Giustizia: nelle carceri sovraffollate si calpesta la dignità umana Il Levante, 13 settembre 2010 La carenza di servizi adeguati e di prestazioni professionali mediche in Italia è una realtà a cui non si sfugge. Dagli scioperi di luglio di medici e del personale sanitario fino agli ultimi fatti di cronaca, riguardanti le morti in ospedale, il quadro dell’attuale situazione sanitaria nazionale sembra decisamente tingersi di nero. Ma non ci sono limiti alla costernazione e pare che qualcuno lasci che il nero torni ad essere ricalcato, anche in quegli “ambienti” in cui si sarebbe potuto seriamente evitare. Si lascia infatti sprofondare nello svilimento chi già stenta a credere che gli sia ancora riconosciuta una certa dignità umana, è il caso delle carceri italiane. Il problema delle carceri, o meglio del sovraffollamento delle stesse (attualmente nelle carceri italiane si trovano più di 68.000 detenuti a fronte di una capienza di 43.000) insieme a quello della malasanità, produce una richiesta di cure mediche e di servizi che sono destinate a restare inappagate oltre che crescere in maniera esponenziale, la cosiddetta “malasanità carceraria”. La mancanza di prestazioni igienico-sanitarie e l’assenza di un sostegno psicologico comportano il più delle volte delle reazioni che incarnano la piena drammaticità della condizione esistenziale all’interno delle galere. La situazione dei detenuti è infatti a dir poco allarmante a giudicare dal numero di morti per suicidio o per malasanità. Sono più di 120 i morti nelle carceri dall’inizio del 2010, tra suicidi, malattia e le cosiddette “cause da accertare”. Tre deceduti nel giro di pochissimi giorni solo nel carcere di Poggioreale di Napoli. L’ultimo caso preoccupante è quello di un tentato suicidio nel penitenziario di Lecce da parte di un detenuto di 34 anni che avrebbe provato a togliersi la vita ingerendo della candeggina. Ma se in questo caso il tentativo di compiere un gesto di tale drammaticità è stato evitato, altre due persone, detenute sempre nello stesso carcere di Borgo San Nicola sono riuscite a portarlo a termine alcuni mesi fa. Come un enorme drappo nero, la condizione di abbandono e di degrado umano avvolge e deprime la vita nelle carceri a tal punto da portare a pensare di dover compiere l’estremo sacrificio. L’aspetto che inquieta è che sembra stia diventando una sindrome diffusa nei penitenziari italiani. Tutti sintomi di un malessere diffuso dovuto principalmente al sovraffollamento delle strutture. Il polverone sulla questione “ sanità carceraria” si sta risollevando negli ultimi giorni proprio dal carcere di Borgo San Nicola. Il carcere salentino ha la più alta concentrazione di detenuti in Puglia, sono infatti 1.466 i reclusi, più del doppio rispetto alla capienza massima. Le decine di denunce presentate dai detenuti, in cui lamentano la carenza di servizi dignitosi per gli standard di vita all’interno della casa circondariale, sono già state raccolte in un fascicolo del pm Giuseppe Capoccia. Recriminano contro l’inefficienza del sistema sanitario carcerario, causata principalmente dai ritardi con cui si forniscono le visite mediche, e contro gli ostacoli pratici che impediscono al detenuto di usufruire di determinati servizi, ostacoli dettati dalla burocrazia : autorizzazioni e permessi per la mobilitazione di uomini e mezzi che accompagnino il detenuto in ospedale. Due detenuti, facenti riferimento sempre allo stesso carcere di Borgo San Nicola, hanno infine presentato, attraverso il proprio legale, un esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per chiedere il risarcimento del danno fisico e morale dovuto alle condizioni sub-umane di detenzione. Un uomo ed una donna rispettivamente di 66 e 32 anni, sono i protagonisti di questa vicenda che lascia sperare in un possibile recupero della dignità umana, anche all’interno delle carceri, un obiettivo di cui si sente spesso predicare ma che non viene realmente perseguito dalle istituzioni. Il caso ha inoltre un precedente, che rafforza chi pensa che si possa reagire positivamente: l’Italia è stata infatti già condannata nel 2009 a risarcire un detenuto bosniaco per i danni morali subiti a causa del sovraffollamento della cella in cui è stato recluso. Giustizia: Clemenza e dignità; il “diritto alla speranza” tra i diritti inviolabili dell’uomo Ansa, 13 settembre 2010 “Siamo ormai giunti al 47° suicidio nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Non tutti avevano dinanzi a sé ancora una lunga pena da scontare e allora viene da chiedersi perché non si è preferito sopportare temporaneamente quelle condizioni atroci e disumane, in attesa di riacquistare di lì a poco la libertà. È quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni dell’Associazione Clemenza e Dignità. “Il sovraffollamento, - prosegue - e in genere le condizioni disumane di vita, certamente rendono il tunnel della detenzione ancora più buio e insopportabile, contribuiscono in maniera determinante a bruciare le risorse fisiche e psichiche dell’individuo, ma è molto probabile che alla base di tutto ci sia pure una generale perdita di speranza, in questo caso la speranza di poter cambiare in meglio la propria esistenza anche una volta usciti dal carcere. Quello della speranza del resto - osserva - è un tema fondamentale per ogni individuo, religioso o non credente che sia. La speranza - aggiunge - può assumere indubbiamente una dimensione più pregnante se vissuta in concomitanza ad una esperienza religiosa, ma tutti comunque sperano: i giovani sperano di trovare un posto di lavoro, di sposarsi con la persona amata, i meno giovani sperano di poter continuare a mantenere dignitosamente la propria famiglia, gli anziani sperano in una vecchiaia serena, i malati sperano di guarire, i sani sperano di non ammalarsi. Se la vita - sottolinea - è un diritto inviolabile dell’uomo, la speranza è il vero motore della vita, un autentico cuore che batte. La speranza, più dell’intelligenza, è forse il più strategico bene immateriale dell’essere umano. Ora, - rileva - ai detenuti in particolar modo, ma anche ai giovani, agli immigrati e a tante altre categorie di soggetti socialmente deboli, può capitare come sta accadendo molto diffusamente, di essere vittime di meccanismi più grandi di loro che ne uccidono praticamente ogni speranza. Per questo, - conclude Meloni - per tutelare l’uomo nella sua interezza e anche oltre la sua fisicità, per rafforzare la posizione dell’individuo, oggi divenuta insignificante e ininfluente dinanzi ai grandi interessi globalizzati, sarebbe opportuno e importante, introdurre anche solo simbolicamente tra i diritti inviolabili dell’essere umano, il diritto alla speranza, il diritto a poter maturare con fiducia una aspettativa, il diritto a poter coltivare una aspirazione, il diritto a potercela fare”. Giustizia: Favi (Pd); per ridurre il sovraffollamento un sistema giudiziario che funzioni Ansa, 13 settembre 2010 Il principale obiettivo per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario è quello di spingere per una giustizia che funzioni. Lo ha detto all’Aquila Sandro Favi, responsabile carceri del Partito democratico, in occasione di un dibattito su diritti, emigrazione e carceri, nell’ambito della Festa democratica della cultura. Il 50% dei 70mila detenuti in Italia - ha spiegato - è ancora in attesa di giudizio e noi non possiamo consentire che la maggioranza venga a parlare di lungaggini, di processi interminabili se a questo poi non corrisponde un impegno concreto a investire per dare i mezzi e gli strumenti al sistema giudiziario. Un problema che nasce anche dall’esigenza di razionalizzare quello che si spende, secondo Rita Bernardini, della commissione Giustizia Pd, intervenuta insieme a Giulio Petrilli, responsabile provinciale della giustizia del partito. Il governo ha provato a spingere sul piano carceri - ha spiegato Favi - esportando un po’ quello che è stato il modello L’Aquila per l’emergenza, proponendo una riforma costosa e inutile. Lettere: quando i cani hanno maggiore considerazione rispetto ai figli dei detenuti Live Sicilia, 13 settembre 2010 In questi giorni sono rimasto sorpreso della sensibilità del nostro Ministro della Giustizia, tanto che ora quando qualcuno dei miei compagni di pena brontola che viviamo in un paese senza giustizia, vado su tutte le furie. Come si fa a dire sciocchezze del genere, se il nostro Ministro, nel momento in cui è venuto a conoscenza che un cagnolino soffriva d’ansia, perché gli avevano arrestato il proprio padrone, si è impegnato in prima persona perché il padrone ottenesse gli arresti domiciliari e potesse consolare il suo cagnolino. Onore al cane, onore al suo padrone che ha capito di vivere in un paese in cui i cani hanno più diritti dei figli dei detenuti, onore al Magistrato che gli ha concesso gli arresti domiciliari, onore al Ministro Alfano e alla sua sensibilità, che ha permesso di non mortificare la dignità di un cane che soffriva d’ansia. Vede signor Ministro, sono un condannato per reati di poco conto, a pochi anni di carcere, ma siccome sono nato a Palermo, tra quei reati è stata aggiunta anche la ciliegina del 416 bis, che in Sicilia non si nega a nessuno e per questo devo scontare sino all’ultimo giorno di pena segnato in sentenza. Signor Ministro, durante tutta la durata della pena ho visto una sola volta a colloquio i miei figli, perché nonostante il 416 bis, non ho mai avuto la possibilità economica per farli venire a trovarmi, a Spoleto. Ora che mi restano pochi mesi di carcere da scontare, avevo chiesto un permesso e mi è stato negato, perché i miei figli non soffrono d’ansia per un padre che non vedono da anni e non sono stati ritenuti altrettanto meritevoli d’attenzione di quel cane che lei ha preso così tanto a cuore. I miei figli non soffrono e non hanno bisogno della presenza del padre, per essere confortati come quel cane che lei ha preteso venisse rasserenato dalla presenza del suo padrone. Signor Ministro mi consenta di dirle che è davvero un grande Paese quello dove il Ministro della Giustizia si preoccupa per l’ansia di un cagnolino e non dei figli dei detenuti che non possono vedere i genitori per anni. Di Gregorio Girolamo, Casa di Reclusione di Spoleto Lettere: noi detenuti di Brindisi, stretti nelle celle e senza nulla da fare Senza Colonne, 13 settembre 2010 La prima chiamata per godersi un paio di ore d’aria in cortile arriva alle 9. Fino alle 11 (stando alle regole) i detenuti nel carcere di Brindisi socializzano, scherzano, parlano e passeggiano nel cortile interno. E la parentesi fuori dalla cella si ripete dalle 13 alle 15. Poi nient’altro. Solo la cella, i propri hobby, le proprie lettere e le proprie letture. La vita nella struttura di via Appia la racconta un ex detenuto. Un brindisino che tante volte ha varcato in ingresso e in uscita quella porta carraia e ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza della privazione della liberta. “Il carcere di Brindisi è ben diverso, tanto per cominciare, da quello di Lecce. A Brindisi non vi sono attività che consentano ai detenuti di impegnare il proprio tempo in modo costruttivo. Dopo quelle parentesi in cortile ognuno trascorre il resto della giornata nella propria cella senza, di fatto, poter scandire il trascorrere delle ore con appuntamenti o i impegni da portare a termine”. Il confronto con il carcere di Lecce fa soccombere quello brindisino solo relativamente all’esistenza di laboratori scolastici che permettono ai detenuti di seguire un normalissimo corso di studi. Per il resto il carcere di Lecce presenta tantissime altre difficoltà che a Brindisi non si riscontrano. Il riferimento è, soprattutto, al sovraffollamento e a certi servizi che lì proprio non esistono. “Nella struttura di via Appia - riprende l’ex detenuto - da qualche tempo c’è l’acqua calda e persino le docce disponibili 24 ore su 24. Un privilegio che altrove non esiste e che serve a mitigare un pochino la pesantezza della reclusione”. Ma il carcere di Brindisi presenta anche peculiarità che sarebbero da imputare proprio alla piccolezza della struttura. “È piccolo e se a questo aggiungiamo l’assoluta mancanza di attività interne si intuisce anche il perché gli agenti penitenziari siano particolarmente concentrati a svolgere la loro mansione in quelle uniche due occasioni in cui si fa qualcosa. E la cosa, a volta, si ripercuote sui detenuti che vedono, magari, ridotto il tempo disponibile per stare all’aria aperta. L’impressione è che gli agenti non avendo altre circostanze per cui stare dietro ai detenuti diano il massimo proprio in quelle poche attività di controllo”. Tornati in cella alle 15 i detenuti del carcere brindisino organizzano la giornata nei modi più variegati. “C’è chi riposa - prosegue l’ex detenuto brindisino - c’è chi, avendo denaro a disposizione per fare la spesa, inizia a prepararsi la cena. E poi c’è chi magari passa il tempo giocando a carte col compagno di cella e attende il passaggio del carrello per la cena comune che arriva non oltre le 17”. L’apparente piattezza della quotidianità vissuta da chi è recluso a Brindisi in realtà pare fare a pugni con la denuncia effettuata da un gruppo di detenuti e inviata a Senza Colonne. “Ma io posso capirli - prosegue il testimone - Hanno denunciato una situazione di pressione da parte degli agenti carcerari che è motivata proprio dalla mancanza di attività”. Le lunghe giornate trascorse in carcere hanno, ogni settimana, un punto fermo: quello della telefonata alle famiglie. “Ogni settimana, per la settimana successiva, i detenuti devono compilare un modulo con quale chiedono di poter parlare al telefono con i famigliari. La chiamata viene effettuata nell’orario indicata dal detenuto e non può superare i cinque minuti. A Brindisi questa regola è molto ferrea, così come rigide, la prima volta, sono le procedure di indicazione del numero fisso a cui si vuole chiamare. Vengono effettuati, ad esempio, controlli approfonditi sull’intestatario della linea”. I tempi, ovviamente, sono molto cambiati anche in relazione alla condizione di detenuti. “Sono entrato in carcere, per la prima volta, nei primi anni Novanta. La situazione era, comprensibilmente, diversa da quella attuale. Ora, paradossalmente, ci sono comodità che prima non c’erano. Ma questo vale principalmente per il carcere Brindisino che è sicuramente più “vivibile” rispetto a quello leccese”. Lecce: Uil; il carcere di Borgo San Nicola ha bisogno di ritrovare umanità e attenzione Gazzetta del Mezzogiorno, 13 settembre 2010 L’emergenza carcere? È figlia della perduta umanità e della perduta attenzione. È figlia, soprattutto, della disattenzione e di una gestione opinabile. Non le manda a dire Donato Montinaro, segretario regionale della Uil Penitenziari e ispettore di polizia penitenziaria nella stessa casa circondariale di Lecce. Segretario, cosa succede nel carcere di Lecce? Dopo quello di Caltagirone, è l’istituto penitenziario più sovraffollato d’Italia. “La struttura di Borgo San Nicola, che fino a tre-quattro anni fa era considerata il fiore all’occhiello dell’Amministrazione penitenziaria, rappresenta in tutta la sua drammaticità lo stato fallimentare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria italiana e delle politiche governative in materia di sicurezza”. In che condizioni vivono i detenuti? “Guardi, io faccio il sindacalista per passione e lo faccio per i miei colleghi, non sono il garante dei diritti delle persone private della libertà”. Allora, qual è la situazione dei poliziotti in servizio a Borgo San Nicola? “Il 30 agosto erano detenute 1.498 persone in un carcere costruito per 650. I poliziotti ammalati erano 140 mentre quelli avviati alla Commissione medico ospedaliera di Taranto per stress lavorativo erano 61, cioè 201 dipendenti su un organico totale di 718. C’è poi una parte di personale - circa 200 unità - che è distratta dai compiti istituzionali: oltre agli incarichi speciali (magazzino, lavanderia, ufficio servizi, immatricolazione, casellario e protocollo) ci sono altri agenti che invece di garantire sicurezza e custodia fanno i ragionieri, i segretari, gli acquisti all’esterno, gli autisti. Il risultato è che in questi giorni gli agenti penitenziari presenti nelle cinque sezioni del carcere sono 65 per turno. Questi dati raccontano da soli tutta la verità sull’Amministrazione penitenziaria leccese. L’invivibilità del posto di lavoro, i disumani carichi di lavoro e le cattive condizioni degli ambienti di lavoro hanno sempre una paternità, o, sarebbe il caso di dire, una maternità. Nell’ambiente penitenziario, quando non si sa cosa fare o non si vuole intervenire, si dà la colpa al “sovraffollamento” oppure alle “carenze di personale”. In una squadra di calcio quando non si vince o la squadra gioca male, si comincia con il discutere l’allenatore. Questo nell’Amministrazione penitenziaria non succede. Ed è una stranezza”. Si spieghi meglio. “La direzione del carcere di Lecce è da oltre 25 anni affidata alla stessa persona. Nella pubblica amministrazione le figure di vertice, ad esempio il Questore, il Prefetto, il comandante provinciale dei Carabinieri o della Guardia di Finanza, ogni tre-sei anni al massimo vengono avvicendati. Nell’Amministrazione penitenziaria, invece, ciò non succede e questo è causa di uno degli attuali mali”. E gli altri, quali sono? “Il penitenziario di Lecce, ad eccezione degli educatori che sono solo sette, non ha alcuna difficoltà; Lecce ha sempre avuto in dotazione le energie, le competenze e gli investimenti sufficienti per fare bene. Gli attuali problemi sono esclusivamente da ricercare nella gestione e nelle modalità di impiego delle risorse a disposizione”. Sia più preciso. “Guardi, è bene andarci cauti. Nell’estate del 2008, dopo ben 44 aggressioni al personale di polizia penitenziaria, denunciai, in un’attività che è propria del sindacato, le condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari. Ne ricavai cinque tra querele e denunce. La prego, mi faccia un’altra domanda”. Si parla sempre più spesso dei problemi della sanità all’interno della struttura. Qual è la situazione? “All’atto del passaggio dalla sanità penitenziaria a quella pubblica, la Uil fu l’unica organizzazione che si dichiarò contraria. Chi conosce il carcere dall’interno sa che è un mondo a parte, che non si può pensare di trattare allo stesso modo i liberi cittadini dalle persone ristrette. E questo non per voler discriminare i detenuti, ma perché i nostri utenti presentano spesso problemi diversi da quelli di un libero cittadino. Ma va detto che l’area sanitaria del carcere, oggi dipendente dalla Asl di Lecce, continua a non offrire, come in passato, grandi prove di sé. È ora che si sappia, ad esempio, che da circa un anno e mezzo gli specialisti mandati dalla Asl vengono regolarmente in istituto ma non possono effettuare le loro prestazioni ai reclusi perché non hanno al loro seguito un infermiere. Questo determina il continuo invio dei detenuti, di pomeriggio o di notte, al Pronto soccorso dell’ospedale con procedura di “estrema urgenza”, creando problemi sia alla struttura ospedaliera che al carcere. A Borgo San Nicola, infatti, bisogna reperire personale per la scorta, spesso per patologie insignificanti. La sanità ha bisogno di organizzazione all’interno dell’istituto, ha bisogno che qualcuno controlli e coordini il personale sanitario e soprattutto para-sanitario”. Ma lei, segretario, che idea si è fatta di questa emergenza finita sui giornali e delle reazioni che ha mosso all’esterno? “Intendo ringraziare di cuore il nuovo arcivescovo di Lecce, monsignor Domenico D’Ambrosio, il presidente del Tribunale di Sorveglianza, Elio Romano, e la Camera penale degli avvocati del Foro di Lecce, che la loro attenzione e la loro premura hanno manifestato sulle pagine della Gazzetta di Lecce. Dico che le mura del penitenziario celano alla società molte incongruenze. La Uil, pagando un alto prezzo, ha sempre cercato di aprire al nuovo, solo nell’interesse dei lavoratori. Nel carcere di Lecce, oggi, si vive molto male, si lavora molto male”. E il rapporto con la città? “Devo dire che si soffre molto l’isolamento dalla comunità e dalle istituzioni, locali e centrali. H problema sta in una Direzione locale arroccata nella palazzina degli uffici, completamente staccata dal carcere vero e proprio. Il problema sta ih un Provveditorato regionale che è da molto tempo una poltrona vagante. La carenza sta in un antico intreccio di reciproche benevolenze”. E allora, di cosa c’è bisogno? “Borgo San Nicola ha bisogno solo di ritrovare umanità e attenzione. Attenzione per i detenuti e per il personale di polizia; ha bisogno di quei direttori di una volta che risiedevano all’interno del carcere. Ha bisogno, in una parola, di ripartire”. Firenze: Rc; contrastare il sovraffollamento e dare prospettiva reinserimento ai detenuti Ansa, 13 settembre 2010 Sovraffollamento a Solliciano: 1.010 detenuti rispetto ad una capienza di 476 persone. Per il gruppo di Rifondazione comunista in Consiglio provinciale occorre ricostruire un tavolo permanente nel quale Istituzioni locali e Magistratura controllino la situazione carceraria e dove si riavviino progetti di reinserimento. A lanciare l’allarme è stato il garante per i diritti dei detenuti. C’è una nuova presa di posizione sui tagli all’istruzione operati dal Ministro alla Pubblica istruzione Gelmini e soprattutto sul fatto che sono stati chiusi i corsi scolastici dentro il carcere mettendo in grande difficoltà il processo rieducativo e soprattutto le operazione di reinserimento sociale. Il Garante conclude la sua denuncia chiamando in causa “oltre alla Prefettura anche la Provincia di Firenze la quale deve intervenire vista la gravità della situazione”. I consiglieri provinciali Andrea Calò e Lorenzo Verdi chiedono al Presidente della Provincia e all’assessore competente di riferire in Consiglio provinciale “urgentemente sulle gravi situazioni di sovraffollamento e soprattutto sulla violazione dei diritti alla salute e alla persona”. Rifondazione chiede anche se l’Amministrazione Provinciale intenda quanto prima aderire al tavolo regionale e avviare “un’iniziativa di coordinamento con le altre amministrazioni locali per contrastare il fenomeno del sovraffollamento carcerario e realizzare i progetti di reinserimento sociale”. Fossombrone (Pu): il nuovo Ombudsman e Garante dei detenuti in visita al carcere Ansa, 13 settembre 2010 Il nuovo Ombudsman regionale e Garante dei detenuti Italo Tanoni ha visitato il carcere di Fossombrone, annunciando che presto terrà un incontro con i responsabili dell’Asur incaricati del servizio medico nei penitenziari. Un servizio, ha detto, che a Fossombrone è abbastanza efficiente, ma non raggiunge un livello adeguato in altri istituti della regione. Tanoni si è incontrato con il direttore del carcere forsempronese Maurizio Pennelli e con il comandante della Polizia penitenziaria Andrea Tosoni, insieme ai quali ha svolto un sopralluogo nella struttura. Poi ha visto alcuni detenuti, che gli hanno prospettato le loro esigente. Il Garante studia anche un intervento nel settore degli educatori e delle figure di supporto ai reclusi, che, ha osservato, occorre formare e riqualificare. L’Aquila: Sarno (Uil-Pa) in visita alle carceri di Lanciano e Sulmona Agi, 13 settembre 2010 Mercoledì 15 e giovedì 16 settembre, il segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, si recherà in visita presso gli istituti penitenziari di Lanciano e Sulmona. “Le situazioni di Lanciano e Sulmona, pur diverse nella loro similitudine di criticità, vanno attenzionate e, possibilmente, risolte. La presenza in loco di delegazioni della Uil Penitenziari rappresenta un momento di solidarietà e vicinanza al personale, ma anche un tentativo di sviluppare un percorso di soluzioni a vertenze che rischiano di incancrenirsi inutilmente”. A Lanciano da circa un anno i sindacati della polizia penitenziaria hanno proclamato lo stato di agitazione e da circa undici mesi il personale non si reca a consumare i pasti presso la mensa di servizio. All’origine di tali proteste l’affermata e grave deficienza organica, aggravatasi dopo la decisione del Dap di aprire una nuova sezione. “Sulmona - spiega Sarno - è la sintesi delle tante criticità che avviluppano il sistema penitenziario. Sovraffollamento, promiscuità, carenze organiche e gestione discutibile delle risorse umane. Di certo aver individuato Sulmona come istituto ospitante di una sezione per internati non solo si è rilevata una scelta infelice, per quanto ha inciso negativamente sull’equilibrio generale della gestione di per se già molto complessa. Sulmona, infatti, ospita diverse categorie di detenuti (comuni, alta sicurezza, elevato indice di vigilanza, internati, collaboratori di Giustizia e 41-bis). Per ogni categoria - conclude Sarno - occorre applicare percorsi trattamentali e di sorveglianza differenziati”. Ad accompagnare il Segretario Generale sarà Pino Giancola, segretario regionale, mentre nelle due strutture sarà accolto da Ruggero Di Giovanni, segretario provinciale di Chieti per Lanciano e Mauro Nardella, segretario provinciale dll’Aquila per Sulmona. Napoli: una cena di beneficenza nel carcere femminile di Pozzuoli Ansa, 13 settembre 2010 Chiude con un evento di beneficenza la V edizione di Malazè, l’evento archeoenogastronomico dei Campi Flegrei. La “Cena Galeotta” si svolgerà martedì 14 (ore 20,30) all’interno della Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli. A cucinare saranno le stesse detenute che hanno svolto corsi di cucina. A dare indicazione alle recluse saranno sette chef dei Campi Flegrei. L’evento è stato realizzato grazie alla collaborazione del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Napoli, della direzione, degli educatori e della Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Pozzuoli, della sezione di Napoli dei Lions, del Consorzio Tutela Vini dei Campi Flegrei, delle Strade del Vino dei campi Flegrei e dell’Ais di Napoli. L’incasso della serata sarà devoluto all’associazione “Il Carcere Possibile” Onlus. Tra gli scopi dell’Associazione vi è quello di tutelare in ogni sede, anche giudiziaria, i diritti dei detenuti e di promuovere azioni, anche legali, in difesa di tali diritti, per pretenderne il rispetto ed eventuali danni causati alla comunità detenuta. L’associazione organizza corsi di cucina, laboratori teatrali, laboratori di lettura, concerti ed altri eventi culturali all’interno del carcere. Immigrazione: materassi bruciati e proteste, nel Cie di via Corelli torna la tensione La Repubblica, 13 settembre 2010 Fumo, stracci e materassi bruciati, mobili rovesciati, una dozzina di militanti dei centri sociali a improvvisare un presidio fuori dalle mura. Altro pomeriggio di tensione, ieri, al Centro di identificazione ed espulsione di via Corelli. L’innesco, poco prima delle 16, sarebbe stata la lite tra un detenuto tunisino e personale della Croce Rossa all’interno dell’infermeria. “L’hanno pestato, e aveva la gamba ingessata, voleva solo andare in bagno”, sostengono due detenuti peruviani che avrebbero assistito alla scena. “È lui che ha aggredito”, è la versione della Cri. L’intervento degli agenti del reparto mobile ha provocato la reazione di una ventina di immigrati: per un quarto d’ora è stata battaglia, poi il tafferuglio è stato sedato. Cinque persone sono state portate in questura e arrestate per danneggiamenti e resistenza. Droghe: Berlusconi; pene più severe per i consumatori di stupefacenti Il Messaggero, 13 settembre 2010 “Sanzioni forti” per chi consuma stupefacenti. Sanzioni per “l’uso individuale” di droga, lo ha proposto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. intervenendo al forum di Yaroslav, vicino a Mosca. Il premier ha premesso che si tratta di un suo”convincimento personale”, pensando di arginare così il fenomeno dilagante dello spaccio e del consumo. “Se c’è produzione di droga - ha sottolineato Berlusconi il traffica ci sarà sempre e ci sarà sempre produzione se sempre ci sarà consumo. Perciò è ora che le democrazie si mettano d’accordo per combattere seriamente i] traffico di droga” e questo può avvenire solo con una decisione drastica come quella di “mettere sanzioni forti” per un periodo anche contingentato, magari “tre anni”. Dunque, il premier pensa a un giro di vite per combattere il narcotraffico. Ma il fronte antiproibizionista, con i radicali in testa attacca duramente: è una forma di “fondamentalismo”, è un “regalo alle mafie”. “Quella di Berlusconi è una proposta fascista”, “arroccarsi sul fondamentalismo proibizionista significa mettere fuori legge per scelte individuali centinaia di milioni di cittadini”, dicono Mario Staderini segretario dei radicali e Rita Bernardini, deputata. D’accordo con l’inasprimento delle sanzioni è invece, il sottosegretario Carlo Giovanardi, che ha la delega della lotta alle tossicodipendenze. “Berlusconi ha ragione - osserva Giovanardi - è necessario aumentare il nostro livello di attenzione, incrementando tutti gli sforzi. Anche chi acquista e consuma sostanze psicotrope contribuisce a rendere più forti e agguerrite le organizzazioni criminali che gestiscono i traffici, per cui l’inasprimento potrebbe contribuire a scoraggiare questi comportamenti”. “Ferma restando la distinzione netta tra sanzioni penali da applicare agli spacciatori e sanzioni amministrative da applicare ai consumatori il governo può continuare la linea già intrapresa due anni fa”, sottolinea Giovanardi, che fa anche riferimento ai controlli introdotti di recente su alcune categorie di lavoratori, da cui dipende la sicurezza c la salute di terzi. Misure che, osserva ancora il sottosegretario, si affiancano a quelle “già in vigore contenute nel testo unico, segnalazione al prefetto, ritiro del porto d’armi e del passaporto, o sequestro del motorino”. Inoltre Giovanardi sottolinea che è allo studio una nuova misura: “Come già accade agli sportivi che vengono trovati positivi al doping, si sta pensando di precludere la partecipazione di artisti che facciano uso di droghe a spettacoli finanziati con denaro pubblico”. La proposta di Berlusconi piace anche a Francesco Storace, segretario nazionale della Destra ed ex ministro della Salute, che vorrebbe introdurre “test antidroga obbligatori” nelle scuole, a partire dal Lazio dove la Destra sta per proporre in consiglio regionale una legge ad hoc. “Era importante riportare l’attenzione su un tema così delicato, il consumo di stupefacenti è una piaga”. anche perla deputata Pdl Beatrice Lorenzin, è giusta la strada delle sanzioni più dure. Iraq: nuovo ordine, stesse violazioni, detenzioni illegali e torture di Amnesty International Italia www.linkontro.info, 13 settembre 2010 In un nuovo rapporto diffuso oggi, dal titolo “Nuovo ordine, stesse violazioni: detenzioni illegali e torture in Iraq”, Amnesty International ha denunciato che decine di migliaia di persone, molte delle quali trasferite recentemente dalla custodia statunitense a quella irachena, rimangono in stato di detenzione senza processo e a rischio di subire torture e altri maltrattamenti. Il rapporto documenta migliaia di casi di detenzioni arbitrarie senza accusa né processo, talvolta in corso da diversi anni, duri pestaggi, eseguiti spesso in carceri segrete per estorcere confessioni, e sparizioni forzate. “Le forze di sicurezza irachene si sono rese responsabili della sistematica violazione dei diritti dei detenuti ed è stato loro concesso di farlo con impunità” - ha dichiarato Malcolm Smart, direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Ciò nonostante gli Usa, che a loro volta hanno così poco rispettato quei diritti, hanno trasferito migliaia di persone facendo loro affrontare il rischio di illegalità, violenza e abusi, venendo così meno alla propria responsabilità in materia di diritti umani”. Sebbene le autorità di Baghdad non forniscano cifre precise, Amnesty International stima che le persone detenute senza processo in Iraq siano 30.000. Di queste, 10.000 sono state trasferite dalle carceri statunitensi, dopo la fine di alcune attività delle truppe da combattimento. Parecchi detenuti sono morti in carcere, apparentemente a seguito di torture e altri maltrattamenti da parte del personale iracheno addetto agli interrogatori e delle guardie penitenziarie, che rifiutano regolarmente di fornire informazioni ai parenti dei detenuti. Riyadh Mohammad Saleh al-’Uqaibi, 54 anni, sposato con figli, è morto in carcere il 12 o il 13 febbraio 2010 a seguito di un’emorragia interna causata dal pestaggio subito durante l’interrogatorio, così duro da provocargli la rottura delle costole e una lesione al fegato. Ex membro delle Forze speciali irachene, era stato arrestato alla fine del settembre 2009, posto in custodia in un centro di detenzione all’interno della Zona verde di Baghdad e poi trasferito in una prigione segreta situata nel vecchio aeroporto di Muthanna. La famiglia si è vista restituire il corpo diverse settimane dopo la morte, con un certificato che attribuiva il decesso a un attacco cardiaco. “Le autorità irachene non hanno svolto azioni efficaci per fermare la tortura e punire i torturatori, nonostante le strabordanti prove del suo uso. Il loro compito è di indagare, arrestare e processare i responsabili e fornire riparazione alle vittime. Non facendolo, fanno capire che la tortura è tollerata e può continuare” - ha commentato Smart. Nel centro segreto di Muthanna, la cui esistenza è stata rivelata nell’aprile di quest’anno, sono state detenute oltre 400 persone. Diverse hanno dichiarato ad Amnesty International di essere state arrestate sulla base di prove false, fornite alle forze di sicurezza irachene da informatori segreti. Sono state detenute senza contatti col mondo esterno e, in alcuni casi, sottoposte a tortura per costringerle a confessare di aver preso parte ad attentati o ad altre azioni criminali che sono punite con la pena di morte. La tortura in Iraq è usata in modo ampio per ottenere “confessioni”. In molti casi queste vengono preparate dagli addetti agli interrogatori, che costringono i detenuti a firmarle con gli occhi bendati senza conoscerne il contenuto. Questi documenti sono usati spesso come unica prova a carico degli imputati, anche nel corso di processi che possono terminare con una condanna a morte. Centinaia di prigionieri sono stati condannati alla pena capitale, e alcuni messi a morte, dopo essere stati giudicati colpevoli sulla base di “confessioni” false ed estorte sotto tortura o coercizione. Tra i metodi di tortura praticati, il rapporto di Amnesty International segnala i pestaggi con cavi e tubi di gomma, la sospensione degli arti per lunghi periodi di tempo, le scariche elettriche su zone sensibili del corpo, la frattura degli arti, lo strappo delle unghie delle mani e dei piedi, il soffocamento, la perforazione coi trapani e le minacce di stupro. Migliaia di persone, inoltre, continuano a rimanere in cella nonostante ordinanze giudiziarie di rilascio e nonostante la Legge di amnistia del 2008 avesse disposto la scarcerazione dei detenuti non incriminati per un periodo compreso tra sei e 12 mesi. Il 15 luglio 2010, le forze statunitensi hanno trasferito quasi tutti i detenuti sotto la loro custodia, salvo 200, alle forze irachene senza la minima garanzia contro la tortura e i maltrattamenti. Il rapporto di Amnesty International denuncia anche detenzione per lunghi periodi di tempo nella regione del Kurdistan, ad opera degli Asayish, le forze di sicurezza curde. Walid Yunis Ahmad, 52 anni, padre di tre figli, è detenuto senza accusa né processo da oltre 10 anni. Arrestato il 6 febbraio 2000 a Erbil, secondo Amnesty International è la persona da più lungo tempo in carcere senza processo in tutto l’Iraq. Solo nel 2003 i suoi familiari hanno appreso che era ancora vivo e hanno potuto visitarlo. Sottoposto a torture e a periodi di isolamento, nel 2008 ha intrapreso uno sciopero della fame durato 45 giorni. “Le autorità irachene devono agire in modo fermo e deciso ora, nel momento in cui si è completato il trasferimento dei detenuti dalle forze statunitensi a quelle locali. Devono dimostrare di avere la volontà politica di rispettare i diritti umani di tutti gli iracheni, secondo gli obblighi internazionali che hanno assunto, e di porre fine alla tortura e alle altre violazioni dei diritti dei detenuti, così dominanti attualmente” - ha sottolineato Smart. “Chi è detenuto da lungo tempo senza che sia stato incriminato per un reato di accertata natura penale e non è stato sottoposto a processo, dev’essere rilasciato o giudicato in modo rapido e in linea con gli standard internazionali sul processo equo, senza ricorso alla pena di morte” - ha concluso Smart. Cile: sciopero fame indios detenuti, sempre più alta la tensione Ansa, 13 settembre 2010 È sempre più alta la tensione nel mondo politico cileno per lo sciopero della fame condotto da un trentina di indios mapuches incarcerati a causa delle loro violente rivendicazioni delle terre degli avi e giudicati secondo una legge antiterrorismo che risale ai tempi della dittatura di Augusto Pinochet, instaurata nel 1973 con un golpe di cui proprio ieri è ricorso l’anniversario. La legge, mai abrogata, prevede che gli accusati vengano processati sia dalla giustizia civile che da quella militare. Le condizioni di salute dei mapuches detenuti peggiorano e oggi altri due sono stati ricoverati d’urgenza in ospedale. Al momento del loro arrivo una ventina di persone aderenti alla causa degli indios hanno inscenato una protesta che è finita con scontri con la polizia e molti arresti. “Andremo avanti fino alla morte se è necessario”, ha detto oggi Mauricio Huaiquilao, uno dei mapuches in sciopero della fame nel carcere di Temuco, “il governo deve sapere che la riforma della legge antiterrorismo non è nulla per noi, quello che chiediamo è il riconoscimento dei nostri diritti politici, ma non vogliono sedersi con noi a un tavolo per orgoglio e per pressioni dal mondo degli imprenditori”. “Mi sono accoltellato perché ero pieno di rabbia all’idea che le autorità possano pensare che siamo stupidi e che una modifica alla legge antiterrorismo ci possa trovare d’accordo”, ha detto Elvis Millan, che venerdì scorso era stato ricoverato per essersi procurato ferite all’addome. Intanto oggi la presidente del Ppd (Partito per la Democrazia) Carolina Toha ha riconosciuto che si commise un errore durante i governi di concertazione a invocare la Legge antiterrorismo contro gli indios mapuches. Toha ha invitato il governo ad aprire immediatamente un dialogo con gli indios, per evitare la morte di qualcuno e porre fine a una guerra tra popoli dello stesso paese. Le rivendicazioni dei mapuches riguardano soprattutto sue punti: la devoluzione da parte dello Stato delle proprie terre e lo stop alle concessioni di tali territori alle multinazionali che ne sfruttano il legname. La comunità indigena più numerosa delle nove etnie del Cile punta da anni ad una maggiore autonomia da Santiago, rivendicando il rispetto delle terre ancestrali che - sostengono - sono state svendute alle multinazionali fin dagli anni Ottanta. Austria: cavigliere elettroniche ai detenuti, per ridurre il sovraffollamento delle carceri Il Piccolo, 13 settembre 2010 L’Austria ha scelto la strada dei bracciali elettronici alla caviglia per liberare le carceri dal sovraffollamento. Come altri Paesi europei. Come l’Italia. Ma, a differenza dell’Italia, dove dopo 9 anni siamo ancora in una fase sperimentale - in cui pare che non si sperimenti nulla, salvo pagare un canone di 10 milioni all’anno alla Telecom - in Austria l’introduzione dei bracciali è divenuta operativa questo mese e dovrebbe essere definitiva. Il provvedimento, che modifica il regime dello stato detentivo, è limitato ai condannati che debbano scontare una pena inferiore a un anno (in Italia gli anni sono 4) o che si trovino agli arresti in attesa di giudizio. La commutazione della pena detentiva in arresti domiciliari monitorati attraverso il bracciale elettronico va richiesta alla direzione dell’istituto di pena che ospita il detenuto o alla magistratura competente, per chi si trova in carcere in attesa di giudizio o abbia presentato appello contro una sentenza di primo grado. La concessione non è automatica. Il richiedente deve dimostrare di avere una casa dove abitare. E, nel caso vi siano dei conviventi, è richiesto il loro consenso. Deve dimostrare, inoltre, di avere un lavoro che gli consenta un reddito di almeno 600-700 euro al mese o superiore, se obbligato a fornire gli alimenti ad altri componenti della sua famiglia. I detenuti che già percepiscono una pensione non devono cercare un lavoro, ma sono obbligati comunque a svolgere gratuitamente un’attività socialmente utile. Insomma, uscire dal carcere con il bracciale al piede non sarà tanto facile in Austria. E non perché, come in Italia, insorgano problemi di ordine burocratico (da noi il progetto di fatto è fallito fin dall’inizio per difficoltà procedurali o per mancanza di bracciali dov’erano stati richiesti), ma per le condizioni piuttosto severe poste dal legislatore. Proprio per superare tali difficoltà, la magistratura sarà affiancata in questo compito dal Verein Neustart (il nome significa “associazione nuova partenza”) che dovrà verificare l’esistenza dei requisiti posti dalla legge o fare in modo che i detenuti riescano a procurarseli. Chi beneficerà del bracciale dovrà rispettare uno speciale “profilo di sorveglianza”, elaborato su misura per ciascun condannato. Il profilo stabilirà se la persona dovrà restare permanentemente nel suo domicilio o se in determinati giorni e ore potrà recarsi a visite mediche o al lavoro. In ogni caso, l’allontanamento da casa non potrà superare le 38,6 ore settimanali. Se la persona uscirà dal perimetro fissato nel suo profilo o tenterà di sfilare il bracciale dalla caviglia, scatterà l’allarme nella centrale di controllo e la polizia interverrà immediatamente per riportare l’individuo in carcere. Nel primo giorno di entrata in vigore del provvedimento risultavano presentate una cinquantina di richieste, che probabilmente troveranno accoglimento già nei prossimi giorni. Il ministero della Giustizia stima che annualmente possano essere 500 le persone che in questo modo potranno uscire dal carcere. Il vantaggio sarà duplice. Da un lato si ridurrà l’affollamento, dall’altro si risparmieranno risorse. Si calcola che ogni detenuto in Austria costi allo Stato 100 euro al giorno, mentre i detenuti a domicilio con bracciale elettronico costeranno 22 euro. Non solo: quei 22 euro dovranno essere rimborsati dai detenuti, se il loro reddito glielo consente. Brasile: Frattini; Lula estradi subito Battisti, non manchi di rispetto all’Italia” Ansa, 13 settembre 2010 “Chiederemo alle autorità brasiliane che prima della fine del suo mandato il presidente Lula applichi il trattato di estradizione in vigore tra Italia e Brasile per il terrorista Cesare Battisti” detenuto in Brasile. L’ha detto il ministro degli Esteri Franco Frattini nel corso di un dibattito alla festa dei giovani del Pdl a Roma. L’applicazione del trattato “sarebbe un atto di rispetto verso il diritto, l’Italia, l’Ue e verso una legge che il Brasile è tenuto a rispettare”, ha spiegato il ministro precisando che “il nostro non è un appello alla clemenza bensì un richiamo ad applicare le regole. Per ora ci limitiamo a chiedere questo”, ha aggiunto Frattini sottolineando che qualsiasi parola in più “danneggerebbe la voglia di avere Battisti in Italia”. Battisti deve scontare in Italia due ergastoli per alcuni omicidi, tra cui quello del capo della guardie carcerarie di Udine, il maresciallo Antonio Santoro. Secondo il ministro Ronchi, invece, la vicenda Battisti ha segnato “un fallimento” per l’Ue. “Un fallimento politico, l’Ue ha molto deluso” nell’affrontare il caso del terrorista italiano.