giusto e secondo la legge senza cedere all’impopolarità della sua scelta è in genere una cosa lodevole. La giustizia non si fa a furor di popolo, e nemmeno a indignazione di familiari e di ministri. Però era difficile anche per un nemico strenuo della galera come me capire come mai si lasciasse a piede libero uno che, ammesso che non facesse temere il pericolo di fuga, non dava nessuna garanzia di non poter reiterare la sua impresa. Salvo circostanze peculiari di cui non sono a conoscenza e che non immagino, questo terribile episodio era di quelli che rendono più giustificabile un provvedimento cautelare. Ma qui mi importa un altro punto. Come succede, si è fatto dell’episodio il pretesto per qualche popolarissimo proclama. Deplorarlo, e proporre l’introduzione di un nuovo reato (in tempi di chiacchiere fatue di depenalizzazioni) faceva credere che, a codice vigente, uno che ammazza quattro persone andando contromano ubriaco non possa essere arrestato. L’ottimo telegiornale di Sky ha indetto uno dei suoi sondaggi chiedendo agli spettatori se fossero d’accordo con la proposta di Maroni di introdurre il reato di omicidio stradale. Così formulato però, il sondaggio era del tutto fuorviale: come non essere d’accordo con la necessità di perseguire chi guidando compia uno o più omicidi? Solo che il reato di omicidio stradale c’è già, e può essere colposo o volontario. Negli ultimi tempi, e sempre sulla scia del furor di popolo, si è fatto un certo abuso - un abuso certo - dell’imputazione di omicidio volontario, sbagliando, credo, per queste ragioni. Che l’aggravamento dell’imputazione non ha probabilmente alcuna capacità deterrente sugli sciagurati che si mettono alla guida senza essere padroni di sé. E che, al contrario, fa passare per meno grave l’omicidio colposo, anche quando sia così aggravato. Un problema analogo riguarda gli omicidi detti bianchi, i cui responsabili sono troppo spesso coscienti di far lavorare le persone in condizioni illecite o di estremo pericolo. La moltiplicazione delle fattispecie di reato è fedele alla tradizione delle grida manzoniane. Il risultato è che tutti i propositi di riformare la giustizia e riportare le carceri a una barbarie meno efferata riempiono le fosse, mentre leggi e leggine novelle riempiono le celle. Giustizia: il regalo di Nitto… un nuovo reato non si nega a nessuno di Liana Milella La Repubblica, 18 agosto 2011 Vista l’ora, non mi dilungo. Ma è tutto il giorno, anzi per la verità da due giorni, che leggo con ansia le agenzie di stampa per scoprirci una trovata veramente innovativa, rivoluzionaria direi, su come risolvere il sovraffollamento carcerario. Quello di cui sento parlare mi pare “fuffa”. Più ci arzigogolo intorno e più me ne convinco. La depenalizzazione, se va bene, richiederà più di un anno, a essere larghi, di lavoro parlamentare. Lo svuota-carceri, a due anni, esaurirà assai presto il suo esiguo vantaggio. Com’è accaduto per il primo. Di nuove carceri sento parlare come di una chimera. Il nostro Nitto - inteso Francesco Nitto Palma Guardasigilli - ipotizza di mettere le mani sulla Cirielli smontando il taglio dei benefici carcerari, fortemente sponsorizzato dalla Lega. Che non si capisce perché ci debba tornar sopra e allargare le maglie dopo tanta fatica per stringerle. Ma se fosse tutto qui saremmo nella solita scena. Invece ecco che vi irrompe, d’emblè, un’altra idea geniale del soliti noti, il duo rappacificato Guardasigilli-ministro dell’Interno Maroni. Uno, per certo, che qualche responsabilità sul sovraffollamento ce l’ha con i suoi pacchetti sulla sicurezza. Quando tutti e due erano al Viminale, uno ai vertici, l’altro sottosegretario, non facevano che litigare. Ora cinguettano sull’omicidio stradale. Questa è la nuova trovata geniale di Ferragosto. Il parto risolutivo. E perché non anche l’omicidio nel bus, in tram, in metropolitana, in volo, sugli sci? Quella di inventarsi una nuova figura di reato, di fronte alle telecamere, sarebbe un comportamento legislativo da vietare perché dannoso. L’omicidio stradale, per chi non l’avesse capito, è un nuovo colpo all’autonomia del giudice, l’ennesimo rotolare verso un diritto bloccato in cui i margini di autonomia del stesso pm e del gip stanno diventando inesistente. Giusto quello che al più presto pretende Berlusconi. Giustizia: la Finanziaria-bis e l’insostenibilità economica del sistema penitenziario di Paolo Persichetti Liberazione, 18 agosto 2011 La domanda giusta non è quanto costa un detenuto ma quanto costano le carceri. In questi tempi di urgenza economica di fronte alle manovre speculative dei mercati finanziari sul debito pubblico, mentre il governo ha annunciato una nuova manovra economica correttiva per il rientro del deficit che prevede ulteriori tagli e imposte che vengono ad aggiungersi ai pesanti interventi già introdotti nella prima stesura della legge di bilancio, in presenza di una situazione di sovraffollamento carcerario senza precedenti (67 mila detenuti), dovrebbe imporsi nel dibattito che si aperto sui rimedi da intraprendere (patrimoniale, tassa sulle speculazioni finanziarie, abolizione della cosiddetta “finanza tossica”, fondi sovrani, eurobond, smantellamento delle spese militari ecc.) anche una riflessione sull’anti economia dell’istituzione carcere. Secondo i dati elaborati da Ristretti orizzonti, negli ultimi 10 anni il sistema penitenziario è costato alle casse dello Stato circa 29 miliardi di euro. Dal 2000 ad oggi almeno 2 miliardi e mezzo all’anno. Vista l’ingente somma impiegata è più che lecito porre domande sull’utilità pubblica e la performatività sociale di questo tipo di spesa. La prima risposta, sicuramente la più scontata, ritiene che il sistema penitenziario sia necessario a garantire la sicurezza. Ad essa si aggiunge una variante che fa leva sulle proiezioni simboliche: la presenza del carcere si giustificherebbe con l’esigenza di dare sicurezza. Entriamo qui nel campo della retribuzione simbolica: ad ogni crimine deve corrispondere una sanzione inflitta a colui che il sistema giudiziario ha individuato come colpevole. Questa retribuzione afflittiva è ritenuta decisiva poiché in grado di produrre un valore risarcitorio e rassicurante per la società. A dire il vero anche questo effetto retributivo si è affievolito negli ultimi tempi, e non perché sia venuta meno la natura afflittiva delle pene che - stando ai dati ufficiali - si sono notevolmente allungate e inasprite come dimostra il numero degli ergastolani, oltre 1500, a cui vanno aggiunti l’alto numero di persone condannate ad una pena superiore ai 20 anni di reclusione, ma anche per la presenza dei ripetuti e numerosi vincoli ostativi introdotti nel corso degli ultimi decenni che impediscono l’accesso ai benefici penitenziari, oltre alla presenza del 41bis (regime di isolamento massimale). Nonostante ciò è convinzione diffusa che il sistema penale non punisca a sufficienza. Ad alimentare questo pregiudizio è la deriva vittimaria che ha permeato la società. Un’ideologia dall’istinto cannibalesco che ha bisogno di capri espiatori per riprodursi. Come sanno tutti gli esperti ed operatori che lavorano nel settore, la sicurezza è diventata una nozione eterea, sempre più distante dalla realtà dei fatti sociali e sempre più abitata da percezioni, fantasmi e paure. Qualcosa che investe l’inconscio sociale più che le reali condizioni della convivenza civile. Se il carcere serve a garantire la sicurezza è singolare che l’impennata d’incarcerazioni corrisponda con il decennale decremento degli omicidi, delle rapine e delle violenze. Ma allora se ci sono meno assassini e rapinatori, nonostante 9 italiani su 10 siano persuasi che la criminalità è in aumento, chi sono questi “delinquenti” che riempiono le carceri fino a scoppiare? La risposta si trova in alcune leggi e in diversi inasprimenti del codice penale e della legge Gozzini: La Bossi-Fini che criminalizza l’irregolarità amministrativa degli immigrati; la Fini-Giovanardi che considera altamente criminale l’uso di droghe leggere e la Cirielli che infierisce sulla recidiva, vero è proprio manganello classista che colpisce i comportamenti devianti delle fasce sociali più deboli. L’innalzamento della soglia di legalità introdotto da queste normative ha trasformato in reati penali comportamenti, o devianze, precedentemente non penalizzati o affrontati con soluzioni mediche o amministrative. Siano dunque di fronte ad una questione tutta politica, ad un’idea di società, una concezione del mondo riassunta nell’orgasmo triste della vendetta incarognita, nella libidine impotente della cattiveria antropologica, divenuti il viatico di una competizione vittimaria che si avvita su se stessa alla ricerca di un appagamento senza fine. Più le carceri saranno piene maggiori saranno le richieste d’incarcerazione e le proteste per la troppa indulgenza. Un fallimento per un sistema penale che puntava a garantire se non la sicurezza almeno la sua percezione. La seconda risposta evoca per il carcere la funzione rieducativa. Una contraddizione in termini per non dire una bestemmia. Questo mito morale e utilitaristico, iscritto persino nella costituzione, è tuttavia smentito proprio dai conti. L’80% del bilancio penitenziario è assorbito dal personale (48 mila dipendenti tra custodia, amministrativi, direttori, educatori). Solo il 13% va al mantenimento dei detenuti (corredo, vitto, cure sanitarie, istruzione, assistenza sociale), il 4,4% serve alla manutenzione, il 3,4% al funzionamento (energia elettrica, acqua). In tempi di iper-liberismo l’unica dose di keynesimo legittimo sembra essere solo quello della sofferenza. I tagli imposti nelle ultime finanziarie hanno provocato una riduzione diseguale delle risorse: 5% sul personale; 31% per tutto il resto. Considerando che in 30 mesi i detenuti sono aumentati di quasi 30mila unità, le risorse procapite per detenuto sono precipitate dai 200 euro al giorno del 2007 ai 113 del 2010. Appena 3,95 euro giornalieri per i pasti e 11 centesimi per le attività scolastiche, culturali e sportive. Se l’esperienza carceraria è così fallimentare perché non gettare la scure dei tagli proprio a partire dal numero dei detenuti e delle carceri? Giustizia: perché non dobbiamo temere l’amnistia di Giulia Crivellini Notizie Radicali, 18 agosto 2011 Il sovraffollamento nelle carceri rappresenta un tema di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Così ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione del convegno di fine luglio organizzato dai Radicali. Nel frattempo qualche cosa si è mosso. Già, perché al consueto appuntamento estivo del ferragosto in carcere quest’anno hanno aderito ben 2000 persone, oltre ad un consistente numero di parlamentari, consiglieri e figure istituzionali. L’urgenza ,infatti, è divenuta oggi sinonimo di insostenibilità. Non solo sul piano della dignità (minima!) da garantire a ciascun individuo, ma altresì su quello della dignità di uno Stato che deve recuperare spazi di legalità, per “tornare ad essere in qualche misura democratico”. Se un barlume di luce è stato fatto, le soluzioni, però, sembrano vagare nell’oscurità. I Radicali dicono forte e chiaro: Amnistia! Il filo da tirare per arrivare a riforme complessive in tema giustizia. Il neo-arrivato Guardasigilli risponde: nessuna Amnistia; piuttosto depenalizzazione dei reati minori, revisione dei meccanismi di custodia preventiva e avanti col “piano carceri”. Dietro, l’ eco di un’opinione pubblica che non ritiene sufficiente la misura suggerita da Pannella, in parte celando il timore di un’ondata di criminali in giro per le strade. A questo punto, un’opera di verità si rende necessaria. Sì, perché l’Amnistia ha un significato ben preciso, che deve essere conosciuto per poter esserne riconosciuta la validità. In primis, Amnistia significa Cura per uno Stato con febbre a 40. Per un malato che ha l’aspirina a portata di mano non solo è inutile, ma può essere addirittura mortale attendere mesi prima che i medici trovino l’antibiotico. Mi si dirà: allevia, ma non cura. E poi: racchiude un morbo, perché usciranno indiscriminatamente tanti criminali. E qui si entra nel cuore della questione: la portata “emergenziale” di questo strumento è rafforzata da una valenza fortemente strutturale. Non solo porta sollievo al nostro Stato “umiliato” (cit. Napolitano) e al lavoro dei magistrati, i quali si vedrebbero ridotti i processi penali a 1 milione e mezzo dai 4 e mezzo pendenti, ma anticipa quelle stesse riforme strutturali da tanti richiamate. Le anticipa perché, come istituto delineato dal diritto penale, le contiene in sé stesso. L’ Amnistia, infatti, non viene concessa a mo’ di indulgenza o carità, ma deve seguire dei criteri precisi, collegati agli anni ancora da scontare oppure alla tipologia di reato. Si potrebbe ,ad esempio, far rientrare nel suddetto provvedimento tutti quei reati considerati “minori”, o perché senza vittima o perché non più avvertiti come tali dalla società (cd “inutili”). Ma, soprattutto, si potrebbero far rientrare quelle “emergenze sociali”, quali le tossicodipendenze e l’immigrazione, che non sono riuscite a trovare, sino ad oggi, adeguate soluzioni di politica (appunto) sociale, e che per questo vengono relegate nel dimenticatoio carcerario. Insomma, perché fare domani (e quando?) misure di depenalizzazione di reati che già oggi, proprio con questa misura, possono essere prese? Consideriamo, poi, che non si tratterebbe solo di alleviare le condizioni dei tanti, troppi, malati di giustizia, ma di permettere e costringere la classe politica ad intervenire davvero. Risulterebbe, così, essere l’anestesia che crea quell’ arco temporale indispensabile e irrinunciabile ad ogni intervento. È su questo terreno che la politica deve giocare la sfida. Se continuare a percorrere la strada delle promesse e della non-credibilità, divenendo ogni giorno più fragile, oppure, invece, decidere di dare un segnale serio ed immediato. E questo segnale ha un solo nome: Amnistia. Giustizia: Consiglio d’Europa; causa sovraffollamento? in Italia 42% detenuti in attesa giudizio Asca, 18 agosto 2011 “Il sovraffollamento delle carceri è un problema europeo da prendere molto sul serio e che si potrebbe alleviare riducendo la detenzione preventiva. Per esempio, in Italia il 42 per cento dei detenuti sono ancora in attesa di giudizio o della sentenza d’appello. Quindi, non essendo ancora provata la loro colpevolezza, dovrebbero essere considerati innocenti. Se le carceri sono sovraffollate è perché troppe persone vi vengono rinchiuse in detenzione provvisoria”. Lo ha dichiarato oggi a Strasburgo il Commissario per i Diritti dell’Uomo del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg. “La carcerazione in attesa di giudizio - prosegue - può essere giustificata solo dalla necessità di un approfondimento di indagine, dal timore di inquinamento delle prove o da un reale pericolo di fuga. La detenzione provvisoria deve essere considerata una misura straordinaria. La Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, raccomanda di ricorrervi solo in casi eccezionali e di riconsiderarne continuamente la necessità. Invece, in molti paesi europei la detenzione è una pratica abituale e abusata. La media europea è del 25%: va dall’11% nella Repubblica Ceca al 42% dell’Italia. Per di più, non sempre la detenzione viene decisa dal magistrato. In Turchia, per esempio, molti arresti non sono sufficientemente motivati. Anche in Georgia molte carcerazioni appaiono ingiustificate. L’eccessiva durata della carcerazione preventiva costituisce un altro gravissimo problema. Più di una volta la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha esaminato ricorsi di persone rimaste in prigione per quattro, cinque e addirittura sei anni prima del giudizio e non sempre in condizioni umanamente accettabili”. “Le conseguenze socio-economiche della detenzione preventiva - conclude Hammarberg - sono ancora più disastrose. Il più delle volte chi la subisce perde il posto di lavoro, è costretto a vendere i propri beni per il sostentamento della famiglia o viene sfrattato dall’alloggio che occupa. Anche se, poi, viene accertata la sua innocenza, il solo fatto di essere stato in carcere gli condiziona il resto della vita. È incredibile che i governi europei non prendano provvedimenti per prevenire questi inconvenienti e correggere un sistema carcerario che, per di più, è costosissimo, oltre che affollato. Perché non adottare soluzioni alternative più efficaci e convenienti, come arresti domiciliari o libertà sotto cauzione?”. Giustizia: carcere per i “caporali”; per l’intermediazione illecita si rischiano fino a otto anni di Cristina Casadei Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2011 C’erano una volta - ma talvolta ci sono ancora - nelle viuzze laterali di via Paolo Sarpi, la China-town milanese, ragazzi appoggiati ai paletti in attesa che qualcuno, valutata la loro prestanza fisica, li scegliesse per portare pacchi e sacchi. La manovra approvata la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri dice chiaramente che non dovranno più esserci in futuro persone reclutate attraverso intermediazione illecita e proprio per questo è nato l’articolo 12 che, se da un lato inasprisce fortemente le pene, dall’altro riunisce sotto un unico cappello le sanzioni che colpiscono l’intermediazione illecita, in quella sua forma drammaticamente grave che è il caporalato. Già perché se è vero che nell’attuale congiuntura economica il processo di intermediazione al lavoro assume un ruolo cruciale, lo è ancor di più il fatto che vi sono soggetti autorizzati e che questa attività deve essere svolta secondo le regole previste, consultabili sul sito del ministero del Welfare. Dopo l’allargamento dell’intermediazione a una platea di soggetti pubblici e privati più vasta però sono emerse delle irregolarità, che vanno ad aggiungersi a quel cronico male, diffuso soprattutto in agricoltura e nell’edilizia, ma non solo, che è il caporalato, ossia lo sfruttamento di forza lavoro in nero assoldata a giornata in cambio della quale il caporale ottiene una percentuale del guadagno del lavoratore. L’articolo 12 della manovra inserisce un inasprimento delle sanzioni. Spiega infatti che “chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di necessità dei lavoratori, è punito con la reclusione da 5 a 8 anni e con la multa da mille a 2mila euro per ciascun lavoratore reclutato”. Un regime sanzionatorio molto più aspro rispetto a quello degli articoli 18 e 19 della legge Biagi che puniva l’esercizio non autorizzato delle attività di intermediazione “con la sanzione dell’ammenda di euro 5 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro. L’esercizio abusivo delle attività di intermediazione è punito con la pena dell’arresto fino a 6 mesi e l’ammenda da euro 1.500 a 7.500”. L’articolo 12 della manovra inoltre ha introdotto delle precise circostanze che potrebbero interessare chiunque svolga attività di intermediazione, non solo i caporali. Le circostanze sono 4 in particolare. La prima è “la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro prestato”. La seconda è “la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie”. La terza è “la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza 0 l’incolumità personale”. Infine la quarta e “la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, 0 a situazioni alloggiative particolarmente degradanti”. A queste quattro circostanze vanno aggiunte tre aggravanti che fanno lievitare la pena da un terzo alla metà. E cioè il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre, uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa, e l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo”. Dunque con l’articolo 13 costituiscono prova dell’intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro una serie di fatti in cui potenzialmente potrebbero incappare molti soggetti. La lista esemplificativa chiede agli attori dell’intermediazione molto più rigore. Già perché sotto un unico capitolo sono state riunite tutte le sfaccettature che puniscono chi non le segue e si rischiano da 3 a 5 anni di reclusione e una multa da mille a 2mila euro per lavoratore reclutato. Giustizia: ingiusta detenzione; risarcimento negato perché ex indagato aveva amicizie pericolose Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2011 La persona che ha scontato un periodo di “ingiusta detenzione” non ha diritto al risarcimento se, con il suo comportamento, ha dato luogo alla creazione di una “falsa apparenza” a lui sfavorevole. Con questa motivazione la Corte di cassazione - Quarta sezione penale, 32186, depositata il 17 agosto - ha respinto il ricorso di un indagato per partecipazione a banda armata (Brigate rosse), che aveva scontato 20 mesi di custodia cautelare e altri 78 giorni ai domiciliari. Dopo il proscioglimento, l’uomo aveva proposto domanda per il risarcimento da ingiusta detenzione, ma la Corte d’appello di Roma lo aveva negato contestando un suo comportamento “gravemente colposo”, consistito in sostanza nella frequentazione assidua di personaggi legati all’eversione (e uno di loro coinvolto anche nell’omicidio D’Antona). Per la Cassazione non è sufficiente la dichiarazione dell’ex-indagato di non essere stato a conoscenza delle attività eversive svolte dai suoi amici, perché in ogni caso questa sua “grave negligenza” ha legittimamente costruito agli occhi dei giudici una pur “falsa apparenza del suo coinvolgimento nelle attività criminali delle persone con cui teneva questi rapporti”. La Corte sottolinea inoltre che, nel valutare la sussistenza del diritto al risarcimento, il giudice non è neppure tenuto a limitarsi agli atti di inchiesta, ben potendo integrare gli elementi per la sua decisione con altri fatti che comunque ineriscono con la domanda per l’equa riparazione. Giustizia: Uil-Pa; Simonetta Matone, inopportuno ennesimo magistrato alla guida del Dap Adnkronos, 18 agosto 2011 “Assumiamo con molte riserve la comunicazione del ministro Palma circa la volontà di procedere alla nomina a vice capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) della dott.ssa Simonetta Matone. Il nostro è un giudizio di opportunità e non certo un giudizio verso la persona o le sue specifiche competenze. Riteniamo semplicemente inopportuna l’ennesima nomina di un magistrato in seno al Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria”. È quanto ha detto il segretario generale di Uil Pa penitenziari, Eugenio Sarno, sottolineando come sia invece necessaria che l’amministrazione sia invece affidata a membri della dirigenza penitenziaria. La preoccupazione del sindacato è che la dirigenza penitenziaria possa essere demotivata dalle mancate prospettive di carriera, considerato che molti posti di gestione e responsabilità al Dap sono occupati da magistrati. “Mi pare evidente che - si legge in una nota - in un momento delicato e complesso come quello che stanno attraversando gli istituti penitenziari, chiudere qualsiasi prospettiva motivazionale alla dirigenza penitenziaria significa - prosegue - deprimere ancor più una categoria sulla cui spalle è riposta la responsabilità della gestione dell’intero sistema carcere italiano, così come sulla spalle della polizia penitenziaria pesa la sicurezza e l’operatività di quel sistema”. “La storia degli ultimi venti anni dell’amministrazione penitenziaria affidata ai magistrati - sottolinea criticamente il Segretario Generale della Uil Pa Penitenziari - ha segnato l’impossibilità di affermare modelli di gestione progettuale sganciata dalla mera gestione dell’ordinaria emergenza. Su questo aspetto - precisa - molto incide lo spoil system, che porta all’avvicendamento dei responsabili dipartimentali proprio quando cominciano a capire i complessi meccanismi dell’universo penitenziario”. Il sindacato critica i continui cambiamenti ai vertici del Dap, 8 dal 1993, e soprattutto il continuo affidarsi a magistrati, mentre sarebbe necessario “che l’Amministrazione penitenziaria, in futuro, fosse affidata ordinariamente ad un interna corporis che - conclude - dispone già della necessaria conoscenza di storia, luoghi, cose, uomini, e dinamiche penitenziarie”. Lettere: Ferragosto “al fresco”… di Andrea Gabellone www.iltaccoditalia.info 18 agosto 2011 Ogni 15 di agosto i parlamentari visitano le carceri del Paese. Una volta a casa, tutto rimane com’era; se non peggio. La visita dei parlamentari nelle carceri italiane durante il giorno di ferragosto, avvenuta puntualmente anche quest’anno, non servirà forse a lenire le condizioni orribili vissute dai detenuti, ma conserva il retrogusto dell’opera di misericordia indispensabile ad ogni buon cristiano per aspirare ad una confortevole vita ultraterrena. A Lecce, come a Bari, Taranto e Foggia non si scontano pene. Si sopravvive in barba alla dignità, alla democrazia e alla civiltà tanto sbandierate dagli stessi visitatori occasionali. Qualcuno potrebbe accusarci di sarcasmo se constatassimo che, da quando è stata istituita la visita di ferragosto - ovvero dall’estate 2009 - la situazione, per i nostri reclusi, è peggiorata sensibilmente, ma tant’è. Secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia, dal maggio 2009 al marzo 2011 la capienza “regolamentare” delle carceri è passata da 43.215 a 43.659 posti e il numero dei detenuti da 62.057 a 67.318. Gli indici di sovraffollamento nelle maggiori carceri pugliesi sono impressionanti: 84,6% a Bari, 93% a Foggia, 107,4% a Lecce e 103,8% a Taranto. Nel primo semestre di quest’anno, due persone si sono tolte la vita nel carcere di Bari e una in quello di Taranto. A Lecce, da gennaio a giugno 2011, si sono registrati 18 tentati suicidi e 93 atti di autolesione. Poi, sempre a Borgo San Nicola, un suicidio durante il mese di luglio. La realtà dei fatti, dati alla mano, ci induce a pensare che, nonostante da tre anni a questa parte gli occhi dei nostri politici abbiano incontrato la disperazione dei penitenziari, il rituale funga più da detergente per le coscienze che da miccia per un cambiamento immediato. Dal Governo, per far fronte all’emergenza, promettono 10.000 nuovi posti letto entro il 2013. Non parliamo certo di numeri da capogiro; piuttosto, un tentativo di tappare in qualche modo gli esuberi. Tuttavia, il dramma nel dramma è un altro: mentre si stanziano fondi per costruire nuove strutture, quelle vecchie, già da tempo, cominciano inesorabilmente a deteriorarsi. Crolli e cedimenti minacciano i padiglioni di Foggia, mentre a Taranto e a Lecce piove nelle stanze e nei corridoi. La polizia penitenziaria ha già chiuso, in passato, intere aree di detenzione per la scarsa qualità dei prefabbricati. Triste pratica tutta nostrana quella di costruire molto e male, figurarsi se si tratta di prigioni. Ma è arcinoto che ripartire da zero è, in alcuni casi, molto più conveniente. Chissà che il teorema non valga anche per i nostri parlamentari. Lettere: Ospedali psichiatrici giudiziari, questione aperta di Nunziante Rosania (dirigente sanitario dell’Opg di Barcellona P.G.) Gazzetta del Sud, 18 agosto 2011 Desidero ringraziare la Gazzetta per l’attenzione concessa alle recenti vicende dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona P.G. L’obiettività, la puntualità di informazione garantita dai corrispondenti della testata hanno costituito, per chi ha la ventura di lavorare in questa complessa e controversa istituzione, un riferimento valido e attendibile, pur negli eventuali accenti critici, laddove un’ “alluvione mediatica” annichilente, inemendabile e non contrastabile (vista la sproporzione dei mezzi) ha, fin qui, inibito ogni possibilità di analisi condivisa, di interlocuzione, di progettualità seria e meditata riguardante le possibili alternative alla situazione determinatasi nell’ambito psichiatrico giudiziario nazionale. Tutta la questione degli Opg si riassume, infatti, in una “banale” storia italiana fatta, spesso, di radicale ignoranza delle problematiche di cui (finalmente!) si parla, di colpevoli dimenticanze, di incapacità di compiere scelte coraggiose e autenticamente innovative a vantaggio dei più deboli e dei meno tutelati da parte delle compagini politiche pur allertate, nel corso degli anni e in mille modi, da quanti, nonostante l’abissale carenza di risorse, hanno cercato di rimediare alla logica feroce della creazione di “discariche sociali” (secondo l’espressione adottata recentemente dallo stesso Presidente della Repubblica) sempre più affollate, degradate, disperanti. È discorso che riguarda, come di tutta evidenza, l’intero “pianeta carceri”. La sede di Barcellona PG, per sovrapprezzo, è diventata, fra quelle psichiatrico-giudiziarie, la più grande, la più densamente popolata (in amplissima misura da soggetti mentalmente assai deteriorati), la più penalizzata anche a causa del perdurante (e davvero intollerabile) ritardo del passaggio della sanità penitenziaria siciliana al servizio sanitario regionale. L’Amministrazione Penitenziaria, che pure ha varato e sta tuttora implementando importanti progetti riguardanti sia le strutture penitenziarie che il trattamento/reinserimento dei detenuti, non ha, praticamente, risorse per la manutenzione, per pagare i lavoranti dediti alle pulizie, per le attività intramoeniali riguardanti i detenuti/internati, mentre il personale si è drammaticamente ridotto senza possibilità di rimpiazzo. Ciò mentre continuano a essere immessi nel circuito penale malati di mente (spesso autori di reati assolutamente minori, maturati in situazioni di formidabile disagio personale, familiare, ambientale) che non possono essere rifiutati dagli istituti penitenziari (e gli Opg rimangono essenzialmente questo: carceri, con la singolare eccezione dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, che è a tutti gli effetti un ospedale, con personale adeguato e con risorse economiche che assommano a circa 5 volte quelle di cui può disporre l’istituto barcellonese) a fronte del fatto che molti territori oppongono ancora steniche resistenze ad accogliere i pazienti che ad essi dovrebbero afferire, il che è causa dei frequentissimi provvedimenti di proroga della misura di sicurezza da parte della magistratura competente. La Commissione parlamentare che ha sollevato (imbattendovisi quasi per caso) la questione degli Opg, ponendola all’attenzione della pubblica opinione, può svolgere un ruolo assai positivo consentendo il raggiungimento dell’obiettivo del superamento (indispensabile e non oltre rinviabile) delle attuali realtà asilari approdando, così come universalmente auspicato, a un nuovo sistema civile e moderno; ma occorre lucidità circa l’allestimento di percorsi alternativi all’esistente e autentica volontà di concretizzazione rinunciando alla spettacolarizzazione a vantaggio del perseguimento puntiglioso del risultato possibilmente lavorando insieme agli esperti del settore e comprendendo, infine, che è inutile continuare a far gravare il problema sull’Amministrazione penitenziaria e su di un personale condotto, ormai, allo stremo della capacità di resistenza per le menzionate carenze di organico e di risorse e, purtroppo, sempre più demotivato per il mancato riconoscimento del proprio durissimo lavoro”. Lombardia: Sappe; 3.700 detenuti in più rispetto a posti letto Adnkronos, 18 agosto 2011 La Lombardia primeggia tra le regioni italiane per la più alta presenza di detenuti nelle carceri: al 31 luglio scorso risultano detenute 9.343 persone in 19 penitenziari, a fronte dei 5.652 posti letto regolamentari. Nel corso del 2010, inoltre, 105 detenuti hanno tentato il suicidio, 523 hanno compiuto atti di autolesionismo, 259 sono stati feriti, 5 sono morti suicidi e 14 per cause naturali. Sono i numeri che comunica Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria. “È evidente - aggiunge Capece - quanto il sovraffollamento delle strutture detentive lombarde incida in questi eventi critici. E il costante e pesante sovraffollamento fa fare ogni giorno alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria i salti mortali per garantire la sicurezza: si pensi che in Lombardia sono ben 1.200 le unità di Polizia penitenziaria che mancano dai vari reparti degli istituti. Auspico -sottolinea- che il ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma ed il capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta terranno nella debita considerazione questi dati ed assumano quanto prima i non più rinviabili interventi risolutivi”. Capece precisa che “nel 2010, nelle sovraffollate carceri lombarde, le 32 manifestazioni di protesta hanno visto coinvolti complessivamente 4.321 detenuti e si sono concretizzate in scioperi della fame, rifiuto del vitto dell’amministrazione e soprattutto nella percussione rumorosa dei cancelli e delle inferriate delle celle”. Il Sappe “propone con urgenza un nuovo ruolo per l’esecuzione della pena in Italia, che preveda circuiti penitenziari differenziati ed un maggiore ricorso alle misure alternative e sottolinea l’importante ruolo svolto quotidiano dai Baschi azzurri del corpo” Secondo Capece “nonostante le croniche e gravi carenze di Personale, nonostante l’insostenibile, pericoloso e stressante sovraffollamento, i Baschi azzurri della penitenziaria in servizio nella Lombardia credono nel proprio lavoro, hanno valori radicati ed un forte senso d’identità e d’orgoglio, e -conclude- ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti”. Taranto: Sappe; per l’on. Vitali è un carcere a 5 stelle? venga, gli offriamo un soggiorno gratuito Ansa, 18 agosto 2011 “Considerato che l’on. Vitali ha trovato il carcere di Taranto a 5 stelle e di suo gradimento, lo invitiamo a soggiornare gratuitamente, a nostre spese, per almeno tre giorni”. L’invito arriva dal presidente nazionale del sindacato Sappe della polizia penitenziaria, Federico Pilagatti, dopo la visita che Luigi Vitali (Pdl) ha compiuto in giorno di ferragosto nel carcere ionico. Il Sappe ritiene “talmente offensive da meritare anche una querela” le dichiarazioni di Vitali che “ancora una volta con una passerella mediatica nel giorno di ferragosto” si è permesso “di offendere, umiliare, la dignità dei detenuti che vivono una situazione igienico-sanitaria drammatica, nonché di mancare di rispetto ai lavoratori che si sacrificano con turni massacranti in un giorno festivo importante”. Inoltre - sostiene il sindacato - ha fatto passare ‘i sindacati della polizia penitenziaria (che da tempo portano all’attenzione la gravità della situazione, anche con manifestazioni di protesta) come visionari che denunciano il falsò. “Peccato - accusa Pilagatti - che l’on. Vitali, conoscitore della situazione penitenziaria per cui nutriamo profondo rispetto, sia caduto in un infortunio tanto goffo quanto evitabile” dovuto al fatto che si è fermato “meno di mezz’ora in tutto nel carcere” dove “praticamente non ha visto nulla, se non un corridoio di una sezione al primo piano ed alcune celle”. Bari: il Dap aspetta il parere del Sindaco per l’ubicazione del nuovo carcere Ansa, 18 agosto 2011 Non è ancora pervenuto il parere del sindaco di Bari, Michele Emiliano, sull’area destinata alla costruzione del nuovo penitenziario della città. È quanto sottolineano fonti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) a proposito delle critiche mosse da alcuni esponenti politici, il giorno di Ferragosto, sull’avvio delle procedure per la costruzione del nuovo carcere. L’area per l’edificazione è stata già individuata dai tecnici del commissario delegato, Franco Ionta, sin da gennaio 2011. Solo dopo il necessario parere del sindaco alla regione Puglia sarà possibile procedere alla sottoscrizione dell’intesa tra il Ionta e il presidente della Regione, Nichi Vendola. Per quanto riguarda gli altri interventi di edilizia penitenziaria nella regione Puglia, al Dap si fa notare che a settembre verranno avviate le procedure di gare per l’edificazione dei due nuovi padiglioni a Taranto e a Lecce, i cui progetti definitivi sono già stati approntati per venire incontro alla situazione particolarmente difficile, visto l’alto numero dei detenuti ristretto nella regione. Cagliari: Sdr; sospesa pensione di 240 euro a detenuto cardiopatico di Buoncammino Ristretti Orizzonti, 18 agosto 2011 “L’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale ha sospeso la pensione di invalidità civile di 240 euro a un detenuto cardiopatico ricoverato nel Centro Diagnostico Terapeutico del carcere cagliaritano di Buoncammino. L’uomo,Vincenzo Matta, che ha subito negli anni passati due delicati interventi chirurgici al cuore, non ha potuto neppure fare ricorso al provvedimento in quanto non ha mai ricevuto l’esito della visita di controllo. La situazione sta diventando sempre più grave in quanto si tratta dell’unica fonte di reddito del detenuto che, per protesta, intende rifiutare i farmaci salvavita”. Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” avendo ricevuto dall’interessato un’accorata lettera. “Se non sono cardiopatico e non ho diritto alla pensione di invalidità civile, come hanno invece certificato diversi specialisti, non c’è ragione - ha scritto Vincenzo Matta - per cui debba assumere gli anticoagulanti e astenermi da lavori pesanti. Non capisco neanche perché sono ricoverato al CDT con una diagnosi di rischio medio alto di trombosi e infarto. Si mettano d’accordo i cardiologi. Per quanto mi riguarda sono determinato: deve essere fatta chiarezza. Sono disperato e solo. Le mie condizioni di salute sono gravi. Sono preda di una depressione. Non posso affrontare la carcerazione in questo stato. Non vedo un futuro. Pago il debito con la giustizia ma non posso subire le conseguenze di qualche falso invalido e dei disguidi dell’Inps”. Vincenzo Matta, cagliaritano, 46 anni, si è visto dapprima sospendere la pensione d’invalidità - come ha raccontato nel corso dei colloqui in carcere ai volontari di Sdr - perché non aveva risposto alla convocazione dell’Inps per le visite mediche di verifica. L’uomo infatti, essendo detenuto, non aveva ricevuto la convocazione. Successivamente, grazie anche a un operatore dell’Orsac (Opera Redenzione Sociale Assistenza Carcerati) di Cagliari, un medico dell’Inps si è recato in carcere per effettuare l’accertamento. L’esito, peraltro negativo, non è stato però notificato nella struttura detentiva ma inviato al suo ex domicilio dove nessuno glielo ha fatto recapitare. Impossibile quindi per l’uomo fare il ricorso nei termini previsti. In pratica da settembre del 2010, non percepisce l’assegno di 240 euro mensili e vive della carità dei volontari. “Le revisioni delle pensioni di invalidità, peraltro sempre più spesso negative ma i cui ricorsi poi risultano quasi sempre vincenti, si stanno configurando - afferma Maria Grazia Caligaris - come abusi da parte dell’Istituto Nazionale di Previdenza. Le proteste di cittadini disperati - sottolinea la presidente di SdR - sono una palese dimostrazione delle condizioni in cui versano persone in oggettive difficoltà per lo stato di salute. Le intenzioni autolesioniste da parte di molti cittadini non possono pertanto essere considerate semplici manifestazioni irrazionali”. “Davanti a drammi di questa portata, non valgono giustificazioni tecnico-operative. A subire i maggiori disagi sono soprattutto i malati oncologici e coloro che hanno una patologia rischiosa per la vita a cui l’Inps dovrebbe procedere alle verifiche laddove davvero necessario. Le disposizioni per quanto giustamente severe non possono - conclude la presidente di Sdr -prescindere dal buon senso. In particolari situazioni c’è infatti il rischio che il disagio sfoci in una tragedia”. Parma: visita dei politici nel carcere di via Burla; sovraffollamento e mancanza di risorse Lungo Parma, 18 agosto 2011 Una delegazione di esponenti del Pd, come ogni anno in agosto, ha fatto visita al penitenziario locale. Rispetto all’anno scorso ci sono più detenuti, meno personale e meno educatori. Preoccupa l’aspetto sanitario. Anche la buona volontà deve fare i conti con la realtà: il barile è vuoto. Di anno in anno, le risorse destinate all’istituto penitenziario di Parma non fanno che ridursi e, con esse, si riduce la qualità della vita dei detenuti e degli agenti di sorveglianza. È questa l’amara considerazione degli esponenti del Pd di Parma al termine della consueta visita d’agosto nel carcere di via Burla. Una delegazione composta dalla senatrice Albertina Soliani, dal consigliere regionale Gabriele Ferrari, dell’assessore provinciale Marcella Saccani insieme al responsabile di Libera Giuseppe La Pietra questa mattina è stata accompagnata nel settore colloqui, recentemente ristrutturato, nel 41-bis e in un braccio ad alta sorveglianza. Dal confronto con i responsabili della polizia penitenziaria e con gli stessi detenuti sono emersi i problemi che affliggono una realtà, quella del carcere, che ormai “ha perso ogni legame con il territorio, mentre solo fino a dieci anni fa era possibile mantenere una relazione dei detenuti con la città grazie a progetti educativi” dice il consigliere Ferrari. I motivi sono noti a livello nazionale. In primo luogo, anche il penitenziario di via Burla è sovraffollato: ospita 550 detenuti a fronte di 333 posti. Di questi, l’80% è ìdi origine extracomunitaria, in maggior parte maghrebina. Gli agenti di polizia penitenziaria dovrebbero essere 400, quelli in effettivo servizio sono 312. Ridotto praticamente a zero l’aspetto educativo: non ci sono più risorse per progetti di lavoro e di studio all’interno e all’esterno del carcere. Dal 2008, la salute dei detenuti è a carico delle Ausl locali. Questo ha portato a un miglioramento dei servizi, ma permangono gravi problemi legati alla mancanza di personale: il trasporto in ospedale di un detenuto del 41-bis, ad esempio, comporta l’impegno di ben cinque agenti. “Meno personale, meno risorse, meno educatori e più detenuti - commenta Albertina Soliani - questa è la situazione rispetto all’anno scorso. C’è consapevolezza e volontà di cambiare le cose da parte del personale, per migliorare la vita dei detenuti umanizzandola, ma mancano i soldi. La costituzione è chiara: la pena deve rieducare. Il dramma è che i tagli generalizzati ricadono sulle fasce più deboli. Noi speriamo in un impegno congiunto del Parlamento nel prossimo futuro. non ho fiducia in questo Governo, ma forse potremo perseguire obiettivi comuni con il nuovo ministro della Giustizia Nitto Palma”. Gabriele Ferrari ricorda come la Regione abbia destinato cinque milioni di euro per la sanità e progetti speciali nelle carceri di tutta l’Emilia Romagna: “Ma la gestione della sanità drena moltissime risorse” ricorda. Giuseppe La Pietra di Libera sottolinea, oltre all’aspetto dei diritti negati, anche quello “dell’indotto carcerario”: “Ogni detenuto in regime speciale perché legato ad associazioni mafiose porta un indotto di famigliari o affiliati che possono diventare stanziali sul territorio di Parma. Bisogna mantenere alta la guardia”. Queste visite, ricorda la senatrice Soliani, qualche piccolo risultato lo portano. L’anno scorso nella sala colloqui c’erano infiltrazioni di acqua, quest’anno la situazione è stata risolta da un’intervento di ristrutturazione. Nel 41-bis gli esponenti delle istituzioni hanno parlato con alcuni detenuti che si sono mostrati molto attenti alle normative sul regime carcerario più duro del Paese. Un clima più disteso, nonostante il sovraffollamento, nel settore alta sorveglianza, dove i detenuti godono di minori restrizioni. Lodi: la “satyagraha” e il degrado delle carceri italiane di Laura Coci Il Cittadino, 18 agosto 2011 “Satyagraha” è parola indiana di origine sanscrita, a sua volta composta da due parole che in lingua italiana significano “verità” e “fermezza”: indica una lotta politica e sociale che si avvale di modalità non violente. Il termine è divenuto attuale negli ultimi giorni: “satyagraha” è denominato lo sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, forma di protesta di forte valore simbolico e animata da tensione etica per denunciare la situazione di degrado e illegalità dei penitenziari italiani; domenica scorsa, 14 agosto, allo storico leader radicale si sono affiancati oltre duemila cittadine e cittadini, che hanno aderito all’appello per la convocazione straordinaria del Parlamento su giustizia e carceri, “questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile” (così il Presidente della Repubblica). Tra queste 2.098 persone sono direttori di istituti di pena (ma anche addetti al trattamento, cappellani, agenti di polizia penitenziaria), esponenti dei sindacati di settore e parlamentari, volontari all’interno delle carceri e cittadini che hanno a cuore la democrazia, detenuti e loro familiari. Una ventina i lodigiani, volontari e detenuti agli arresti domiciliari. È significativo che molte delle adesioni, anche nel territorio, siano di donne: come suggerisce Luigi Manconi (tra i primi firmatari dell’appello), è il legame affettivo, con la famiglia e con la comunità, a dare forza e parola alle donne che, per ragioni diverse, sono in relazione con il carcere (ove pure le detenute sono assoluta minoranza: poco più del 4%). Le ragioni del degrado e dell’illegalità dei penitenziari italiani sono note: in primo luogo il dato fisico del sovraffollamento (67.000 detenuti a fronte di una disponibilità di 45.000 posti). E sono note anche le ragioni del sovraffollamento: l’abuso dell’istituto della custodia cautelare e la criminalizzazione di condizioni amministrative o comportamenti ritenuti di disordine sociale. Riguardo alla custodia cautelare, circa il 40% delle persone detenute in Italia è in attesa del primo grado di giudizio; di queste - in base alle statistiche - presumibilmente la metà sarà giudicata non colpevole, e a buon diritto richiederà allo stato il risarcimento per l’ingiusta detenzione subita: una bella perdita in termini economici, per di più in tempo di crisi. Riguardo alla criminalizzazione evitabile, considerato che la definizione di un atto come criminale non è assoluta, ma varia nel tempo (e nello spazio), è evidente che considerare reato il soggiorno illegale nel paese e il consumo personale di stupefacenti ha l’effetto di riempire le carceri e di punire persone che scontano uno status o una condizione assimilabile alla malattia, senza per altro risolvere alcun problema connesso all’irregolarità o alla dipendenza. Oltre al sovraffollamento, degrado e illegalità sono il prodotto della mancanza cronica di risorse e di personale (sia agenti, sia educatori, assistenti sociali, psicologi), con effetti drammatici: in alcune carceri non c’è vitto sufficiente per tutti i reclusi neppure una volta al giorno (per i tre pasti quotidiani di un detenuto si spendono 3,80 euro!), in molte carceri il necessario trattamento rieducativo è di necessità limitatissimo, o inesistente (quando non si fa a forza di botte: il caso di Stefano Cucchi, per altro non isolato, insegna). Eppure il carcere non è la sola forma di pena possibile in risposta al delitto, tant’è che nel mondo antico pressoché non esisteva e che la sua invenzione risale all’età moderna. È vero, d’altra parte, che l’opinione pubblica richiede sempre più prigione, come di norma avviene nei periodi di crisi economica, quando le condizioni di detenzione devono essere, ricorda Vincenzo Ruggiero, “meno appetibili della peggiore delle condizioni sociali del mondo libero”. Ma uno stato democratico non può e non deve sottostare ad alcuna tirannide, neppure a quella dell’opinione pubblica: la nascita del diritto corrisponde infatti alla consapevolezza della necessità di sottrarre al singolo (alla sua famiglia, al suo gruppo) la vendetta per un torto subito, per trasformarla in giustizia e risarcimento (o riparazione, come sarebbe auspicabile): la logica del “Peggio per loro: se la sono voluta, se la godono”, che risponde all’appassionato desiderio di punire dell’uomo qualunque, va dunque rifiutata, perché “noi” non possiamo agire come i peggiori di “loro” e perché le persone vanno trattate coerentemente con la loro dignità e il loro valore di esseri umani. Uno stato democratico ha poi il dovere di proteggere le vite dei cittadini che gli sono affidate, le “nude vite” dei detenuti, i quali - è bene ricordarlo - non dispongono di quasi nulla (né cellulare, né musica, né facebook) e quasi nulla decidono (neppure quando accendere o spegnere la luce): sono perciò una ferita gravissima per lo stato gli atti di autolesionismo e i suicidi nelle carceri italiane, espressione estrema del tentativo di fuggire da condizioni inumane e intollerabili. La privazione della libertà, da sé sola, è infatti condizione di pena sufficiente (la sola prevista, per altro, dalla legge), in particolare in un luogo, il carcere, in cui il tempo non è oggettivo, ma percepito come sospeso o dilatato: quanto eccede dalla privazione della libertà personale è crudeltà e vendetta, sofferenza sterile inflitta ai corpi e alle menti dei reclusi. Le carceri italiane sono luoghi non solo di violazione dei diritti umani, ma anche di provata inefficacia: dagli istituti penitenziari le persone escono spesso peggiori di quando sono entrate, e perciò la recidiva, ovvero la reiterazione di un reato, è alta. Questo dimostra che l’equazione “più carcere più sicurezza” è del tutto errata: è corretto invece, in prospettiva, depenalizzare i reati minori e ridurre il ricorso alla detenzione carceraria; nell’immediato, porre in atto dispositivi eccezionali quali l’amnistia e l’indulto (i cui beneficiari presentano una percentuale di recidiva modesta), in risposta a una situazione di degrado e di illegalità eccezionale. “Qui non c’è più decoro, le carceri d’oro ma chi le ha mai viste chissà - così Fabrizio De André, dando voce a un immaginario brigadiere di Poggioreale - chiste sò fatiscienti, pè chisto i fetienti se tengono l’immunità”. La canzone “Don Raffaè” fu scritta nel 1990, ventuno anni fa: ripristinare nelle carceri italiane condizioni di vita umane e dignitose è ora un’urgenza non più differibile. Udine: l’appello del direttore; il carcere è invivibile, necessari lavori di restauro Messaggero Veneto, 18 agosto 2011 “È subito necessario il restauro della sezione femminile”. Questo l’auspicio di Francesco Macrì, direttore dal 1982 della Casa circondariale di Udine, incarico che lascerà dal prossimo primo settembre per la pensione. Nulla trapela sul successore, la cui nomina dovrebbe arrivare a giorni. Intanto l’annunciato sciopero della fame dei detenuti (azione promossa dai Radicali la vigilia di Ferragosto) trova anche l’appoggio di Macrì che dice: “Vedo ogni giorno le difficoltà di chi è costretto a vivere assieme ad altre cinque persone in celle pensate per tre. È davvero una questione di umanità”. Nel 2003 il Ministero ha avviato il primo di due lotti di lavori all’interno del carcere di via Spalato, una struttura inaugurata ancora nel 1925. “La sezione maschile è stata completata - spiega Macrì - ma per quanto riguarda quella femminile, gli spazi per la semi libertà, la cappella e le aule, i lavori non sono nemmeno stati iniziati perché mancavano i fondi. Non so neppure se esista già un progetto o debba essere redatto da capo. In ogni caso quegli spazi sono indispensabili alla struttura. Mi auguro non passi ancora molto tempo per il completamento della ristrutturazione”. E il caldo certo non aiuta. “In questi giorni ho dato disposizione per consentire qualche ora d’aria suppletiva - dice Macrì - mentre durante l’orario notturno facciamo in modo che alcune porte rimangano aperte affinché l’aria possa passare attraverso i cancelli. Purtroppo più di queste misure di buon senso non è consentito andare”. La carriera udinese del dottor Macrì iniziò pochi anni dopo il barbaro omicidio del maresciallo capo Antonio Santoro, rivendicato dai Pac (Proletari armati per il comunismo), nel 1978. Anni non semplici e infatti il direttore confessa di aver avuto nel carcere anche criminali di una certa pericolosità, terroristi e affiliati alla malavita organizzata. “Non posso scendere nei dettagli - dice, ma non si trattava certo di detenuti ordinari. A parte il pericolo corso sia da me sia dai tutti i miei collaboratori, mi sono sentito gratificato da queste persone perché si sono dimostrate disponibili all’autocritica e sono stati stabiliti rapporti chiari. Questi episodi e più in generale l’ambiente del carcere mi hanno fatto crescere molto dal punto di vista personale: i volti dei detenuti, la paura, la voglia di cambiare che si vedono e respirano fra queste pareti, portano a rivedersi anche dentro”. I giorni e i tanti anni passati in via Spalato servono anche a capire gli errori e a far cambiare vita. Ecco perché l’indice udinese di recidiva (un detenuto su quattro commette ancora reati) è fra i più bassi d’Italia. “La vita nel carcere è come quella di una grande famiglia - conclude il direttore Macrì - in cui noi siamo i genitori che cercano di fare di tutto per i figli. Ultimo in ordine di tempo è l’accordo con il Centro edile per la formazione e la sicurezza che ha consentito a otto detenuti di conseguire un attestato spendibile immediatamente nel mondo del lavoro”. Michela Zanutto Viterbo: salviamo il carcere; il presidente della Provincia Meroi chiama in causa il ministero www.viterbonews24.it, 18 agosto 2011 Avrei preferito non intervenire ancora una volta sulla questione dell’emergenza nelle carceri italiane, ma la presenza di un istituto penitenziario in sofferenza sul nostro territorio e, soprattutto, le dimensioni che il problema va assumendo giorno dopo giorno mi spingono a fare alcune considerazioni. Faccio parte di quella schiera di cittadini italiani che crede nello Stato di diritto e nella giustizia “giusta”. Il carcere, dunque, a mio avviso non deve svolgere solo una legittima e sacrosanta funzione punitiva per quanti si sono macchiati di gravi delitti, ma deve anche portare i detenuti ad una completa riabilitazione facendo sì che, una volta saldato il proprio debito con la giustizia, non tornino a delinquere. Purtroppo, e le emergenze di questi ultimi periodi lo dimostrano, non sempre il nostro sistema carcerario è in grado di svolgere questa seconda, fondamentale, funzione sociale, non solo a vantaggio dei detenuti ma anche e soprattutto di quegli operatori - dirigenti carcerari, agenti di polizia penitenziaria, personale medico e volontari delle associazioni - che quotidianamente hanno a che fare con situazioni difficilissime da gestire. Ho avuto modo di affrontare queste tematiche anche qualche giorno fa in uno scambio epistolare con l’ex direttore della casa circondariale viterbese di Mammagialla, dottor Pierpaolo D’Andria, destinato di recente ad altro incarico a seguito dell’egregio lavoro svolto nel capoluogo della Tuscia, un lavoro contraddistinto dal garantismo e dall’assoluta tutela dei diritti dei detenuti e del personale dell’istituto penitenziario. Nella mia lettera di saluto a D’Andria, con cui in questi anni la Provincia di Viterbo ha sempre mantenuto un ottimo rapporto e che ringrazio sentitamente per la proficua e fattiva collaborazione, ho, non senza un pizzico di amarezza, espresso tutte le mie perplessità in ordine al comportamento dei vertici del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, diretto dal dottor Franco Ionta. Anche nel caso dell’avvicendamento di D’Andria con il suo senza dubbio qualificatissimo successore, infatti, il Dipartimento ha optato per una soluzione sicuramente valida ma comunque ancora precaria, senza prevedere neanche questa volta misure idonee ad una sostituzione definitiva ed in linea con le enormi problematiche della casa circondariale di Mammagialla. Come ho già avuto modo di fare in passato in qualità di deputato eletto nel territorio della Tuscia, oggi che ricopro la carica di presidente della Provincia di Viterbo ho da tempo immemorabile cercato un confronto con il Dap, rimasto inspiegabilmente sordo di fronte alle legittime richieste di amministratori che hanno a cuore l’emergenza di Mammagialla. La scarsa lungimiranza nel prevedere per la casa circondariale della Tuscia una soluzione definitiva e la mancanza di risposte, negli anni, ai miei interventi e alle mie sollecitazioni mostrano che la situazione di Viterbo purtroppo non viene considerata dal Dap con quella dovuta attenzione che le Amministrazioni locali si sarebbero invece attese. I detenuti sono persone che hanno commesso degli errori, ma che vanno aiutate e sostenute nel loro percorso di riabilitazione all’interno degli istituti penitenziari. Per questo, per salvaguardare i diritti loro, dei cittadini tutti e del territorio che rappresento, non mi è più possibile tollerare una situazione limite che si fa ogni giorno sempre meno sopportabile. A Mammagialla il Dap deve dare risposte chiare per risolvere il problema della carenza di personale e del sovraffollamento. Come rappresentante della Tuscia sono pronto, come del resto ho già fatto in tutti questi anni di attività politica e amministrativa, a portare di nuovo la questione Mammagialla sul tavolo di tutte le istituzioni competenti: l’emergenza viterbese non può e non deve più essere trattata con l’indifferenza e la scarsa incisività purtroppo riservatele fino ad ora. Rovigo: carcere affollato e poco personale, così è una bomba a orologeria Il Resto del Carlino, 18 agosto 2011 Il carcere è una bomba ad orologeria che rischia di essere innescata ad ogni piccolo disordine, ma c’è di più. La nuova manovra correttiva del governo, oltre a colpire ulteriormente il settore della polizia penitenziaria, già ridotta all’osso, rischia di mettere a repentaglio qualsiasi progetto di rieducazione dei detenuti attraverso il lavoro, semplicemente tagliando i fondi. Per questo, sindacato e associazioni chiederanno un confronto al Ministero della Giustizia, a settembre. Il problema del sovraffollamento continua ad essere una triste realtà: pur avendo una tollerabilità di 93 detenuti (60 uomini e 33 donne), la casa circondariale rodigina allo stato attuale ospita ora circa 130 persone. “Numeri decisamente sopra il livello di guardia - dichiara Giampietro Pegoraro, coordinatore regionale della Fp-Cgil penitenziari, che sottolinea un altro aspetto della questione - se si considerano anche i tagli al personale operati negli ultimi anni, non si può ignorare un dato: sebbene sulla carta il rapporto tra guardie e detenuti in un carcere dovrebbe essere di uno a uno, al massimo di uno a due, ci troviamo a lavorare in rapporto di uno a tre, talvolta uno a quattro”. Cosa significa? Ore d’aria ridotte (a Rovigo, ora che siamo in periodo di ferie, è stata soppressa quella dalle 16,45 alle 17,45 e i detenuti escono solo la mattina), attività ricreative sospese e uffici amministrativi chiusi quando i detenuti devono essere accompagnati in tribunale per il processo. “Il problema del personale a Rovigo tocca soprattutto la sezione femminile - spiega ancora il sindacalista - delle 13 unità in servizio, sulla carta, due stanno in ufficio, una è in pianta organica ma impegnata in attività sportive, una è in distacco al gruppo operativo mobile e un’altra è in distacco per gravi motivi famigliari, dunque si riducono a otto, con il risultato che durante i pasti, ad esempio, talvolta c’è bisogno di una guardia in supporto dalla sezione maschile, un uomo nella sezione femminile, che non sarebbe nemmeno permesso”. La partecipazione al Gom (gruppo operativo mobile, che si occupa dei detenuti particolarmente pericolosi), che dovrebbe durare al massimo sette anni, su richiesta dell’ufficiale, nasconde un paradosso. “Di fatto, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, alla fine del servizio non li rimanda all’istituto d’origine - spiega Pegoraro - ma li manda in missione o li usa come autisti, in violazione del decreto ministeriale che regola le loro mansioni”. Augusta (Sr): l’Ugl rilancia l’allarme… un carcere al collasso Gazzetta del Sud, 18 agosto 2011 La Casa di reclusione di Augusta è una struttura al limite del collasso. La struttura era stata concepita per ospitare 300 detenuti, attualmente invece i reclusi sono 640. La pianta organica prevista dal Ministero prevede la presenza di 350 agenti di polizia penitenziaria, mentre ad operare sono 220 operatori inclusi una trentina di distaccati. Urgono interventi di manutenzione straordinaria di bonifica ed un contestuale urgente potenziamento dell’organico di polizia penitenziaria. Quella del carcere di contrada Piano Ippolito è una situazione emblematica, esplosiva e non più sopportabile. La casa di reclusione presenta gravissimi problemi di natura igienico - sanitaria, strutturali di organico e di sovraffollamento e non a caso è stata scelta dall’Ugl per dare inizio all’ operazione “Non ti scordar di me”, una petizione che sarà inoltrata alle competenti autorità per sensibilizzarle agli annosi problemi delle carceri italiane. Alla presentazione dell’iniziativa hanno preso parte il segretario nazionale dell’Ugl polizia penitenziaria, Giuseppe Moretti, il segretario provinciale dell’Utl di Siracusa Tonino Galioto il componente del consiglio nazionale Nello Bongiovanni ed i sindacalisti Giuseppe Moretti, Michele Pedone, Salvatore Galliani e Giovanni Galazzo. “Se entro tre mesi non riceveremo risposte concrete e precisi impegni - dice Moretti - ci rivolgeremo alla Corte Europea dei diritti umani e se ciò non bastasse presenteremo istanza di chiusura della casa di reclusione”. Nel corso della conferenza stampa, si è parlato di tutte le annose e inaudite problematiche igienico-sanitarie, strutturali, di sovraffollamento della popolazione detenuta e della cronica carenza di personale, nei confronti delle quali nonostante anche le sollecitazioni della direzione del carcere, l’amministrazione penitenziaria sinora si è mostrata inerte, poco attenta, e che nel tempo hanno determinato una situazione assurda. Non è la prima volta che l’Ugl chiede, in maniera provocatoria, la chiusura della casa di reclusione. Nello specifico sono state denunciate la fatiscenza dell’impianto antincendio che è non funzionante, l’insalubrità dei luoghi di lavoro e dei luoghi di detenzione, l’intasamento dei cunicoli con fuoriuscita di melma acquosa nei piani bassi dell’istituto e la consequenziale emissioni di esalazioni di gas nocivi, la precarietà degli impianti elettrici di tutta la struttura, i cedimenti continui di parti di cornicioni e del soffitto, le rilevanti infiltrazioni d’acqua piovana nei luoghi di lavoro del personale di polizia e nelle camere detentive, il sovraffollamento e cronica e rilevante carenza di personale di polizia penitenziaria, quest’ultimi sempre più scoraggiati dalla mancanza di risposte risolutive da parte delle Istituzioni centrali. Nei mesi scorsi, il carcere di contrada Piano Ippolito era stata una delle strutture scelte in tutta Italia dai Radicali italiani per manifestare contro il sovraffollamento delle carceri e in segno di solidarietà nei tanti detenuti che seguendo l’esempio di Marco Pannella stavano mettendo in atto lo sciopero della fame. Trapani: dentro il carcere di Marsala… (seconda parte) http://a.marsala.it, 18 agosto 2011 A Marsala il carcere è piccolo, di passaggio quasi. Eppure copre una vasta area attinente al bacino di competenza del tribunale. Con il “piano carceri”, adesso, è previsto l’ampiamento dell’istituto di Trapani e la costruzione di quello di Marsala. “Non occorre guardare solo a Marsala - ci dicono il Dirigente Paolo Malato e il Comandante Carmelo Arena che siamo andati a trovare alla casa circondariale marsalese - ma alla situazione generale della regione, in cui si ha un sovraffollamento cospicuo. Il circondario del tribunale di Marsala è molto ampio. Bisogna considerare delle esigenze complessive. La costruzione del nuovo carcere fa parte di un piano carceri nazionale attuato dal commissario straordinario Franco Ionta. Noi, ovviamente, assicureremo il servizio nel migliore dei modi”. E in questa vecchia fortezza che faranno? “Non dipende dal nostro ministero, non sappiamo cosa succederà..” Il dottor Malato ci tiene a dire che Marsala è grande e che questa struttura è inferiore all’esigenze. “L’anomalia del carcere di Marsala è che dopo la fase istruttoria, la struttura dei reparti detentivi si compone di 7 stanze in cui ci sono 5, 6, 7 persone. Più 4 per i soggetti particolari detenuti per reati contro la persona (violenze sessuali ecc.)”. Si sa, infatti, che c’è una legge interna tra i detenuti per cui i pedofili, gli stupratori non vengono visti di buon occhio. “Il tossicodipendente viene visto come disgraziato. 41 bis non ne abbiamo quindi non ci sono persone dentro per fatti di mafia. Abbiamo carcerati per reati comuni: rapinatore, omicida, non connessi quindi a criminalità organizzata”. La capienza regolamentare, come abbiamo detto, è di 35 persone. “Noi ne abbiamo circa 50. Appena arrivati a questa soglia chiediamo il sovraffollamento e quindi vengono trasferiti. Se ne arrivano altri, con questo largo bacino di utenza che copre molte città del sud della provincia, non avremmo dove metterli”. Ad ogni detenuto per legge è previsto un certo spezio all’interno della cella. “Abbiamo direttive della Comunità Europea che determina 3 metri quadri per persona. A volte abbiamo uno sforamento ma è una situazione generale”. Complessivamente la popolazione detenuta sfiora le 70 mila unità a livello nazionale, quando dovrebbe essere di 48 mila. Il problema viene attenuato, a Marsala, per via di questo turn over. “Se ci fosse un carcere come quello di Trapani, un soggetto, dopo l’interrogazione e processo di primo grado, rimarrebbe”. Parliamo del nuovo carcere di Marsala, finalmente ci sono più posti. “Prevede 300, 350 posti. Per i costi, si parlava allora di 80 miliardi di lire. Noi speriamo che al più presto vengano iniziati i lavori e soprattutto portati al termine. Il nuovo palazzo di giustizia ad esempio l’hanno iniziato, i lavori vanno avanti… Speriamo bene”. Adesso il nuovo tribunale che si sta facendo risponderà al largo bacino, ma è anche vero che il carcere è collaterale. Il comandante e il dirigente ci tengono a precisare, parlando della vita in carcere dei detenuti: “non dimentichiamo che un detenuto è un cittadino. Sia italiano che extracomunitario. È un soggetto che ha anche dei diritti”. I colloqui con i familiari si svolgono due volte a settimana. Possono telefonare e hanno tv in camera. “Cosa diversa è il 41 bis. Comunque una cosa è svolgere un controllo su carcerati normali altra è sui 41bis”. Un pò di tempo fa ha fatto il balzo la notizia sul divieto per i detenuti che vestono griffati, a Marsala ci sono? “No, qui abbiamo poveracci. In base alle disposizioni del provveditorato, che sono state recepite anche da noi, non sono previsti oggetti o capi firmati. Anche i capi taroccati, portano a una disparità”. A Marsala quindi c’è l’opposto. Infatti il contributo della San Vito Onlus, ci dicono, è prezioso. Anche perché l’incontro dei detenuti con rappresentanti della popolazione esterna è fondamentale. “Noi operatori penitenziari non possiamo oltrepassare una certa soglia, abbiamo un regolamento che dobbiamo rispettare. Ultimamente poi c’è un drastico taglio dei finanziamenti dei lavori riservati ai detenuti. Ed è fondamentale il volontariato perché supplisce i vuoti lasciati dallo stato: vestiti biancheria, sigarette che sono fondamentali nel carcere e che i detenuti le possono comprare. Ma chi non ha fondi non può fumare”. Quello che necessiterebbe, in una atmosfera psicologicamente pesante, è un cappellano fisso. “Purtroppo non l’abbiamo, ci sono problemi in questo senso, abbiamo presentato la richiesta al vescovo, la nomina spetta a lui, ci sono anche qui mancanze di fondi”. C’è soltanto un prete, padre Cannatà che viene solo il sabato a celebrare la messa. Il cappellano sosterrebbe moralmente i detenuti, darebbe anche qualcosa, come le sigarette. L’impatto col carcere, per un incensurato, è sempre un’esperienza traumatica. Per alcuni invece è come una villeggiatura, perché abituati a una vita di stenti. Non dimentichiamo che stiamo parlando di carcere, quindi “privazione della libertà personale, un soggetto non è libero di andare in bagno, la doccia la deve fare in base ai turni. Non possono avere contatti, per scrivere una lettera devono fare una domandina, internet è escluso”. Hanno il televisore ma il problema non è escluso. Ad esempio c’è un solo televisore per 6/7 persone, chi decide cosa guardare? “Ci sono delle gerarchie, prevale il discorso economico. Chi ha più possibilità economiche rispetto agli altri ha un piccolo comando all’interno della cella, in cambio ci sono dei piccoli servizi che gli altri fanno, come ad esempio pulire la cella. Sono cose che noi non possiamo curare, fanno parte di aspetti inviolabili della libertà degli individui”. La spesa viene fatta due volte a settimana, ci sono generi previsti e altri vietati. Cozze, gamberoni, aragosta e cibi più prelibati sono assolutamente vietati. I dolci solo la domenica. Come per l’abbigliamento per uno che compra l’aragosta è un segno distintivo. Una volta eppure si usava, pensiamo al gran hotel Ucciardone... “Ma non era una tolleranza dei colleghi, non c’era una normativa ben precisa all’epoca”. Comunque il ruolo dell’agente penitenziario è difficile. “Senza retorica e senza offesa per gli altri corpi, la Polizia Penitenziaria è la più completa come compiti. Dobbiamo mantenere ordine, sicurezza e coordinare anche la rieducazione. Uno deve essere poliziotto, psicologo, deve capire cosa sta per fare un soggetto, deve prevenire un atto. Nonostante la grave carenza di personale la Polizia Penitenziaria fa il suo dovere in silenzio, non sbandieriamo i successi”. Le ultime battute riguardano la televisione. In Italia la maggior parte delle fiction è incentrata su Polizia, Carabinieri, preti e professori che indagano sulla qualsiasi, ma quasi nessuna contempla il corpo della Polizia Penitenziaria. L’unica eccezione riguarda “Cugino e cugino”, la fiction con Giulio Scarpati e Nino Frassica trasmessa da Rai Uno tra febbraio e marzo 2011. “Non mi è piaciuta affatto - commenta Malato -, in questa fiction il ruolo degli agenti non è completamente considerato, sembrano delle macchiette. Tutto gira intorno alla figura, seppur importante, dell’educatore e della sua storia d’amore con un magistrato. Gli agenti sono messi un secondo piano, il Direttore sembra una macchietta che si limita a lamentarsi”. Il comandante Arena ha gusti diversi: “Forse solo in Don Matteo c’è un’immagine che fotografa il nostro lavoro, quando il prete va in carcere per interrogare i presunti colpevoli. Se ci fate caso l’agente è sempre dietro, nell’ombra, come noi. Ma ci siamo sempre”. Nuoro: Radicali; un po’ di decenza… almeno non spiamo i detenuti sulla turca Ansa, 18 agosto 2011 Sarebbe un atto di decenza di Stato mettere almeno una tendina davanti al bagno alla turca posto su un rialzo del pavimento nella cella del carcere di Badu ‘e Carros di Nuoro di Antonio Iovine, condannato in contumacia all’ergastolo, sottoposto al regime del 41 bis e di isolamento diurno per tre anni, chiedono i deputati radicali Maurizio Turco e Maria Antonietta Farina Coscioni, che l’11 agosto scorso hanno visitato il carcere e incontrato il boss della camorra detenuto. Non siamo ancora alla legge del taglione, ma ci siamo molto vicini. Non basta l’afflizione, ci vuole - affermano - l’umiliazione. Nella cella quadrata di 10/12 metri quadri, tale ci sembrata dallo spioncino - ci sono anche due telecamere che, oltre a seguire la vita di Iovine, lo perseguitano anche al bagno. Dire bagno è un eufemismo: si tratta di una turca messa in un angolo della cella su di un rialzo triangolare di 70-80 centimetri di fronte ad una delle due telecamere.