Giustizia: detenuti e agenti vivono in condizioni che sono un insulto per un paese civile di Valter Vecellio L’Opinione, 14 settembre 2010 “Piccole” questioni di “ordinaria” giustizia. Dedicate a quanti non credono che quelle relative alla giustizia siano questioni urgenti: l’emergenza più drammatica di questo paese; emergenza che non riguarda solo la comunità penitenziaria: i quasi settantamila detenuti e le decine di migliaia di agenti di polizia penitenziaria costretti a vivere in condizioni che sono un insulto per un paese civile. Si tratta anche delle migliaia di processi che giacciono in attesa di definizione, la maggior parte dei quali è fatalmente destinato a morire per prescrizione: come ci ricorda tutti i giorni Marco Pannella, una quotidiana, silenziosa, amnistia di classe; una denegata giustizia di massa, come ci diranno fra qualche mese, anche quest’anno i procuratori generali nelle loro relazioni di apertura dell’anno giudiziario: reati da una parte impuniti, dall’altra processi che non si riescono a celebrare: con persone che non riusciranno a vedersi riconosciuti quei diritti di cui hanno diritto. A rimetterci sono sempre e solo i poveri cristi, perché chi ha denaro e potere per potersi permettere un buon avvocato, o dispone delle amicizie giuste, se la cava sempre. Ci sono tre storie che possono essere prese a paradigma della situazione che abbiamo cercato dì descrivere. Tre storie, come si dice, emblematiche. Enna, entroterra siciliano. Il procuratore di quella città si chiama Calogero Ferrotti, ha 67 anni, è in magistratura da trenta. Ha chiesto di andare in pensione, il dottor Ferrotti; poi però ha ritirato la richiesta. Lo ha fatto per “senso delle istituzioni”. Cosa c’entra il senso delle istituzioni con la pensione? Il fatto è che il dottor Ferrotti è l’unico magistrato della sua città: se lui se ne va, al palazzo di giustizia restano solo gli uscieri. Erano in due, fino a qualche giorno fa, a dividersi i 7mila procedimenti che arrivano ogni anno: trecento circa al mese, dieci a testa ogni giorno, domenica e feste comprese. Il sostituto qualche giorno fa è andato via, ha ottenuto di essere trasferito nelle Marche. Ora il dottor Ferrotti è solo. Una mano la danno i vice-pretori onorari, che però si possono occupare di vicende minori. Il grosso, però, fatto di fermi da convalidare, sequestri, inchieste sulla mafia da coordinare, interrogatori e udienze ricadono sulle sue spalle. Restiamo in Sicilia, a Barrafranca. C’è uno spacciatore, è sotto controllo, gli hanno piazzato microspie e lo incastrano con le intercettazioni. Un cliente dice: “Digli che ti manda Salvatore”; e Salvatore viene messo sotto inchiesta. Solo che non è il Salvatore buono, è un commerciante di giocattoli, sposato con un bimbo, che con la droga non ha mai avuto a che fare. Gli perquisiscono l’abitazione; non trovano nulla. Non importa: c’è quella intercettazione: rinvio a giudizio, interrogatori... passano ben dieci anni. Alla fine completamente prosciolto. Depone a favore anche un carabiniere, e un consulente fonico. Assicura che la voce del Salvatore intercettato non è quella dei Salvatore sotto processo. Ci hanno messo dieci anni per riconoscere l’errore, perché l’incubo avesse fine. Terza storia, a Palermo: la storia del bandito Salvatore Giuliano ucciso in circostanze mai troppo chiarite a Castelvetrano il 5 luglio del 1950 immagino sia abbastanza nota. Di certo, scriveva in una sua celebre inchiesta Tommaso Besozzi su “l’Europeo”, si sa solo che è morto. Morto ammazzato. Perché ormai era scomodo anche ai suoi protettori, perché si ribellava a certe logiche, perché a Cosa Nostra non serviva più. Bene: qualche giorno fa la procura di Palermo ha aperto un fascicolo, per cercare di capire come stanno le cose. Sono state già ascoltate delle persone la cui testimonianza è ritenuta utile, e insomma: sessant’anni dopo, si cerca di capire chi ha ucciso il bandito Giuliano. Come dire: “non è mai troppo tardi”. Chissà, forse prima o poi apriranno un fascicolo per accertare se davvero il signor Abele è stato ucciso dal fratello Caino. Giustizia: la lotteria della pena… invece di 5 anni finisce all’ergastolo di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 settembre 2010 Va bene che la giustizia è bendata, almeno per come la si rappresenta da quando nel 1494 un’incisione simile illustra un poema di Brant, ma così è un po’ troppo: processato come “palo” di un omicidio in una guerra tra bande giovanili, l’imputato 19enne esce da un giudice che boccia il patteggiamento a 5 anni appena accordatogli dal pm, ed entra da un altro giudice che lo condanna invece all’ergastolo su richiesta di un altro pm della stessa Procura. Da 5 anni al carcere a vita: e per lo stesso fatto per il quale agli autori materiali erano stati inflitti 18 anni. Già capo della banda di Latin King denominata New York, David Betancourt Noboa, “reo” il 13 maggio 2009 di aver lanciato in un’intervista a Sky un appello a cessare la spirale di vendette tra gang, viene accoltellato dai rivali Chicago alle 5 del mattino del 7 giugno all’uscita dalla discoteca “Thini Cafè” a Milano, quando dopo 20 minuti di appostamento gli aggressori gli piantano nella schiena 16 centimetri di lama di un coltello e lo prendono a calci mentre è già a terra rantolante. Arrestati anche per il ferimento di due rivali, davanti alla giudice Micaela Curami gli imputati chiedono tutti il rito abbreviato tranne il “palo” Adrian Tubetano Pesantes, che dal pm Mario Venditti si vede prestare il consenso a un patteggiamento 5 anni per aberratio delicti, cioè per un omicidio colposo in cui un errore nell’uso dei mezzi d’esecuzione del reato abbia prodotto un evento diverso da quello voluto. Ma il sì del pm non basta, perché la giudice Curami non trova sostenibile la qualificazione giuridica e l’entità della pena, e respinge il patteggiamento: divenuta così incompatibile per legge a giudicare il “palo”, prosegue il processo agli autori materiali che condanna a 28 anni e 3 mesi, ridotti a 18 anni e 6 mesi dallo sconto di un terzo dovuto al rito abbreviato, più 100mila euro di risarcimento ai familiari della vittima assistiti dai legali Donata Coluzzi e Daniela Figini. La “vedetta” viene dunque giudicata da un altro giudice, Andrea Salemme, in un’altra udienza nella quale la Procura è rappresentata da un altro pm, Maurizio Ascione. E qui cambia tutto, perché il nuovo pm propone e il nuovo giudice ravvisa due elementi in più e uno in meno: in più due aggravanti come la premeditazione e il movente futile e abbietto (che la giudice degli altri coimputati non aveva ritenuto configurabili), in meno le attenuanti generiche negate all’imputato (e concesse invece dall’altra giudice a taluni coimputati). Il risultato nell’algebra giuridica è la pena non dell’ergastolo, che lo sconto del rito abbreviato abbasserebbe a 30 anni, ma dell’ergastolo con isolamento, che la riduzione del rito può abbassare solo in ergastolo semplice. In Appello, dove il difensore Veronica Raimondo ora chiede siano riuniti i due processi, si ridiscuterà della premeditazione, che per la prima giudice non c’era perché incompatibile con il concorso in un omicidio a dolo eventuale (cioè con l’accettazione del rischio che nell’aggressione ci scappasse il morto); e che invece c’era per il secondo giudice in virtù del “persistere del programma criminoso” dalla sera precedente fino alle 5 del mattino, con provvista di coltelli e bastoni, appostamento di 20 minuti e aggressione alle spalle di ragazzi in fuga. Allo stesso modo l’Appello dovrà esprimersi sui motivi futili e abbietti del delitto, che il secondo giudice individua nell’”unica regola di reagire alla violenza per la violenza, gratuita manifestazione della capacità di ledere l’altrui integrità fisica”, e che la prima giudice riteneva invece dovessero essere contestualizzati (e esclusi nel caso specifico) nei “fattori ambientali, connotazioni culturali e contesto sociale che possono aver condizionato la condotta criminosa”. E se la diversità di valutazione tra giudici può essere fisiologica qualora in entrambi i casi adeguatamente motivata, colpisce soprattutto la forbice della difformità di richieste da parte di pm appartenenti al medesimo ufficio di Procura. “Giusta” o meno si vedrà, ma un po’ troppo “bendata”. Giustizia: detenuti potranno telefonare ai famigliari anche se questi hanno utenze mobili Ansa, 14 settembre 2010 Vietate da una ventina d’anni - da quando cioè i cellulari hanno cominciato a prender piede anche in Italia - le telefonate dal carcere verso gli apparecchi mobili d’ora innanzi sono consentite. A dare il via libera è stato il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per favorire i contatti tra i detenuti e i propri familiari, così da “ridurre il disagio” nei sovraffollati penitenziari italiani (circa 68 mila detenuti contro 43mila posti regolamentari) e per limitare il rischio suicidi su cui frequentemente pesano separazioni e divorzi tra un coniuge detenuto e l’altro fuori dal carcere. Ovviamente, però, alle chiamate sui cellulari sono stati fissati una serie di “paletti” contenuti in una circolare diramata in questi giorni dalla direzione generale detenuti del Dap. Innanzitutto la platea di coloro che dal carcere potranno comporre il numero di un cellulare: sono esclusi i detenuti per mafia e terrorismo in 41 bis, quelli in regime alta sicurezza, ma anche i collaboratori di giustizia (così da garantire la mancanza di impropri contatti esterni e dunque la genuinità delle loro dichiarazioni). Nel caso dei collaboratori di giustizia, tuttavia, la circolare prevede una deroga: i direttori, con il via libera del pm, possono autorizzarli alle telefonate verso i cellulari solo se non abbiano potuto contattare altrimenti i familiari e in caso di assenza di colloqui per almeno 15 giorni. Nessun divieto per i detenuti comuni di media sicurezza. E ciò vale anche per quelli stranieri (circa il 30% del totale): si è voluto così evitare - è scritto nella circolare firmata dal responsabile della direzione generale detenuti, Sebastiano Ardita - che i ritardi dei consolati nell’accertare la titolarità dell’utenza telefonica che l’extracomunitario intende chiamare “prolunghino eccessivamente la totale assenza di contatti del detenuto con i familiari”. In ogni caso - sottolinea il Dap - sarà il direttore del carcere a valutare le singole situazioni concrete, negando l’autorizzazione alle telefonate se ci sono ragionevoli motivi di sicurezza interna o esterna, come a esempio la richiesta di telefonare verso “Nazioni particolarmente a rischio per la presenza di fenomeni di terrorismo o criminalità organizzata” oppure nel caso in cui il detenuto abbia tentato di evadere. Il costo delle telefonate sui cellulari sarà a carico del detenuto, assicurano al Dap che ha sollecitato i provveditorati regionali a fornire, entro il 31 ottobre prossimo, i dati su quante siano state le richieste di chiamare utenze cellulari, sulla percentuale di quelle rifiutate e per quali motivi, su quanti detenuti siano stati autorizzati a chiamare paesi extracomunitari e, infine, se vi sia stato o meno un significativo aumento del numero delle telefonate dal carcere. Giustizia: l’uomo che fa evadere il “made in carcere” di Federico Taddia La Stampa, 14 settembre 2010 Un imprenditore crea la prima rete per le cooperative di detenuti. “Metto in commercio prodotti ottimi che finora non si era mai pensato di vendere”. Un tour per le carceri a bordo di un camper Anni 80, acquistato a giugno per 6.500 euro alla faccia dei 99 milioni di lire di listino nel 1983. Guai a dubitare sull’affidabilità del mezzo: Paolo Massenzi è orgoglioso della sua casa a quattro ruote. E i numeri gli danno ragione: 15 mila km percorsi in un paio di mesi, da quando ha dato via al “Jail Tour 2010”. Un viaggio lungo lo Stivale per raccogliere, censire e mettere in mostra biscotti, abiti, collane, pasta, formaggi, mobili e tanti altri prodotti realizzati esclusivamente da detenuti. “Il 22 ottobre 2009 ero in macchina e la radio mi ha dato la notizia della morte assurda di Stefano Cucchi - spiega -. Lì è cambiata la mia vita: ho immaginato che Cucchi potevo essere io, o poteva essere un mio figlio tra qualche anno. Mi è nata l’esigenza di scoprire se nel carcere c’era qualcosa di buono. Ho visitato alcuni istituti e, probabilmente sollecitato dalla mia professione di project manager, ho scelto di dedicarmi alla valorizzazione di ciò che viene creato con arte e professionalità nelle prigioni italiane”. Massenzi abbandona così il lavoro e apre il portale www.recuperiamoci.org, che diventa un punto di riferimento per fare rete tra le cooperative di detenuti ed ex detenuti. L’obiettivo è stilare una mappatura delle realtà che operano nelle carceri per tentare di aprire entro Natale un emporio a Roma, dove mettere in vendita prodotti “made in carcere”. “I dati parlano di 12.376 detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria su 68.345 - dichiara Massenzi -. Ma i veri numeri sono ben più piccoli. Chi partecipa a progetti gestiti da cooperative e quelli che sono ammessi a un lavoro esterno sono poco più di 800. Troppo pochi, se si pensa che la recidiva di chi lavora è solo del 10% contro il 70% di chi non ha lavoro: avere un impiego e imparare un mestiere offre una possibilità di riscatto. E trovare nuovi mercati in cui vendere i prodotti realizzati è essenziale per recuperare risorse per aumentare l’occupazione”. La prima tappa del “Jail Tour” è stata Alba, dove sul camper sono state caricate alcune bottiglie del vino realizzato nella Casa Circondariale: un dolcetto battezzato “Vale la pena”. A Verbania, invece, con il marchio “Banda biscotti” nel laboratorio del carcere vengono infornati biscotti per tutti i gusti, mentre la Casa di Reclusione di Fossano propone “Ferro&Fuoco Jail Design”, oggetti di arredamento in metallo. A San Vittore, poi, c’è una sartoria dove nasce la linea di abbigliamento casual “Gatti galeotti” e dove le detenute hanno tagliato e cucito le toghe per alcuni giudici milanesi. A Mantova invece la coop “Parti inverse” è specializzata in gioielli realizzati con materiali di recupero. A “Le Vallette” di Torino spazio alle culle realizzate con cabine telefoniche dismesse e a “Pausa Cafè”, laboratorio di torrefazione del caffè. “Ho recuperato 435 prodotti e ho recensito 73 cooperative e associazioni attive nelle carceri - aggiunge Massenzi -. Ma il viaggio non è ancora concluso. Mettere in circolo questi prodotti non è facile, anche perché l’amministrazione penitenziaria non può fare vendita diretta. Quello che nasce nelle 115 aziende biologiche, per esempio, viene consumato nelle prigioni, mentre le cooperative fanno sforzi enormi per realizzare ottimi manufatti ma poi non sanno come muoversi nella distribuzione”. Un mercato che è davvero vario e smisurato: basti pensare all’attività di smaltimento delle lavatrici nel carcere “Dozza” di Bologna, agli abiti del ‘700 tessuti e disegnati dalle detenute della Giudecca a Venezia, grazie alla cooperativa “Il Cerchio”, alla bambola-cuscino “Ninetta” creata al femminile di Sollicciano, ai taralli “Campo dei miracoli” di Trani, alle ricercatissime paste di mandorle de “L’arcolaio” sfornate dal carcere di Siracusa o alle magliette “Made in Jail” che da oltre 20 anni sono il brand di Rebibbia a Roma. A Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), invece, esiste un mobilificio nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario: un’ala è adibita a laboratorio d’eccellenza, dove vengono realizzati arredamenti per banche, hotel e abitazioni, anche se il fiore all’occhiello è un divertente porta flebo per bambini. “Dal carcere può ripartire la speranza, è quello che vedo ogni giorno nel mio tour - conclude Massenzi -. Basti pensare a quello che succede a Locri, dove la cooperativa ?Valle del Bonamico? occupa ex detenuti in un progetto di recupero di un maiale nero in via d’estinzione, mentre la carne verrà lavorata dalle donne vedove di ndrangheta. E uno degli ex detenuti mi ha confessato che ora ha finalmente qualcosa in cui credere”. Giustizia: “In morte segreta”, recital in memoria di Stefano Cucchi; a Padova, Roma e Milano Redattore Sociale, 14 settembre 2010 Un recital per raccontare la vita di Stefano Cucchi, morto lo scorso ottobre nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini a otto giorni dal suo arresto, per ricordare i suoi “pensieri, ricordi, i sogni, le contraddizioni e le emozioni”. “In morte segreta” è la rappresentazione scritta e interpretata da Ugo De Vita, autore di teatro civile che ha dedicato l’opera “non alla cronaca giudiziaria, che ha portato a tredici rinvii a giudizio, ma alla vita di Stefano”. De Vita spiega che ha scelto di chiamare così lo spettacolo dopo avere parlato con la madre di Stefano: “Rita Cucchi diceva sempre che le avevano nascosto il figlio. La mamma di Stefano non voleva che fosse una morte segreta, per questo ho deciso di chiamare così il mio lavoro”. Il recital è stato presentato questa mattina nella sede dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Accanto all’autore, oltre alle deputate radicali Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti, il presidente dell’associazione A buon diritto, Luigi Manconi, e il segretario di Nessuno tocchi Caino, Sergio D’Elia, anche la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi. “Da subito - ha detto Ilaria - ho capito che lo scopo dello spettacolo non era quello di raccontare la realtà nuda e cruda, ma entrarci dentro e sentire le emozioni che abbiamo vissuto noi. Mi sento fortunata ad avere incontrato così tanta solidarietà, per questo c’è l’idea di dare vita a una associazione: quando ricevi hai anche voglia di restituire”. Ilaria Cucchi ha poi ricordato la sentenza di condanna verso alcuni agenti per la morte di Federico Aldrovandi: “Questo - ha aggiunto - dà la forza di credere che c’è un senso. Stefano per me è ancora vivo, e finché non comprenderò la verità, prima ancora della giustizia, finché non saprò perché mio fratello non c’è più, non riuscirò ad andare avanti”. “In morte segreta” rappresenta 65 minuti per “conoscere Stefano”, a partire da un video in cui la sorella Ilaria e la mamma Rita raccontano la sua vita, dalla nascita ai problemi di tossicodipendenza, fino alla sera del 15 ottobre scorso, quando Stefano “è stato fermato nei pressi dell’Acquedotto e l’ho rivisto solo dopo, quando ci hanno riconsegnato il corpo”. La prima rappresentazione dello spettacolo, promosso dalle associazioni Nessuno tocchi Caino, Ristretti Orizzonti e A buon diritto, e patrocinato dal garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, e dalla Nazionale italiana cantanti, si svolgerà sabato nell’Auditorium della casa di reclusione di Padova, mentre il 21 settembre arriverà a Roma nella Biblioteca vallicelliana e il 14 ottobre a Milano presso la Biblioteca Braidense. Sardegna: mercoledì passaggio competenze sanità penitenziaria alla regione Adnkronos, 14 settembre 2010 Nessuna bocciatura, da parte del Consiglio regionale, del passaggio delle competenze della sanità penitenziaria dallo Stato alla Regione. Infatti, la Prima Commissione consiliare ha solamente rinviato a mercoledì prossimo l’analisi del provvedimento. Lo ha detto stamani l’assessore della Sanità della Regione Sardegna, Antonello Liori, durante un incontro avuto con gli operatori sanitari all’interno del carcere di Cagliari. L’Assessore, accompagnato dal capo di gabinetto, Tonino Dessì, dal vice direttore del carcere, Elisa Milanesi, e dal dirigente medico di Buoncammino, Matteo Papoff, ha anche evidenziato che la Regione finora ha fatto pienamente il proprio dovere, adempiendo a tutte le incombenze ed anche anticipando 1 milione e 300.000 euro per il 2009, cifra che ancora deve essere rimborsata dallo Stato. Ovviamente, una volta effettuato il passaggio delle competenze con l’approvazione della legge in Consiglio, presumibilmente entro la fine dell’anno - ha concluso l’assessore - sarà necessario riorganizzare il sistema, organizzando un tavolo di concertazione tra gli attori della sanità penitenziaria. Sul tema, peraltro, esiste già una bozza elaborata dalla Commissione per la sanità penitenziaria, un’ipotesi di lavoro sulla quale si aprirà la discussione. Torino: si taglia le vene pur di non tornare in carcere, morto detenuto in libertà vigilata Adnkronos, 14 settembre 2010 Pur di non farsi arrestare di nuovo si taglia le vene. È successo stamattina a Torino, dove un uomo di 50 anni, Rodolfo Gottardo, pregiudicato, già in libertà vigilata per i suoi trascorsi giudiziari, si è ucciso nel proprio appartamento, prima che i carabinieri potessero arrestarlo. Il 10 settembre aveva compiuto una nuova rapina, nella filiale di una banca in un piccolo comune nell’astigiano. Grazie alle impronte digitali e alle riprese a circuito chiuso il Ris era riuscito a identificarlo. Stamattina i militari, intorno alle cinque e trenta, si sono presentati davanti alla porta del suo appartamento, in uno stabile di via Fratelli Faà di Bruno a Torino. I carabinieri gli hanno chiesto di aprire, dicendo che si trattava di un semplice controllo, dal momento che, per la libertà vigilata, era tenuto a rimanere in casa dalle 22 alle 6 del mattino. Lui però ha capito subito che erano lì per la rapina e si è rifiutato di aprire, minacciando di far esplodere il condominio, riempiendo la casa di gas. A quel punto i militari hanno fatto chiudere luce e gas, e poi hanno iniziato le trattative per convincerlo a uscire. Dopo poco più di un’ora, quando l’uomo improvvisamente ha smesso di parlare, hanno sfondato la porta. L’uomo si era tagliato le vene e perdeva sangue copiosamente. Trasportato d’urgenza all’ospedale Giovanni Bosco, è morto intorno alle otto. Firenze: il sindaco; a Sollicciano condizioni igieniche inaccettabili, 30 giorni per provvedere di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 settembre 2010 Un sindaco, se è un sindaco, lo è per tutti. Perfino e soprattutto per i condannati delle galere del suo territorio, le uniche persone a non poter proprio scegliere dove risiedere. E siccome a rigor di legge al sindaco è affidato il compito di tutelare l’incolumità, la salute e l’igiene pubblica, tanto da poter emanare ordinanze “contingibili e urgenti” in caso di pericolo imminente, a Firenze l’ufficio preposto del gabinetto di Matteo Renzi ha preso carta e penna e alcuni giorni fa ha scritto all’amministrazione penitenziaria del locale carcere di Sollicciano. Con un “provvedimento dirigenziale”, il responsabile dell’igiene pubblica di Palazzo Vecchio, Marco Maselli, ha intimato alla direzione della Casa circondariale fiorentina di intervenire immediatamente per porre rimedio ai gravi problemi che rendono il penitenziario insalubre per detenuti, agenti ed operatori: 30 giorni di tempo per agire, altrimenti il comune “procederà a termini di legge”. Che, come avviene per una scuola o per un ufficio pubblico, può voler dire perfino far scattare i sigilli alla struttura. Certamente non succederà questa volta, come non è avvenuto nemmeno nei casi precedenti, ma il provvedimento è già qualcosa: dimostra almeno che alcune amministrazioni comunali (troppo poche, però) non hanno perso del tutto il senso della legalità e quando necessario possono anche contrapporsi ad altre istituzioni, come democrazia comanda. Quello di Firenze è al momento l’unico Municipio ad aver risposto, tra i quindici che hanno ricevuto l’altolà delle associazioni “A buon diritto” e “Antigone”. Le due organizzazioni a tutela dei diritti dei detenuti, infatti, dopo aver visitato nei mesi di giugno e luglio una quindicina di carceri del centro-nord e averli trovati in condizioni igienico-sanitarie davvero inaccettabili, hanno minacciato esplicitamente i relativi sindaci, assessori regionali alla Sanità e dirigenti delle Asl: “Se non interverrete immediatamente ad ispezionare le celle e a chiudere eventualmente i reparti insalubri, voi che siete responsabili della salute pubblica, - è il succo degli esposti presentati a metà luglio dall’avvocato Arturo Salerni del foro di Roma a cui le associazioni hanno dato mandato - vi denunceremo alla procura della Repubblica”. Così, un paio di giorni fa, nello studio Salerni è arrivata la notifica del primo provvedimento, quello preso da Palazzo Vecchio. In realtà, non è la prima volta che la giunta fiorentina si muove in tal senso, né è il primo caso in Italia: nel 2006, infatti, l’allora assessore-sceriffo Graziano Cioni minacciò l’amministrazione penitenziaria di Sollicciano con un’ordinanza controfirmata dal sindaco Leonardo Domenici che assomiglia tragicamente a quella inviata qualche giorno fa dal suo successore Renzi (il che vuol dire che nulla è cambiato); nel 2007, invece, fu Sergio Cofferati ad ordinare l’immediato intervento alla direzione della Casa circondariale Dozza di Bologna; e infine è già successo il 30 aprile scorso, quando il sindaco di Pordenone Sergio Bolzonello ha intimato “ai responsabili dei competenti uffici del Ministero della Giustizia di adottare i provvedimenti necessari per riportare a 53 il numero dei detenuti” del locale carcere che ha raggiunto quota 98. A Sollicciano, invece, “al posto di 458 detenuti ce ne sono 970 di cui 863 uomini e 107 donne con tre bambini”, come scrive nel “provvedimento dirigenziale” il dirigente della giunta Renzi. In allegato all’ordinanza ci sono i verbali dei sopralluoghi effettuati (l’ultimo nel giugno scorso) che “evidenziano la grave situazione di sovraffollamento del carcere, sia maschile che femminile”, le “numerose e copiose infiltrazioni di acque meteoriche” - “quando piove, in alcune aree del carcere, se non hai l’ombrello ti bagni”, traduce Alessio Scandurra dell’associazione Antigone - “la mancanza di acqua calda nelle docce”, “la presunta presenza notturna di topi”, i liquidi fuoriusciti dall’impianto idrico “che scendono a flotti dalle botole entrando anche nelle celle”, “la presenza di plafoniere sui soffitti dentro cui sono poste telecamere piene di acqua con rischi legati anche alla sicurezza per il contatto diretto con l’impianto elettrico”, “l’infestazione da piccioni”, e così via. È lungo l’elenco delle “gravi carenze igieniche e manutentive che perdurano” da anni nella struttura e che pongono ancora una volta lo Stato italiano in una condizione di illegalità e incostituzionalità. Tante da convincere l’amministrazione fiorentina a esercitare tutta la pressione possibile sul direttore della casa circondariale, Oreste Cacurri, ordinando “l’immediata attivazione ed esecuzione (al massimo entro 30 giorni) degli interventi di manutenzione ordinaria”, “un cronoprogramma aggiornato degli interventi” e un piano di manutenzione straordinaria. Da avviare “entro 30 giorni dal ricevimento del presente atto”. Scadranno a fine settembre, non resta che aspettare. Sindaci, ora tocca a voi Il carcere fa parte del territorio della città. Il sindaco è il sindaco di tutti, anche dei carcerati e della comunità penitenziaria. A Firenze l’amministrazione comunale ha aperto una vertenza nei confronti della direzione del carcere affinché sia garantito ai detenuti un trattamento rispettoso dei loro diritti fondamentali, a partire da quello alla salute e all’integrità personale. Chiediamo ai Sindaci di tutta Italia di fare lo stesso. Perché, facendo fino in fondo il loro dovere, si ergano a tutela del diritto dei reclusi a vivere in dignitose condizioni igieniche e sanitarie. Accade invece che la vita nei reparti detentivi configuri ipotesi di trattamento inumano o degradante. E ciò avviene in carceri grandi e piccole, metropolitane e di provincia. La responsabilità principale è dell’indifferenza del Governo, che non affronta il tema delle condizioni di vita nelle prigioni. Facciamo appello ai Sindaci, in quanto autorità sanitarie e politiche locali, perché esercitino il controllo nelle carceri, inviino ispezioni per verificarne le condizioni sanitarie e igieniche, non lascino sola una grande comunità composta da detenuti, familiari, operatori civili e di polizia, volontari. Antigone, A Buon Diritto, Il Manifesto Firenze: a Sollicciano 100 detenuti rimangono senza istruzione Redattore Sociale, 14 settembre 2010 Nel carcere fiorentino, rispetto all’anno scorso, non sono state riattivate 5 classi secondarie di secondo grado. De Pasquale Pd): “Tagliare la scuola in carcere non è lungimirante e non aiuta la sicurezza” Saranno circa cento i detenuti di Sollicciano che, in seguito ai tagli alla scuola, non potranno beneficiare delle lezioni all’interno dell’istituto penitenziario. Rispetto all’anno scorso, nel carcere fiorentino non sono state riattivate 5 classi secondarie di secondo grado. “Il Governo taglia 3 miliardi alla scuola in tre anni - ha detto Rosa De Pasquale, parlamentare del Pd - e poi lascia il coltello in mano a chi amministra l’istruzione in modo periferico per decidere dove tagliare. Qui è stato deciso di tagliare ai più deboli. Tagliare sull’istruzione nelle carceri è davvero quanto di meno lungimirante possa fare una politica di vera sicurezza”. Grande preoccupazione è stata espressa anche dal direttore del carcere, Oreste Cacurri, che ha anticipato che “venerdì ci sarà un incontro con l’Ufficio scolastico regionale”. Sul problema è intervenuto anche Franco Corleone, garante per i diritti dei detenuti di Firenze: “Il taglio sulla scuola - ha detto - è il segno dell’ultimo sfregio e qui si scherza con il fuoco”. “Portare la scuola in carcere - ha aggiunto infine l’assessore provinciale all’istruzione, Giovanni Di Fede - è fondamentale e da domani porremo la questione all’amministrazione scolastica periferica. La provincia poi è disponibile ad accogliere le richieste per materiali e strumenti tecnologici necessari a fare scuola”. Lecce: emergenza carceri, tavolo permanente per trovare soluzioni Ansa, 14 settembre 2010 Si è tenuto oggi l’incontro convocato dalla direzione del carcere di Lecce: un tavolo permanente per denunciare i problemi, fare proposte, trovare soluzioni praticabili. Lo ha proposto la Confsal-Unsa. Di fronte al progressivo aggravarsi della situazione all’interno del carcere di Lecce, la Direttrice, la dottoressa Piccinni, ha convocato per oggi un incontro allargato a sindacati, rappresentanze interne dei dipendenti, responsabili dei servizi, quadri dirigenti amministrativi e della polizia penitenziaria. Queste le parole del segretario regionale della Confsal-Unsa, Giovanni Rizzo, sull’incontro: “Alcune ore di discussione non hanno fatto che rendere ancora più palese la sensazione di disagio e di allarme esistente. Una popolazione detenuta triplicata (1.500) rispetto al tollerabile (500); organico di polizia penitenziaria sottodimensionato di circa 200 unità; carenza di servizi sanitari che provocano poi superlavoro al personale; turni sempre più faticosi; personale amministrativo diminuito del 35% in pochi anni; carenza di interventi e di fondi, tanto da tendere moroso l’Istituto nei confronti dell’Inps edell’Inail; sempre più ridotte le attività di trattamento, che consentono di impegnare i detenuti costruttivamente abbattendone l’aggressività causata dalla reclusione, con conseguente aumento dei problemi di sicurezza”. “Sono solo alcuni punti dolenti della situazione - prosegue il segretario Giovanni Rizzo, - del resto ormai noti anche all’esterno. Ho quindi proposto, nel corso dell’incontro che era appunto tra addetti ai lavori, di superare le dinamiche dell’esplosione episodica di casi e di avviare un confronto continuativo: un tavolo permanente paritetico, continuativo come continua è l’emergenza”. “Il tavolo permanente - continua Rizzo - tra sindacati, amministrazione, operatori, centrerebbe molti obiettivi. Primo, quello di dare all’esterno la consapevolezza dell’urgenza e dell’emergenza, tale da imporre l’analisi e l’iniziativa unitaria. Secondo, la mancanza di frazionismi, rivalità, protagonismi individuali o collettivi. Terzo, l’analisi dei problemi e l’elaborazione finale di una serie di punti critici e di proposte quanto meno organizzative e poi di livello più elevato per ottenere le risorse necessarie: non è sbagliato rivolgersi alla mediazione e all’intervento del Prefetto”. “L’emergenza - ha concluso Rizzo - causa anche un irrigidimento nei rapporti tra amministrazione e personale. Lo stress, il sovraccarico, il disagio possono portare a un rilassamento dei servizi, cui si può pensare di riparare con una disciplina più rigida. Motivo di più per confrontarsi e agire concordemente, e anche presto”. Palermo: la denuncia del Sinappe; pochi agenti all’Ucciardone, impiegati nelle scorte Redattore Sociale, 14 settembre 2010 Dario Quattrocchi, segretario regionale del Sinappe: “Nessuno discute sull’opportunità di queste scorte, ma non dovrebbero essere fatte dalla polizia penitenziaria” Pochi agenti all’interno del carcere Ucciardone di Palermo. La denuncia arriva da Dario Quattrocchi, segretario regionale del Sinappe, uno dei sindacati della polizia penitenziaria. “All’Ucciardone c’è un solo agente che fa la guardia su due piani - ha detto Quattrocchi -. Siamo arrivati a una situazione di carenza di organico tale che talvolta, la notte, ci sono solo dieci agenti di guardia in tutto l’istituto che ospita 800 detenuti”. Il Sinappe denuncia inoltre che, a fronte di questa drammatica crisi d’organico, quaranta agenti sono andati via dal carcere per essere destinati ad incarichi non previsti dalle finalità della polizia penitenziaria. “Ben 40 uomini sono impiegati nelle scorte al ministro Alfano - prosegue Quattrocchi - e ai magistrati che oggi ricoprono incarichi nella giunta di governo regionale o al ministero. Sia chiaro nessuno discute sull’opportunità di queste scorte, ma non dovrebbero essere fatte dalla polizia penitenziaria”. Quello che il sindacato si chiede è perché debba essere la polizia penitenziaria a fare il servizio di scorta e non i carabinieri, la guardia di finanza, o i vigili urbani. Il problema era già stato sollevato lo scorso 28 agosto dalla Uil-pa che aveva puntato l’indice proprio sulla mancanza di personale. “Mancano 188 uomini alla polizia penitenziaria - aveva detto il segretario regionale Gioacchino Veneziano -. Questo è un problema di cui dovrebbe occuparsi il governo. Mancano anche educatori e assistenti sociali”. Varese: progetto “Non solo accoglienza”, un lavoro per gli ex detenuti senza famiglia Redattore Sociale, 14 settembre 2010 Progetto nato dalla collaborazione tra Vol.Gi.Ter, comunità Exodus, Enaip e cooperativa Intrecci dedicato agli ex reclusi di Varese e Busto Arsizio. Già coinvolte dieci persone da gennaio 2010. Attivo per altri tre anni. Favorire il reinserimento dei detenuti che hanno problemi di dipendenze o che non hanno una famiglia pronta ad aiutarli: per questo è stato avviato il progetto “Non solo accoglienza”, dedicato agli ex reclusi di Varese e Busto Arsizio. Nato dalla collaborazione tra Vol.Gi.Ter, comunità Exodus, Enaip e cooperativa Intrecci, il progetto ha già coinvolto una decina di detenuti da quando ha preso il via, nel gennaio 2010, e si protrarrà per tre anni, grazie ai finanziamenti della fondazione Cariplo (320.000 euro sui 630.000 necessari), della regione Lombardia e all’autofinanziamento delle associazioni coinvolte. L’associazione Vol.Gi.Ter di Varese si occupa dei detenuti in età lavorativa. “Il nostro compito - spiega il presidente dell’associazione, Marco Pozzi- è quello di trovare loro un impiego quando escono, anche grazie ai corsi di formazione organizzati dall’Enaip. L’obiettivo è di riavviarlo alla vita autonoma: prima ospitandolo negli appartamenti che abbiamo a disposizione (3 a Busto Arsizio e 2 a Varese, ndr) poi facilitandolo nella ricerca di un alloggio definitivo”. Importante è anche la continua assistenza nei confronti degli ospiti: “I detenuti interessati al progetto trovano dentro le mura un volontario e uno psicologo per ascoltarli - continua Pozzi - e, una volta fuori, continuano ad essere seguiti da tre volontari e un assistente forniti dalla coop. Intrecci”. Un’altra parte del progetto “Non solo accoglienza” riguarda gli ex detenuti con problemi di tossicodipendenza e se ne occupa l’associazione Exodus di don Mazzi. “Per l’attivazione è stato necessario pensare il progetto insieme all’Uepe (ufficio esecuzione penale esterna, ndr) - spiega l’operatore sociale Roberta Negri -, perché riguarda principalmente detenuti in permesso per affidamento terapeutico”. Sono fino ad ora 6 i detenuti tossicodipendenti che dalle carceri di Varese e Busto Arsizio hanno chiesto di aderire al progetto. “Uno di loro è già con noi -continua Roberta Negri - mentre con gli altri siamo nella fase dei colloqui e speriamo di poterli accogliere presto, perché si tratta di un progetto importante che può mostrare una via di collaborazione virtuosa tra associazioni, pubblico e privato”. Porto Azzurro (Li): frodi in gare e fondi Ue, indagati i vertici della Casa di Reclusione Ansa, 14 settembre 2010 Quattordici persone sono indagate dalla procura di Livorno in un’inchiesta che vede coinvolti, tra gli altri, responsabili del carcere di Porto Azzurro e di una cooperativa di servizi. Nel mirino degli investigatori sarebbero finiti il direttore del penitenziario, Carlo Mazerbo, e il responsabile dell’area comportamentale, Domenico Zottola. Fra le accuse, quelle di aver gestito in maniera fraudolenta bandi di gara e fondi europei. Gli altri indagati sono agenti di polizia penitenziaria, dipendenti dell’amministrazione penitenziaria e professionisti che avevano ricevuto degli incarichi. L’inchiesta è stata condotta dalla guardia di finanza di Portoferraio e verte su una cooperativa di servizi privata, presieduta da Zottola, che aveva il compito di reinserire i detenuti in attività lavorative. In una nota, la guardia di finanza spiega che gli indagati avrebbero “costretto alcuni detenuti a lavorare per un numero di ore maggiore rispetto a quelle effettivamente retribuite, in assenza di requisiti di sicurezza e rinunciando alle giornate di riposo, dietro la minaccia di perdere i benefici di legge e tornare a scontare la pena in cella”. Fra le accuse anche quelle di “avere ottenuto in maniera fraudolenta, attraverso un’offerta al ribasso, l’aggiudicazione di una gara per alcuni lavori a Pianosa” e di avere “incassato fraudolentemente fondi europei e avere interrato in modo incontrollato inerti e materiali nocivi derivanti da cantieri edili”. Le accuse sono, a vario titolo: concussione, turbativa della libertà degli incanti, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, appropriazione indebita e reati ambientali. Rovereto (Tn): Sappe; a Ferragosto mensa degli agenti rimasta senza derrate alimentari Ansa, 14 settembre 2010 La Polizia penitenziaria di Rovereto ha digiunato per mancanza di derrate alimentari, denuncia il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). Il fatto sarebbe avvenuto il 15 agosto, ma la notizia è stata resa pubblica solo ora in quanto il segretario generale del Sappe, Donato Capece, ha inviato una lettera al vicecapo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Roma raccontando che mentre i detenuti hanno festeggiato il ferragosto gustando un’ottima lasagna, la polizia penitenziaria s’è dovuta accontentare di panini confezionati in fretta e furia. La direzione - scrive Capece - non ha sopperito all’emergenza se non solo verbalmente dicendo al personale di arrangiarsi magari con una pizza o con i prodotti delle macchinette automatiche installate nel locale mensa. Secondo il segretario del Sappe, la situazione nel carcere di Rovereto permane critica. A fronte di 59 unità complessive per varie situazioni (5 distaccati a Milano, 4 in congedo straordinario, 1 Fiamme Azzurre, 5 destinati a cariche fisse) - scrive Capece - il servizio a turno è svolto da appena 20 persone, assolutamente insufficienti, a fronte di una popolazione di 80 detenuti, ossia il doppio di quella tollerabile. Per il personale femminile la situazione - sostiene sempre Capece - è ancor più critica e a tutto ciò si aggiunge la voce di una chiusura del carcere in previsione della nuova struttura di Trento. Appare chiaro che non vi è serenità tra il personale che nella maggior parte dei casi ha un’anzianità di oltre 30 anni di servizio. Il segretario del Sappe conclude chiedendo iniziative e fatti concreti perché l’emergenza a Rovereto è una costante continua. Ravenna: Ancarani (Pdl); no al Garante dei diritti dei detenuti, non ha nessun potere Ansa, 14 settembre 2010 “Nella seduta del consiglio della seconda circoscrizione di ieri abbiamo votato contro la delibera per l’istituzione di un “garante per i diritti delle persone private della libertà personale” proposta dall’assessore Piaia” dichiara Alberto Ancarani del Pdl. “Non si tratta certo di un disinteresse per le difficoltà che in particolare i carcerati della casa circondariale di Ravenna, molti dei quali ancora in attesa di giudizio, incontrano e hanno incontrato fino ad oggi a causa delle condizioni della struttura o per la mera condizione di detenuti, già di per sé portatrice di carichi di tensione fisica e psicologica. Ad essi va anzi la nostra solidarietà e l’impegno a continuare nel pungolo al Ministro della Giustizia affinché si ponga rimedio alle carenze ormai inemendabili del carcere di Ravenna. Il motivo per cui prendiamo le distanze è duplice: da un lato appare come l’ennesimo spot all’insegna del buonismo che l’amministrazione Matteucci ormai ci ha abituato ad inventarsi periodicamente, con intenzioni che rimarrebbero solo sulla carta in quanto i poteri di questo fantomatico garante non sono riconosciuti a livello nazionale e dunque si tratterebbe di una figura che, sebbene concertata a livello locale, verrebbe “tollerata” e non istituzionalizzata nell’ambito dell’amministrazione carceraria. Dall’altro lato tale carica non sarebbe svolta a titolo gratuito ma per essa è prevista un’indennità e dunque, a fronte dei motivi sopra riportati si tratterebbe dell’ennesimo spreco di denaro pubblico usato magari per compiacere una qualche figura da “piazzare” gradita al partito che in questa città tutto decide e tutto comanda. Ecco spiegati i motivi del voto contrario”. Piacenza: risoluzione in Comune; l’ampliamento del carcere non serva per nuovi arrivi Dire, 14 settembre 2010 Situazione carceri “disastrosa”. È l’opinione del Partito democratico di Piacenza che questo pomeriggio, durante la prima seduta del consiglio comunale dopo la pausa estiva, ha presentato una risoluzione per sollecitare il Governo a rimediare al sottodimensionamento della Polizia penitenziaria all’interno delle case circondariali con la necessità di risanare le struttura al fine di consentire ai detenuti di scontare la pena in modo dignitoso. Nell’imminenza della discussione parlamentare sul ddl “svuota carceri”, i Democratici cercano quindi di sollecitare l’amministrazione ad impegnare il ministro della Giustizia su una situazione “che enti ed associazioni denunciano quotidianamente”. La situazione è ancora più drammatica alla luce dei 38 detenuti, 4 agenti penitenziari e del dirigente generale che si sono suicidati dal primo gennaio 2010: la soluzione potrebbe essere quindi quella di aumentare il numero di Polizia penitenziaria all’interno del carcere e la realizzazione di un nuovo padiglione alle Novate, come promesso dallo stesso Alfano. “Il nuovo padiglione deve servire come valvola di sfogo per il sovraffollamento - sottolinea l’assessore alle Politiche sociali, Giovanna Palladini - e non come posto dove inviare altri detenuti da altre città”. L’allarme dell’assessore proviene dal “fondato dubbio” della mancata risposta di Alfano al sindaco di Piacenza Roberto Reggi il quale chiedeva rassicurazioni sul fatto che il nuovo padiglione debba servire solo ai detenuti piacentini: “Il ministro non ci ha mai risposto - chiosa Palladini - e da qui ne deriva la nostra preoccupazione”. Dall’altro lato, nonostante il Pdl sottolinei la bontà della risoluzione, critica l’idea che la maggioranza fa passare sui detenuti: “Il Governo sta cercando di ridurre il sovraffollamento - ribatte Marco Tassi (Pdl) - ma i detenuti non sono ridotti in schiavitù, tenete presente il costo dello Stato nel mantenerli”. Il consiglio comunale ha comunque approvato la risoluzione con i voti della maggioranza e di parte del Pdl (Luigi Salice e Sandro Ballerini). L’unico consigliere a votare contro è stato Massimo Polledri (Lega nord). Ivrea (To): Osapp; nel carcere ignorata la legge sulla sicurezza La Sentinella, 14 settembre 2010 “Nel carcere di Ivrea non viene applicata la normativa sulla sicurezza”. È quanto denuncia Luca Massaria, delegato regionale dell’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria e lavoratore della Casa Circondariale. Le sue segnalazioni vanno ad aggiungersi a tante altre giunte, negli ultimi mesi, da diversi dipendenti della struttura penitenziaria. “Il nuovo decreto legislativo numero 81 sulla sicurezza, che sostituisce la normativa 626, viene ignorato dalla direzione che non ha mai preso i dovuti provvedimenti - sostiene Massaria -. Gli esempi sono molteplici. Il carcere è inaccessibile per un diversamente abile, che desidera incontrare il proprio parente detenuto, a causa della presenza delle scale. Chi è in carrozzina entra nella struttura dalla porta carraia, alle stesso modo delle automobili e passa negli stessi corridoi dei detenuti. Negli anni, insomma, non si sono compiuti interventi per realizzare scivoli e altri accorgimenti, contemplati dalla legge”. “Ciò che preoccupa tutti - aggiunge Massaria - è poi l’ordine del Provveditore regionale di mettere tre brande, per tre reclusi, in una cella di otto metri quadrati. Una decisione, questa, che deriva dal continuo aumento delle persone che entrano in carcere. A Ivrea, in ogni singola cella, dovrebbe viverci un solo detenuto e non tre come oggi. Questo fatto fa sì che quando la Polizia Penitenziaria entra in una cella non si trova per niente in una situazione di sicurezza. Va segnalato, inoltre, il pericoloso posizionamento delle brande, che pesano circa 70 chili ciascuna. Queste sono state attaccate al muro con moschettoni e catene, senza essere omologate. Se mai cadesse una branda, considerato il suo peso, potrebbe far male seriamente a chi si trova nelle vicinanze”. “La tipografia del carcere - prosegue Massaria - non è mai stata sottoposta a ispezioni, per verificare che tutto risponda alla normativa sulla sicurezza in luogo lavorativo. Lo stesso vale per la cucina detenuti, sezione collaboratori. A fronte di tutte queste gravi carenze io e i miei colleghi vorremmo che intervenisse la Procura della Repubblica, con dei tecnici che verifichino le violazioni alla legge. Questa situazione è a conoscenza dell’organo di vigilanza Visag, al quale abbiamo inviato lettere di denuncia presso la sede di Torino e di Roma. Ma nessuno ci ha risposto”. Per Massaria è importante che non solo a chi competono gli interventi e i controlli in carcere sappia quale sia la situazione in cui sono costretti a vivere detenuti e dipendenti, ma si augura che pure le forze politiche locali e l’amministrazione eporediese dimostri sensibilità e si interessi, magari contattando i diretti interessati. Oggi la Casa Circondariale eporediese ospita 300 detenuti che devono scontare sia pene della durata di pochi mesi sia l’ergastolo. Ivrea (To): il Comune; con la direzione del carcere non riusciamo a fare nessun progetto La Sentinella, 14 settembre 2010 “Diversi volontari, che operano nella Casa circondariale di Ivrea, più volte, mi hanno esposto diverse situazioni di non sicurezza, sia per i detenuti che per i lavoratori. Per il Comune di Ivrea non è certo facile intervenire in un settore non propriamente di sua competenza”. È quanto afferma Paolo Dallan, assessore alle Politiche Sociali, il quale sa che la struttura carceraria eporediese è sovraffollata, all’interno della quale si sono verificati anche episodi di autolesionismo, che hanno avuto come protagonisti i detenuti. “Come amministrazione abbiamo ereditato e avviato dei progetti con il carcere, ma oggi riscontro non poche difficoltà a intrecciare rapporti di relazione con la direttrice - rimarca Dallan. Spesso alcune iniziative vengono intralciate o addirittura interrotte a causa della burocrazia imposta. Il mio predecessore, Salvatore Rao, ad esempio, aveva un permesso permanente per i contatti con il mondo del carcere. Per me non è così e ogni volta devo inoltrare richieste specifiche per poter approfondire i contatti con questa realtà. Sovente i progetti non vanno a buon fine perché non riusciamo ad avere una continuità significativa di rapporti con i reclusi. Ma anche perché agli incontri, destinati alla progettazione delle iniziative e degli intereventi di tipo sociale, che intendiamo proporre e intraprendere all’interno della Casa Circondariale, non si presenta la direttrice che delega qualcun altro che però non ha la possibilità di decidere”. “Il mio assessorato ha voglia di fare e ci sono, inoltre, diversi volontari preparati e disponibili a lavorare, al fine di recuperare alla società civile persone che hanno sbagliato - conclude l’assessore Paolo Dallan. Sono convinto che gli amministratori locali debbano riservare un occhio particolare verso quella parte della società più debole e emarginata, per riuscire a fornire opportunità e speranze”. Roma: Cisl; a Rebibbia organici insufficienti, in servizio 182 unità rispetto a 276 previste Dire, 14 settembre 2010 “Dotazioni organiche insufficienti alle reali esigenze. Basti pensare che attualmente risultano in servizio 182 unità, rispetto ad una pianta organica prevista da D.M. del 2001 di 276 unità. Per rendersi conto della situazione di estrema gravità in cui versa l’istituto della Cr di Rebibbia basta recarsi in un padiglione qualsiasi dove un solo agente espleta servizio ricoprendo contemporaneamente 4 posti di servizio dislocati in 4 piani”. Lo afferma in una nota il coordinatore regionale Fns (federazione nazionale della sicurezza) Cisl, Massimo Costantino. “Con un carico e una responsabilità di lavoro da terzo mondo, situazione mai verificatasi nella storia dell’amministrazione penitenziaria – prosegue. Per quanto sopra la Fns Cisl Lazio chiede interventi in merito agli Uffici dipartimentali del Dipartimento amministrazione penitenziaria tali da risolvere definitivamente le problematiche in questione”. Torino: laboratori di arte e scrittura in carcere, per esprimere emozioni Redattore Sociale, 14 settembre 2010 Direttori di istituti penitenziari, educatori e volontari a confronto a Torino sul tema “Arte, espressione di sé”. Sartoris, associazione La Brezza: “Forte esigenza per i reclusi di trovare un modo, un tempo per fare emergere la propria autenticità”. Detenuti, volontariato, arte: questi i temi di “Arte, espressione del sé”, convegno tenutosi venerdì scorso presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Diversi gli interventi: direttori di istituti penitenziari, educatori, assistenti volontari sollecitati dall’associazione di volontariato “La Brezza” si sono confrontati in occasione della presentazione del libro “L’Arte bussa dentro” realizzato con il contributo della regione Piemonte. Il volume si inscrive in una scia di pubblicazioni che l’associazione ha curato senza fini di lucro, ma di testimonianza di un percorso ricco di iniziative. L’Associazione “La Brezza” infatti partendo da una vocazione di ascolto attivo dei bisogni dei detenuti, dapprima negli ospedali, poi direttamente anche negli istituti penitenziari torinesi per adulti e per minori, ha colto nel tempo, come spiega la presidente Lucia Sartoris “la forte esigenza per le persone recluse di trovare un luogo, un modo, un tempo per fare emergere la propria autenticità, al di là della inevitabile massificazione vissuta specialmente nelle grandi realtà detentive”. Ecco nascere così i primi laboratori, dove instaurare un clima di rispetto reciproco ma anche di disponibilità a raccogliere le istanze più personali che progressivamente possono emergere nel percorso di acquisizione di tecniche pittoriche, di scrittura. “Davanti alla tela, alla carta, alla tavola di legno, l’impatto con la difficoltà tecnica significa esercitare l’autodisciplina e la buona volontà di perseguire un obiettivo - ha riassunto Maria Cristina Sidoni, ex direttore penitenziario. “Produrre un buon risultato e, gradualmente, nell’immaginare l’opera, condividere il progetto con i volontari, tentarne insieme la realizzazione, perfezionarla, si procede sempre più a definire un’immagine di sè e di quello che si vuole far percepire a chi vedrà il lavoro una volta ultimato e questo è un processo non banale: è l’acquisizione iniziale di un valore di responsabilità rispetto a un proprio prodotto, a un proprio agire nei confronti degli altri”. Ecco quindi che da semplice intrattenimento, queste attività possono “trattare” le persone, renderle più consapevoli del loro rapporto con il contesto sociale e quindi aprire un varco di vaglio critico del proprio passato e delle proprie aspirazioni per il futuro, come sottolinea il direttore della Casa Circondariale di Torino, Pietro Buffa. Tutto ciò può accadere quando l’offerta di attività si trasformi in qualcosa di più della mera, seppur comprensibile, occasione per uscire dalla cella e occupare il tempo: è cioè necessario che la qualità degli interventi sia alta - aggiunge Elena Lombardi, direttore del Penitenziario di Asti. Particolarmente vivace la testimonianza del personale dell’Ipm Ferrante Aporti: la direttrice, Gabriella Picco ha sottolineato la peculiare sensibilità che l’istituzione deve specialmente profondere nei confronti dei minori reclusi, spesso stranieri, con difficoltà nella comunicazione, per la lingua e per i contesti socioculturali di provenienza. L’apporto dei Comandanti di Polizia Penitenziaria degli Istituti intervenuti, degli educatori e di vari volontari che sperimentano, giorno dopo giorno, nel silenzio, una quotidianità complessa e contraddittoria come quella del carcere, ha proposto un punto di vista su questo mondo, ai più poco noto, significativo per capire quanto sia urgente il bisogno di attenzione, oltreché di risorse.”Anche così - spiega la Anna Greco, responsabile dell’Area Trattamentale del carcere di Torino - si può iniziare un percorso che porti davvero a riallacciare quel patto sociale interrotto con il reato. In un luogo di negatività come il carcere, il bisogno di esprimersi per persone private quasi di tutto, può incontrare quello di alcuni cittadini pronti ad andare verso l’altro e tendere la mano”. Genova: a Chiavari padri detenuti a pranzo con i figli nella “Area verde” Ansa, 14 settembre 2010 Oasi nel drammatico panorama delle carceri italiane, nell’istituto di pena di Chiavari (Genova) i detenuti possono pranzare con i propri bambini e famiglie nel bel giardino del piccolo penitenziario, per coltivare il proprio ruolo di genitori e gli affetti più cari anche durante la detenzione. È l’iniziativa nata dalla collaborazione tra l’assessorato alle Carceri della Provincia di Genova, che ha messo a disposizione specifici buoni per acquistare i generi alimentari per i pasti tra padri detenuti e famiglie, la direzione della Casa Circondariale nelle azioni del suo progetto per la genitorialità, la Polizia Penitenziaria che tutela la sicurezza degli incontri e gli assistenti volontari che provvedono all’acquisto dei prodotti per questi pasti con le famiglie delle persone recluse. L’Area Verde di 120 metri quadrati all’interno della Casa Circondariale di Chiavari è stata realizzata due anni fa, prima in Liguria, con un contributo di 20mila euro della Provincia “proprio per consentire di vivere ed esprimere nel miglior modo possibile anche in carcere - dice l’assessore Milò Bertolotto - gli affetti familiari tra i detenuti e i loro bambini. Per questo, il nuovo direttore della Casa Circondariale,Paola Penco, in collaborazione con la Provincia ha promosso la possibilità degli incontri proprio nell’Area Verde nella convinzione che queste collaborazioni, con il forte impegno anche della Polizia Penitenziaria e dei volontari siano il segno di una comune attenzione a un fattore molte importante come il diritto alla genitorialità anche all’interno del carcere”. Gli incontri tra i padri detenuti che ne hanno fatto richiesta e i loro bambini durano quattro ore, dalle 11 alle 15, e si svolgono all’aperto, nell’Area Verde realizzata con il finanziamento della Provincia, l’impegno diretto dei reclusi e la collaborazione di aziende, scuole e associazioni. Immigrazione: nel Cie di Gradisca d’Isonzo è scoppiata un’ennesima rivolta Ansa, 14 settembre 2010 Tutto comincia con uno sciopero della fame. Nulla che i gestori del lager non sapessero: erano giorni che i reclusi protestavano perché, dopo le sommosse e le fughe dell’estate, era scattata la punizione collettiva. Chiusi in cella senza poter uscire all’aria, se non per un’ora al giorno. La risposta è immediata e durissima. Una ventina di poliziotti in assetto antisommossa entra nella sezione intimando di smettere lo sciopero. Il tutto condito con un po’ di manganellate distribuite nella camerata ribelle. È la scintilla per la rivolta: materassi e lenzuola vanno a fuoco. Gli immigrati telefonano agli antirazzisti della regione per avere sostegno e far sapere quello che accade. In sottofondo alle chiamate le urla dei detenuti, ancora rinchiusi nella camerata. Il fumo riempie la stanza: gli immigrati non riescono a respirare, ma nemmeno questo basta. Le porte restano serrate. Nessuna pietà per chi non china il capo. Parte rapido il tam tam antirazzista: le radio di movimento mandano in diretta la voce dei ribelli intrappolati, vengono contattati i giornalisti e i compagni più vicini. Un consigliere regionale di Rifondazione chiama il questore per informarlo che ormai quello che sta succedendo al Cie è trapelato all’esterno. La Prefettura di Gorizia - secondo quanto riferisce l’Ansa - diffonde prontamente una diversa versione dei fatti. L’incendio all’interno del Cie sarebbe stato appiccato per coprire il tentativo di fuga di una ventina di altri reclusi, sventato dall’intervento delle forze dell’ordine. Un paio di attivisti vanno davanti al Cie. Purtroppo, come sempre, da fuori non si vede e sente nulla. Nemmeno il fumo, perché gli incendi nel frattempo erano stati spenti. All’interno delle celle l’aria resta irrespirabile e la situazione è molto tesa. Forse - ma la notizia non è confermata - in tarda serata un numero imprecisato di reclusi viene portato in ospedale per un principio di soffocamento. Santo Domingo: in carcere diritti umani violati, sciopero della fame dei detenuti italiani La Voce d’Italia, 14 settembre 2010 Benvenuti nelle carceri della Repubblica Domenicana dove ogni più elementare diritto umano venga violato, dove si dorme per terra, dove l’igiene è una parola sconosciuta e le malattie sono all’ordine del giorno. “Provate a immaginare un carcere dove ogni più elementare diritto umano venga violato, dove si dorme per terra, dove l’igiene è una parola sconosciuta e le malattie sono all’ordine del giorno, dove per avere acqua e qualcosa da mangiare devi pagare altrimenti muori. Benvenuti nelle carceri della Repubblica Domenicana. In questo “paradiso” sono detenuti alcuni cittadini italiani completamente dimenticati dalle nostre autorità e lasciati letteralmente al loro destino, tanto che uno di loro, A.S. (il nome è coperto per ragioni di privacy), un italiano di 57 anni che sta scontando una pena detentiva nella Repubblica Domenicana, ha deciso di lasciarsi morire facendo lo sciopero della fame per protestare contro l’inerzia del Consolato italiano di Santo Domingo e contro la mancanza di ogni tipo di assistenza umanitaria nei confronti dei detenuti italiani nelle carceri della Repubblica Domenicana. La denuncia è di Franco Londei, di Secondo Protocollo, associazione vicina ai detenuti italiani nel mondo. “Il sig. A.S. non è più un ragazzino ed è dimagrito di 30 kg da quando è in regime di detenzione. Da 13 giorni sta facendo lo sciopero della fame e voci provenienti da quell’inferno dicono che la sua situazione è talmente drammatica da spingere il direttore del carcere a scrivere una lettera all’Ambasciata italiana nella Repubblica Domenicana per protestare contro l’immobilità del Consolato in Santo Domingo. In carcere con lui ci sono altri due italiani. Uno negli ultimi mesi ha avuto ben tre infarti mentre l’altro è in attesa di giudizio da ben 10 mesi per una storia completamente inventata (il classico caso di tentativo di estorsione da parte di un ufficiale della polizia nei suoi confronti), giudizio che verosimilmente verrà rinviato all’infinito perché di prove contro di lui non ce ne sono e un detenuto straniero a Santo Domingo è prima di tutto una risorsa economica da spremere fino all’osso. E sì, perché in carcere tutto si paga. Con 10/25 pesos si compra una bottiglia di acqua, ce ne vogliono 100 per un piatto di cibo che non sia quello del carcere, il più delle volte immangiabile e irrisorio. Con 1500 pesos si affitta un loculo (è un rialzo cementizio) per un mese, che permette di non dormire sul pavimento dove alberga il massimo della sporcizia e il massimo dei rischi infettivi. E poi si pagano lo spazio, carta igienica, prodotti per la cura della persona, detersivi, schede telefoniche e cellulari, protezione dalla polizia carceraria, e quando questa è assente si pagano altri detenuti, spazio ai servizi igienici di altre celle (ci sono celle di serie A e di serie B, le prime quasi sempre assegnate ai locali che così ci possono lucrare), riparazioni nel carcere, tinteggiatura alle pareti, siringhe, garze, cerotti e guanti in lattice se con fortuna si riesce ad andare in infermeria per una visita, le medicine relative, indumenti, scarpe, insomma si deve pagare tutto tranne i pasti che però vengono forniti senza l’acqua. Per questi motivi i Consolati di altri Stati europei provvedono mensilmente a sostenere i loro connazionali detenuti a Santo Domingo con visite periodiche e un sussidio che gli permette di vivere o almeno di comprare lo stretto necessario per la sopravvivenza. Ma il Consolato italiano questo non lo fa. Se consideriamo infatti che per fare un Euro ci vogliono tra 47 e 50 Pesos, con appena due euro al giorno i nostri connazionali potrebbero almeno vivere in una situazione umana la loro detenzione, giusta o ingiusta che sia. Sei euro al giorno per salvare tre vite”. Cile: indios detenuti in sciopero della fame; il Governo accetta dialogo con mediatore Ansa, 14 settembre 2010 Il governo del Cile ha accettato di aprire un dialogo con i 34 indios mapuches in sciopero della fame, in varie carceri del Paese, da oltre 65 giorni, con la mediazione dell’Arcivescovo di Concepcion Ricardo Ezzati. L’alto prelato, che ha accettato l’incarico, si è incontrato oggi per più di un’ora con il ministro dell’Interno Rodrigo Hinzpeter. “Quella di dialogare mi sembra una decisione lodevolè ha detto Ezzati, che ieri si è incontrato con i mapuches detenuti a Concepcion, 500 km a sud di Santiago. Secondo il religioso la prima condizione per risolvere i problemi tra il governo e gli indios è la volontà di dialogo, la seconda è la sospensione dello sciopero della fame, che “è illegittimo, perché con la vita si può fare qualcosa, senza vita non puoi trovare soluzioni ai problemi”. I mapuches, accusati di atti di violenza nelle manifestazioni fatte per reclamare la restituzione delle terre ancestrali, protestano perché nei loro processi si applica la Legge antiterrorismo imposta dalla dittatura militare (1973-1990) e mai abrogata.