Giustizia: visita all’Ucciardone, dove l'inferno è dietro le sbarre di Tommaso Cerno L’Espresso, 24 settembre 2010 Alza la maglietta, appoggia il petto alle sbarre e mostra una cicatrice rossa, che lo taglia in due: “Ecco qua, sono stato operato a cuore aperto e sono stato in coma. Eppure qui da tre anni non vedo mia madre: ha 59 anni ed è paralitica. Mi dicono che piange per me e io non la posso vedere”. Non grida, Pietro Buccheri, solo perché non ha abbastanza fiato. A trent’anni non sa scrivere e trovare un detenuto che l’ascolti, mentre detta qualche riga da spedire a casa, è difficile all’Ucciardone di Palermo. È uno dei penitenziari più disastrati d’Italia. E lui sconta la pena nella nona sezione. Lì fa un caldo infernale d’estate. Freddo e acqua che s’infiltra nel letto durante l’inverno. La cella vicino alla sua, la numero sei del braccio destro, è inagibile perché quell’acqua proprio non si ferma. Penetra dal soffitto e scende sulle pareti. Una questione di tegole rotte. Anzi, una questione di burocrazia. Soldi che non ci sono. Firme che non arrivano. E Pietro, come i suoi compagni di cella, si chiede se forse tutto questo non sia troppo anche per chi ha rubato, rapinato o spacciato droga: “Siamo stipati in pochi metri quadri. Dalla finestra a bocca di lupo non entra aria. Ci stiamo anche 21 ore al giorno in questa maledetta cella. Così non possiamo vivere. A volte è meglio l’idea di morire”. Una storia che sono decine di storie qui a Palermo. E migliaia nell’Italia delle galere vecchie e sovraffollate che il ministro Angelino Alfano promette di ampliare con un piano di investimenti da oltre un miliardo che però stenta a partire. Tante, tantissime storie raccolte nei 216 istituti di pena che ad agosto hanno aperto i cancelli a una delegazione di parlamentari su proposta del partito radicale. Muri crepati, gabinetti sporchi, pavimenti rotti, cibo poco e cattivo, acqua razionata. Un viaggio per raccogliere cifre, voci e testimonianze fra gli oltre 70 mila detenuti. Solo all’Ucciardone, il più grande istituto siciliano, sono rinchiusi in 707 dove al massimo ne potrebbero entrare 402. Non tutti condannati. Anzi. Solo 384 hanno già ascoltato la sentenza definitiva. Gli altri, poco meno della metà, sono in attesa di un giudizio, un processo che forse tarderà ancora anni. Il turn - over è impressionante. Ogni giorno ne arrivano 25 nuovi e se ne vanno altrettanti. Un detenuto su cinque non resta in carcere per più di sette giorni. Ma, nella vita di ogni giorno, significa spazio, aria e cibo tolti a qualcun altro. Come denuncia Angelo Faraci, che lamenta gravi carenze nell’assistenza sanitaria. Ha raccontato alla deputata radicale Rita Bernardini, che ha guidato la delegazione, di avere subito un intervento di angioplastica al Policlinico di Palermo a maggio. Il chirurgo aveva chiesto di poterlo rivedere dopo un mese. Ma dal carcere è arrivato il no: “Mi hanno risposto che non occorre, una, due, tre volte. E io sto male e di notte piscio sangue”. Ripete che casi come il suo sono all’ordine dei giorno. Basta salire i piani, passeggiare lungo i corridoi, passare i catenacci che separano le aree per i detenuti comuni da quelle di massima sicurezza. La sesta sezione ha quattro piani. Celle anguste, buie. C’è puzza. Materassi vecchi e impregnati di sudore, generazioni di detenuti sdraiati sulla stessa tela ormai logora. Niente docce in cella. Solo un labirinto di docce comuni, sporche e rotte. “In media, su tre docce alla settimana, due sono con acqua fredda perché quella calda non funziona”, dice un detenuto. Tutto il primo piano della sezione è stato dichiarato inagibile. E, quando sali ai livelli superiori, dove sono rinchiusi 214 detenuti, sfoghi e urla raccontano la tragedia quotidiana di chi è costretto a sopravvivere là dentro. C’è Paolo. C’è Luca. C’è Francesco. C’è Gaetano. E poi Yassine, El Abbouby, Adel, Radu. “Siamo trattati peggio degli animali, il cibo di uno va diviso in due, ci sono formiche e blatte dappertutto, l’acqua che esce dal rubinetto è gialla, non c’è il sapone per lavarsi e ci danno due rotoli di carta igienica al mese: siamo murati vivi”. Il braccio conta sei celle identiche, una di fila all’altra. Venti metri quadri ognuna, per nove detenuti. Fanno circa due metri a testa. Significa che non riesci a stare seduto, né a spostarti nella cella: “Lo scorso inverno eravamo in dodici qui dentro”, raccontano, “dormivamo a turno”. La privacy non esiste. Un muretto alto appena un metro separa gabinetto e fornello. Siccome mancano gli agenti di custodia, se qualcuno si sente male durante la notte rischia di restare a terra nell’indifferenza generale. E così fra i detenuti dell’Ucciardone s’è affinata una tecnica di intervento: “Gridiamo da dietro le sbarre in modo da farci sentire dal piantone dell’altro braccio. Lui avvisa la sentinella e, forse, qualcuno arriva”. Achille Custini ha 37 anni. L’hanno operato a una gamba e adesso, per potersi reggere in piedi, deve fare i conti con una placca di metallo che gli tiene unite le ossa. Fa ? male. Ma nell’assurdo della burocrazia carceraria il problema è che, a causa di quel - l’incidente, lui rischia di perdere lo sconto di pena per buona condotta: “I giorni di liberazione anticipata si ottengono solo facendo le ore d’aria. Ma io non posso scendere e salire quattro piani ridotto come sono. Riesco a farne al massimo due, perché poi mi fa male. E così rischio di perdere tutto”. La stessa burocrazia che ha trasformato le visite di una madre calabrese al figlio carcerato in Sicilia in una specie di Odissea: “Quando viene a trovarmi in treno, mia madre arriva verso le 4 del mattino. Ma qui la fanno passare a mezzogiorno. Passa ore e ore sotto il sole, o sotto la pioggia. Ed è una donna anziana e malata”, denuncia Antonio Morabito, 37 anni, di Reggio Calabria. Da nove mesi invia richieste di trasferimento per avvicinarsi alla famiglia. Niente da fare. “Anche i bagni per gli ospiti sono inservibili, così come quelli degli agenti di polizia. La situazione è quella di un degrado generalizzato. Vivere anni e anni in queste condizioni crea depressione, problemi psichiatrici, malattie, epidemie e violenza”, denunciano i radicali. Al carcere lombardo di Vigevano le sindromi psichiatriche suonano come un’emergenza. Il 40 per cento dei detenuti è stato visitato nell’ultimo anno per problemi di questo tipo. A cui si aggiungono ipertensione diffusa e claustrofobia. L’epatite C sta dilagando. È una vera epidemia. Da Bologna a Napoli, i casi si moltiplicano. E le condizioni igieniche favoriscono la trasmissione dei virus. “Dopo che andiamo in bagno, ci dobbiamo lavare con la bottiglia... Mica siamo animali. Io ho sbagliato e sono un delinquente, ma lo Stato è più delinquente di me”, ripete un detenuto. Così anche a Enna e Mistretta. Ma anche a Poggioreale e Rebibbia. Letti a castello di quattro piani, alti poco più di un metro. E ancora lo stesso lavandino per l’igiene intima e le stoviglie. O la cella con il bagno a norma per i disabili, ma la porta troppo stretta perché davvero ci possa passare una carrozzina. O ancora le visite mediche negate. Come nel caso di Giovanni Zullo, 28 anni, di Salerno. Chiede da un anno e mezzo una Tac alla schiena. Ha dolori forti. Di notte spesso non chiude occhio. Ma al tribunale di sorveglianza, almeno per ora, la richiesta resta inevasa. Nella sezione femminile di Enna c’è invece Maria Mascali. A 12 anni era mamma, a 32 è nonna. Ha quattro figli e tre nipotini. Una deve operarsi di tumore. Le resta un anno e mezzo di carcere e ha chiesto di terminare la pena ai domiciliari. Ma per ora non se ne parla. Così i bambini vengono a trovarla in galera. “Soffrono molto. Una bimba è sorda e non parla. Quando viene qui piange in continuazione”, racconta la manona detenuta. L’ora d’aria sono lunghi corridoi all’aperto chiamati “passeggi”. A Palermo ce n’è uno su cui si favoleggia. È chiuso da due porte blindate e, dopo circa due metri da sbarre di acciaio. “Lì passeggiava Totò Riina”, raccontano i detenuti. Ma la realtà è che quelle strettoie sono gabbie lunghe 15 metri e larghe sei. C’è solo cemento. Nulla all’interno. Nemmeno un lavandino. Solo un vecchio gabinetto alla turca che non funziona, ma odora come funzionasse. Sopra la testa una rete metallica taglia l’azzurro del cielo. Altre sbarre, anche lì. “Sono gabbie per leoni, senza nemmeno i domatori”, dice un detenuto della quinta sezione. Perché la carenza di organico pesa sui carcerati, ma pesa anche sulla polizia penitenziaria. Costretta a turni massacranti. All’Ucciardone mancano 165 agenti rispetto alle piante organiche, già striminzite, dei ministero della Giustizia. E sono quelli che ci vorrebbero solo per gestire la capienza regolamentare. La beffa è che l’ottava sezione, completamente ristrutturata, è lì in fondo al cortile. La palazzina borbonica è stata rimessa a nuovo. Peccato resti chiusa. Vuota. In attesa di un collaudo che forse arriverà quando malte e tubi goccioleranno di nuovo. “Anche se ce la facessero, non servirebbe. L’apertura di questo reparto, che potrebbe ospitare 120 detenuti e dare ossigeno a tutto il carcere è subordinata all’assunzione di 40 agenti. Che non arriveranno mai. C’è pure Adel. È un ragazzino di Casablanca. Ha 22 anni ed è finito in quell’inferno per una ventina di cd contraffatti. Come tutti i nuovi è stato spedito al cosiddetto “canile”, celle microscopiche con gabinetto alla turca, quando va bene, senza bagno in molti casi. “A luglio i muri erano scrostati, adesso sono stati ridipinti. Il direttore ha stanziato 200 euro per la manutenzione ordinaria e ci ha detto che con quella cifra deve arrivare al 31 dicembre”, spiega la parlamentare Bernardini. Perché i direttori hanno i budget decimati. Al carcere dell’Armerina, in provincia di Enna, c’è un detenuto che mangia con le mani. Non ha potuto comprarsi una forchetta. Non ha soldi. Ha chiesto un sussidio, come previsto dalla legge, ma non ha ottenuto risposta. E questo perché il direttore del carcere può contare su 300 euro l’anno per tutti i detenuti. Che sono 123, contro una capienza regolamentare di 45. Un detenuto nigeriano, Okorie Okalimbo,è uno di loro. Gli mancano tre mesi per scontare la pena e, intanto, una ditta di Vicenza ha chiesto di poterlo assumere durante il giorno. Una bocca in meno da sfamare, ma non per i regolamenti carcerari. La risposta è stata no: “La direttrice si è spesa, ma il magistrato di sorveglianza è stato irremovibile”, spiega. Col rischio che fra tre mesi, una volta fuori, quel posto se lo sia preso un altro. Giustizia: il 41bis e la voglia di forca di Stefano Anastasia Terra, 24 settembre 2010 Si sarà mostrato severamente accigliato, il Ministro della giustizia, mentre rispondeva alla notizia dell’azione di “recupero crediti” intentata da Giovanni Brusca nei confronti di certi suoi fiduciari, ai quali avrebbe affidato, durante la latitanza, parte delle sue ricchezze. Si sarà mostrato severamente accigliato, il Ministro della giustizia, mentre dal palco di un talk - show politico di tarda estate, rispondeva alla notizia dell’azione di “recupero crediti” intentata da Giovanni Brusca nei confronti di certi suoi fiduciari, ai quali avrebbe affidato, durante la latitanza, parte delle sue ricchezze. La Procura di Palermo gli contesta il riciclaggio e l’estorsione. Non poco per un condannato per fatti di mafia, autore e mandante di reati efferati, dalla strage di Capaci in cui perse la vita Giovanni Falcone, allo scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo. Per commentare una notizia così clamorosa, il Ministro avrà pensato che servisse una dichiarazione altrettanto clamorosa e, corrugando la fronte, non avrà deluso le aspettative del suo pubblico politico - vacanziero: “abbiamo reso durissimo il carcere duro. E nel carcere duro ci stanno tutti i boss che le fiction e i Tg hanno reso famosi, tutti stanno al carcere duro e quegli ergastoli noi non li intiepidiremo mai e moriranno là”. Un occhio al celodurismo leghista, uno alle polemiche del premier contro le fiction che fanno male all’immagine dell’Italia e poi giù contro gli ergastoli tiepidi: “moriranno là”. Forse non hanno spiegato all’accigliato Ministro che - nonostante le sue continue modifiche celoduriste - il 41bis continua a giustificarsi solo come misura di emergenza, legata alla sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, per impedire che si manifestino in direttive agli affiliati esterni: il cosiddetto “carcere duro” non è una pena speciale per autori di reati speciali. E poi sull’ergastolo: forse al Ministro non hanno spiegato che - nonostante una giurisprudenza involutiva - la finalità rieducativa della pena iscritta nell’art. 27 della Costituzione riguarda tutti i detenuti, qualunque reato abbiano commesso, e dunque lui non può permettersi di prospettare a nessuno l’eventualità di morire in carcere, dovendo - al contrario - l’Amministrazione penitenziaria che da lui dipende operare in senso diametralmente opposto, non solo cercando di evitare lo stillicidio di morti volontarie e involontarie che pure accadono nelle carceri italiane, ma anche lavorando alle concrete possibilità di reinserimento di qualsiasi detenuto. Infine, al Ministro avranno dimenticato di dire che Brusca non è un detenuto al 41bis, ma un collaboratore di giustizia, protetto dallo Stato. Per questo gode dei permessi premio e forse anche per questo si preoccupa del “recupero crediti” che gli viene contestato. Non che si debba rivedere in senso celodurista la legge sui pentiti, ma almeno si eviti di fare confusione e di fomentare nella pubblica opinione la voglia di forca: il passo successivo alla promessa di far morire qualcuno in carcere. Giustizia: quella pena in più per i genitori-detenuti di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2010 La legge impone attenzione alla vita affettiva dei reclusi ma la realtà è fatta dì famiglie lontane e visite prive di intimità “I figli sò ppiezz’ ‘e core”, dice Filumena Marturano. Ma “i cani contano più dei figli”, si lamenta Girolamo, detenuto a Spoleto, in una lettera indirizzata al presidente della Repubblica e al ministro della giustizia. Con una buona dose di ironia, Girolamo rende “onore” ad Angelino Alfano per l’impegno profuso verso “Enrichetto”, cinquantacinquenne piemontese con la passione per “la Barbera” e per il cane Pumin, suo unico affetto. Ad agosto, Enrichetto è passato dalla solitudine della sua vita al clamore delle cronache: condannato a due mesi di arresti domiciliari per aver pedalato ubriaco e provocato un incidente, è uscito da casa per comprarsi un salame al negozio di fronte e, beccato in flagrante, è stato spedito in carcere in attesa del processo per evasione. Dietro le sbarre aveva deciso di lasciarsi morire di fame. Soffriva di malinconia per Pumin, rimasto solo. Ma poi è intervenuto Alfano... Un caso evidente di violazione della Costituzione, dirà il ministro in Parlamento, ricordando che la pena “non può essere contraria al senso di umanità”. Giusto, scrive Girolamo, ma non senza amarezza: lui, i figli li ha visti una sola volta da quando è finito “dentro”, perché non ha i soldi per farli viaggiare da Palermo a Spoleto; e anche ora che gli mancano pochi mesi al fine pena, in carcere gli hanno negato un permesso per incontrarli. Certo, Girolamo non si è limitato ad alzare un po’ il gomito e poi a salire su una bicicletta. Enrichetto è un detenuto “comune”, mentre lui appartiene alla categoria dell’“alta sicurezza”. Ma se il cane è il miglior amico dell’uomo, i figli ‘soppiezz’ ‘e core, Tant’è che il Parlamento, proprio in questi giorni, è impegnatissimo ad approvare una riforma per migliorare i rapporti tra detenute madri e figli. Riforme destinate a restare sulla carta. Le nostre riforme dicono che il carcere deve dedicare “particolare cura” a mantenere, “ristabilire” e, addirittura, “migliorare” le relazioni affettive dei detenuti. Perciò impongono, ad esempio, di far scontare la pena nel luogo più vicino agli affetti, di abbattere i “divisori” nelle sale - colloquio, di non creare il vuoto con l’esterno. Eppure, in molte carceri il bancone divisorio è ancora lì a scoraggiare qualunque forma di intimità; la maggior parte dei detenuti finisce in galere lontanissime dalla famiglia, causa sovraffollamento o, peggio, per punizione, sebbene sia vietato; a chi è solo, senza un marito, una moglie, un familiare, viene spesso negato un colloquio con un amico perché l’amicizia non è “un valido motivo”. Questi “sovrappiù” di sofferenza non fanno parte della pena, che è solo privazione della libertà. La legge non li contempla. Anzi, li vieta. Che ci si chiami Enrichetto, Girolamo, Maria, o anche Mohammed. Giustizia: oggi sit-in a Montecitorio; volontariato penitenziario visto con fastidio Redattore Sociale, 24 settembre 2010 Oggi la manifestazione delle associazioni che operano in carcere. “Non chiediamo un provvedimento di clemenza, ma di rivedere alcune leggi infami come la Bossi - Fini, la Fini - Giovanardi e la ex Cirielli”. È in corso dinanzi a Montecitorio il sit in indetto dal volontariato penitenziario per richiamare l’attenzione di cittadini e istituzioni sull’emergenza carcere. Molte le organizzazioni presenti, tra queste la Consulta penitenziaria del comune di Roma, il Forum nazionale salute e tutela dei detenuti, l’associazione di volontariato A Roma insieme, Ristretti Orizzonti, la Lila e l’Arci. “Non chiediamo un provvedimento di clemenza, ma di rivedere alcune leggi infami come la Bossi - Fini per l’immigrazione, la Fini - Giovanardi per le tossicodipendenze e la ex Ciriello sulla recidiva - ha detto Lillo Di Mauro, presidente della Consulta penitenziaria del comune di Roma e promotore della manifestazione. “Anche con un atto di clemenza - ha precisato, senza la riforma di queste leggi le carceri si riempirebbero di nuovo. E le condizioni dei detenuti sono disastrose”. “Lo stato delle carceri visibile negli ultimi tempi - ha affermato il presidente di Arci carcere, Franco Uda, - rende palese che abbiamo vissuto un falso mito della sicurezza. Un mito - ha proseguito - che ora deve cedere il passo al mito dei diritti umani”. “Siamo di fronte - ha detto ancora - a una situazione delle carceri che le istituzioni internazionali, tra cui la Commissione Europea, hanno giudicato assolutamente inappropriata e quindi non si capisce a cosa facesse riferimento lo stato di emergenza sul tema carceri proclamato qualche mese fa dal ministro della Giustizia Alfano”. Il problema - secondo Uda - è che il pronunciamento del ministro “non ha determinato nessuna azione e nessuna soluzione da parte del governo. Si continua a vedere il mondo del volontariato con fastidio o con funzione sostitutiva - ha sottolineato - senza mai considerare la funzione che ci è propria, che è quella sussidiaria”. Al sit in è intervenuta anche la parlamentare del Pd Livia da Turco, da alcuni mesi presidente del Forum nazionale tutela e salute dei detenuti. “Le persone in carcere devono godere delle stesse condizioni di salute delle altre persone - ha dichiarato . Vogliamo che questa riforma sia applicata”, ha aggiunto con riferimento al Dpcm del 1 aprile 2008 che ha trasferito la competenza sulla medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia alle regioni. “Il nostro è un appello per realizzare al più presto una conferenza del volontariato, delle cooperative sociali e dei garanti dei detenuti che ci porti ad elaborare una piattaforma comune con delle proposte chiare e degli obiettivi condivisi - ha detto la responsabile della redazione di Ristretti Orizzonti, Ornella Favero. Di fronte al dramma dei suicidi - ha aggiunto - bisogna porsi anche dei piccoli obiettivi che non riguardano soltanto il sovraffollamento, ma anche i rapporti con i familiari che attualmente si limitano a 6 ore di colloquio al mese e una telefonata di dieci minuti a settimana”. Giustizia: i volontari; scarcerare tossicodipendenti, migranti e malati di aids Redattore Sociale, 24 settembre 2010 Le richieste delle associazioni al sit in davanti a Montecitorio: dai circuiti alternativi per alcune categorie di detenuti a un intervento immediato per risolvere il sovraffollamento. La mobilitazione prosegue nel pomeriggio. Scarcerare e inserire in circuiti alternativi alcune categorie di detenuti, tra cui quelli in attesa di giudizio, i tossicodipendenti, i migranti, le madri con figli fino a tre anni, i malati di Aids e di altre patologie gravi e i pazienti psichiatrici. È solo una delle tante richieste che i rappresentanti del volontariato e del terzo settore in sit in queste ore a Piazza Montecitorio hanno presentato a tutte le forze politiche. Le organizzazioni chiedono inoltre di risolvere il drammatico problema del sovraffollamento attraverso un iter parlamentare per la riforma di quelle norme che “hanno colmato a dismisura le strutture detentive esistenti”. La richiesta di un intervento immediato sul sistema carcere parte dalla constatazione che i recenti appelli del volontariato e del terzo settore, le mobilitazioni della polizia penitenziaria e gli scioperi della fame dei detenuti sono caduti nel vuoto e che “nessun provvedimento realmente utile a far fronte al sovraffollamento” è stato assunto “né da parte del governo né del ministro della Giustizia”. Molti i problemi (non affrontati) che - a giudizio delle organizzazioni promotrici della manifestazione - hanno condotto all’implosione del sistema e sui quali “occorre intervenire immediatamente”. Tra le questioni evidenziate, oltre al sovraffollamento e al dramma dei suicidi in carcere, i tagli alla spesa sul programma dell’Amministrazione penitenziaria di 18.592.537 euro, di cui ben 7.402.666 alle spese di mantenimento, assistenza e rieducazione dei detenuti. Vi è poi il “costosissimo e inutile” Piano straordinario per l’edilizia penitenziaria, la gestione “poco trasparente” dei fondi della Cassa ammende e i tagli ai trasferimenti sulla spesa sociale degli enti locali “che rendono impossibile il reinserimento sociale e lavorativo delle persone che escono dal carcere”. La mobilitazione prosegue questo pomeriggio presso la sede della provincia di Roma a Palazzo Valentini, dove si terrà un’assemblea del volontariato e una conferenza stampa. Giustizia: Lillo Di Mauro; ripristinare la legalità nel sistema penitenziario Radio Vaticana, 24 settembre 2010 “E’ necessario ripristinare la legalità nel sistema penitenziario”: è la denuncia di oltre 50 tra federazioni, associazioni di volontariato e garanti regionali che oggi, in sit-in, davanti al Parlamento, hanno ribadito la necessità di risolvere il problema del sovraffollamento, scongiurare il dramma dei suicidi, 45 dall’inizio dell’anno, e introdurre misure alternative alla pena. Massimiliano Menichetti ha intervistato Lillo Di Mauro, presidente della Consulta permanente cittadina del Comune di Roma per i problemi penitenziari, tra i promotori dell’iniziativa. 69 mila i detenuti presenti oggi nelle oltre 200 carceri italiane. Tutte le regioni di fatto sono in esubero... Il problema si può risolvere se il Parlamento e il Governo ne avessero intenzione, perché i condannati per i reati di mafia sono pochissimi: pensi ad un 37 per cento di detenuti tossico-dipendenti e ad oltre il 30 per cento di detenuti immigrati. Pensi che il 50 per cento dei detenuti non sono condannati definitivi. Basterebbe rivedere alcune leggi ingiuste. Un condannato per tossicodipendenza tutt’al più lo si manda in una comunità per essere recuperato. L’immigrato che mette piede sul nostro suolo e non ha un permesso di soggiorno, non può essere messo in una prigione. Dovrebbero essere accolti invece che imprigionati. Se proprio vogliamo applicare la legge, che si trovino i fondi e lo si rimandi a casa sua. Tutti i governi - voi affermate - hanno sempre promesso interventi nei confronti delle carceri, ma poi nessuno, di fatto, ci ha mai messo mano... Certamente. L’ultimo governo Prodi, nonostante le nostre proteste, non ha proprio fatto nulla. Il precedente governo Berlusconi assolutamente no. Si parla di costruire nuove carceri. Bisogna sapere che non riescono ad aprire le nuove carceri, che già ci sono, perché non c’è personale di polizia penitenziaria. Non ci sono i soldi. Ogni finanziaria che viene approvata taglia i fondi necessari alla polizia penitenziaria, ma anche alle aree pedagogiche e quindi agli educatori e quindi agli psicologi, che possono prevenire il fenomeno dei suicidi. Non ci sono i soldi per la salute in carcere, che è un diritto essenziale di qualsiasi persona. Questo per ribadire anche la questione del recupero dell’individuo che ha commesso il reato... Questo lo dice la nostra Costituzione, questo lo dice la riforma e la legge Gozzini dell’86. Le persone che compiono reati vanno recuperate, perché, tra l’altro, se non si recuperano, uscendo dal carcere senza avere usufruito di attività di recupero e di reinserimento, escono più arrabbiate, escono senza prospettive future e, inevitabilmente, vanno a delinquere di nuovo. Qui non si vuol liberare i detenuti. Noi invece vogliamo che il nostro Paese sia un Paese civile, che garantisca i diritti anche a coloro che infrangono le regole. Giustizia: Ristretti Orizzonti; la situazione delle carceri è veramente catastrofica 9Colonne, 24 settembre 2010 La situazione della carceri? “È veramente catastrofica”. Ad affermarlo ai microfoni di Radio Radicale è Ornella Favero dell’associazione Ristretti orizzonti, a margine dell’audizione in Commissione giustizia della Camera sullo stato dei penitenziari italiani. “Quanti suicidi ci vogliono ancora per fare qualcosa?” domanda Favero, convinta che “la politica debba dire con chiarezza che soluzioni al sovraffollamento come il piano carceri non funzionano”. “Noi diciamo - ha proseguito - che bisogna operare in modo diverso, mettere mano a certe leggi e fare una grande campagna di informazione perché non è vero che più carcere crea più sicurezza, questa è una follia”. Secondo Favero invece “parcheggiare” i detenuti nelle carceri “crea solo insicurezza”. “Leggi come quella sulla droga e la ex Cirielli ad esempio portano in carcere detenuti sempre più giovani che poi usciranno in uno stato di totale abbandono” ha detto ancora Favero secondo cui “va fatta una riflessione sulle pene perché il carcere non può essere l’unica forma di pena”. Calabria: al via la missione della Commissione errori sanitari nelle carceri Il Velino, 24 settembre 2010 Una delegazione della Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori sanitari e le cause dei disavanzi sanitari regionali, composta dal presidente Leoluca Orlando, dal neoeletto vicepresidente Massimo Polledri e da Doris Lo Moro, Maria Grazia Laganà Fortugno e Francesco Nucara, ha iniziato oggi la missione in Calabria con un sopralluogo nel carcere di Laureana di Borrello, una struttura detentiva caratterizzata da una particolare attenzione rivolta alla scolarizzazione e al reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti. Destinato a detenuti di età inferiore ai 35 anni, in una realtà, come quella calabrese, in cui il 50 per cento dei reclusi è di età compresa tra i 18 e i 24 anni, l”Istituto Sperimentale Luigi Daga”, viene infatti considerato una struttura di “eccellenza”. Ad accogliere la delegazione, la direttrice della casa circondariale, Angela Marcello, il sindaco di Laureano di Borrello, Mimmo Ceravolo, e i diversi responsabili di settore. La visita della Commissione è stata occasione per esprimere apprezzamento agli operatori del settore carcerario nonché per ricordare il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Calabria, Paolo Quattrone, recentemente scomparso, che questa struttura ha fortemente voluto e realizzato. “La Commissione evidenzia ed auspica l’ampliamento di una esperienza sicuramente positiva anche ad altre realtà regionali - ha commentato Orlando - . Proseguiremo, nelle prossime settimane, l’inchiesta sulla salute nelle carceri, ritenendo necessario avere un quadro non episodico ma organico della garanzia del diritto alla salute dei detenuti”. La visita in Calabria si inserisce a doppio titolo tra le competenze della Commissione parlamentare: sia per quanto riguarda il filone nazionale di inchiesta sulla salute nelle strutture carcerarie, sia per quanto riguarda il servizio sanitario in Calabria, con connesso piano di rientro. “Vogliamo - ha assicurato il presidente - conoscere luci ed ombre della sanità di questa regione. Dopo la visita a Laureano di Borrello la Commissione si è recata a Locri, una zona già diverse volte teatro di episodi riguardanti errori sanitari e disfunzioni funzionali e organizzative, il cui ripetersi compromette seriamente il rispetto del diritto alla salute, generando nel cittadino mancanza di fiducia nel sistema sanitario”. Domani a partire dalle 10, presso la Prefettura di Reggio Calabria, si svolgeranno le audizioni del Commissario straordinario dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria, Rosanna Squillacioti, e del Commissario straordinario dell’Azienda ospedaliera Bianchi - Melacrino Morelli di Reggio Calabria, Carmelo Bellinvia. Seguirà l’audizione del sub commissario per l’attuazione del piano di rientro della Regione Calabria Giuseppe Navarria e dei sindacati del personale medico e operante nella sanità. Tra i temi all’ordine del giorno delle audizioni, il piano di rientro, la razionalizzazione della spesa, la prevenzione degli errori medici, la funzionalità dei punti nascita e, in generale, la situazione delle strutture sanitarie calabresi. Alle 14.30, sempre nei locali della Prefettura, la delegazione incontrerà i giornalisti in conferenza stampa, prima di proseguire con il sopralluogo presso l’Azienda ospedaliera Bianchi - Melacrino Morelli di Reggio Calabria. Reggio Calabria: detenuto di 23 anni muore suicida, era in attesa di giudizio Ristretti Orizzonti, 24 settembre 2010 Ieri pomeriggio un detenuto italiano 23 anni, Bruno Minniti, si è impiccato nella sua cella del carcere di Reggio Calabria. Il giovane era stato arrestato lo scorso 8 aprile nel corso di un’operazione contro lo spaccio di droga ed era ancora in attesa di primo giudizio. Da inizio anno a livello nazionale salgono così a 46 i detenuti suicidi nelle carceri italiane (39 impiccati, 5 asfissiati col gas, 1 morto dissanguato dopo essersi tagliato le vene e 1 avvelenato con dei farmaci), mentre il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause “da accertare” arriva a 127 (negli ultimi 10 anni i “morti di carcere” sono stati 1.687, di cui 604 per suicidio). Da notare la giovane età degli ultimi 3 detenuti suicidi: due avevano 22 anni e uno 23. “Nel corso dell’anno, sempre a Reggio Calabria, c’erano stati due tentativi di suicidio - afferma Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, che ha reso diffuso la notizia - sempre fortunatamente sventati dagli agenti della polizia penitenziaria. Questa volta, purtroppo, non c’è stato niente da fare. La sezione dove è avvenuto il suicidio è dislocata su due piani e l’agente, per effettuare i controlli, deve spostarsi da un piano all’altro. Di solito, a causa della carenza di personale, c’è un solo agente che effettua la sorveglianza”. “La Calabria soffre di gravi carenze di personale - ha affermato Damiano Bellucci segretario regionale della Calabria per il Sappe - solo a Reggio Calabria mancano 50 agenti. L’organico previsto è di 199 agenti ma ce ne sono circa 150”. Cagliari: approda in Parlamento il caso della detenuta di 77 anni ristretta a Buoncammino Sardegna Oggi, 24 settembre 2010 Un’interrogazione parlamentare ai Ministri della Giustizia e della Salute per verificare le condizioni di una detenuta del carcere cagliaritano di Buoncammino è stata presentata da sei deputati del Pd prima firmataria l’esponente radicale Rita Bernardini. Il documento è relativo al caso di una donna di 77 anni, affetta da numerosi gravi disturbi tra cui cardiopatia ipertensiva, aneurisma dell’aorta addominale, ipercolesterolemia, steatosi epatica e infezione delle vie urinarie, dichiarata incompatibile fin dal 2009, che si trova ancora reclusa nel carcere di Buoncammino. L’interrogazione parlamentare fa seguito alla denuncia di Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che ha incontrato nuovamente per un colloquio Stefania Malu, cagliaritana, ristretta da 20 mesi. L’anziana detenuta, che chiede insistentemente di poter scontare ai domiciliari la pena di 4 anni e 2 mesi con sentenza del giugno 2008, ha avuto nei giorni scorsi anche una crisi epilettica. Dopo che le è stato rifiutato il differimento pena all’inizio del 2009, si è aggravata avendo fatto registrare anche un inizio di demenza senile alla recente visita geriatrica nell’ospedale Santissima Trinità. “Stefania Malu - afferma la presidente di SdR - in più occasioni ha manifestato disagio e insofferenza alla detenzione. Arrivando perfino a rifiutare la terapia per denunciare il suo malessere. Ma finora è rimasta chiusa in cella. L’anziana donna, peraltro, terminerà di scontare la pena alla fine del 2011. È assurdo che nonostante sia previsto che i detenuti ultrasettantenni possano scontare la pena in strutture alternative al carcere, la donna debba permanere in stato di detenzione. È quindi urgente il differimento della pena peraltro nuovamente richiesto dal difensore Stefano Piras”. “Il caso - sottolinea Caligaris - appare particolarmente grave per l’età della donna e per le condizioni di salute definite dai Medici del Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino incompatibili con la struttura carceraria”. Nell’interrogazione, a risposta scritta, si chiede, tra l’altro “quali provvedimenti si intendano adottare per rimuovere le gravissime anomalie in ordine a quella che appare una palese violazione dei suoi diritti fondamentali, in primis quello alla salute”. Viterbo: detenuto si vuole lasciare morire di fame per proclamare la sua innocenza Apcom, 24 settembre 2010 Ha deciso di rifiutare, ormai da giorni, il cibo per dimostrare la sua innocenza nell’indagine per droga che lo vede coinvolto. Protagonista della vicenda, un 41enne sposato e con figli. L’uomo, di Colleferro, Gianluca C., arrivato a pesare 65,2 kg a fronte di un’altezza di 1,82 metri, nelle ultime due settimane ha perso 5 kg. Il caso è stato denunciato dal Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. A quanto risulta ai collaboratori del Garante, da un anno l’uomo si trova in custodia cautelare a Regina Coeli nell’ambito di un’indagine per spaccio di sostanze stupefacenti. Il provvedimento cautelare scadrà fra pochi giorni, alla fine di settembre. Al reparto per detenuti dell’ospedale “Belcolle” di Viterbo Gianluca è arrivato il 9 settembre per il deperimento organico provocato dallo sciopero della fame. Precedentemente, era stato ricoverato nella stessa struttura dal 29 luglio al 16 agosto 2010, ma in quella occasione venne convinto a sospendere lo sciopero della fame. A chi lo ha incontrato, spiega il garante, l’uomo è apparso lucido nella decisione di proseguire la protesta che lo sta esponendo a rischio concreto della vita, dichiarandosi “vittima di una ingiustizia”. Nonostante le insistenze della moglie e dei sanitari - che lo seguono quotidianamente con controlli cardiologici, neurologici e psichiatrici - Gianluca oggi riesce soltanto a bere e continua a rifiutare ogni forma di alimentazione. Venerdì scorso, dopo una perizia di parte, il suo avvocato difensore ha presentato una richiesta di revoca della Custodia cautelare al Giudice per le indagini preliminari di Velletri. Fin quando l’uomo sarà considerato capace di intendere e volere, non sarà possibile, per i medici, praticare il trattamento sanitario obbligatorio con l’alimentazione forzata. Enna: con il Progetto “Arcobaleno” i detenuti imparano il restaurano dei mobili antichi www.vivienna.it, 24 settembre 2010 “Arcobaleno” è il nome di un progetto intervento nel settore della prevenzione, recupero, e reinserimento lavorativo dei tossicodipendenti detenuti presso gli istituti penitenziari della provincia di Enna. Tra le varie azioni previste, da gennaio ad agosto 2010, è stato realizzato un corso di Restauro del Mobile Antico. Il progetto è stato promosso dall’Asp di Enna in collaborazione con la Casa Circondariale di Enna e finanziato dall’Assessorato alla Famiglia, alle Politiche Sociali e alle Autonomie Locali della Regione Sicilia con fondi lotta alla droga (Dpr 309/90). Lunedì 27 settembre 2010 si celebrerà la giornata conclusiva con due iniziative: la prima, alle 9.00, presso la Casa Circondariale di Enna saranno consegnati gli attestati ai detenuti che hanno aderito al progetto; la seconda, alle ore 11,30, presso il Salone della Camera di Commercio di Enna, le massime autorità civili e religiose della Provincia e della Regione si incontreranno sul tema “I colori della libertà…. Quali prospettive”. Il corso di restauro della durata di 600 ore, condotto dai due Maestri artigiani Angelo Scalzo e Maria Angela Sutera e gestito dalla Cooperativa sociale “Persefone” è stato realizzato presso la Casa Circondariale di Enna e ha visto coinvolti n. 8 detenuti affetti da dipendenze patologiche, che con motivazione ed entusiasmo si sono dedicati alle varie attività previste, realizzando dei validi prodotti finali. Il corso è stato monitorato durante le varie fasi iniziale, in itinere e finale, con l’obiettivo di conoscerne e valutarne l’andamento delle attività, le aspettative, le motivazioni e il grado di soddisfazione dei corsisti. Durante tale percorso è stato stipulato un protocollo di intesa tra l’Azienda Sanitaria Provinciale, la Casa Circondariale, la Camera di Commercio, la Confederazione Nazionale Artigianato della piccola e media impresa e la Cooperativa Sociale “Persefone” della provincia di Enna al fine di favorire il prosieguo delle attività dei detenuti affetti da Dipendenze Patologiche, all’interno e/o fuori della Casa Circondariale, nella prospettiva di un futuro reinserimento sociale. Inoltre, nell’ottica di un intervento complesso di riabilitazione è stata prevista l’attivazione di un gruppo con i detenuti partecipanti al corso, al fine di facilitare l’elaborazione dell’esperienza formativa conclusa ed incentivare il processo di cambiamento, facendo leva sulle competenze acquisite e sulla possibilità di pensare al proprio futuro lavorativo all’esterno. Offrendo uno spazio di ascolto e dialogo privo di condanna e punizione, incoraggiando l’espressione della sofferenza e del disagio legati alla malattia e alla detenzione, incentivando l’attitudine al confronto e alla condivisione. L’esperienza formativa, oltre a incoraggiare la socializzazione e il supporto tra i pari, ha rappresentato per i detenuti un’opportunità nello sviluppo delle proprie competenze di base, per affrontare l’impegno lavorativo e favorirne, quindi, il reinserimento sociale e professionale. Il lavoro, infatti, possiede una forte valenza simbolica e contribuisce in misura determinante al riscatto sociale dei detenuti. Infine, le attività del corso possono essere inserite in azioni di “giustizia ripartiva”; il contributo dei detenuti al restauro di mobili appartenenti ad Enti ed uffici pubblici ha contribuito alla presa di coscienza “costruttiva” rispetto al reato commesso ed al rispetto delle regole quale elemento fondante di ogni convivenza ed ordinamento, dimostrando tale presa di coscienza anche tramite azioni utili per la collettività. Bologna: detenuto ottiene domiciliari perché paralitico, ma viene scoperto a ballare e guidare auto Dire, 24 settembre 2010 Aveva ottenuto la possibilità di uscire dal carcere e scontare la pena agli arresti domiciliari per via di una gravissima malattia che lo aveva reso paralitico, costringendolo su una sedia a rotelle. Peccato che poi sia stato sorpreso alla guida di un’auto (senza comandi modificati) e addirittura immortalato in un video in cui ballava la ‘macarenà durante una festicciola a casa sua. Ora, su questa vicenda, c’è un’inchiesta della Procura di Bologna che punta a chiarire se quest’uomo, che si trovava in carcere nel sud Italia per reati legati alla criminalità organizzata ed è morto qualche mese fa a 42 anni per cause naturali, sia stato un incredibile simulatore oppure se i medici che lo visitarono firmarono certificati e cartelle cliniche truccate. La storia è piuttosto ingarbugliata: il protagonista, originario del sud, finì in carcere al Sud, parecchi anni fa, per reati legati alla criminalità organizzata e con una lunga pena all’orizzonte. Una decina di anni fa, poi, fu ricoverato in un ospedale in Meridione dove gli fu fatta una serie di accertamenti per l’insorgenza di una grave malattia auto - immune. Poi approdò a Bologna, con già in tasca una diagnosi di incompatibilità alla detenzione carceraria firmata in un ospedale del sud Italia, per farsi curare in una struttura riabilitativa privata in provincia di Bologna. Trovandosi nel bolognese, gli furono accordati gli arresti domiciliari (con autorizzazione a uscire in determinate fasce orarie) nel bolognese. Ad innescare l’inchiesta della Procura è stato un ordinario controllo su strada all’inizio di quest’anno: l’uomo è stato fermato mentre si trovava al volante di un’auto normalissima, non provvista degli appositi comandi per le persone costrette sulla sedia a rotelle. La Polizia, in un secondo momento, risalì alla situazione clinica del 42enne, scoprì che era paralitico e quindi si trovò di fronte all’incongruenza: è da qui che partì l’indagine. All’episodio dell’auto, se ne aggiunse in seguito un altro, ancora più strano: nelle mani degli inquirenti finì un video in cui il detenuto ballava tranquillamente la macarena insieme ad alcuni amici invitati a casa sua. Il 42enne è morto la primavera scorsa per motivi di salute non legati alla malattia auto - immune che, almeno sulla carta, lo aveva reso paralitico. L’inchiesta della Procura, però, prosegue: gli inquirenti vogliono infatti capire se i più recenti certificati medici, firmati da diversi sanitari della struttura privata del bolognese dove il detenuto fu seguito a partire dalla riabilitazione, sono stati taroccati. L’ipotesi investigativa della Procura di Bologna è che i camici bianchi possano aver calcato la mano sulle sue condizioni di salute, mettendo ad esempio nero su bianco il mancato effetto della terapia riabilitativa, in cambio di una contropartita. Si tratta, però, di un’ipotesi ancora tutta da verificare. Se non dovesse risultare nulla in questo senso, rimangono solo due spiegazioni: o l’uomo è (miracolosamente) migliorato in un momento successivo alla riabilitazione, riuscendo a riacquistare l’uso della gambe tanto da poter ballare, oppure ha simulato tutto fin dall’inizio, riuscendo a ingannare medici su medici. Lucera (Fg): il direttore; non c’è stata alcuna aggressione ad un agente di polizia penitenziaria www.luceraweb.eu, 24 settembre 2010 Così il direttore della casa circondariale di Lucera Davide Di Florio risponde alla nota del sindacato Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) che ha segnalato il presunto ferimento al volto di un agente da parte di un detenuto con l’utilizzo di una lametta da barba che l’uomo teneva nascosta sotto la lingua e che avrebbe tirato fuori durante le operazioni del suo trasferimento in altra sede. La ricostruzione di Di Florio è sostanzialmente diversa, con l’unico elemento comune è rappresentato proprio dalla lametta che sarebbe stata in effetti trovata addosso al detenuto durante la perquisizione precedente alla salita sul veicolo blindato. “Il fatto è avvenuto il 10 settembre scorso - ha precisato il direttore - e, se fosse andata così come descritto, sarebbe stato di una gravità inaudita, perché inaccettabile in una struttura penitenziaria. In realtà non è vero, la lametta è stata trovata nascosta e subito sequestrata, ma evidentemente a qualcuno piace amplificare negativamente e magari denigrare lo stesso operato dei propri colleghi che nell’occasione si sono comportati come sempre in maniera professionale. Il detenuto, in effetti, non aveva alcuna voglia di essere trasferito, ha opposto resistenza all’operazione, ma nessuno è stato toccato. Tuttavia, del suo comportamento è stata subito informata la procura della repubblica”. In verità la tensione tra Ministero della Giustizia e il corpo di polizia penitenziaria continua a salire con il passare del tempo, acuita dal sovraffollamento delle strutture carcerarie e dalla carenza di personale che costringe, specie in alcuni presidi, a condizioni di lavoro non proprio ideali. Nella casa circondariale di Lucera, al momento, ci sono circa 250 detenuti, ovvero un centinaio in più rispetto alla capienza standard, e circa 130 uomini della polizia penitenziaria. La denuncia del sindacato coglie proprio questo altro elemento, evidenziando che il Corpo “opera sotto organico di almeno trenta unità con turni a volte di otto e dieci ore lavorative così come il gruppo delle scorte viaggia con pochi uomini”. “Anche su questo aspetto non si dice la verità - ha replicato Di Florio - perché al carcere di Lucera i turni sono tutti di sei ore e tutti cerchiamo di essere messi nelle condizioni di operare al meglio possibile”. Trani (Ba): detenuto imbratta la cella di feci e poi picchia due agenti Ansa, 24 settembre 2010 Giovedì agitato nel reparto di infermeria del carcere di Trani dove sono ristretti una ventina di detenuti fra cui alcuni non psichicamente stabili. Un recluso ha aggredito due agenti del Corpo di polizia penitenziaria che erano entrati nella cella per prestare soccorso all’uomo che aveva imbrattato tutta la stanza di feci. I due assistenti capo della polizia penitenziaria, contusi ad una gamba e ad una spalla, sono stati trasportati d’urgenza nell’ospedale di Trani e sono stati giudicati guaribili in una ventina di giorni. A denunciare l’accaduto Domenico Mastrulli, vicesegretario generale nazionale del sindacato di polizia penitenziaria. Preso atto dell’accaduto l’amministrazione del carcere ha disposto il trasferimento in altra sede del detenuto che già in passato si era reso responsabile di episodi violenti all’interno della struttura. Siracusa: Osapp; rissa tra detenuti stranieri alla Casa circondariale di Augusta Il Velino, 24 settembre 2010 Rissa all’interno della sezione “aperta” della casa circondariale di Augusta, in provincia di Siracusa. Alle ore 15 circa di ieri 4 detenuti extracomunitari hanno dato vita ad una rissa che ha messo in subbuglio l’intera sezione. “Il personale è intervenuto in forza, fra di loro pure i graduati, per riportare alla calma la situazione - racconta Mimmo Nicontra, vicesegretario generale dell’Osapp - . È occorsa però qualche ora. Ma sottolineiamo che la casa circondariale di Augusta è quella che paga il prezzo maggiore della carenza di personale di polizia penitenziaria. Fino a oggi non si hanno infatti notizie degli arruolamenti”. Stati Uniti: pena morte; giustiziata Teresa Lewis, donna affetta da ritardo mentale Apcom, 24 settembre 2010 È stata dichiarata ufficialmente morta alle 21.13 locali, le 3.13 di questa notte in Italia. Teresa Lewis, la “Sakineh americana”, è stata giustiziata al Greensville Correctional Center di Jarratt, in Virginia, con un’iniezione letale. Tre diversi medicinali l’hanno portata dalla vita, allo stato catatonico, all’arresto cardiaco. “Non ci sono state complicazioni”, ha spiegato Larry Traylor, portavoce delle autorità penitenziarie locali. Il suo ultimo pensiero è stato rivolto a Kathy Clifton, sua figliastra. “Voglio solo che Kathy sappia che le voglio bene e che sono veramente desolata”, ha detto. Prima dell’esecuzione, Teresa Lewis aveva ricevuto la visita dei suoi figli, del suo legale e di un prete. Per il suo ultimo pasto ha chiesto pollo fritto, fagiolini, un dolce al cioccolato e una crostata alle mele. Poi ha fatto una doccia ed è stata trasferita nella camera della morte. Durante l’esecuzione, una trentina di persone si sono radunate in prossimità del carcere per protestare contro la pena di morte. Lewis, 41 anni, è stata ritenuta colpevole di aver organizzato l’omicidio del marito e del figliastro nell’ottobre 2002 per incassare i soldi di una polizza sulla vita. Ha assoldato due sicari, offrendogli in cambio denaro e favori sessuali, a cui ha aperto la porta di casa il giorno degli omicidi. Secondo la difesa la donna sarebbe però affetta da ritardi mentali e sarebbe stata manipolata dagli assassini. Canada: le carceri canadesi non sono adatte ai malati mentali Asca, 24 settembre 2010 Un rapporto reso pubblico ieri dall’Office of the Correctional Investigator punta il dito contro il modo in cui sono trattati i detenuti con problemi mentali nelle prigioni canadesi. Howard Sapers, ombudsman delle prigioni federali, che ha condotto l’indagine, ha detto che i penitenziari del Paese non sono in grado di farsi carico dei loro bisogni. Sapers ha riassunto la situazione in modo molto efficace dicendo che i detenuti con problemi mentali vengono gestiti come pacchi in un magazzino, senza che i loro bisogni siano minimamente presi in considerazione. “Le prigioni canadesi stanno diventato il più grande centro psichiatrico del Paese - ha detto ieri l’ombudsman - e il Correctional Service del Canada ha l’obbligo per legge di prendersi cura dei detenuti con problemi mentali, compresa, all’occorenza, la somministrazione di medicinali”. Venir meno a questi obblighi, ha ammonito l’ombudsman, “rende la detenzione del tutto inefficace e in qualche caso anche pericolosa”, alludendo ai suicidi in cella. Il 10 - 12 per cento delle persone detenute in Canada ha problemi mentali. Già a dicembre Sapers aveva chiesto alle autorità carcerarie di rendere pubblici i loro programmi per questo tipo di prigionieri.