Giustizia: un sistema al collasso, ma dal governo arrivano solo promesse e annunci Asca, 2 settembre 2010 “La Giustizia è al collasso, ma dal governo arrivano solo montagne di promesse e di annunci. La verità è che non esiste alcuna prospettiva di riforma, ad eccezione delle norme salva-Berlusconi. Il ministro della Giustizia è il ministro del nulla”. Lo afferma il senatore Luigi Li Gotti, capogruppo dell’Italia dei Valori in commissione Giustizia, che poi aggiunge: “Nell’ultimo decennio il centrodestra ha governato il Paese per otto anni circa, un tempo notevole e sufficiente per avviare riforme strutturali e anche per vederne i risultati. Questo stesso tempo ha ovviamente riguardato anche la Giustizia: quali i risultati? Il procuratore della Repubblica di Bari ha annunciato che non si faranno più indagini per furti e rapine per carenza di personale. La drammatica situazione interessa moltissimi altri uffici giudiziari: mancano mezzi, magistrati e personale amministrativo”. “Ma arriva una buona notizia - continua con ironia Li Gotti -: il ministero della Giustizia annuncia l’avvio di un sondaggio per sapere cosa pensano gli italiani delle carceri e del sistema carcerario! E c’è bisogno di un sondaggio? Sembra una barzelletta ma non lo è. Le carceri scoppiano e il Ministero fa il sondaggio d’opinione! Hanno perso la tramontana o sono sciroccati? Il dubbio è solo sul vento”. Giustizia: se Berlusconi fosse in carcere capirebbe le esigenze di detenuti e agenti Adnkronos, 2 settembre 2010 “Il problema dei 39.800 poliziotti penitenziari e le condizioni che stanno vivendo i 69.000 reclusi non importano a nessuno, tantomeno al premier: e il fatto che Berlusconi non sia detenuto porta a pensare che l’emergenza penitenziaria non sarà di veloce e facile soluzione”. È quanto afferma, in una nota, il segretario generale dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, Leo Beneduci che torna a riproporre l’urgenza di disegni di legge di riforma del sistema penitenziario, dell’amministrazione e della polizia penitenziaria. “Questa politica ci delude ogni giorno sempre di più - lamenta Beneduci - anche perché il restare inoperosi, confidando in un piano carceri da 9.000 posti, se va bene tra un anno e mezzo, e nella detenzione domiciliare se il Parlamento la approverà per pene residue inferiori ai 12 mesi, significa solo differire e quindi peggiorare l’ineludibile tracollo del sistema penitenziario italiano”. Annuncia l’Osapp: “In concomitanza con la ripresa delle sedute del Parlamento, cercheremo appoggio, solidarietà e la giusta sensibilità politica per la presentazione dei disegni di legge oramai essenziali per le riforme del lavoro penitenziario, dell’amministrazione e della polizia penitenziaria”. Giustizia: dalla cella al convento; il “serial killer” Stevanin vuol farsi francescano L’Arena di Verona, 2 settembre 2010 Compirà 50 anni il prossimo 2 ottobre. È da tempo seguito da un padre spirituale. Il responsabile dell’Ordine: “Non lo ostacoleremo”. L’annuncio dal carcere di Opera dove è detenuto da 15 anni Sta scontando l’ergastolo per l’omicidio di sei donne. Gianfranco Stevanin, il killer seriale di Terrazzo ha annunciato che si vuole fare frate. Per l’agricoltore quasi cinquantenne, da 15 anni in carcere con un ergastolo da scontare per l’omicidio di sei donne, in alcuni casi fatte a pezzi, non si può certo parlare di conversione. Mamma Noemi Miola, deceduta sette mesi fa, l’aveva cresciuto timorato di Dio quel figlio, gli aveva fatto frequentare l’istituto don Bosco, gli aveva fatto fare il chierichetto e lui negli anni aveva sempre rivolto preghiere al cielo. Nella sua casa in via Torrano, la villetta color carta da zucchero ora rossa, diventata tristemente famosa negli anni Novanta, e che qualche anno fa era stata venduta, aveva sempre avuto un capitello con una madonnina. Insomma la fede a casa di Stevanin era sempre stata un pilastro portante, soprattutto nell’educazione dell’uomo divenuto poi il “mostro” di Terrazzo. E come aveva fatto quando Gianfranco era bambino, anche quando l’uomo Gianfranco, condannato all’ergastolo, capace di intendere e di volere quando soffocava le donne durante amplessi stringendo loro il collo per poi sorprendersi sentendole accasciarsi come sacchi vuoti e ne nascondeva i corpi interi o a pezzi dopo averli squartati in un mattatoio improvvisato, lei ancora una volta, l’aveva affidato alle mani pietose dei fratelli del Terzo ordine regolare di San Francesco. Tra dieci, o quindici anni dalla cella del carcere Stevanin potrebbe passare in quella di un convento francescano. Oggi Stevanin è in carcere a Opera dove è descritto come un omone. Alto più della media lo è sempre stato, adesso è anche grosso, con i lunghi capelli. Un fratone, verrebbe da pensare alla notizia della sua nuova vocazione. Rinchiuso da 16 anni, Stevanin, che compirà 50 anni il 2 ottobre, è da tempo seguito da un padre spirituale che dovrebbe verificare l’autenticità della vocazione che potrebbe portarlo nel Terzo Ordine Regolare di San Francesco. “Un sentimento che, non viene certo ostacolato dall’ordine di Assisi perché”, spiega padre Clemente Moriggi, responsabile della Fondazione Fratelli di San Francesco, “come per l’assassino di Santa Maria Goretti anche Gianfranco è un essere creato da Dio che adesso Dio intende ritrovare”. “Il convento non è organizzato per ricevere i folli”, precisa il padre spirituale di Stevanin, “e la Cassazione ha stabilito che lui non lo è. Il diritto canonico non preclude la possibilità”. Ma Stevanin, oggi come allora continua a ripetere che degli omicidi commessi non ricorda nulla, quindi giusto per questo non ha nulla da perdonarsi o per cui chiedere perdono. È sempre stato ondivago in questo Stevanin. Processualmente ha cambiato atteggiamento, alternando momenti in cui si ricordava perfettamente come aveva ammazzato, come aveva depezzato. Le sue descrizioni erano impeccabili, non sembrava di ascoltare un uomo imputato di crimini orrendi, ma un medico legale che traccia un asettico racconto di quello che ha veduto durante un’autopsia. Così Stevanin raccontava di quelle mutilazioni con la sega elettrica, raccontava perfino di quando s’era dovuto fermare perché dal cadavere della sua vittima uscivano “vermi verdognoli” e lui aveva dovuto vomitare. Ma dopo quasi 16 anni di carcere, ancora oggi Stevanin, ritenuto sano di mente per quanto la sua mente sprofondata in un abisso di orrore continua a insistere di non ricordare. “Religioso Gianfranco lo è sempre stato”, dice Cesare Dal Maso, uno dei legali vicentini che lo seguirono nei vari gradi di giudizio, “è veramente un credente, ma la vera svolta è arrivata circa sette mesi fa con la morte della madre a cui era stato sempre legato. Era stata lei a educarlo alla preghiera anche se è difficile da capire per una persona condannata per crimini feroci”. Dal Maso è convinto che la vocazione del suo assistito “sia vera e sentita aiutato in questo anche dalla stretta vicinanza con i frati del carcere”. E probabilmente Stevanin è altrettanto convinto della vocazione, così come lo era quando cercava di convincere tutti d’essere innocente. Costellando le sue deposizioni, un’udienza dopo l’altra di non so e non ricordo. ma era molto tempo fa. Nel frattempo ha salvato detenuti dal suicidio quando era in carcere a Sulmona, è stato aggredito e non ha reagito perché “non è francescano”. Chissà quante sorprese ha in serbo ancora. Lazio: il Garante; tagliato 30% dei fondi per funzionamento e manutenzione carceri Ansa, 2 settembre 2010 Nel Lazio, nel corso di quest’anno, sarà tagliato il 30% dei fondi destinati al funzionamento e alla manutenzione delle 14 carceri della regione. La denuncia, come si legge in una nota, è del garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, che ha invitato il capo del Dap, Franco Ionta, e quello del Prap, Angelo Zaccagnino, “ad intervenire per evitare ulteriori aggravamenti non solo della condizione di vita dei detenuti ma anche della qualità del lavoro di tutte le componenti che operano nelle carceri”. Nel dettaglio, spiega il comunicato, secondo le informazioni del Garante, nel 2010 vengono tagliate del 25% le spese di mantenimento del carcere, vale a dire un quarto del budget destinato ai detenuti lavoranti (la cosiddetta mercede). “Ciò significa - ha detto Marroni - che saranno ridotte le ore destinate alle pulizie e alla manutenzione degli istituti già fatiscenti. Inoltre, saranno sacrificate le ore dei detenuti spesini e scrivani, degli addetti alla cucina e alle biblioteche e ai piantoni nelle infermerie”. Il dato generale del Prap del Lazio, continua la nota, vede per quest’anno una riduzione complessiva dei trasferimenti del 30% che segue il dato già negativo del 2009. Il tutto a fronte di una crescita annua del 6,7% dei detenuti in Italia. Un dato, questo, che quasi si raddoppia nel Lazio, con un incremento della popolazione detenuta dell’11,5% annuo (650 unità) e un aumento considerevole del fabbisogno finanziario, che creerà uno sbilanciamento di circa 1.500.000 di euro stimato a fine anno. A Rebibbia N.C. il fabbisogno finanziario è cresciuto del 14%, a Rebibbia. Reclusione del 4%, a Frosinone del 10%, a Rieti del 73%, a Paliano dell’8%. “Per rientrare nei budget - è l’allarme lanciato dal garante - gli istituti saranno costretti a ridurre tutte le attività trattamentali e quelle scolastiche e formative, il sostegno psicologico, la mediazione culturale e i progetti”. Lazio: Rauti (Pdl); presto attiveremo un Icam per le detenute madri Dire, 2 settembre 2010 Isabella Rauti, membro dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio, ha effettuato oggi una visita conoscitiva presso l’Istituto di custodia attenuata per madri detenute di Milano. “Ho incontrato le detenute con i loro bambini, la dirigenza ed il personale di Polizia Penitenziaria ed ho visionato l’organizzazione dell’Icam di Milano - spiega Rauti. Insieme all’assessorato alle Politiche per la Sicurezza della Regione Lazio, si intende realizzare un istituto simile anche nel territorio della Regione Lazio, presumibilmente a Roma, dove attualmente si registra, nel carcere femminile di Rebibbia, il più alto numero di detenute madri d’Italia”. “L’Icam di Milano, frutto di un protocollo d’Intesa fra gli enti Locali Regione, Provincia e Comune ed il Dipartimento di Polizia Penitenziaria, continua a rappresentare dopo tre anni di attività una esperienza all’avanguardia ed un modello esportabile e replicabile - continua Rauti - La struttura è concepita secondo il modello della casa famiglia e punta sulle attività tratta mentali, rieducative e di salvaguardia del diritto fondamentale all’infanzia dei figli delle detenute. Attualmente nell’Icam sono presenti cinque detenute e cinque bambini a fronte di una capienza di dodici detenute e dodici bambini; in tre anni tuttavia sono state ospiti dell’Icam un centinaio di madri anche per effetto del turn-over delle detenute in attesa di giudizio”. Secondo Rauti “la realizzazione dell’Icam ha consentito la chiusura dell’asilo-nido presente nel carcere di San Vittore ed il trasferimento delle detenute nella struttura di custodia attenuata. Le madri usufruiscono di attività formative ed avviamento professionale, ed i bambini dei servizi scolastici (asili nido) e ricreativi presenti sul territorio, presso i quali vengono accompagnati da operatori e volontari”. La visita conoscitiva di Isabella Rauti e le riprese effettuate saranno oggetto di una specifica puntata di Uno Mattina che andrà in onda sul primo canale della Rai giovedì 9 settembre alle ore 9.35. Napoli: Antigone; detenuto di 32 anni muore nel carcere di Poggioreale Ansa, 2 settembre 2010 Un detenuto di 32 anni è deceduto il 24 agosto scorso nel carcere di Poggioreale. La notizia, resa nota solo in queste ore, è stata diffusa dall’Associazione Antigone Campania. “A quanto ci risulta - ha dichiarato Dario Stefano Dell’Aquila, portavoce dell’associazione che di occupa della tutela dei diritti nel sistema penale - L. S. (queste le iniziali), napoletano, classe 1978, è deceduto per cause da accertare. L’uomo, accusato di reati legati alla detenzione di stupefacenti, era detenuto nel reparto Roma”. Secondo i dati dell’Osservatorio sulla condizione della detenzione di Antigone nel carcere di Poggioreale sono, attualmente, presenti 2.602 detenuti a fronte di una capienza di 1.658 posti. In tutta la regione sono presenti 7.613 detenuti su una capienza di 5.506 posti. “Secondo i nostri dati - ha proseguito il portavoce dell’associazione - questa è l’ottavo decesso (tre i suicidi) che avviene nelle carceri campane nel 2010, il secondo nel carcere di Poggioreale. Complessivamente negli ultimi 18 mesi, in Campania, abbiamo registrato 24 morti (di cui 13 suicidi). Un bilancio triste che ribadisce la gravità dello stato di emergenza che si vive nelle carceri italiane”. “Sembra - ha concluso Dell’Aquila - che ad un primo esame, la morte sia stata come arresto cardiocircolatorio. Una diagnosi insufficiente a fare luce su quanto accaduto. Noi ribadiamo, come facciamo sempre, l’esigenza di esami approfonditi, perché temiamo che troppo spesso le morti in carcere siano archiviate in fretta, senza il dovuto rispetto dovuto alla vita umana. Inoltre, solo indagini approfondite consentono di evitare o, almeno, prevenire simili episodi. Così come ribadiamo l’urgenza di provvedimenti legislativi che ridiano dignità al sistema penitenziario italiano e impediscano che la detenzione si trasformi in un trattamento inumano e degradante”. Bologna: l’autopsia conferma; un collasso cardiaco ha ucciso il detenuto di 44 anni Dire, 2 settembre 2010 È morto per un collasso cardiaco il detenuto di 44 anni deceduto lunedì sera all’interno del carcere della Dozza di Bologna dopo essersi sentito male. La conferma definitiva è arrivata dall’autopsia, effettuata ieri dal medico legale su disposizione del pm Alessandra Serra. In particolare, l’esame medico ha evidenziato che a uccidere Pietro Folgieri, in carcere per associazione di stampo camorristico, è stato un collasso cardiocircolatorio avvenuto in una severa coronaropatia. L’uomo si era sentito male poco prima dell’ora di cena ed era stato accompagnato in infermeria: lì è stato visitato da alcuni infermieri, che gli hanno misurato la pressione senza riscontrare nulla di anomalo. Il medico, stando a quanto riferito dalla direttrice del carcere Ione Toccafondi, in quel momento non si trovava all’interno dell’infermeria, ma al piano di sotto. Il 44enne, pochi istanti dopo la visita, mentre faceva ritorno in cella si è accasciato al suolo ed è morto sul colpo: a nulla è valso l’intervento del medico e quello dei sanitari del 118, sopraggiunti sul posto. Sempre stando a quanto riferito da Toccafondi, Folgieri non era malato di cuore, ma soffriva di ipertensione. Della vicenda si occupa il pm Serra, che ha aperto un fascicolo contro ignoti. L’uomo, abbastanza magro, soffriva di ipertensione e lunedì sera aveva avvertito un dolore al braccio per cui aveva chiesto di essere visitato. Dopo un primo controllo degli infermieri (che non avevano riscontrato anomalie), è intervenuto il medico che ha tentato di rianimarlo e subito dopo è arrivata pure un’ambulanza del 118. Al momento non sono previste ispezioni interne alla Dozza anche perché per prassi, in casi simili, spesso un primo controllo ai detenuti viene fatto in infermeria, successivamente da un medico. Informato della morte da un fratello di Folgieri, l’avvocato Michele Ferraro del foro di Santa Maria Capua Vetere ha detto di averlo visto l’ultima volta pochi mesi fa durante il processo a Napoli e “stava benissimo”. E ha aggiunto: “Stavo preparando l’appello quando ho saputo della morte. Sono rimasto esterrefatto”. Empoli: dopo sei mesi di chiusura riapre il carcere di Pozzale, ospiterà 30 donne Ansa, 2 settembre 2010 Dopo sei mesi di inattività, l’istituto empolese torna nuovamente operativo. Il provveditore Giuffrida: “I ritardi sono stati causati dalla carenza di agenti donne”. È stato riaperto il carcere Pozzale di Empoli, chiuso dal 4 marzo scorso. Inizialmente doveva essere destinato ai transessuali, poi l’amministrazione penitenziaria ha preferito ospitare detenute donne. L’istituto, nuovamente attivo dalla scorsa settimana, ospita attualmente dieci donne. Pian piano si riempirà, fino ad arrivare ad un massimo di circa 30 persone, suddivise in 19 celle. A dare l’annuncio della riapertura è stata Maria Pia Giuffrida, provveditore toscano dell’amministrazione penitenziaria. “Finalmente siamo riusciti a rendere operativo questo istituto - ha detto Giuffrida. I continui ritardi nell’apertura sono stati dovuti, principalmente, alla mancanza di agenti penitenziari donne. Alcune di loro sono già presenti, altre arriveranno nei prossimi giorni, quando il carcere comincerà a riempirsi di detenute. In questa vicenda - ha aggiunto - ha giocato un ruolo fondamentale la professionalità e la collaborazione delle istituzioni locali, in primis l’amministrazione comunale e la Asl”. L’apertura del Pozzale permetterà un leggero alleggerimento delle presenze femminili alla Casa circondariale di Pisa e al carcere Sollicciano di Firenze. La lunga inattività dell’istituto è stata oggetto di dure critiche da parte del garante dei detenuti del comune di Firenze, Franco Corleone, protagonista di due scioperi della fame per denunciare il “silenzio istituzionale” sulla vicenda. Teramo: due medici indagati per la morte in carcere di Uzoma Emeka Il Centro, 2 settembre 2010 Due medici del carcere indagati per la morte di Uzoma Emeka, il detenuto nigeriano testimone del presunto pestaggio di un altro recluso da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Il pm titolare del caso Roberta D’Avolio li ha iscritti nel registro degli indagati con l’ipotesi di reato di omicidio colposo e ha fissato tra qualche settimana un incidente probatorio: sarà nominato un consulente medico-legale che dovrà accertare il nesso di causalità tra la mancata diagnosi e la morte. Emeka, il 18 dicembre scorso, fu stroncato nel carcere di Castrogno, dove era rinchiuso dal giugno 2009 per fatti di droga, da un malore che poi l’autopsia avrebbe rivelato causato da un tumore al cervello. Un tumore mai diagnosticato. Per questo la procura ha aperto un’inchiesta: per fare chiarezza sulle mancate cure dovute alla mancata diagnosi. Il pm D’Avolio ha iscritto nel registro degli indagati un medico della Asl che a turno è di servizio in carcere e un altro medico, uno specialista che ha operato come consulente. L’autopsia h accertato che Uzoma tempo prima aveva avuto un infarto, anch’esso mai scoperto. E, dopo il sequestro della cartella clinica, gli investigatori hanno scoperto che una settimana prima della morte il nigeriano era stato visitato in carcere da un medico chiamato da quello di guardia. Una visita al termine della quale non sarebbe stato diagnosticato nulla. Nel frattempo il caso del presunto pestaggio al quale avrebbe assistito Emeka ha portato al rinvio a giudizio solo del presunto pestato, un detenuto di Chieti, e alla richiesta di archivazione per gli agenti coinvolti e l’ex comandante della polizia penitenziaria. Il caso esplose dopo che qualcuno inviò ai giornali locali un cd audio nel quale l’ex comandante delle guardie diceva: “Il detenuto si massacra da un’altra parte, non in sezione. Il nero ha visto tutto”. Cagliari: Associazione 5 novembre; il carcere di Buoncammino è come un lager Agi, 2 settembre 2010 Istituire la figura del “Garante dei diritti dei detenuti”, applicare la legge Gozzini sulle misure alternative alla carcerazione e attuare le norme varate nel 2005 dall’allora ministro Rosy Bindi sul trattamento sanitario dei reclusi al di fuori delle strutture penitenziarie: sono le principali richieste avanzate dall’associazione 5 Novembre, nata cinque anni fa a Cagliari con l’obiettivo di sensibilizzare cittadini e istituzioni sul miglioramento delle condizioni di vita nei penitenziari e fornire assistenza ai carcerati. “I sieropositivi e i tossicodipendenti”, ha affermato stamane a Cagliari, durante una conferenza stampa, il presidente dell’associazione, Roberto Loddo, “devono essere scarcerati e trasferiti in apposite strutture assistenziali, così come i malati psichici. In certe carceri, come quella cagliaritana di Buoncammino, la situazione è insostenibile. Si parla in sostanza di una sorta lager per tossici e malati psichici”. L’associazione 5 Novembre non chiede “amnistie generalizzate”, ma una puntuale applicazione delle norme, ora disattesa. “Chi ha sbagliato deve pagare”, ha affermato la familiare di un detenuto, che ha preferito l’anonimato, “ma nel contempo occorre garantire i livelli di assistenza a chi ne ha bisogno. A Buoncammino sono ristretti anche malati terminali, ai quali non sono garantite le cure del caso, così come prevede la legge e i familiari non possono nemmeno fornire i medicinali necessari. Questo è intollerabile: occorre trovare al più presto una soluzione”. Nelle prossime settimane i responsabili dell’associazione contatteranno i vertici dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna per discutere le possibili soluzioni al problema-carceri, a partire dall’applicazione della legge Gozzini e della riforma della sanità penitenziaria. Caltanissetta: polizia penitenziaria polemica dopo visita parlamentare in carcere La Sicilia, 2 settembre 2010 Replica del vicesegretario regionale del Cnpp, Giuseppe Scarlata, all’intervento del responsabile della Cgil, Rosario Prima, sulla situazione delle carceri di Caltanissetta e San Cataldo, dopo la visita effettuata nei giorni scorsi dal deputato nazionale Alessandro Pagano. “Ritengo necessario chiarire qualche aspetto - dice Giuseppe Scarlata - e premetto che l’amico Di Prima non è nuovo a questo tipo di affermazioni volte a denigrare l’impegno dell’on. Alessandro Pagano sulle problematiche penitenziarie, giacché anche in occasione della recente visita all’istituto nisseno del ministro on. Angelino Alfano, visita peraltro fortemente voluta dall’on. Pagano, questi ebbe modo di affermare che si sarebbe trattato di una semplice “passerella”. In verità, ricordo a chi ebbe modo già in anteprima di denigrarla, che quella visita alla quale parteciparono volontariamente anche numerose unità fuori servizio, riempì di orgoglio il personale nisseno che accolse con grande entusiasmo il proprio ministro che ebbe parole di elogio e di solidarietà nei confronti del personale stesso per il sacrificio quotidiano nell’operare in condizioni oggettivamente difficoltose”, aggiunge il vicesegretario nazionale Cn della Polizia penitenziaria. “Speravo che almeno in questa occasione la visita effettuata dall’on. Pagano il giorno di ferragosto, a seguito dell’iniziativa dell’on. Rita Bernardini del Partito Democratico e seguita in Sicilia da altri 65 parlamentari, in un momento di particolare difficoltà e sovraffollamento, quale quello attuale, potesse essere un momento di incontro tra le istanze provenienti dalla comunità penitenziaria e la politica - dice ancora Giuseppe Scarlata. Nel corso della visita, infatti, sono state evidenziate all’on. Pagano, sia da parte del personale che della direzione, le varie problematiche su cui occorre intervenire. Invece, anche questa volta non si è perso tempo per strumentalizzarne soprattutto gli scopi, che avevano il fine principale di verificare le condizioni di vita dei detenuti e di manifestare la propria solidarietà ed il proprio impegno istituzionale al personale di polizia penitenziaria per la soluzione delle varie problematiche, tra le quali, quella relativa alla carenza di personale. Ritengo che interrompere le proprie vacanze estive per accettare un’iniziativa lodevole quale quella di visitare il giorno di ferragosto gli istituti penitenziari di Caltanissetta e San Cataldo debba essere solamente plaudita da tutti, al di là degli schieramenti politici e sindacali e non debba costituire, come ormai siamo abituati, da parte di qualcuno, (che probabilmente era anche in ferie) oggetto di un sistematico attacco personale e politico”. Cagliari: Sdr; in ritardo la costruzione del nuovo carcere, colpa delle vasche di una discarica L’Unione Sarda, 2 settembre 2010 “Due estese e profonde vasche di discarica realizzate per raccogliere le ceneri dell’impianto del Tecnocasic di Macchiareddu rischiano di provocare ulteriori ritardi nella apertura del nuovo carcere di Cagliari che, essendo saltati i tempi previsti, difficilmente potrà essere funzionante prima del 2013. Gli enormi vasconi, attualmente inutilizzati, sono stati realizzati a 500 metri dall’Istituto mentre la legge prevede una distanza minima di mille metri”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo diritti e riforme” al termine di un nuovo sopralluogo, effettuato al cantiere di Camp ‘e Luas nel territorio di Uta nell’area industriale di Cagliari. “L’area dove si sta realizzando il carcere continua ad essere peraltro una landa desolata e maleodorante per i miasmi provenienti dallo stabilimento di macellazione delle carni dell’ex Valriso”, evidenzia l’ex consigliere regionale socialista. “I lavori di costruzione”, prosegue, “sarebbero dovuti essere ultimati, come precisato in un primo tempo dal Ministero delle Infrastrutture entro il 13 novembre di quest’anno, ma la conclusione è stata posticipata al 2011. Ciò significa”, ha sottolineato Caligaris, “che l’istituto di pena potrà essere funzionante solo nel 2013. In questi anni, oltre a reperire i fondi per gli arredi, sarà necessario bonificare l’area prevedendo una diversa dislocazione delle discariche. Sono inoltre indispensabili servizi di collegamento stradale con la città adeguati alle esigenze degli agenti della polizia penitenziaria, degli operatori, degli avvocati, dei magistrati e dei familiari dei detenuti”. Tempio Pausania: mandate personale, o chiudete tutto; carcere della Rotonda a rischio L’Unione Sarda, 2 settembre 2010 La direttrice del carcere di Tempio Teresa Mascolo non utilizza eufemismi nella comunicazione formale indirizzata ai sindacati, nel penitenziario che dirige la drammatica carenza di organico provoca: “evidenti ed incresciose compromissioni dei diritti dei lavoratori”. Il riferimento, chiarissimo, è per le condizioni degli agenti di polizia penitenziaria. Mentre aumentano i detenuti (60 invece dei 25 previsti dai regolamenti) i poliziotti sono sempre di meno. La direttrice ha convocato i sindacati e ha chiesto una trattativa su una proposta semplice: per tappare i buchi dell’organico i turni di lavoro passano da sei a otto ore ed è necessario predisporre un piano di utilizzo sistematico degli straordinari. La risposta dei sindacati è arrivata subito: no ai tre turni giornalieri e niente extra per i poliziotti già gravati di un carico eccessivo di lavoro. Tutte le più importanti sigle hanno anche annunciato una vertenza sul caso Rotonda, la trattativa passa ad un livello superiore, mentre a Tempio restano tutti i drammatici problemi per gli agenti e i detenuti. La proposta della direttrice è stata bocciata, ma la dura presa di posizione dei sindacati non chiude certo la questione. Teresa Mascolo, con la sua nota, fotografa una situazione che non è certo di oggi e cerca una possibile soluzione al problema dei turni di lavoro. I sindacati hanno risposto picche, ma il problema resta tutto. Ieri mattina sono entrati nell’ufficio della direttrice i rappresentanti di Cisl, Cgil, Sappe, Sinappe e Cnpp (Antonio Cannas, Salvatore Spanu, Manuela Mameli, Luigi Arras, Alessandro Piliu, Roberto Fancellu, Salvatore Mulas, Piero Coda e Nina Carta) il confronto è stato franco e leale. I sindacalisti ritengono inaccettabile l’eliminazione di un turno e l’aumento degli straordinari. Il no è stato secco, anche davanti alla onesta presa di posizione della direttrice che parla apertamente di amministrazione in ginocchio davanti alle nuove difficoltà. CHIUSURA? Di fatto, rispetto ai 32 agenti in organico, sono disponibili soltanto meno di 20 unità. “Il vero problema - dice Antonio Cannas del Sappe - è questo. La ristrutturazione è avvenuta, ma gli agenti sono gli stessi. Non è cambiato niente e ora ci viene proposto un aumento degli straordinari quando sappiamo benissimo che non ci sono i soldi”. Il responsabile nazionale del Sappe, Donato Capece, ha invitato il Ministero della Giustizia a provvedere oppure a chiudere l’istituto. “Il personale è distribuito male - aggiunge Luigi Arras, coordinatore nazionale del Sinappe - qui mancano gli agenti, come a Cagliari e Sassari, altrove ci sono anche 30 unità in più”. I detenuti pagano per tutti, due hanno iniziato un nuovo sciopero della fame. Ascoli: nelle pagnotte per i detenuti non si nascondono più lime, ma… telefoni cellulari Corriere Adriatico, 2 settembre 2010 Ascoli Gli agenti di polizia penitenziaria della casa circondariale di Marino del Tronto, al termine di capillari indagini che si sono protratte per circa un mese, hanno scoperto un detenuto, da due anni recluso nella sezione giudiziaria, in possesso di un telefono cellulare e di un carica batterie. L’apparecchio era stato nascosto dentro una pagnotta. L’uomo, che deve scontare una condanna per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, è stato immediatamente trasferito nel carcere di Pesaro e ora scatteranno nei suoi confronti ulteriori provvedimenti restrittivi previsti dall’ordinamento penitenziario. La scoperta del telefono è un fatto inquietante sul quale sono in corso approfondimenti. È infatti vietato introdurre all’interno del carcere tecnologie che consentano di comunicare con l’esterno. Se dovesse risultare che il telefono cellulare è di provenienza furtiva, in questo caso il detenuto rischierebbe l’incriminazione per il reato di ricettazione. Invece, qualora si accertasse che il cellulare è entrato in carcere portato da una persona che si è recata a far visita al detenuto (un parente o un conoscente), verrebbero annullati i benefici previsti dalla legge Gozzini. Se un detenuto durante la detenzione ha una condotta esemplare, ogni 6 mesi gli vengono scalati 45 giorni dal periodo di condanna che deve scontare. L’uomo divideva la cella dove era rinchiuso con altri sette detenuti: tre albanesi, due tunisini e due polacchi. Tutti sono stati interrogati dalla direttrice del carcere Lucia Difeliceantonio per appurare se erano a conoscenza dell’esistenza del cellulare ma soprattutto se qualcuno di loro ne ha fatto uso. Hanno negato ogni tipo di coinvolgimento, preoccupati del rischio che anche loro possano perdere i benefici. Gli investigatori vogliono fare luce per capire come è potuto entrare il telefono cellulare in una struttura super controllata dove vengono sistematicamente effettuati controlli capillari. Le indagini non sono ancora concluse in quanto si sta cercando di scoprire se il detenuto trovato in possesso del cellulare abbia potuto organizzare una specie di “call center” al quale si sarebbero rivolti numerosi altri detenuti, dietro pagamento. Il carcere di Marino ospita anche detenuti pericolosi legati alla criminalità organizzata. I controlli degli agenti sono stati finalizzati a verificare se altri telefoni cellulari sono stati nascosti nella struttura penitenziaria ascolana. Sarebbe da escludere, al momento, che qualche detenuto della sezione penale, sottoposto al regime del 41/bis, abbia potuto usufruire del telefonino per mettersi in contatto con l’esterno. La direzione della casa circondariale di Marino del Tronto ha già provveduto ad inviare una nota informativa al ministero di Grazia e Giustizia. Il ministro Alfano potrebbe decidere nei prossimi giorni l’eventuale invio degli ispettori in modo da fare piena luce sulla vicenda. Rinchiusi anche mafiosi e camorristi Secondo l’ultimo rapporto del 10 agosto scorso sono 123 i detenuti rinchiusi nel carcere di Marino del Tronto. Di questi 103 sono regolamentari, gli stranieri sono 34 pari al 28%, gli imputati 68 e i condannati 55. Esistono due sezioni: quella giudiziaria e quella dei detenuti sottoposti al duro regime del 41/bis, prevalentemente mafiosi e camorristi di seconda linea. In passato invece sono stati rinchiusi detenuti famosi. Tra questi Leoluca Bagarella, considerato uno dei più feroci boss di Cosa Nostra e accusato di oltre 100 omicidi, Giovanni Senzani e Valerio Moretti, ideologi delle Brigate Rosse, Alì Agca, l’attentatore di Papa Giovanni Paolo II. E ancora Raffaele Cutolo, boss della Nuova camorra organizzata, Renato Vallanzasca, rapinatore e capo banda della Comasina, Totò Riina e Giuseppe Madonia, boss di Cosa Nostra. Giovanni Farina, autore del sequestro Soffiantini e il cassiere della mafia Pippo Calò. Proprio nei giorni scorsi sulla popolazione carceraria e in particolare sul numero degli agenti di polizia penitenziaria si è accesa una polemica politica. “Il problema che affligge il carcere di Marino del Tronto - sottolinea il sindacalista Di Giacomo - è la carenza di personale con ventotto agenti in meno rispetto all’organigramma”. Messina: dalla Crivop onlus un nuovo progetto di assistenza ai familiari dei detenuti Comunicato stampa, 2 settembre 2010 La onlus evangelica “Cristiani italiani volontari penitenziari” (Crivop) informa che dal 1 settembre è partito in via sperimentale un nuovo progetto di assistenza ai familiari dei detenuti nella Casa Circondariale di Messina. Un camper presenziato da operatori qualificati stazionerà in via delle Corse nelle mattinate previste per le visite ai detenuti, per offrire assistenza alle famiglie, che spesso sopportano gravi disagi e lunghi viaggi. Ci si propone - sostiene il presidente del Crivop, Michele Recupero - di alleviare l’attesa dei familiari (in particolare dei bambini), di prestare aiuto nella compilazione della modulistica e di fornire informazioni sui servizi socio-assistenziali. Il progetto, la cui durata prevista è per il momento di sei mesi, si pone l’obiettivo di attivare una rete di interventi per le famiglie in difficoltà. Per informazioni: www.crivop.altervista.org. La Spezia: il Festival della mente entra in carcere con un progetto di “riutilizzo creativo” Secolo XIX, 2 settembre 2010 La Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia, in occasione dell’edizione 2010 del Festival della Mente, ha affidato ai detenuti della Casa circondariale di Villa Andreino la realizzazione di borse artistiche ricavate dagli striscioni pubblicitari che hanno promosso negli ultimi anni mostre, eventi e manifestazioni in città. Quattro detenuti, indicati dalla direttrice della struttura carceraria Villa Andreino della Spezia, la dottoressa Cristina Bigi, hanno lavorato quasi quotidianamente sotto la guida della maestra d’arte, Silvia Maramotti, e di Marco Condotti. Grazie alle lezioni di taglio e cucito affidate alla cooperativa All Sail è stato possibile trasformare in opere di pregevole fattura i manifesti pubblicitari in Pvc destinati all’abbandono. L’iniziativa della Fondazione ha creato così importanti opportunità per coloro che si trovano in regime di detenzione: i detenuti, oltre a percepire un riconoscimento economico, hanno avuto la possibilità di impegnarsi concretamente in un’attività esterna, anche con finalità socio-ambientali (il Pvc è un materiale di difficile smaltimento, il riutilizzo ha quindi un’importante funzione ecologica), e da ultimo, ma non meno importante, acquisire le basi per una professione che potrebbe favorire il reintegro nella comunità. Si tratta di un progetto che deriva dagli stimoli creativi che il Festival della Mente offre al nostro territorio coinvolgendo in questo caso una delle categorie più emarginate. È quindi il caso di dire che la Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia e il Festival della Mente hanno aperto le porte del carcere, liberando creatività, fantasia e professionalità di quanti si sono prestati alla realizzazione di oggetti che possono essere definiti del “riutilizzo creativo”. Le borse, pezzi unici e originali, che portano con sé le memorie di avvenimenti del territorio, saranno messe in vendita insieme ad altri gadget del festival nel Punto Informativo allestito dalla Fondazione in Piazza Luni a Sarzana dal 3 al 5 settembre. Roma: madri detenute e bambini in carcere, dal 9 settembre una mostra fotografica Ansa, 2 settembre 2010 “Che ci faccio qui?” è il titolo dell’esposizione ospitata presso la Sala Santa Rita per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei piccoli che vivono dietro le sbarre con le madri detenute di Francesca Romana Cicero. Scriveva Dante: “Tre cose ci sono rimaste del Paradiso: le stelle, i fiori e i bambini”. La delicata innocenza dei bambini stenta a trovare pienezza terrena e naturale sviluppo quando è tristemente costretta negli spazi angusti e chiusi delle carceri. Spazi nei quali, in Italia fino al compimento del terzo anno di vita, i figli delle detenute imparano a regolare il loro respiro, all’unisono con quello delle madri, secondo tempi e modi stabiliti dalla magistratura di sorveglianza e dagli istituti penitenziari che li ospitano. Dietro le sbarre si sacrifica il tenero affacciarsi alla vita dei bambini per favorire l’espiazione della pena delle madri. Dietro le sbarre si consuma quotidianamente la triste esistenza di questi piccoli, spesso non accomunati dall’etnia, ma da problemi comportamentali, aggressività e iperattività, e disturbo della parola. Problemi ai quali si aggiunge il dolore, compiuti i tre anni, dell’allontanamento obbligatorio dalla mamma. Dentro il silenzio, i toni grigi, la solitudine, il pianto spezzato e le fragilità delle detenute di 5 istituti penitenziari femminili, dislocati tra Roma, Milano e Venezia, sono penetrati fotografi di fama internazionale per documentare questa realtà poco conosciuta. Il reportage fotografico “Che ci faccio io qui?”, di prossima inaugurazione alla Sala Santa Rita - realizzato da Marcello Bonfanti, Francesco Cocco, Luigi Gariglio, Mikhael Subotzky e Riccardo Venturi - intende sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema, e richiamare l’attenzione delle istituzioni e dei parlamentari per sollecitare la discussione della proposta di legge volta a tutelare il rapporto tra le detenute e i figli minori mediante la realizzazione di idonee strutture d’accoglienza. Non a caso, l’esposizione - promossa dall’assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma e sostenuta dall’assessorato alle Politiche Sociali della Famiglia della Provincia , nasce dalla collaborazione tra “Contrasto” e l’associazione di volontariato “A Roma, Insieme”. L’associazione dal ‘91 realizza una serie di attività concrete, come l’inserimento dei bambini nei nidi comunali, e la cura delle relazioni tra le detenute e le famiglie affidatarie. Ne è presidente l’onorevole Leda Colombini da tempo impegnata ad ottenere il superamento di misure restrittive e discrezionali - non applicabili peraltro alle recidive - per detenute madri che, nella maggior parte dei casi, non hanno commesso reati socialmente pericolosi. “Che ci faccio io qui? I bambini nelle carceri italiane”. Sala Santa Rita, via Montanara 8. Organizzazione di Zètema Progetto Cultura. Dal 9 al 29 settembre 2010. Lunedì-venerdì 10-18 (chiuso sabato e domenica). Ingresso libero. Cinema: “Gli angeli del male”, ovvero la sconfitta di Vallanzasca Il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2010 È l’evento più atteso del Festival di Venezia. I giornali ne stanno già riempiendo le pagine. Forse, alla proiezione del 6 settembre ci sarà anche lui, il protagonista, accanto al suo interprete: Renato Vallanzasca e Kim Rossi Stuart insieme sul tappeto rosso per “Gli angeli del male”, il film di Michele Placido sul boss della Comasina e la sua banda. Non so se augurarglielo, a Vallanzasca. Lui che ha sempre detestato il cliché del bandito nazionalpopolare (s’infuriava a sentirsi chiamare “il bel René”) ci si ritroverebbe immerso fino al midollo: le rapine, gli omicidi (sette), le belle donne, le belle macchine, la bella vita (quella poca che ha vissuto fuori dal carcere). Un ritorno al passato illuminato dai flash di oggi, puntati impietosamente sull’ombra del gangster che fu: il re della mala che appena esce di galera (da aprile lavora in una cooperativa e torna ogni sera in carcere) si fa fregare la bicicletta. Non vedo Vallanzasca da più di dieci anni, quando lo intervistai in occasione dell’uscita de Il fiore del male, la bella autobiografia scritta con Carlo Bonini e ora opportunamente ripubblicata da Marco Tropea editore. In seguito ci siamo “sentiti” (cioè scritti: lui stava in carceri di massima sicurezza: prima a Novara e poi a Opera) abbastanza spesso: interviste, memoriali, repliche alle proteste indignate di chi, dopo ogni suo intervento, voleva affibbiargli, oltre ai quattro ergastoli già comminati, anche la pena aggiuntiva del silenzio perpetuo. Ma Vallanzasca, soprattutto, scriveva semplici lettere: gentili e fanciullesche, piene di buoni propositi e di punti esclamativi. Alle quali forse io non rispondevo adeguatamente (è difficile, per chi è fuori, comunicare con chi sta dentro) perché a un certo punto ha smesso di inviarle. Guardo le copertine dei due libri dedicati alle sue gesta (oltre a Il fiore del male, anche L’ultima fuga, di Leonardo Coen per BC&Dalai) e penso a quanto Kim Rossi Stuart somigli al bandito da giovane e a quanto mi paresse velleitario, tanti anni fa, il desiderio di Vallanzasca di veder affidato proprio a lui, in un ipotetico film, il ruolo di protagonista. Invece aveva visto giusto. Ma penso, anche, che tanta esposizione mediatica non gli gioverà. La grazia, che ha chiesto due volte al Presidente della Repubblica, se possibile tarderà ancora di più ad arrivare. Se mai arriverà. Pochi giorni fa è tornato libero Felice Maniero, ex boss della Mala del Brenta convenientemente pentito, dopo aver scontato 17 anni di carcere per droga, rapine e sette omicidi. Vallanzasca ha rubato, ha ammazzato, ha molto fatto soffrire. E non si è mai pentito: “Non sono così ipocrita da chiedere perdono a chi so che non potrebbe concedermelo. Non è dignitoso chiederlo ed è stupido pretenderlo”. Ma ha già speso in galera 39 dei suoi sessant’anni di vita, più di qualunque altro delinquente o terrorista. Ora qualcuno, molti, grideranno alla scandalo perché viene pubblicamente “celebrato” in un film. E qualche scellerato guarderà a lui come a un mito. Ma basterebbe ascoltare le sue parole per sapere quello che il film forse non dice, per capire che non esiste nessun mito ma solo un uomo sconfitto: “Ho deciso autonomamente di fare un certo tipo di vita, non ho mai accampato scuse, mai pensato di essere una vittima della società. Ho giocato la mia partita e l’ho persa. Io ero in galera ancora prima che l’uomo andasse sulla Luna! Se non è sconfitta questa”. Francia: parte una nuova inchiesta sulla morte in carcere di Daniele Franceschi La Repubblica, 2 settembre 2010 Italiano morto in carcere in Francia, il ministro Kouchner assicura: faremo il possibile. L’autopsia: assenza di lesioni, ma per il rapporto definitivo servono altri esami microscopici. La Francia abbozza e promette giustizia per Daniele Franceschi, misteriosamente morto in una cella del carcere di Grasse. Sono le 17 di ieri quando il console generale di Nizza, Agostino Alciator Chiesa, può leggere il comunicato faticosamente stilato con il procuratore aggiunto di Grasse Pierre Arpaia. Poche righe che riassumono il primo rapporto dei due anatomopatologi francesi che martedì mattina hanno effettuato l’autopsia sul corpo del giovane italiano. “Le prime conclusioni riferite oralmente dai medici legali rilevano l’assenza di qualsiasi lesione di natura traumatica” legge il console a Cira Antignano, la madre di Daniele. È la ripetizione di quanto la Procura francese aveva sostenuto ancor prima che fosse effettuato l’esame necroscopico. Ora però la magistratura di Grasse è costretta ad aggiungere: “Per la stesura del rapporto definitivo i medici legali devono procedere ad un esame microscopico del cuore e di altri organi nonché ad altri esami, compresi quelli tossicologici. E per assicurare la continuazione dell’inchiesta nel più rigoroso rispetto della giustizia la Procura ha aperto un’inchiesta affidandolo al giudice istruttore, madame Sandrine Andrè”. Ora la stesso magistrato che ancora ieri mattina sbrigativamente liquidava la morte di Daniele come un infarto, deve avviare un’inchiesta più approfondita sul caso. E da Parigi il ministro degli Esteri Bernard Kouchner assicura: “Tutto quello che potremo fare per andare incontro alle autorità italiane e per fare luce su questa vicenda sarà fatto”. Dal ministero di Giustizia francese aggiungono: “Niente verrà nascosto. Vogliamo che la famiglia Franceschi possa conoscere la verità. Sarà diritto dei familiari chiedere una seconda autopsia”. Tanta disponibilità è in realtà il frutto delle pressioni del ministero degli Esteri italiano e soprattutto del console Chiesa che ha anche trovato un patronato che sostenga economicamente la famiglia Franceschi. La vicenda della morte di Daniele è però tutt’altro che chiara. L’assenza di tracce di violenza non assolve i suoi carcerieri francesi. Il giovane la mattina del 25 agosto ha lamentato un forte dolore, è stato sottoposto ad un elettrocardiogramma e invece di essere tenuto in infermeria è stato rispedito in cella. E dimenticato. La sua morte è stata scoperta solo dopo le 19 dal compagno di prigionia al ritorno dal turno in cucina. In più ci sono contraddizioni su come è stato scoperto il suo corpo senza vita. “A me il direttore del carcere ha detto che era steso sulla brandina” ricorda Cira Antignano. All’avvocato Gonzales è stata data un’altra versione seconda la quale Davide è stato trovato sul pavimento della cella. Di certo nel carcere di Grasse, dove sono detenuti altri dieci italiani tra cui un carabiniere accusato di estorsione, la vita non è facile. Settimane fa in una cella hanno trovato una granata e una pistola, la droga entra regolarmente, i detenuti possono contare su un cellulare “a noleggio”. E per essere visitati dal medico occorre attendere giorni. Francia: la storia di Daniele e di altri 3.000 italiani “dimenticati” nelle carceri straniere Terra, 2 settembre 2010 I nostri connazionali che si trovano detenuti all’estero sono quasi 3.000. Tra innocenti rimasti dietro le sbarre per anni, in condizioni disumane, e vittime di violenze, fino alla morte. Daniele Franceschi, il 36enne di Viareggio morto il 25 agosto nel carcere francese di Grasse, ufficialmente per un infarto, era uno dei quasi 3.000 italiani detenuti all’estero. Il caso di Angelo Falcone è emblematico. Il 9 marzo 2007 si trovava in India per una vacanza assieme al connazionale Simone Nobili. Alloggiavano in una casa, affittata per pochi euro, quando la polizia fece irruzione nell’abitazione. Non trovò nulla ma li arrestò lo stesso. Le forze dell’ordine dichiareranno poi di averli fermati per strada, assieme a due indiani, con 18 chili di hashish. Così nel 2008 vengono condannati a 10 anni di reclusione ciascuno. Rinchiusi nel carcere di Mandi, nel nord del Paese, ne sconteranno oltre tre anni prima dell’assoluzione, della riconsegna del passaporto e del rientro in Italia avvenuto nel maggio scorso. Per più di 36 mesi hanno dormito a terra con una coperta, mangiato solo riso e lenticchie e contratto diverse infezioni. Simone Renda, purtroppo, è invece morto dietro le sbarre. Il giovane bancario di Lecce, allora 34en-ne, era in Messico per una vacanza. Il primo marzo del 2007 venne prelevato dalla polizia all’hotel Posada Mariposa di Playa del Carmen. Le forze dell’ordine, chiamate dal personale dell’albergo, credevano che Renda fosse in preda ai fumi dell’alcool o delle droghe e invece lo stato confusionale era dato da un malore. Viene arrestato, proprio quel giorno che un aereo da Can Cun lo avrebbe riportato in Italia. All’ingresso in carcere diagnosticano uno stato di disidratazione e un malessere. Viene anche suggerito un elettrocardiogramma, con trasferimento in ospedale, e somministrato un ipertensivo. Ma Renda uscirà dal carcere soltanto da cadavere la mattina del 3 marzo, sei ore dopo la scadenza del limite di 36 ore fissato per la carcerazione preventiva. Era già morto da diverse ore. La procura di Lecce sta indagando i responsabili del carcere messicano per omicidio volontario. Gli italiani detenuti all’estero sono 2.905, di cui 1.842 già condannati (il 63,4%), mentre 1.063 (36,6%) in attesa di giudizio o dell’estradizione verso l’Italia. I dati, aggiornati al 31 dicembre 2009, sono del ministero degli Esteri. Ma secondo l’associazione Prigionieri del silenzio che si occupa della tutela dei diritti degli italiani arrestati all’estero, nelle prigioni straniere sarebbero circa 3.000 i nostri connazionali. Calcolando che per ognuno almeno altre dieci persone tra amici e parenti vivono questa problematica, sono circa 30mila gli italiani coinvolti indirettamente. Tornando ai dati ufficiali, nelle carceri europee ci sono 2.428 italiani (l’83,5%). Di questi 926 sono in attesa di giudizio. I Paesi con il più alto numero di italiani detenuti sono Germania (1.079), Spagna (458), Francia (231), Belgio (202), Regno Unito (192) e Svizzera (131). Fuori dall’Europa 384 connazionali sono nelle Americhe, in Asia e Oceania 55, tra Mediterraneo e Medio Oriente 35, nell’Africa subsahariana 3. Il numero più elevato è negli Stati Uniti (91), seguito da Venezuela (66), Perù (58), Brasile (54), Colombia (30) e Australia (30). Lasciati soli dallo Stato Katia Anedda è la presidente dell’associazione Prigionieri del silenzio che dal 2008 sostiene le famiglie, informa l’opinione pubblica e vigila sul rispetto dei diritti di tutti i detenuti italiani nel mondo. Gli italiani detenuti all’estero “spesso vengono sottoposti a condizioni di vita lesive dei più elementari diritti dell’uomo”, spiega Katia Anedda, presidente e fondatrice dell’associazione Prigionieri del silenzio che dal 2008 assiste le famiglie dei nostri connazionali dietro le sbarre nei vari Paesi del mondo, informando anche l’opinione pubblica. “A volte non ricevono neppure le cure mediche né una appropriata difesa legale perché l’Italia in questi casi non prevede nemmeno il “gratuito patrocinio” e anche l’aiuto dei Consolati è facoltativo”. Cosa pensa del caso di quest’ultimo italiano morto in Francia? La famiglia sostiene che sia stato maltrattato. Ma se le lettere del detenuto con questi racconti sono state consegnate alle autorità italiane è molto grave perché significa che non se ne sono occupate abbastanza. E quando queste situazioni si nascondono succede il peggio. Anche se devo dire che a Nizza abbiamo seguito un altro caso e quel Consolato è sempre molto attento. Qual è la situazione che devono affrontare famiglie e detenuti all’estero? Dipende dai reati e da come si pone il Paese ospitante. Anche se bisogna dire che la maggior parte dei nostri Consolati non si interessa a questi casi. Molto dipende infatti da quanta pressione venga fatta dall’italiano detenuto e dalla sua famiglia al Consolato competente. La situazione resta tragica soprattutto per chi si trova in prigione in Paesi molto lontani dall’Italia. Dove è difficile anche solo capire i problemi e la reale situazione. A volte il telefono non basta anche perché spesso i reclusi non possono raccontare cosa stanno vivendo, altrimenti rischiano la vita. Inoltre molti detenuti fuori dall’Europa contraggono varie malattie, come l’epatite C, curabili solo al rientro in Italia sotto stretto controllo medico. Perché nelle prigioni di molti Paesi, la carenza di assistenza e di igiene può far diventare letali queste malattie. Altro problema gli elevati costi per le spese legali: spesso servono due avvocati, uno sul posto e l’altro in Italia, soprattutto quando avviene una violazione di diritti. Quali in particolare? Prendiamo il caso di un detenuto che chiede l’applicazione della Convenzione di Strasburgo che consente di scontare un terzo della pena residua in Italia. Anche i Paesi firmatari mantengono la discrezionalità sull’applicazione. Un esempio concreto? Il caso di Francesco Stanzione. Detenuto da ormai dieci anni in Grecia e condannato a 18 nonostante dichiari la sua innocenza, due anni fa ha chiesto di essere trasferito in un carcere italiano per scontare la pena. Ma la Grecia ha arbitrariamente chiesto 200mila euro per l’estradizione. Un escamotage per violare una Convenzione poco chiara e male applicata. Avviene spesso la falsificazione di prove e documenti? Purtroppo sì, soprattutto nei Paesi extra-europei. Mentre sono poche le violazioni riscontrate in Europa. Un discorso a parte è la Grecia che a mio parere per il modo di fare si comporta come un Paese di un altro continente. Libia: trenta campi di prigionia pieni di “merce di scambio” di Antonella Vicini Il Riformista, 2 settembre 2010 Non esistono dati ufficiali, spesso dei rifugiati non viene neanche accertata l’identità. Strutture “prive dei servizi di base”. Cinque miliardi, il leader libico gioca col ruolo del suo Paese, definito nel rapporto della missione Frontex del maggio-giugno 2007 “un luogo di transito dal Nord Africa per l’Italia, Malta e il resto dell’Ue”. Ma, secondo il rapporto, “la Libia è anche chiaramente un Paese di destinazione per la migrazione illegale” e un polo di attrazione “per la manodopera straniera”. Anche per questa ragione centinaia di migranti, partendo dall’Africa sub sahariana, affrontano viaggi che possono durare fino a sei mesi, per arrivare laddove il rischio di essere trasferiti nei campi di detenzione è altissimo. Nella maggior parte dei casi fuggono da guerre e da persecuzioni politiche. L’approdo è quasi sempre la Libia dove ad attenderli ci sono i poliziotti. Non esistono testimonianze o dati ufficiali di ciò che avviene una volta che si entra nel circuito della legalità libica. Esistono solo resoconti di chi quest’esperienza l’ha vissuta o di chi è riuscito a fotografarla, come fa il sito Fortresse Europe che dal 2006 racconta ogni giorno le rotte dell’emigrazione: “Ammassati uno sull’altro. A terra vedo degli stuoini e qualche lercio materassino in gommapiuma. Sui muri qualcuno ha scritto Guantanamo. Ma non siamo nella base americana. Siamo a Zlitan, in Libia”. Secondo Frontex, “le condizioni di queste strutture possono essere descritte come rudimentali e prive dei servizi di base”. Al di là delle perifrasi utilizzate nei rapporti ufficiali, i campi di detenzione appaiono come vere prigioni; terra di nessuno, se per nessuno si intende il diritto e la legalità internazionali. Le forze di polizia libiche che li gestiscono sono accusate spesso di violenze sui detenuti (l’ultimo episodio riguarda i 400 eritrei reclusi e infine rilasciati), ma tutto questo è difficilmente provabile. Ai delegati dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati, non è concesso l’ingresso e l’attività di monitoraggio, e la loro opera è resa ancora più diffìcile dalla recente decisione delle autorità libiche di chiudere l’ufficio dell’Alto commissariato che ha sede a Tripoli. L’organizzazione continua a seguire dei progetti insieme all’ong libica International Organisation for Peace Care and Relief (Iopcr) che, invece, ha diritto di accesso. Ancora più difficile farne una mappatura dei centri e censire le persone che vi sono detenute, visto che non sempre si procede alle identificazioni. Chi li ha visitati ne ha contati una trentina, sparsi per tutto il Paese. Sebha, Zlitan, Misratah, Brak, Ganfuda, Marj, Khums, Garabulli e Bin Ulid. Concentrati per lo più sulla costa, “ci sono dei veri e propri centri di raccolta, come quelli di Sebha, Zlitan, Zawiyah, Kufrah e Misratah, dove vengono radunati i migranti e i rifugiati arrestati durante le retate o alla frontiera. Poi ci sono strutture più piccole, come quelle di Qatrun, Brak, Shati, Ghat, Khums, dove gli stranieri sono detenuti per un breve periodo prima di essere inviati nei centri di raccolta. E poi ci sono le prigioni: Jadida, Fellah, Twaisha, Ain Zarah”, racconta Gabriele Del Grande. Queste ultime sono prigioni comuni, nelle quali ci sono delle aree dedicate agli stranieri privi di documenti. Quel che è certo è che non esiste un tempo massimo di permanenza, come nei Cie italiani, e che la situazione è peggiorata da quando ha avuto inizio la politica dei respingimenti. Stando all’ultimo rapporto del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), almeno 1.300 immigrati e rifugiati sono stati ricondotti dallo Stretto di Sicilia alla Libia, da maggio a ottobre 2009, senza fare alcuna distinzione di nazionalità, genere, età e stato fisico. Una situazione che ha favorito una gestione irregolare, tanto che non mancano testimonianze di cessioni di esseri umani immessi poi nelle rotte della prostituzione. Gli immigrati rispediti indietro finiscono per ingolfare stanze, già colme, che stipano anche 50/60 persone in 12/13 metri quadri. A Zliten ne sono detenuti 233; circa 600 a Sebha; 394 a Ganfuda. È la merce di scambio che Gheddafi pare voglia usare con l’Europa, Italia soprattutto.