Giustizia: il grande bluff del “piano sicurezza” di Paolo Biondani L’Espresso, 3 settembre 2010 Dai clandestini espulsi alla lotta contro la mafia. Dal controllo del territorio alle ronde. Dalle intercettazioni ai sequestri di droga. Tutte le bugie del governo, rilanciate negli incontri con Gheddafi. Più sicurezza per tutti? O impunità più sicura per il premier e i suoi amici inseguiti dalla giustizia? Dopo due anni di continui interventi su codici, lodi e processi, il governo sbandiera risultati “storici” nella lotta alla mafia, alla criminalità in generale e all’immigrazione senza permesso. I poliziotti però si sentono presi in giro: “I risultati eccezionali li stanno ottenendo le forze di polizia e la magistratura nonostante troppe scelte irresponsabili di questo governo”, dicono i rappresentanti degli agenti. E i magistrati vedono nero. “Viviamo in una stagione segnata da uno scarto sempre più profondo tra la verità e le parole di una certa politica”, riassume amaramente il procuratore di Torino, Giancarlo Caselli: “La sicurezza dei cittadini è un valore primario che andrebbe difeso con le migliori risorse e intelligenze, invece ora è una paura da sfruttare: si semina insicurezza, si offrono rimedi solo di facciata, della categoria delle grida manzoniane, e intanto si continua a picconare le intercettazioni, veri argini della legalità”. Ecco un viaggio nella realtà del pianeta sicurezza: i fatti che il governo non racconta agli italiani. Immigrazione Per fermare gli stranieri, la maggioranza ha varato un diluvio di leggine culminate nel pacchetto sicurezza del luglio 2009. Tre caotici maxi-articoli di 128 commi che consacrano alla storia due certezze: via libera ai respingimenti collettivi dei barconi di extracomunitari, garantiti da un accordo dorato (5 miliardi in 20 anni) con il dittatore libico Gheddafi; e un nuovo reato di immigrazione clandestina. A Ferragosto il ministro Roberto Maroni esibisce i risultati: dall’agosto 2009 al luglio 2010 sono sbarcati in Italia solo 3.499 extracomunitari, contro i 29.076 dell’anno precedente. La Caritas e l’agenzia europea Frontex però dubitano dei dati: gli stranieri continuano ad arrivare via terra. E la polizia conferma che “circa l’80 percento” degli immigrati passano la frontiera regolarmente e diventano irregolari in seguito, quando perdono il permesso, magari perché licenziati o schiavizzati. E il nuovo reato di clandestinità? Il muro è di cartapesta: tre gradi di giudizio per infliggere un’ammenda da 5 a 10 mila euro. Ma lo strappo ai valori è forte: per gli extracomunitari diventa illecito l’esistere senza permesso. “Famiglia Cristiana” parla di “leggi razziali “, giuristi e gruppi umanitari ricordano che furono i nazisti a incriminare le categorie di persone (anziché le sole azioni fuorilegge). Ma serve almeno a qualcosa? Il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro, scuote la testa: “È una barbarie giuridica inutile e dannosa. Non basta minacciare un processo per dissuadere chi fugge dalla fame o dalla guerra. E le espulsioni continuano a farle le autorità di polizia, come succedeva con la legge Turco-Napolitano. Il nuovo reato è servito solo a ingolfare la giustizia con migliaia di processi inutili”. A Milano la Procura ha dovuto aprire 3 mila procedimenti che hanno prodotto solo 63 mini-condanne (dati del “Sole 24 Ore”), ma hanno tolto tempo, risorse e personale ai crimini veri. E le famose espulsioni-lampo dei clandestini imputati? II presidente dei giudici di pace, Vito Dattolico, allarga le braccia: “In un anno abbiamo potuto ordinarne due, nessuna delle quali eseguita. I processi noi li facciamo, ma restano i problemi di sempre: l’identificazione dello straniero, i costi e i mezzi per il rimpatrio”. L’amico Gheddafi Visto che il nuovo reato non ha prodotto neanche un’espulsione in più neppure a Milano, la politica del governo resta appesa al “Trattato di amicizia” che nel 2008 ha sdoganato Gheddafi: lo stop agli sbarchi, insomma, funziona solo se il regime libico collabora, cioè se continua a imprigionare migranti in carceri-lager vietati ai controlli dell’Onu. Con tutte le manovre e i ricatti del caso. Per i poliziotti non è una coincidenza se gli arrivi dal mare sono ripresi in massa proprio mentre il colonnello di Tripoli preparava la nuova visita-show a Roma: in agosto sono stati fermati 148 stranieri solo ad Agrigento, ben 400 nel Salento, almeno altri 500 tra Sardegna, Calabria e Sicilia. Chi lotta contro la mafia? Il 15 agosto i ministri Maroni e Alfano hanno attribuito al governo il merito di tutte le operazioni antimafia tra maggio 2008 e luglio scorso: 6.483 arresti (più 53 per cento), confiscati beni per 2.100 milioni, sotto sequestro (non definitivo) altri 12,8 miliardi. Ma a spiegare questi record sono le scelte dei politici o le inchieste dei magistrati? Per il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, la risposta è un’ovvietà: “Arresti, condanne e misure patrimoniali sono l’effetto delle indagini della polizia giudiziaria coordinate dalla magistratura, che in Italia non prende ordini dai governi, almeno finché resterà in vigore questa Costituzione. Dalle scelte dei governi dipendono invece le risorse assegnate alla giustizia. C’è una contraddizione profonda tra la propaganda politica e la realtà dei tagli che stanno mettendo in ginocchio le forze di polizia, i tribunali e le procure del Sud”. L’azione del governo, per Scarpinato, ricorda “la tela di Penelope”: “Da una parte si permette ai giudici di aggredire i patrimoni anche dei mafiosi morti, dall’altra si consente ai vivi di ripulire capitali enormi con uno scudo fiscale anonimo. O si preparano leggi che disarmano i magistrati dei principali strumenti per arrestare i latitanti e scoprire le ricchezze dei mafiosi: intercettazioni e dichiarazioni dei collaboratori di giustizia”. Ma in questa schizofrenia forse c’è una logica. “La risposta politica alla mafia sembra concentrarsi sul livello militare, ma non basta arrestare solo i bravi, fino a quando ci saranno i Don Rodrigo”, spiega il procuratore. “L’anomalia dei corleonesi appartiene al passato. Oggi ai vertici di Cosa Nostra ritroviamo medici, architetti, imprenditori, colletti bianchi. A Palermo abbiamo arrestato dai 150 ai 200 estorsori all’anno, ma chi va in carcere viene sostituito, mentre resta potente una borghesia mafiosa che si arricchisce con le corruzioni, le speculazioni edilizie, il saccheggio di denaro pubblico: esattamente quei reati che diventerebbero impunibili con la legge-bavaglio o il cosiddetto processo breve”. Polizia disarmata Nelle capitali della mafia la realtà è lontana dalla propaganda. A Reggio Calabria il pg Salvatore Di Landro, dopo l’ennesima bomba (sotto casa), ha denunciato che “per combattere la ‘ndrangheta servono risorse: qui non abbiamo neanche la benzina per le macchine”. A Palermo la sezione criminalità organizzata della squadra mobile è senza revolver e con i giubbotti antiproiettile inservibili. Il perché lo spiega Felice Romano, segretario nazionale del Siulp: “I nostri colleghi hanno solo la Beretta d’ordinanza, che è vistosa e ingombrante. Per questo nella dotazione del reparto c’erano 80 piccoli revolver, da nascondere addosso in azione. Però sono stati ritirati tutti, giustamente, e la questura non ha soldi per sostituirli”. Ritirati? E perché? “Erano difettosi: esplodevano”. E come mai Maroni non rimedia? “Il governo ha tagliato dell’80 per cento le spese di armamento: se compriamo pistole, restiamo senza munizioni”. E i giubbotti? “Andrebbero revisionati ogni due anni, altrimenti perdono effetto. Ma i soldi non ci sono, per cui si può solo sperare che funzionino. E comunque pesano 18 chili. Chiediamo da anni giubbotti più leggeri e moderni. Tutto inutile: il governo promette sicurezza, ma poi taglia e basta”. Controllo del territorio Per fermare i reati di strada, i ministri hanno promesso di tutto: esercito nelle città, ronde private nelle periferie. “Ma il sistema sicurezza è al collasso”, avverte Enzo Letizia, segretario dell’Associazione funzionari di polizia: “Dal 2008 al 2010 il governo ha tagliato i fondi di oltre un miliardo e nel 2011 ci toglierà altri 673 milioni. L’effetto è una crescente carenza di uomini e mezzi, con ricadute gravissime. In dieci anni l’Italia ha già perso 14 mila poliziotti”. Claudio Giardullo, segretario del Silp, è tranciante: “E irresponsabile raccontare agli italiani che si possa avere più sicurezza con meno risorse, mezzi e personale. Oggi i migliori ispettori devono usare computer e auto personali, perché le questure non hanno soldi per acquisti e riparazioni. I commissariati ormai chiudono alle 20 o vengono aboliti: a Roma ne sono spariti altri tre. Gli ultimi elicotteri sono stati comprati più di dieci anni fa e si stanno fermando uno dopo l’altro. Intanto il governo spreca 64 milioni all’anno per mandare nelle strade i soldati, che fanno scena in tv, ma non indagano sui reati, perché non è il loro mestiere”. Romano cita situazioni inquietanti: “In dieci anni Roma ha perso due terzi delle volanti. A Milano l’antiterrorismo non ha soldi per comprare microspie e pagare traduttori. A Trapani gli investigatori che danno la caccia al boss Messina Denaro devono pagarsi le trasferte, perché i rimborsi sono finiti in marzo...”. E l’operazione-ronde? Fallita: pochissime domande (solo sei a fine 2009). La ragione del flop è istruttiva: dopo l’altolà del Quirinale, il ministero ha dovuto vietare insegne politiche e sovvenzioni pubbliche. Intercettazioni a rischio Mentre la mafia assalta anche il Nord, il governo considera prioritarie solo due riforme: meno intercettazioni e più prescrizioni. Per la prima è sceso in campo Berlusconi, invocando il bavaglio contro i pm che, a suo dire, spierebbero le telefonate di “sette milioni di italiani”. A smentirlo è il suo stesso ministero della Giustizia: nel 2009 tutte le procure d’Italia hanno intercettato solo 132 mila utenze (5 mila in meno del 2008). E utenza non significa indagato: se un trafficante di droga usa tre apparecchi alternando quattro numeri, le intercettazioni sono 12, ma l’indagato è uno. E comunque tutte le registrazioni che non provano reati vanno già ora distrutte. Quanto alle spese, le intercettazioni del 2009 sono costate 270 milioni. Con la sola inchiesta sulle cliniche mafiose protette da Totò Cuffaro, i pm di Palermo hanno sequestrato 800 milioni. E con le intercettazioni sulle scalate bancarie, Milano ne ha confiscati 360. Documenta il procuratore Caselli: “Nel 2009 a Torino, su un totale di 152.317 procedimenti, sono state eseguite intercettazioni solo nello 0,181 per cento dei casi. La spesa è di 10 euro per utenza, con una durata media di 63 giorni per l’antimafia e solo ì6 per gli altri reati. I limiti sono già ora rigorosi e se vengono superati, è solo per assoluta necessità: stiamo parlando di intercettazioni indispensabili per scoprire i colpevoli di omicidi, rapine, estorsioni, stupri e altri delitti gravissimi”. Processo breve Ogni 24 ore, in Italia, 425 processi restano senza colpevoli perché i reati cadono in prescrizione: significa che il giudizio è durato più del tempo-limite che una legge ber-lusconiana (caso unico in Europa) ha già dimezzato. Ora, invece di ridurre cavilli e formalismi, il governo progetta la prescrizione-bis: per avere l’impunità, basterà ritardare anche un solo grado di giudizio. Il pm Spataro osserva che “il processo breve lascerebbe impuniti proprio tutti quei reati che più spaventano i cittadini”. In compenso salterebbero, tra i tanti, i due processi a Silvio Berlusconi (fondi neri Mediaset, corruzione del teste Mills): per ora sono sospesi dal “legittimo impedimento”, ma in dicembre la Corte Costituzionale potrebbe riaprirli. Di qui la vera emergenza: una nuova legge salva-premier. Giustizia: Cassazione; no a “sofferenze aggiuntive” per i detenuti con gravi malattie Adnkronos, 3 settembre 2010 Più umanità nei confronti dei detenuti. Il richiamo arriva dalla Cassazione che invita a non infliggere “sofferenze aggiuntive” ai detenuti, soprattutto a quelli che si trovano “in condizioni di salute non perfette”. Un richiamo giustificato dal fatto che, come avverte la prima Sezione penale, “la sofferenza aggiuntiva è comunque inevitabile ogni qualvolta la pena debba essere eseguita nei confronti di soggetto in non perfette condizioni di salute, di tal che essa può assumere rilievo solo quando si appalesi presumibilmente di entità tale da superare i limiti della umana tollerabilità”. Applicando questo principio, la suprema Corte ha accolto il ricorso di un detenuto 53enne, Domenico L. recluso nel carcere di Potenza dove deve scontare 5 anni di detenzione. Il detenuto, ricostruisce la sentenza 30511, si era visto negare il differimento della pena richiesto in vista di un delicato intervento chirurgico per l’asportazione di un cancro al cervello. Secondo il Tribunale di sorveglianza di Potenza che, nel dicembre 2009, aveva detto no ai domiciliari, il regime di detenzione non era incompatibile con la patologia e il reato in espiazione impediva l’uscita dal carcere del detenuto. In Cassazione la difesa di Domenico L. ha rivendicato con successo il “diritto alla salute costituzionalmente garantito” e un trattamento detentivo “più umano”. Piazza Cavour ha accolto il ricorso e, rinviando il caso al Tribunale di sorveglianza di potenza, ha bacchettato il Tribunale del precedente grado di giudizio e ha ricordato che “il giudice investito della delibazione della domanda per l’applicazione dell’art. 147 c.p. deve tener conto, indipendentemente dalla compatibilità o meno dell’infermità con la possibilità di assistenza e cura offerte dal sistema carcerario, anche dell’esigenza di non ledere comunque il fondamentale diritto alla salute e il divieto di trattamenti contrari al senso dell’umanità“ previsti dagli articoli 32 e 27 della Costituzione. E i trattamenti contrari al senso dell’umanità, elenca la Cassazione, ricorrono ad esempio quando “nonostante la fruibilità di adeguate cure anche in stato di detenzione le condizioni di salute accertate diano luogo ad una sofferenza aggiuntiva derivante proprio dalla privazione dello stato di libertà in se e per se considerata in conseguenza della quale l’esecuzione della pena risulti incompatibile con i principi costituzionali”. Quanto al caso in questione, la suprema Corte ricorda che negare il differimento della pena a questo detenuto potrebbe creare una “sofferenza aggiuntiva indotta dalla carcerazione capace di spingersi ai limiti della ragionevole tollerabilità”. Lettere: processo breve... detenzione lunga di Riccardo Polidoro (Presidente Ass. Il Carcere Possibile Onlus) Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2010 Mentre la politica è impegnata a modellare il “processo breve” i detenuti continuano a subire una carcerazione illegale che, per le condizioni con le quali è scontata, appare lunga ed interminabile. La provocazione di una “condanna breve” . Un altro agosto è passato nelle carceri italiane. Altri detenuti morti ci sono stati per l’insopportabile caldo che anche quest’anno ha scandito le giornate estive dentro le mura. Altri politici (gli stessi del 2009?) si sono recati, nel giorno di ferragosto, a verificare le modalità con le quali viene scontata la pena inflitta, ribadendo che, nella maggior parte degli Istituti - come già affermato dal Ministro della Giustizia - non sono rispettati i principi costituzionali e le norme in materia e la carcerazione è, a tutti gli effetti, una condanna a morte per i diritti civili. L’agenda politica, in tema di Giustizia, non prevede alcun appuntamento per fare fronte a questa vergogna nazionale, mentre quotidianamente ci si dedica a confezionare il processo “breve”. Senza voler affrontare l’argomento, nè voler entrare nelle polemiche che tutti i giorni trovano spazio sui media, vanno fatte - a nostro avviso - alcune riflessioni, dalla parte dei detenuti. Il processo “breve”, o meglio, il processo di “ragionevole durata”, espressamente previsto dalla nostra Costituzione, è quanto tutti si augurano e si dovrebbero garantire risorse affinché tale traguardo sia finalmente raggiunto. Ma oggi, unitamente all’insopportabile lentezza processuale, c’è un’ulteriore emergenza che merita attenzione: la qualità della pena, che rende la condanna inflitta ingiusta, perché ad essa, oltre alla privazione della libertà, si uniscono privazioni e condizioni non previste dalla legge. Il tempo della detenzione allora può apparire più lungo, perchè la non giustificata sofferenza quotidiana è un elemento che agisce inesorabilmente nella mente dell’uomo. Dinanzi all’inerzia del Parlamento e del Governo (che pure nel gennaio scorso ha dichiarato lo “stato di emergenza” nelle carceri italiane), contro la quale l’Avvocatura ha più volte protestato, con astensioni dalle udienze, giornate di lutto e con esposti presentati presso le ! Procure della Repubblica, va pubblicamente denunciato che quando il Giudice condanna l’imputato all’arresto o alla reclusione, questa persona, nella maggior parte dei casi, viene, nello stesso tempo, spogliato dei suoi più elementari diritti e si avvia ad un percorso, che sarà più o meno difficile, più o meno ingiusto. Parametri direttamente legati all’Istituto di destinazione, dove la pena potrà apparire più o meno lunga. Non vi è dubbio, infatti, che una condanna a cinque anni di reclusione scontata in una cella sovraffollata, senza minime garanzie igieniche e con solo due ore di aria al giorno, non equivale alla stessa pena scontata in un Istituto dove vige il rispetto della Legge ed il detenuto ha l’opportunità di essere avviato ad un programma rieducativo, magari lavorando in una cooperativa, all’interno delle mura e rientrando in cella la sera. Se, dunque, si vuole intervenire sul processo, estinguendo quelli che non arrivano a conclusione nei tempi che saranno previsti, oltre i quali, la durata non apparirà “ragionevole”, perché non applicare lo stesso principio alla pena, che se scontata in maniera illegale dovrà essere più “breve”. Il Giudice, nell’emettere la sentenza, avrà a disposizione una tabella che indicherà quale percentuale di brevità applicare alla pena inflitta, a seconda dell’Istituto di destinazione. Nelle aule si sentirà “In nome del popolo italiano… condanna Tizio ad anni 5 di reclusione. Tenuto conto che la pena sarà scontata nell’Istituto di... applica la “pena breve”, riducendo gli anni 5 del 20 %”. È evidente che si tratta di una provocazione. Ma perché quanto riferito appare surreale, mentre lo stesso principio applicato al processo non solleva le medesime perplessità ? Se diversi sono gli Istituti di Pena, diversi sono i Tribunali. Lo stesso processo celebrato in due città diverse non avrà mai gli stessi tempi. Per il medesimo reato commesso da Tizio e da Caio in luoghi diversi, il primo potrà essere condannato, mentre il secondo potrebbe avere il seguente verdetto: “In nome del popolo italiano... il processo non si è concluso nei tempi previsti dalla Legge, pertanto è estinto”. Occorrerà, forse, anche in questo caso munirsi di tabelle sui tempi processuali “ragionevoli” di ciascun Tribunale ? Non vi è dubbio che è urgente intervenire sul processo, rendendo “ragionevole” la sua durata, come non vi è dubbio che è urgente intervenire sulle modalità di esecuzione della pena. In entrambe i casi il male va estirpato alla radice e non superficialmente. Per il processo occorre una riforma organica che possa prevedere tempi “ragionevoli”, nel rispetto delle garanzie del contraddittorio. Per la detenzione, da tempo l’Avvocatura ha indicato la strada da seguire: la stessa riforma del processo, al fine di evitare tempi lunghi di custodia cautelare (il 50% dei detenuti è in attesa di giudizio), il ricorso a pene ed a misure alternative, la depenalizzazione di alcuni reati, che consentirebbe d’impegnare i Giudici solo su ciò che è davvero penalmente rilevante. Lettere: 27 detenuti dell’Alta Sicurezza ad Agrigento scrivono al Garante Live Sicilia, 3 settembre 2010 Un racconto dell’orrore, un documento che Live Sicilia è in grado di mostrare in esclusiva ai suoi lettori. Una lettera scritta dai carcerati inviata da Agrigento proprio all’ufficio del Garante per i detenuti. Uno squarcio di vita offerto dal buio che nessuno guarda. La missiva narra la tragedia di un’estate dietro le sbarre. È utile lasciarla parlare: “Noi sottoscritti detenuti del reparto di alta sicurezza della casa circondariale di Agrigento mettiamo a conoscenza l’ufficio che abbiamo inoltrato un esposto alla Procura della Repubblica di Agrigento per i seguenti motivi. Con la presente, mettiamo a conoscenza questo ufficio di Procura sulle gravi condizioni di illegalità che purtroppo siamo costretti a vivere in questo istituto penitenziario, iniziando dal problema primario, qual è la carenza d’acqua che a volte ci rende le giornate del tutto insostenibili, in quanto non possiamo lavarci e lavare lo spazio in cui viviamo (è una situazione inumana). Inoltre, sempre per la carenza d’acqua, gli scarichi dei bagni delle celle sono chiusi. (…). Altro grave problema è la mancanza di areazione nei bagni delle celle, ossia, i bagni sono senza finestra e gli aspiratori non funzionano ormai da diversi mesi. I locali doccia sono fatiscenti (…) Non mancano poi i problemi di igiene nei reparti di infermeria. Tutti gli ambulatori all’interno dell’istituto sono igienicamente pessimi. Le indichiamo alcune richieste che noi inoltriamo e che vengono disattese. Abbiamo fatto richiesta, con esito negativo, affinché la direzione lasci aperti i blindati delle celle tutta la notte, in quanto con questo caldo estivo, nelle piccole celle con due o tre detenuti si boccheggia. Altra richiesta da noi avanzata alla direzione, che è stata disattesa, è di lasciare acceso il televisore dopo mezzanotte in quanto molti programmi culturali vanno ben oltre la mezzanotte. Alcuni detenuti inoltrano richiesta per avere colloqui con il dirigente sanitario, ma questo non prende in considerazione tali richieste. La maggior parte delle visite specialistiche ambulatoriali non viene mai eseguita. I colloqui con gli operatori facenti parte dell’equipe trattamentale sono rarissimi. Per tutti i problemi sopra elencati possiamo solo asserire che l’articolo 27 della Costituzione recita il contrario di come noi, qui nell’istituto penitenziario di Agrigento, siamo costretti a vivere”. “Ho già interpellato gli organi competenti per acquisire notizie circa quanto da Voi scritto - si legge nella risposta del garante inoltrata ai detenuti il 14 agosto. Appena perverranno le risposte, sarà cura del mio ufficio scrivervi. Nell’attesa vi invito a mantenere sempre dei comportamenti in linea con il regolamento penitenziario anche se le attuali condizioni certo non vi sono di aiuto”. Nella stessa data il Garante dei detenuti della Sicilia Salvatore Fleres ha informato del contenuto dell’esposto denuncia dei detenuti la procura della repubblica di Agrigento. Sicilia: l’On. Dino Fiorenza (Ars); grave la situazione delle carceri Live Sicilia, 3 settembre 2010 In Sicilia le persone detenute, sono circa 8.200 a fronte di una ricettività massima consentita di circa 5.190, con un indice di sovraffollamento pari al 45 per cento. La Casa Circondariale di Piazza Lanza a Catania, costruita nel 1950, ha attualmente circa 550 detenuti a fronte di una capienza massima di 285 posti e con 230 unità di polizia penitenziaria, invece delle 435 necessarie e previste dal Decreto Ministeriale sulle piante organiche. L’istituto presenta livelli di evidente degrado: strutture fatiscenti, la situazione è poi aggravata dallo stato di sovraffollamento e di insufficienza di spazi. La scarsa offerta di interventi trattamentali e l’assistenza sanitaria carente qualificano questo carcere come uno dei peggiori d’Italia, - ad affermarlo l’On. Dino Fiorenza medico e presidente del gruppo misto-confederato all’Ars. Qualche tempo fa ci fu la protesta dei detenuti, i quali battendo sulle inferriate, cercavano di far percepire all’esterno la condizione di estremo disagio in cui sono costretti a vivere. Inadeguata agli scopi rieducativi, in celle di circa 18 metri quadri, che a stento potrebbero ospitare tre detenuti, sono stipati fino a nove, o addirittura dieci detenuti carenza di personale, sia di agenti di polizia penitenziaria che di figure specializzate come educatori e psicologi. Ad oggi attendiamo i risultati dell’anno scorso “Ferragosto 2009 in carcere”, che ha portato oltre 150 parlamentari in tutti gli istituti di pena compreso quello di Catania, ad oggi, l’unico problema che è stato risolto è quello dei topi che infestavano l’istituto. Nelle celle sovraffollate fredde d’inverno e soffocanti d’estate, i detenuti trascorrono almeno venti ore chiusi a chiave. Nel carcere, a differenza di altri istituti di pena, non esistono attività al di fuori della cella e non vi è alcuna possibilità di socializzare. Nel 2010 ad oggi si sono uccisi 38 detenuti, 4 agenti penitenziari e un dirigente. Un dato impressionante - continua il v presidente della commissione antimafia -, quello che sta succedendo nelle carceri della Sicilia è allarmante, anche il livello e la qualità della detenzione siano degni di uno Stato civile e democratico. Troppi suicidi dietro le sbarre, troppe violazioni dei diritti civili. La Sicilia è al primo posto in Italia per suicidi. “Un dato grave che non deve essere sottovalutato”, e subito spiega “c’è un malessere generale teso a crescere in maniera esponenziale, e destinato ad avere un effetto domino nelle altre strutture penitenziarie”. Malessere che, alla fine, provoca la cosiddetta “implosione” dei detenuti, e quindi il suicidio. “Non è pensabile stipare uomini in strutture carcerarie e poi tagliare tutti i fondi per garantire assistenza medica o le attività per il loro recupero - aggiunge Fiorenza. I detenuti vengono sbattuti in carcere senza alcun vero strumento di recupero e riabilitazione. È il segno di un sistema che non funziona, e alla fine si scarica direttamente sui più deboli”. E i suicidi non sono che l’elemento più tragico ed eclatante di un disagio diffuso. “Nelle celle ogni giorno si registrano numerosi episodi di autolesionismo. Scarse anche le opportunità di lavoro offerte ai reclusi. L’ unica opportunità la scuola elementare. Non esiste alcun lavoro se non lo stretto necessario di quelli domestici, per i quali resta imprecisato il numero delle ore giornaliere retribuite”. Le istituzioni intervengano subito, non è più il tempo delle parole, chiedo l’urgente intervento del Ministro Alfano sull’emergenza carceri in Sicilia. Le istituzioni e i soggetti competenti, a qualsiasi livello, hanno il dovere di intervenire e disinnescare questa bomba ad orologeria, ristabilendo condizioni minime di legalità e dignità per chi vive recluso in carcere. Le altre strutture che trovano spazio nella black list delle criticità penitenziarie sono Favignana dove il caldo e l’unmidità toglie il respiro, carenze di personale, degrado strutturale, l’acqua per tre ore al giorno è salata insetti e topi e con Marsala, Modica, Mistretta, Palermo Ucciardone, Messina Gazzi nelle stesse condizioni il quadro è completo. “Non credo servano commenti - conclude l’On. Dino Fiorenza - se non ribadire la fondata preoccupazione di una prossima, possibile paralisi dell’intero sistema. Speriamo di non dover commentare notizie drammatiche o eclatanti, perché esistono tutti i presupposti che qualcosa di molto negativo accada”. Castelfranco Emilia (Mo): internato di 43 anni muore dopo il ricovero all’ospedale Il Resto del Carlino, 3 settembre 2010 Si è sentito male all’interno della Casa lavoro di Castelfranco, è stato soccorso e trasportato in ospedale dove, però, è morto due giorni dopo. Ora quei soccorsi sono stati contestati dagli altri internati che parlano di “ritardi”. Le accuse sono state messe nero su bianco in un esposto a più firme che è finito in procura sul tavolo del pm Giuseppe Tibis che ha aperto una indagine conoscitiva. Il fatto risale allo scorso 18 agosto quando l’internato, Massimiliano Calersi, 43 anni compiuti da meno di un mese, si è sentito male. Una crisi pare causata da un infarto. Altri internati avrebbero assistito alla scena, hanno sentito il loro compagno lamentarsi e dire che stava male, hanno dato l’allarme e poi lo hanno visto sparire a bordo di una barella, le sirene dell’ambulanza a fare da sottofondo. Ma quando hanno saputo che era morto, meno di 48 ore dopo il ricovero, è esplosa tutta la rabbia. “I soccorsi non sono stati tempestivi”, avrebbero lamentato. Insomma, secondo loro qualcuno ha sottovalutato l’emergenza e si sarebbe, invece, potuto fare di più per salvare la vita di Calersi. Per questo, insieme, hanno preso carta e penna e hanno scritto un esposto regolarmente depositato agli uffici di corso Canalgrande. È già stata disposta dal pm Tibis - che ha trasmesso il fascicolo ai carabinieri - l’acquisizione delle cartelle cliniche. Calersi, ricoverato nel reparto di rianimazione del Policlinico (le sue condizioni all’arrivo al pronto soccorso erano molto gravi), è riuscito a combattere per due giorni. Poi, il 20 agosto si è spento. Pare che sia stato il cuore a non reggere, nonostante la sua giovane età. Il caso all’apparenza non aveva nulla di sospetto, tanto che il corpo è già stato seppellito. Ma per gli altri detenuti della Casa lavoro di Castelfranco non è così. Ora anche la Procura vuole vederci chiaro. I referti saranno infatti analizzare da periti esperti e, se sarà necessario, verrà fatta riesumare la salma per poter effettuare l’autopsia. Come detto, infatti, si accertò che la morte era sopraggiunta per cause naturali - Calersi sarebbe stato stroncato da un infarto - e quindi l’autopsia non era stata ritenuta necessaria. Ma alla luce dell’esposto inoltrato dagli altri detenuti sono state avviate delle indagini. Questa vicenda è solo l’ultima tegola sulla Casa lavoro di Castelfranco Emilia, finita di recente più volte al centro di una bufera. A febbraio, un internato straniero era salito sul tetto minacciando di gettarsi nel vuoto perché gli era stata negata una telefonata in patria mentre nell’agosto del 2009 gli internati iniziarono uno sciopero della fame per rivendicare licenze e permessi, bloccati dall’ex giudice di sorveglianza Angelo Martinelli, ora sostituito dal collega Mazza. Resta, però, sempre il problema del sovraffollamento. La struttura ha una capienza di 80 persone ma più volte i sindacati hanno denunciato che ce ne sono oltre 120 mentre il personale è ridotto all’osso. Ora, il decesso ha contribuito a gettare benzina sul fuoco in una situazione già tesa. Napoli: moglie detenuto malato scrive a Napolitano; da 8 mesi in cella con catetere Ansa, 3 settembre 2010 E' detenuto nel carcere di Poggioreale, nonostante sia costretto, da otto mesi, a portare un catetere per un problema alle vie urinarie. A luglio scorso l'uomo era stato trasferito presso l'ospedale Cardarelli di Napoli, ma dopo pochi giorni era stato rinchiuso nuovamente nella casa circondariale. Adesso Giuseppe Mazzone dovrebbe essere trasferito presso il carcere di Arezzo, ma la moglie, disperata, ha rivolto un appello scrivendo al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, per avere certezza sui tempi del suo trasferimento. La situazione è stata resa nota dal garante campano dei detenuti, Adriana Tocco, che già alcuni mesi fa aveva denunciato i disagi a cui era sottoposto Mazzone. In quell'occasione, anche grazie all'intervento del direttore regionale del Prap, Tommaso Contestabile e del direttore del carcere di Poggioreale, Cosimo Giordano, il detenuto era stato trasferito presso il nosocomio partenopeo, ma la degenza era durata ben poco. "Quale delusione per tutti, - ha dichiarato Adriana Tocco - familiari e istituzioni, quando le autorità sanitarie del Cardarelli, dopo pochi giorni, hanno rimandato Mazzone a Poggioreale, dichiarando di non potersi assumere la responsabilità dell'intervento consigliando di inviare il detenuto all'ospedale di Arezzo, dove aveva già sostenuto un primo intervento per la stessa patologia. La moglie è disperata perché si chiede quanto tempo ci vorrà per trasferire il marito in Toscana". Nel frattempo l'uomo è ritornato in cella trascinandosi dietro il catetere e la sacca dell'urina, tra il fastidio e i problemi igienici che una tale situazione comporta non solo per se stesso, ma anche per i suoi compagni. Cagliari: l’odissea dei parenti dei detenuti, ore di attesa per poter parlare coi propri cari L’Unione Sarda, 3 settembre 2010 Ogni giorno a decine fanno la fila dall’alba per poter parlare coi familiari reclusi, ma spesso la loro attesa si protrae sino al pomeriggio. L’associazione “5 novembre” chiede l’immediata nomina del garante. “Ore e ore di snervante attesa in piedi sotto il sole o la pioggia prima di riuscire a entrare in una sala d’aspetto piccola, sporca e sempre affollata. È il calvario cui sono sottoposti i familiari dei detenuti ogni qualvolta decidono di recarsi a Buoncammino per far visita ai propri cari”. La denuncia è dei volontari dell’associazione “5 novembre” che ieri mattina hanno dato vita, a Palazzo Regio, a una manifestazione di protesta insieme a decine di familiari di detenuti ed ex detenuti. “Il carcere di Buoncammino rappresenta un vero e proprio inferno per i familiari delle persone recluse - sostiene il presidente dell’associazione, Roberto Loddo -, al di là della buona volontà e della disponibilità della direzione e degli operatori, il sistema dei colloqui è un disastro perché i familiari sono privi di qualsiasi assistenza”. L’orario di visita comincia alle 9, ma già alle 6 di fronte al carcere ci sono decine di persone in attesa. Quando le porte del penitenziario si spalancano si crea subito la ressa, perché all’interno possono accedere solo dodici persone alla volta. Il primo gruppo entra, gli altri restano fuori. Alla fine c’è chi deve attendere le quattro del pomeriggio per riuscire a parlare col proprio caro. “Una situazione inaccettabile - incalza Loddo -, che si verifica solo a Cagliari. L’immagine degradante dei familiari stipati in una stanzetta prima di arrivare alla sala dei colloqui è indegna di un paese che si definisce civile”. I familiari si sentono le vittime innocenti di un sistema carcerario che non funziona e chiedono più attenzione sia nei loro confronti che, soprattutto, di chi sta dentro. “Dev’essere garantito a tutte queste persone - riprende Loddo -, il diritto di poter mantenere rapporti affettivi e sociali coi loro familiari reclusi in condizione di umanità e rispetto. Parallelamente bisogna intervenire all’interno del carcere per migliorare la qualità della detenzione che risulta terribilmente carente, soprattutto dal punto di vista dell’assistenza sanitaria”. Da qui la richiesta di istituire immediatamente un garante dei detenuti e dei loro familiari: “Buoncammino - conclude Loddo - è diventato un lager per tossicodipendenti, sofferenti psichici e malati in genere. Una situazione che può essere risolta solo applicando le misure alternative al carcere e attuando la riforma della sanità penitenziaria che a tutt’oggi resta lettera morta nonostante le ripetute promesse”. Ogni lunedì l’incontro davanti al penitenziario In attesa di istituire un comitato in grado di confrontarsi stabilmente con le istituzioni e le varie componenti interne del carcere di Buoncammino (in primis la direzione e la polizia penitenziaria), i familiari dei detenuti hanno deciso di riunirsi periodicamente di fronte all’ingresso del carcere per discutere di tutte le loro problematiche, denunciando le carenze e ogni eventuale sopruso. Si comincerà la settimana prossima e l’appuntamento diventerà fisso: ogni lunedì alle 15 nei giardinetti di viale Buoncammino. Il passo successivo sarà quello di pressare la Regione (con sit-in e cortei) per l’approvazione di una legge che istituisca il “garante regionale per i cittadini privati della libertà” che vigili e tuteli i diritti dei detenuti e dei loro familiari. La figlia: non posso dare le medicine a mio padre Ida Giua ha il padre in carcere ed è preoccupata per la sua salute. “Soffre di ulcera - spiega -, e ha bisogno di medicine. Il più delle volte le guardie mi vietano di consegnargliele e l’assistenza che riceve all’interno non mi sembra adeguata. Ho paura che possa peggiorare”. La giovane si reca a Buoncammino ogni settimana e considera il regolamento delle visite troppo rigido. “Possiamo colloquiare al massimo due volte a settimana per non più di un’ora. Possiamo scegliere di andare il giovedì oppure il lunedì e il sabato”. La perquisizione è d’obbligo e l’elenco degli oggetti che si possono consegnare è ferreo. “Perfino il pennello da barba è vietato, idem gli occhiali da vista”. Il risultato è che i detenuti devono acquistarli allo spaccio del carcere, “dove costano il triplo”. Un esempio? “Tre euro per una latta di pomodori pelati”. Il pacco preparato dai familiari non può superare i 5 chili e c’è un limite di 20 chili al mese. “D’inverno non so come fare, perché i maglioni pesano troppo. “A volte riesco a introdurre qualche oggetto in più. Ma è tutto affidato al caso”. L’ex detenuto: anche otto persone in celle da quattro Costantino Pirisi a Buoncammino c’è già stato e presto dovrà tornarci. “Sono in attesa di una sentenza esecutiva che mi rispedirà dentro”, rivela. “Per esperienza posso dire che all’interno i problemi sono causati soprattutto dal sovraffollamento. Buoncammino ha una capienza di 300-400 persone e invece ce ne mettono 500-600. Le celle ovviamente non si allargano, per cui i detenuti si ritrovano stipati e si arrivano ad avere anche gruppi di otto persone in celle da quattro”. Senza spazio e con poca aria non si può vivere e così la tensione sale alle stelle. “I detenuti sani si ritrovano in cella insieme a malati di tutti i tipi, inclusi tossicodipendenti e schizofrenici”. Il rapporto con la polizia penitenziaria è purtroppo conflittuale. “Tutti i giorni si verificano dei problemi”. Parallelamente all’esterno si registra il pesante disagio dei familiari. “Le perquisizioni vanno fatte, niente da dire. Ciò che non va bene sono le lunghissime attese sotto il sole o la pioggia. Alla fine si entra a gruppi in una saletta piccola e sporca dove non si può bere neanche un bicchiere d’acqua e si aspetta così di essere chiamati per il colloquio”. Velletri (Lt): grave carenza di personale per un penitenziario sovraffollato Latina Oggi, 3 settembre 2010 È stato a dir poco un agosto intenso quello vissuto tra i tanti interventi con oggetto il carcere di Velletri. Inaugurato dal fatto di cronaca della coppia costretta a rubare per la fame, condannata ad un anno di reclusione nella struttura veliterna, e proseguito con le polemiche attorno alle condizioni in cui vivono i detenuti all’interno della casa circondariale. Poi, la scorsa settimana, in occasione del tentativo di fuga di due detenuti subito bloccati, ecco arrivare anche il tema della sicurezza della struttura e dell’organico degli agenti della Polizia penitenziaria ridotto ai minimi termini. Tanti argomenti, polemiche e discussioni per una struttura che raccoglie detenuti da tutta la provincia di Roma e che, evidentemente, necessita di un ampliamento delle misure di sicurezza. Di “grave carenza di personale” ha parlato il delegato del Sappe (sindacato autonomo degli agenti di Polizia penitenziaria), Sergio Notarfonso. “Da tempo infatti - ha spiegato nei giorni scorsi Notarfonso - questo carcere, come praticamente tutte le strutture di detenzione italiane, necessitano non solo di un piano per far fronte al numero eccessivo di detenuti, ma anche di politiche in grado di adeguare il numero degli agenti, ovunque inadeguato. “A Velletri - continua Notarfonso - servono subito almeno 30 unità di polizia penitenziaria per ottemperare alle gravi carenze di organico”. La carenza di uomini porta gli agenti a essere “esausti per i carichi di lavoro: si lavora a volte in condizioni difficili da definire, di certo non ideali”. Ma insieme al problema di personale dentro la Polizia c’è l’aspetto, ancor più grave, delle condizioni di detenzione. Lo hanno sottolineato, nell’ambito dell’iniziativa radicale “Ferragosto in carcere”, il consigliere regionale Irmici (Pdl) ed il deputato Pd Renzo Carella. “Il primo problema del carcere - ha dichiarato l’onorevole Carella - è sicuramente il sovraffollamento: 373 detenuti a fronte della capienza regolamentare di 128. Ciò che si evidenzia - ha precisato il deputato del Pd - è che su 373 detenuti, 123 sono tossicodipendenti, spesso molto giovani, che per le condizioni in cui si trova l’istituto di pena non possono iniziare un percorso terapeutico di recupero, vivendo quindi nella duplice situazione di grave disagio sia come detenuti che come tossicodipendenti”. Sul numero dei detenuti si era espresso in passato, chiedendo l’apertura del nuovo padiglione già realizzato di Contrada Lazzaria, anche il direttore del carcere Claudio Piccari, che ricopre questo incarico dall’estate del 2009. “Questo istituto penitenziario - aveva detto Piccari - ha delle potenzialità incredibili: abbiamo infatti in progetto l’inaugurazione del nuovo padiglione, già edificato, che porterà la capienza fino a 650 detenuti; copre un’area di 12 ettari e si trova in un punto geograficamente strategico”. Caratteristiche ottimali che però ancora devono trovare la piena realizzazione. Per questo bisognerà attendere ancora fino alla prossima primavera. Empoli: al Pozzale tornano le detenute, addio al progetto di un carcere per trans La Nazione, 3 settembre 2010 Il carcere del Pozzale ha riaperto le porte il 23 agosto scorso: a varcare la soglia della ristrutturata struttura, dopo le voce che per oltre un anno si sono rincorse sulla sua destinazione, sono state 8 donne provenienti dai tre carceri toscani con sezione femminile (Sollicciano, Pisa e Livorno). La peculiarità di carcere a detenzione attenuata per donne con problemi legati alla tossicodipendenza rimane nella storia. Oggi il carcere del Pozzale è un circondariale femminile a tutti gli effetti con detenute con condanne definitive e la direzione della struttura è affidata a Margherita Michelini, proveniente dall’esperienza precedente e artefice della riuscita di tanti progetti attivati con le detenute di allora con il supporto del Provveditorato penitenziario e il Comune di Empoli. Si riparte, piano piano, con altre caratteristiche: per il momento vi sono recluse 8 detenute, ma in futuro potranno essere ospitate fino a 30-36 persone. La prossima settimana è previsto un nuovo arrivo di detenute da altre case circondariali toscane. Un “ripopolamento” progressivo, necessario per permettere sia al Pozzale di adeguarsi con il numero di guardie sia per dare respiro agli istituti carcerari che ormai “scoppiano” per il sovraffollamento. La direttrice Michelini parla di attivare e riprendere in mano quei progetti e quelle attività che c’erano prima da offrire alle detenute. Si riprende subito con il teatro, il cui progetto sarà gestito da Giallo Mare Minimal Teatro, e per il quale esiste già il finanziamento della Regione. Le attività potranno essere svolte a rotazione dalle detenute il cui numero è superiore rispetto a quello di un anno e mezzo fa. Sfumato il progetto di un carcere per trans, che aveva diviso l’opinione pubblica, il Pozzale potrà tornare a interfacciarsi con iniziative con la città: è questo l’auspicio che giunge anche dalla stessa Luciana Cappelli, sindaco di Empoli, come da chi vive la quotidianità del carcere. Foggia: dolci per i detenuti arabi e musulmani dal Consolato del Regno del Marocco Teleradioerre, 3 settembre 2010 Ci sono gli shebbakia, dolci fritti nell’olio e avvolti nel miele, i briouat, a forma di mezzaluna e farciti con pasta di mandorle ed infine gli immancabili datteri. Un carico di bontà della tradizione gastronomica marocchina, legate alla fine del Ramadan, in arrivo dal Consolato del Regno del Marocco, con sede a Roma, per i detenuti delle Case Circondariali di Foggia e Lucera. Sono poco più di duecento i detenuti arabi e musulmani dei due penitenziari di Capitanata: per loro questo ‘dolce pensierò che servirà a mitigare la permanenza in cella, sapendo che c’è qualcuno fuori che pensa anche a loro. L’originale iniziativa è stata promossa dall’associazione marocchina “Alittihad” che opera sul territorio da diversi anni per sostenere la comunità marocchina presente in Capitanata con attività di promozione sociale, culturale e sportiva e curata dal Centro Interculturale “Baobab - Sotto la Stessa Ombra”. “Ogni anno, dal 2006, cerchiamo di organizzare un evento o una manifestazione per significare la fine del Ramadan - spiega Samira Chahbane, mediatrice del Centro Interculturale Baobab e coordinatrice dell’associazione - sempre nell’ottica dell’integrazione e dello scambio interculturale, facendo conoscere usi e tradizioni della nostra comunità. Quest’anno abbiamo pensato di unire questo evento all’attenzione verso il mondo dei detenuti stranieri, spesso poco considerati, lontani da casa, detenuti in un paese straniero”. Il Consolato del Regno del Marocco ha accolto l’iniziativa dell’associazione foggiana e ha organizzato l’invio di questi dolci tradizionali che possono conservarsi a lungo e che saranno distribuiti nei prossimi giorni. I detenuti stranieri delle carceri di Foggia e Lucera sono stati i destinatari di un progetto dal titolo “Vale la Pena”, promosso dalla Coop. Arcobaleno di Foggia e finanziato dal Ministero dell’Interno, con il patrocinio della Provincia di Foggia: “Vale la Pena” ha valorizzato la figura del mediatore culturale nelle carceri di Foggia e Lucera, presso cui sono stati attivati, nel corso dei sei mesi di attività, sportelli informativi e laboratori interculturali di animazione, con lo scopo di favorire percorsi di ascolto e di integrazione socio-lavorativa dei detenuti stranieri. Nel mese di giugno è stato presentato al Viminale a Roma, a conclusione del secondo anno di programmazione del Fondo Europeo per l’Integrazione di Cittadini di Paesi Terzi. Il progetto è terminato lo scorso 31 dicembre. Vercelli: sventato un tentativo di fuga da istituto sovraffollato Ansa, 3 settembre 2010 “Ancora una volta è solo grazie alla professionalità, alle capacità ed all’attenzione del Personale di Polizia Penitenziaria in servizio nelle carceri italiane che è stato sventato un clamoroso tentativo di evasione. A Vercelli questo pomeriggio è stata infatti impedita l’evasione di due detenuti dal cortile passeggi. Un bravo collega della Polizia Penitenziaria è stato particolarmente attento ed ha immediatamente dato l’allarme, impedendo quindi che l’evasione si verificasse. Bravissimi i colleghi di Vercelli, che lavorano costantemente in condizioni difficili, con una presenza di detenuti che si attesta quasi a 400 presenze rispetto alla capienza regolamentare di 200 posti letto ed un organico della Polizia Penitenziaria carente di 57 unità. Questo grave episodio conferma ancora una volta le gravi criticità del sistema carcere e le responsabilità di chi, come il Provveditore regionale del Piemonte, seppur più volte sollecitato da Sappe ad intervenire sui problemi di Vercelli non è - di fatto - mai intervenuto, come non ha però posto in essere adeguate misure di sicurezza anche il Direttore del carcere, più volte invitato ad sanare le criticità dell’Istituto”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, in relazione a quanto avvenuto nel carcere di Vercelli. “La situazione penitenziaria è sempre più incandescente” sottolinea il Sappe. “Lo confermano drammaticamente i gravi episodi accaduti nelle ultime ore nelle carceri italiane, le manifestazioni e le proteste di detenuti sempre più violente, le gravi e inaccettabili aggressioni ai nostri Baschi Azzurri, unici rappresentanti dello Stati impegnati 24 ore al giorno nella prima linea delle sezioni detentive delle carceri. Ma soprattutto lo evidenziano i continui tentativi di evasione e le evasioni vere e proprie. Le istituzioni e il mondo della politica non possono più restare inermi e devono agire concretamente. C’è bisogno di una nuova politica della pena. La frequenza di questi gravi episodi un po’ in tutta Italia e l’assenza di concreti provvedimenti per il sistema carcere da parte delle Istituzioni e della politica ci preoccupa. Oggi la Polizia Penitenziaria ha carenze organiche quantificate in 6mila unità: bisogna allora accelerare sulle previste assunzioni di 2mila nuovi Agenti. Ma nel frattempo, un’ottima soluzione potrebbe essere quella di impiegare i militari delle Forze Armate per i servizi di vigilanza esterna degli istituti penitenziari”. Venezia: teatro e carcere, l’esperienza del progetto teatrale “Passi Sospesi” Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2010 67a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Martedì 7 Settembre 2010, ore 17.00, Area Incontri Digital Expo (Giardini Lido). L’Associazione Culturale Balamòs sarà presente anche alla 67a Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il prossimo 7 Settembre, alle ore 17.00, presso l’Area Incontri Digital Expo (Giardini Lido). In tale occasione verrà presentato il video di Marco Valentini, “Passi Sospesi”, un documentario relativo all’ omonimo progetto teatrale che da alcuni anni Michalis Traitsis, sociologo, regista e pedagogo teatrale dell’Associazione Culturale Balamòs di Ferrara, conduce presso le Case Circondariali di Venezia. Il progetto teatrale “Passi Sospesi” è attivo dal 2006 ed è finanziato dal Comune di Venezia, U.O.C. Area Penitenziaria. La documentazione dell’ultimo video mostra una sintesi del percorso del laboratorio teatrale, illustrato da Michalis Traitsis e arricchito da alcune testimonianze dei collaboratori del progetto, Daniele Seragnoli, direttore del Centro Teatro Universitario di Ferrara, César Brie, attore e regista del Teatro De Los Andes, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, attori e registi della Compagnia Diablogues, Irene Iannucci, direttore dell’ Istituto Penitenziario e dei detenuti. Mostra infine alcuni brani dello spettacolo “Eldorado”, che è stato presentato due volte all’interno dell’Istituto Penitenziario, davanti ad un pubblico misto, composto da detenuti ed esterni: la prima volta dagli allievi del Centro Teatro Universitario e la partecipazione di due detenuti e la seconda da un gruppo misto, composto dagli allievi del Centro Teatro Universitario e di tutti gli allievi detenuti dell’Istituto Penitenziario. Questa seconda edizione di “Eldorado” è stato un lavoro particolare anche perché ha concluso il progetto. I due gruppi hanno lavorato separatamente per poi unirsi in una straordinaria occasione di incontro pedagogico, affrontando insieme attraverso uno studio teatrale il tema delle migrazioni odierne. Alla proiezione del video documentario seguirà una Tavola Rotonda dal titolo: “L’esperienza del progetto teatrale Passi Sospesi nella Casa Circondariale di Santa Maria maggiore di Venezia, con interventi di: Luigi Cuciniello (direttore organizzativo della 67° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica), Sandro Simionato (vicesindaco, assessore alle Politiche Sociali del Comune di Venezia), Irene Iannucci (direttore della Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia), Ferdinando Ciardiello (responsabile Area Pedagogica della Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia), Daniele Seragnoli (direttore del Centro Teatro Universitario di Ferrara), Giuliano Scabia (scrittore, poeta, drammaturgo), Valeria Ottolenghi (vicepresidente dell’associazione nazionale critici di teatro), Donatella Massimilla (regista e drammaturga, Centro Europeo Teatro e Carcere), Vito Minoia (direttore della rivista Teatri delle Diversità), Michalis Traitsis (sociologo, regista e pedagogo teatrale, responsabile del progetto “Passi Sospesi”). Alla Tavola Rotonda sarà presente anche un attore detenuto. L’ingresso alla proiezione del video documentario e la Tavola Rotonda è libero e aperto a tutti (non è necessario avere il pass per la Mostra del Cinema). Info: 328 81 20 452, www.balamos.it. Il giorno dopo il documentario sarà presentato all’interno della Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore di Venezia per tutta la popolazione detenuta e con la presenza straordinaria di Fatih Akin, regista tedesco di origine turca, autore del film “Soul Kitchen”, presidente quest’anno della giuria del premio “Luigi De Laurentis - opera prima”. Il video documentario sarà presente in diversi festival in Italia e all’estero e sarà presentato anche a Ferrara il prossimo 26 Novembre 2010, presso l’Aula Magna dell’Università, all’apertura del convegno che sarà dedicato al tema delle migrazioni odierne, nell’ambito delle manifestazioni del progetto “Eldorado”, che prevede alcune repliche dello spettacolo per le scuole del territorio e la cittadinanza, una rassegna video e un convegno con impostazione civile e culturale. Padova: una giornata (tra le sbarre) con Rose di Paola Bergamini www.tracce.it, 3 settembre 2010 Metà agosto. Una singolare comitiva di ugandesi entra nel carcere Due Palazzi. Vanno a trovare alcuni amici detenuti. Poche ore passate insieme. Dopo cui nulla è stato più come prima. “Hai sentito? Torna la Rose!”. “Quando?”. “Tra un mese. E viene con dei suoi amici”. Questa voce correva nei corridoi del carcere di Padova a metà luglio. E il 16 agosto i cancelli del Due Palazzi si sono aperti per far entrare Rose Busingye, responsabile nel Meeting Point di Kampala in Uganda. Esattamente un anno dopo è tornata a trovare i suoi “amici” carcerati. Questa volta con lei c’erano sei ragazzi della comunità ugandese e suor Boniconsilii Ngabirano, responsabile della scuola “Luigi Giussani” a Kampala. I carcerati l’aspettavano. Quell’incontro aveva lasciato un segno indelebile nel loro cuore. Ne avevano parlato con tutti. Nicola Boscoletto, uno dei responsabili della cooperativa Giotto, ha accompagnato il gruppetto a visitare i padiglioni delle attività, ma il suo ruolo si è fermato lì. Lo aveva detto qualche giorno prima: “Questa volta si cambia. È la vostra giornata quindi dovete occuparvene voi, cominciando a spiegare ai nostri amici cosa fate nei laboratori”. Protagonisti della propria vita. Alle 13 il pranzo con una decina di detenuti, che da un anno fanno Scuola di comunità, alcuni amici della comunità di Padova e il direttore del Due Palazzi, che da quel momento è sempre stato con loro. E subito la prima sorpresa: alla fine i ragazzi ugandesi si sono alzati e hanno intonato La montanara e altri canti degli alpini e della loro tradizione. Tutti ammutoliti e affascinati da quelle note, magari sentite tante altre volte, ma mai così vibranti di una nuova bellezza. Poi l’incontro nell’auditorium del penitenziario. E ancora al tavolo dei “relatori” tre detenuti. Giovanni, Marino e Franco hanno raccontato di sé, di un incontro, avvenuto anni prima attraverso il lavoro in carcere, con degli amici che gli avevano fatto percepire che la vita può essere bella anche dentro il peccato più orribile, dentro l’errore, perché abbracciata da Qualcosa di più grande. Per cui vale la pena vivere anche se sulla tua cartella c’è scritto “fine pena: mai”. Rose ha parlato di sé e del suo lavoro con i malati di Aids. I ragazzi delle loro esperienze tragiche: abbandonati piccolissimi, senza genitori a volte trasformati in soldati, bambini a cui era stato tolto tutto, ma che nell’incontro con Rose e con Julián Carrón sono rinati fino ad arrivare a chiedere il Battesimo. Come Bledar/Giovanni in carcere. Ad ascoltarli un centinaio di detenuti di cui una ventina invitati dai propri compagni di cella e di lavoro. E alla fine ancora i canti alpini degli amici ugandesi e le canzoni della loro terra. Gli abbracci, i saluti e poi ognuno ha ripreso la propria strada: chi verso la cella e chi verso l’Uganda. Con un appuntamento per alcuni al Meeting. Ma nulla era come prima. Come testimoniano le lettere che i carcerati hanno scritto. Ne pubblichiamo alcuni stralci. Nella mia rinascita dopo la sofferenza, che solo oggi mi fa rendere conto, mi trovo pieno di emozioni così grandi che mi fanno scoppiare il cuore. Non ho il fine pena, ma questo non mi fa sentire in prigione, ero in prigione quando credevo di essere libero. Oggi grazie al buon Dio che mi ha fatto incontrare degli amici veri, grazie al Signore che mi ha donato la rinascita, oggi posso finalmente procedere nell’anno di catecumenato con il mio catechista don Lucio. Dico queste parole perché vedo con i miei occhi la bellezza di tutti voi fratelli che mi circondate di quel bene vero che ho bisogno. Rose, i suoi ragazzi, gli amici di Padova, ma soprattutto i miei fratelli detenuti mi hanno fatto partecipe di una giornata così bella che mai potevo immaginare prima. Condividere tutte queste emozioni mi fa scoppiare il cuore di gioia, mi fa sentire l’abbraccio di Gesù, quell’abbraccio che Franco mi diceva sempre, ma che io non capivo con le parole, oggi capisco cosa mi volesse dire. Sapere che dall’altra parte del mondo c’è qualcuno che ama Gesù nello stesso modo che lo amo io mi fa stringere il cuore. La giornata del 16 agosto mi ha fatto capire che senza l’Amore di Gesù Cristo e di Dio Padre noi siamo solo delle ombre nel buio. Abbiamo passato mezza giornata assieme a Rose e ai suoi ragazzi, abbiamo parlato di noi, di loro, ma soprattutto del Signore che ci ama veramente come suoi figli. Momenti così intensi ne ho vissuti pochi. Prima perché ero piccolo, poi perché c’era il disordine civile nel mio Paese, poi perché ero diventato brutto e non vedevo più nulla che mi andasse bene. Mi rendo conto che la mia vita che credevo fosse bella era solo la vita che voleva per me il diavolo. Il Signore mi ha strappato dalle mani del diavolo, ecco perché sono ancora in vita e sono felice anche in prigione. In prigione non si può dire di stare bene, ma neppure lì fuori non potrei stare bene se non stessi bene con me stesso. Ho imparato un mestiere, ho imparato a fare le pizze, i dolci, a lavorare, mentre prima non avevo mai lavorato. Oggi posso dire che con poco si può vivere bene, il Signore mi dà sempre tutto quello che mi serve per vivere bene, se io Lo ascolto e mi faccio guidare da Lui non sbaglio più come prima, continuerò a peccare ma Lui lo sa già, ma il mio impegno sarà sempre di più per non sbagliare. Bledar Dinja Giovanni in Cristo Cari amici, la commozione e quel senso di tenerezza verso i miei compagni si è fatto presente proprio in questa giornata che era tanto attesa. Mi ero preparato una scaletta di cose da chiederle e da dire, ma non è servito niente di tutto ciò quando alla presenza degli amici e della Rose ho sentito l’abbraccio di Cristo presente. Io, Marino e Giovanni Bledar siamo stati invitati da Nicola a presentare Rose ai nostri compagni, accettando ero consapevole di mettermi in gioco, cioè: di prendere una mia posizione. Non mi avevano mai visto e sentito parlare direttamente. Osservavo i loro occhi notavo la curiosità di conoscere quello che avevano sentito da noi della Rose e i suoi ragazzi, la conferma di due anni, da quando ero tornato dal Meeting del 2008. La cosa più bella è stato proprio quando ho dovuto fare il mio intervento; mi sono trovato a tu per tu con loro che non vedevo più come dei semplici detenuti curiosi, ma come fratelli che si fidavano delle nostre parole. Mi sono sentito come un bambino di fronte alla mamma che dovevo dire cosa fosse successo per vivere cosi bene. Mi sentivo sprofondare, ma nello stesso tempo pieno di responsabilità, perché loro non si lasciano scappare nulla, ti ascoltano e vedono se c’è il trucco. Io ero come loro e sapendo che mi avrebbero ascoltato in ogni particolare che dicevo temevo di non essere in grado di esprimermi. Io mi sbagliavo nel pensare tutto ciò, perché una volta che è finito tutto e siamo saliti nel piano ed ero fermo nel pensare e chiedermi cosa avessero capito, come mi avrebbero criticato... Tutti e dico tutti mi hanno avvicinato e con un abbraccio mi hanno ringraziato, chiedendomi che quello che hanno potuto vedere ed ascoltare non sia solo un episodio casuale, che questa conoscenza si possa ripetere con più frequenza. Oggi posso dire che ho la certezza che qui ho una grande famiglia, che il bene che ricevo non era quello che io pensavo, ma molto di più. Che il bene stia vincendo è inevitabilmente evidente. Oggi credo che quel mistero che mi avvolge e mi coccola sia proprio il bene che Gesù Cristo mi vuole. Non mi cambia nulla stare qui o uscire, anzi proprio oggi discutendo con Marco un mio compagno che di problemi ne ha parecchi, ero quasi preoccupato per lui perché io esco una settimana e mi dispiace lasciarlo solo. Non sono cose che si possono spiegare, ma sono cose che mi fanno stare bene. È arrivata la svolta in questo carcere, molti chiedono di essere battezzati, chi vuole fare la comunione, chi la cresima. Tutto questo è veramente un Mistero, noi non facciamo nulla per convertirli, ma semplicemente viviamo e dimostriamo come viviamo noi. Che meraviglia tutto questo bene che sembrerà troppo visto il posto. NB: Tutto il bene è stato inserito nel nostro cuore da Dio quando siamo stati concepiti, basta spolverare i buoni modi per scoprire il manuale dell’uso. Peccato che chi crede di saperlo fare non sia un buon maestro, ma solo un povero Cristo. Franco Lavoro nel reparto di manutenzione elettrica e meccanica sin dal mio arrivo nel 2007. Lunedì scorso sono stato invitato dal sig. Boscoletto a presenziare alla riunione tenutasi nell’auditorium del carcere, per avere diretta conoscenza di alcune persone venute dall’Uganda tra cui “Mama Rose”, come la chiamano tutti e, della grande opera che questa umile donna regge nelle sue mani con coraggio coinvolgente! Da premettere che è la prima volta che partecipo direttamente ad una delle tantissime riunioni che il signor Boscoletto organizza per il bene di molte persone, che durante il loro percorso di vita come il mio, hanno sbagliato rotta e oggi si ritrovano ad affrontare “se stessi” e le conseguenze dei propri errori in stato di privazione della libertà; per essere un giorno uomini migliori e consapevoli del fragilissimo filo che lega il bene e il male in ognuno di noi e nelle nostre decisioni! Mama Rose, è venuta qui, anche per me e ci ha detto come meglio nessuno poteva farlo: “Abbiate fede in Dio! Credete in voi stessi e nell’immenso valore che c’è in ognuno di voi!”. Incredibile! Una piccola donna, che lotta ogni giorno per la sua vita, ma soprattutto per salvare la vita degli altri, è riuscita a darmi una risposta degna di ogni attenzione e considerazione ai tanti “perché” che mi sono sempre posto. Giovanni Pucci Oggi c’è stato il secondo incontro con Rose. Questa volta la sorpresa è stata doppia, perché ha portato i ragazzi di Kampala. Quei ragazzi mi hanno letteralmente lasciato senza parole. Quei volti esprimevano felicità, purezza e maturità. Ragazzi che con semplicità hanno raccontato il loro doloroso trascorso e senza rattristarci, benché fosse amaro, perché le loro parole trasudavano di una gioia particolare, unica. Trasmettevano una serenità incredibile che mi hanno fatto subito pensare: “Questi ragazzi hanno capito il vero senso della vita”. La Rose ha ribadito il concetto di “valore” che ogni persona ha dentro. E ha fatto proprio bene, soprattutto perché in un luogo di colpe come questo c’è bisogno di un tale insegnamento. Qui si rischia troppo spesso di venire schiacciati dai rimorsi e dal proprio passato. Come dice Rose: il nostro valore di uomini nuovi deve andare oltre, perché noi siamo proprio quel valore e non gli sbagli fatti. Quindi, senza dimenticare mai i nostri errori, perché fanno parte di noi, dobbiamo vivere in verità ogni momento della nostra vita. Sono convinto che questa sia la strada della felicità. Alberto Televisione: questa sera su Discovery Channel si parla di “carcere duro” Il Velino, 3 settembre 2010 Da questa sera ogni venerdì alle ore 23.00, in prima tv su Discovery Channel (Sky, canale 401 e 420 e in versione HD) entriamo nel “Carcere duro”, un luogo dove la violenza si insinua nell’apparente ordine e nella falsa disciplina. La serie in sei puntate affronta un tema di scottante rilevanza sociale e si presenta come un’ottima analisi e un buon spunto di riflessione sulle condizioni fisiche e mentali in cui vivono i detenuti. Si legge in questa nota stampa. “Carcere duro” racconta la cruda realtà dietro le sbarre: dallo Spring Creek Correctional Centre, in Alaska, tristemente noto per essere la prigione più infida, al Pendleton Correctional Facility, spietata struttura ad alta sicurezza. Dall’esterno la vita in carcere sembra basata sull’estrema disciplina, i detenuti sono sotto stretta sorveglianza e vengono accompagnati dentro e fuori le celle. Ma dietro questa routine si cela un violento mondo sotterraneo e ogni giorno i detenuti lottano per la sopravvivenza. Libri: “Gli uomini ombra”, di Carmelo Musumeci www.nuovasocieta.it, 3 settembre 2010 Si intitola “Gli uomini ombra” (Il Segno dei Gabrielli editori, settembre 2010) una raccolta di racconti, tra verità e finzione, che prendono spunto dalla vita reale dei detenuti. Ovviamente chi lo scrive è un vero detenuto, Carmelo Musumeci, siciliano, 54 anni, che, assieme ad altri circa 1400 condannati all’ “ergastolo ostativo a qualsiasi beneficio” (regolati dall’art. 4 bis della legge n. 354/75 norme dell’Ordinamento Penitenziario ndr), è costretto a vivere da più di vent’anni e ancora per tutta la sua esistenza terrestre dentro le patrie galere del nostro Paese, ristretto in circa 12 metri di cella, di solito occupata oggi da tre persone quando va bene, con un solo water, un lavabo, un tavolo di legno, tre brande di cui due a castello, una sola finestra e senza frigorifero né aria condizionata in estate, mentre in inverno l’acqua è fredda. È lo stesso Musumeci a dire di essere stato testimone o protagonista, a crudi racconti di rapine finite nel sangue o altri delitti commessi. Suggestivi e fortemente coinvolgenti sono i riferimenti che di tanto in tanto compaiono, per esempio, ai sentimenti di odio verso l’aguzzino comandante delle guardie carcerarie che organizza spedizioni punitive fatte di botte e violenza che ricordano anche nei nomi le violenze dei lager nazisti, oppure quei sentimenti di amore e quella dolcezza verso una donna amata che quasi si trasfigura in un dolce angelo: il racconto “L’ultima rapina”, ad esempio, comincia con una bella e tenera descrizione poetica della donna che dorme accanto a lui (“La guardai con occhi felici/ Lei dormiva/ Le sentivo battere il cuore/ Le baciai gli occhi chiusi/ Avevamo fatto l’amore/ Sorrideva mentre dormiva/ Sembrava un angelo”. Nel racconto “Gli uomini ombra” che da il titolo al libro il carcere sorge sull’Isola del diavolo “perché - spiega Musumeci - quel posto ricorda l’inferno e lì dentro c’erano i prigionieri più dannati di tutti” ; in quella stessa isola così triste e così priva di speranza ci dice sempre Musumeci viveva da sempre uno strano personaggio: l’Assassino dei sogni che, ci spiega l’autore, “cercava di organizzare la vita delle sue vittime in modo da proibire loro di sognare. Da lassù mangiava l’anima, il cuore e l’amore dei prigionieri”. Una drammatica analogia del versetto dantesco “lasciate ogni speranza o voi che entrate”. In questa specie di inferno certamente non ci finirà mai Angelo Balducci, considerato il re della cosiddetta “cricca” Anemone-Balducci & Co., quelli per intenderci che facevano affari con il terremoto e con gli appalti delle “carceri d’oro”. Quest’altro uomo è stato messo (poverino!) agli arresti domiciliari dal 12 luglio 2010 nella sua mega villa in Toscana con tanto di piscina, di cui un numero estivo del settimanale L’Espresso lo immortalava in costume da bagno con sovraimpresso il titolo significativo: il detenuto. Libri: “Il carcere discarica e il tramonto del servizio sociale della giustizia”, di Giuseppe Certoma di Rosalba Capomacchia Liberazione, 3 settembre 2010 Giuseppe Certoma è ricercatore ed ha particolarmente dedicato i suoi studi alla questione penitenziaria, ai servizi sociali della giustizia, pubblicando con la Casa editrice “Sensibili alle foglie” diversi volumi sul lavoro sociale. Con alcuni efficaci tratti, in questo suo ultimo libro “Il carcere discarica e il tramonto del servizio sociale della giustizia” (Sensibili alle foglie, pp. 88, euro 13), viene presentata una realtà carceraria che crea e aumenta soltanto dolore e crudeltà, che usa il sistema di pena e detenzione per imporre gli attuali assetti di potere, controllando la società. Per rispondere alla crisi di controllo e dominio sociale globale, si giunge alla militarizzazione del territorio. Ma anche in questa grave condizione, così buia e cupa, dalle pagine del libro risplende invece la luce dell’utopia, il ricordo di Tommaso Campanella, preso a simbolo della mai esausta aspirazione dell’uomo per la libertà. Molta attenzione è rivolta alla figura dell’assistente sociale, alla sua etica e tensione solidaristica, alle sue crisi, al non riuscito, spesso, rinnovamento della vita dei detenuti. Il contrasto è fra due concezioni della figura dell’assistente sociale, il ruolo creativo che genera nuova vita e ricollocazione sociale, ed il ruolo procedurale, burocratizzato, puramente repressivo. Dolorosamente colpisce l’evoluzione dei centri di servizio sociale, da momento positivo di libertà ed integrazione, al perdersi nel terrore della situazione carceraria, allo svolgere una funzione gerarchica, autoritaria, unicamente tecnico-burocratica. La sofferenza e il tormento attraversato da tale figura e dal suo ruolo si comprende, a mio avviso, considerando la grande tensione e lo sforzo, sostenuto dagli assistenti sociali, di intervenire ed incidere sulla realtà, di acquisire un valore ed una importanza risolutiva riguardo alle dure e difficili problematiche penitenziarie. I Centri degli assistenti sociali si riproponevano di sviluppare una nuova socialità, basata sulla libertà, autonomia, autodeterminazione, partecipazione, su una fondamentale consapevolezza e coscienza, riguardante le relazioni sociali, i principi ultimi, le più importanti questioni poste dallo Stato e dalla società, su un diverso senso e significato delle concezioni politiche, sull’impulso verso un’alternativa positiva, verso un mondo nuovo. È chiaro come, secondo l’analisi proposta, la questione carceraria venga direttamente collegata e connessa alle condizioni ed al sistema sociale di potere, e riconosca e scorga effettive e reali risoluzioni principalmente nel cambiamento generale e sistemico. Ma, invece, si assiste ad una complessiva caduta di questa tensione ideale, ad una perdita degli elementi e riferimenti valoriali, si ripropone una condizione di marginalità ed esclusione per quanto riguarda la popolazione carceraria, la categoria di “nemico” riprende forza; la post modernità, infine, considera e valuta la necessità del carcere, come esigenza e richiesta di controllo e custodia sociale, di polizia sociale, di monitoraggio e compressione del rischio, di difesa della sicurezza del sistema di dominio, senza possedere o trovare alcuno scopo o finalità di nuovo progetto, senza una speranza di cambiamento. Ancora, il libro propone un’aspra denuncia dei Cpt - Centri di Permanenza Temporanea, dove un dominio totalitario instaura lo “stato d’eccezione”, con la sospensione di ogni ordine giuridico; cosicché nei campi “tutto è possibile... tutto è permesso”, come dice l’autore. Lo “stato d’eccezione” esclude i diritti della “nuda vita” dei non-cittadini, afferma l’autore, richiamandosi alle analisi e alle teorie di Foucault sulla biopolitica. Invece di offrire e di stabilire modelli di libertà e democrazia, di eguaglianza, solidarietà, diritti, partecipazione la politica si trasforma in biopolitica, il potere esercitato sulla vita. Il biopotere è concepito come “tecnologia del corpo”. Perché il potere è anche funzione di tecnologie che, a partire da qui, “investiranno il corpo, la salute, le modalità di nutrirsi e di abitare, le condizioni di vita, l’intero spazio dell’esistenza”. Droghe: un milione di consumatori in meno? Giovanardi dà i numeri… L’Espresso, 3 settembre 2010 All’inizio dell’estate il sottosegretario Carlo Giovanardi, padre della discussa riforma che ha equiparato cocaina e cannabis, ha annunciato alla nazione un risultato storico: tra il 2008 e il 2009 i consumatori italiani di stupefacenti sarebbero crollati del 25 per cento, scendendo da 3,9 a 2,9 milioni. Un primato planetario: un milione in meno in appena un anno. Primo problema: quella del governo è solo una “stima”, che si basa su confessioni volontarie. Per 15 anni le aveva raccolte il Cnr di Pisa, con moduli cartacei chiusi per garantire l’anonimatc Nel 2009 Giovanardi ha cambiato ricercatori e il suo staff ha usato l’informatica “per velocizzare i dati”, per cui i giovani hanno dovuto autodenunciarsi, questa volta, attraverso i computer delle scuole. Morale: gli esperti continuano ad aspettare i dati del Cnr, nella convinzione che il governo abbia fatto calare solo le confessioni, non i consumi. Anche perché, stando alle tabelle ufficiali, si sarebbero ridotti di oltre il 30 per cento perfino gli italiani che hanno usato coca o cannabis “almeno una volta nella vita”. Ma in soli 12 mesi che fine hanno fatto? Tutti morti? Mondo: Daniele Franceschi e gli altri tremila “prigionieri del silenzio” di Susanna Marietti Terra, 3 settembre 2010 È dovuto morire Daniele Franceschi in circostanze non chiare nel carcere francese di Grasse per far ricordare le circa tremila persone prigioniere del silenzio sparse per il mondo. Erano 2.905 gli italiani detenuti all’estero al momento dell’ultima rilevazione effettuata dal Ministero degli Esteri alla fine dello scorso anno. “Prigionieri del silenzio” è l’eloquente nome dell’associazione che disperatamente cerca di portare all’attenzione delle disattente autorità italiane le loro storie. Più del 35 per cento di esse ci parla di persone non ancora condannate, in attesa di estradizione o di giudizio. Oltre l’80 per cento degli italiani detenuti all’estero si trova in carceri europee, prime tra tutte quelle tedesche che ne ospitano ben 1.079. Seguono le prigioni spagnole (458), quelle francesi (231), belghe (202), del Regno Unito (192) e della Svizzera (131). Negli Stati Uniti troviamo 91 connazionali detenuti, in Venezuela 66, in Perù 58, in Brasile 54, in Colombia 30. Sono30 anche quelli presenti nelle carceri australiane. Tra Asia e Oceania ne troviamo 55. Fortunatamente non rientrano più nel conteggio Angelo Falcone e Simone Nobili, i due ragazzi rimessi in libertà nel maggio scorso dopo tre anni di detenzione in India con una condanna, poi ribaltata in appello, per detenzione di droga. Ai ragazzi, che hanno sempre negato ogni implicazione, non è stato fornito un traduttore né consentito di chiamare l’Ambasciata italiana. Il padre di Angelo, Giovanni, non si è mai dato per vinto e, dopo aver visto il figlio mangiare riso e lenticchie per mesi e mesi, ha scosso ogni autorità competente affinché si facesse carico del caso. Ma non tutti sono fortunati al pari di Angelo e Simone, come la vicenda di Franceschi dimostra. E come dimostrano altre storie di cui il nostro difensore civico si è occupato. Quale quella di Simone Renda, il giovane di 34 anni arrestato durante una vacanza messicana e morto tre giorni dopo per un infarto. In tre giorni non aveva visto né avvocati né quei medici che avrebbero potuto salvargli la vita. O quale quella raccontata dai due anziani genitori di Stefano Furlan, che tempo fa si rivolsero a noi. Loro figlio era stato arrestato a Quito, in Ecuador, per trasporto di sostanze stupefacenti. Per affrontare storie come queste il difensore civico sta stipulando accordi con vari Paesi, tra cui proprio l’Ecuador. I due coniugi, operai senza troppi mezzi economici, chiedono notizie ai carabinieri e poi all’Ambasciata. Qui viene loro consegnata una lista di avvocati, per i quali però l’Ambasciata avrebbe precisato di non offrire alcuna garanzia. Si rivolgono a un avvocato della lista che sembra non si sia comportato nel migliore dei modi. Nel frattempo Stefano comincia a pregarli di inviargli continuamente soldi per far fronte alla vita interna, basata interamente sulla corruzione. Dal cibo alle coperte, tutto è a pagamento. I due anziani ricevono via telefonino alcune immagini del congiunto, magrissimo e pieno di escoriazioni. Il figlio telefona loro, implora di continuare a mandare denaro, dice che solo sotto compenso le guardie sono disposte a limitare le loro torture fatte di percosse e scariche elettriche. La coppia è disperata, invia migliaia e migliaia di euro che si procura indebitandosi. Torna dai carabinieri a raccontare l’accaduto. Questi si rivolgono ai funzionari dell’Ambasciata, che si recano in carcere a parlare con l’uomo. Nel colloquio alla presenza delle guardie, egli è costretto a negare ogni cosa. Nonostante ciò, una volta andati via i funzionari e intuendo la provenienza del racconto, le guardie lo isolano e lo torturano. Mentre in Italia continua il silenzio che rende lui e gli altri due volte, mille volte prigionieri. Iran: Ong Human Rights; 70 esecuzioni nel 2009 e altre centinaia in arrivo Adnkronos, 3 settembre 2010 “Abbiamo notizie di decine, forse centinaia di esecuzioni e crediamo che altre centinaia di detenuti siano in pericolo di vita”. Sono queste le parole, riportate dal quotidiano “La Repubblica”, di Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce di Iran Human Rights. L’Ong ha pubblicato un rapporto choc sulle esecuzioni nel carcere di Vakilabad, a Mashhad, nel nord-est del Paese. Qui, secondo le ricostruzioni, nel 2009 sono state impiccate fra le 50 e le 70 persone. Iran Human Rights parla anche di una lettera “segreta” con cui il capo della magistratura, Sadegh Larijani, ha chiesto all’ayatollah Khamenei il via libera per giustiziare 1120 detenuti, la cui condanna a morte è già stata approvata dalla corte suprema. “La storia della signora Asthiani - ha detto in un’intervista pubblicata oggi su “Repubblica” Mohammad Mostafei, avvocato di Sakineh, la donna iraniana condannata alla lapidazione per adulterio e complicità nell’omicidio del marito - è diventata un caso diverso dagli altri solo grazie all’attenzione internazionale che si è creata. Soltanto per questo le autorità iraniane non hanno ancora preso una decisione finale su di lei”. Cina: giornalista arrestato per aver scritto un libro, rimane detenuto 12 giorni Ansa, 3 settembre 2010 Un’ex giornalista si è fatto 12 giorni di carcere in Cina, nella provincia dello Shaanxi, per un libro sulle migrazioni forzate. Il libro di Xie Zhaoping “Large Migration” (la grande Migrazione) racconta i problemi della popolazione costretta a lasciare le proprie case in occasione della costruzione della diga Sanmen Gorge negli anni 50. Lo riferisce il South Cina Morning Post. Xie è stato prelevato dal suo appartamento nella zona occidentale di Pechino lo scorso 19 agosto.