Giustizia: nella città di Cucchi, un poliziotto come garante dei diritti dei detenuti di Patrizio Gonnella (presidente di Antigone) Il Manifesto, 31 ottobre 2010 Emma Marcegaglia capo della Cgil, Giuliano Tavaroli garante della Privacy, Silvio Berlusconi presidente della Corte costituzionale. Potremmo inventarci molte altre estrose combinazioni di ruoli e persone ma non potranno mai avvicinarsi all’episodio che andremo a raccontare nelle prossime righe. Il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha nominato un funzionario di polizia penitenziaria quale nuovo garante comunale delle persone private della libertà. Non vorrei sbagliarmi, ma potrebbe essere uno dei primi casi al mondo, se non l’unico. Nei giorni scorsi c’era capitato di sentire che in una regione del centro Italia un direttore carcerario sarebbe stato candidato a divenire anch’egli garante regionale dei detenuti. Antigone aveva espresso forti perplessità. A noi sembrava un’anomalia visti i requisiti minimi di terzietà e indipendenza delle Authority. La nomina di Alemanno, però, è andata oltre ogni immaginazione. Nei confronti dell’ispettore Vincenzo Lo Cascio, neo garante romano dei detenuti, non abbiamo nessuna questione personale. Alemanno evidentemente non conosceva alcun professore, esperto in diritti umani, avvocato, giurista, politico autorevole o degno a cui affidare l’incarico. Evidentemente conosceva solo poliziotti. Tutto ciò nella città dove si è consumato uno dei crimini più efferati mai visti in Italia ai danni di una persona privata della libertà personale: Stefano Cucchi. Proprio in questi giorni il partito di Alemanno sta presentando una proposta organica di riforma della giustizia. Punto centrale è la separazione delle carriere. Un pm non deve mai fare il giudice e viceversa. A Roma invece un poliziotto penitenziario può fare il garante dei detenuti. Qui le carriere non sono separate. Sono addirittura fuse. Giustizia: il poliziotto-garante dei detenuti non lascerà la Polizia penitenziaria di Dina Galano Terra, 31 ottobre 2010 Il sindaco Alemanno ha nominato il nuovo Garante dei diritti delle persone recluse: è Vincenzo Lo Cascio, ispettore penitenziario. Che, nonostante la pioggia di critiche, ha scelto di non lasciare il Corpo. Dopo quasi due anni di vacanza, Roma ha di nuovo il suo Garante dei diritti dei detenuti. Ironia della sorte, proprio la città che per prima in Italia ha istituito questa figura si trova oggi ad affidare l’incarico a un agente penitenziario. Che, carriera facendo, è arrivato al rango di ispettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Chi si occupa di carcere ha conosciuto Vincenzo Lo Cascio - questo il nome del nuovo Garante, ma non lo ricorda per impegno particolare. L’unica critica professionale mossa a Lo Cascio riguarda la sua decisione di non lasciare il Corpo di polizia, preferendo mettersi in aspettativa per tutto il quinquennio in cui svolgerà le funzioni di tutela dei detenuti. La polemica, d’altra parte, ha totalmente investito la delibera del Campidoglio. Incompatibilità di cariche, così come una ridotta trasparenza e indipendenza della figura, rischiano di minare l’autorevolezza stessa del Garante. La scelta del sindaco Gianni Alemanno “è profondamente sbagliata perché svilisce il ruolo e fa pentire chi, come noi, ha tanto insistito per l’istituzione di questa figura”, ha commentato il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, notando come Lo Cascio “si sarebbe dovuto dimettere ben prima” della nomina capitolina. Fermo com’è al suo posto, invece, rende “evidente” quella incompatibilità che c’è tra le istanze del prigioniero e della sua guardia. Una “provocazione nei confronti dei detenuti”, ha aggiunto Lillo Di Mauro presidente della Consulta penitenziaria di Roma, un organo con cui il Garante è tenuto a lavorare in stretta collaborazione. “Nemmeno ci hanno consultati”, ha chiosato Di Mauro sottolineando come “un ispettore di polizia penitenziaria evidentemente non possa rappresentare un soggetto super partes così come richiede il ruolo assegnato”. Insomma, difficile credere che un detenuto si rivolga al suo ex agente per denunciare un sopruso o una negligenza. Difficile credere che un ispettore penitenziario proceda nei confronti dei suoi ex colleghi o, meglio, di un suo superiore. Tolta ogni riserva sulla professionalità del singolo, la figura del Garante funziona “in base al rapporto di fiducia” che istaura con i reclusi. A descrivere in questi termini la speciale relazione è Gianfranco Spadaccia che è stato l’ultimo Garante capitolino il cui ufficio fu sciolto definitivamente nel 2008. Spadaccia ha perfino memoria delle diverse assegnazioni che hanno singolarmente seguito i suoi quattro impiegati dopo la chiusura. “In pochi abbiamo fatto buone cose”, ha raccontato ricordando i convegni per il diritto allo studio o per la prevenzione dei suicidi in carcere. Ma anche le denunce: “atti di autopunizione, depressioni e violenze. Ce ne siamo sempre occupati”. Pur preferendo non sbilanciarsi sulla recente nomina (“Molto dipende dalle persone”) Spadaccia ha reso così l’idea di un lavoro “di confronto continuo con i detenuti, gli operatori, le amministrazioni locali”. In cui il Garante deve restare quell’ “occhio esterno che si muove all’interno del carcere”. Giustizia: Laganà (Cnvg) sulla nomina del Garante dei detenuti di Roma Ristretti Orizzonti, 31 ottobre 2010 La figura del garante dei diritti delle persone private della libertà, figura istituzionalmente incaricata di verificare e garantire la presenza delle condizioni di esercizio dei diritti nell’istituzione carceraria, ha costituito un importantissimo passo nella direzione della tutela dei diritti in quelle realtà in cui spesso se ne verifica la negazione. Passo sostenuto da quelle istanze progressive e democratiche che da tempo ragionavano sulla necessità dell’idea del diritto come bene inalienabile del soggetto. La sua funzione, che deve necessariamente rivestire caratteri di terzietà, deve esercitarsi tra detenuti, amministrazione penitenziaria, giudici, e la sua nomina dovrebbe avere una forte investitura della comunità locale, proprio per dare corpo a quella indispensabile voce del sociale senza la quale nessuna vera riforma delle istituzioni, in particolare quelle totali, è possibile. Al di là, quindi, dell’aspetto non irrilevante dei poteri di questa figura, la sua presenza dovrebbe costituire un elemento di continuità e di capacità di sensibilizzazione della cosiddetta società civile per il progetto di inclusione sociale delle persone che si trovano ristrette. Pertanto la nomina come garante di Roma di una persona appartenente all’Amministrazione Penitenziaria, che come Volontariato non possiamo condividere, oltre agli aspetti evidenti di incompatibilità che ne snaturano il senso della figura terza, suona pertanto come molto più di una provocazione: è l’ulteriore segnale della negazione del ruolo e delle rappresentanze del mondo della società civile, della cultura, di tutti coloro che nel mondo dell’accademia, della rappresentanze sociali, della partecipazione alle tematiche dei diritti hanno espresso la capacità di attivarsi ed attivare risorse umani e culturali sul questo difficile fronte. Si manifesta quindi, con questa nomina, un conflitto evidente che risulterà estremamente problematico tra la funzione di tutela dei diritti e delle garanzie della popolazione detenuta. Solo aprendosi all’esterno il carcere potrà riformarsi, solo favorendo processi di collaborazione e di partecipazione dei cittadini per inserire la gestione della detenzione e della pena in una complessità di operazioni, solo promuovendo relazioni di fiducia con chi da molto tempo si occupa di questi problemi a livello locale è possibile conseguire risultati in termini non emergenziali ma di stabile progettualità. Così non è stato. Si è scelta la strada della semplificazione, della decisione dall’alto, congruentemente con uno stile ormai consolidato di processi decisionali che contraddistingue ormai molte delle nostre istituzioni. Su questa decisione nemmeno la “Consulta permanente cittadina del Comune di Roma per i problemi penitenziari” pare sia stata consultata, disconoscendo così erroneamente l’esperienza di una realtà che da molto tempo opera sul territorio. Scelta che non fa che potenziare la strada dell’esclusione del sociale nelle scelte che riguardano la pena e la sua esecuzione. La scelta di un garante dovrebbe avere una forte investitura dalla comunità, disporre di un forte rapporto con le situazioni locali e le associazioni. Altrimenti si complicano le cose, in un panorama già altamente problematico. Il problema della tutela della vita in carcere conosce oggi uno dei momenti peggiori L’intollerabile numero dei suicidi in carcere, due solo ieri, dimostra la tragica insostenibilità della situazione. Al momento attuale la strada della ragione appare molto impervia. Come volontariato pensavamo di essere ormai difficili allo stupore, ma veramente la realtà di una politica così assente alle voci del sociale supera ogni fantasia. La gestione della detenzione e della pena devono essere inserite in una complessità di operazioni, le loro interrelazioni e la loro integrazione dovrebbe postulare una forte volontà politica da parte degli amministratori per realizzare una stretta collaborazione tra il Ministero, le Regioni, gli Enti Locali e la “società civile”, tutti organismi impegnati a diverso titolo e responsabilità, in una migliore gestione delle carceri, della pena e delle misure alternative. Solo attraverso una stretta collaborazione tra tutte queste parti sarà possibile cambiare qualcosa. Non certo affidandosi all’edilizia penitenziaria. di Elisabetta Laganà presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Giustizia: Favi (Pd); perplessità per nomina Lo Cascio a Garante dei detenuti di Roma Adnkronos, 31 ottobre 2010 “Ci lascia perplessi la nomina a Garante dei diritti dei detenuti del comune di Roma dell’ispettore Vincenzo Lo Cascio, vicino a tutte le iniziative del capo del Dap Ionta, che in materia di trattamento penitenziario non ha certamente brillato, ma ha previsto di utilizzare i fondi della cassa delle ammende per opere di edilizia penitenziaria invece che per programmi volti al recupero e al reinserimento dei detenuti”. È quanto afferma Sandro Favi, responsabile carceri del Partito Democratico. “Le polemiche seguite alla nomina dell’ispettore Vincenzo Lo Cascio - continua Favi - dimostrano quanto sia urgente l’approvazione di una legge che istituisca questa figura a livello nazionale e la raccordi con quelli degli enti locali”. “Per il Pd - conclude Favi - la figura del garante deve essere caratterizzata da indipendenza, autonomia e comprovata professionalità nel campo della difesa dei diritti umani”. Lettere: il nuovo Garante dei detenuti… è un funzionario della Polizia penitenziaria di Riccardo Polidoro (Associazione “Il carcere possibile onlus”) Comunicato stampa, 31 ottobre 2010 Il conflitto d’interessi entra anche nelle carceri italiane. Contro eventuali abusi e prevaricazioni, i detenuti della capitale potranno rivolgersi direttamente ai possibili autori dei comportamenti illeciti. Storace: “ Ora Alemanno nomini Dracula all’Avis”. La semplificazione amministrativa raggiunge l’apice a Roma. Non ci saranno più problemi burocratici, inutili tempi morti. Chi è ristretto negli istituti di pena e ritiene che non siano rispettati i suoi diritti potrà invocare l’aiuto di chi tali diritti gli nega. Davvero geniale. Non vi poteva essere scelta migliore. Il Garante dei diritti dei detenuti di Roma appena nominato dal Sindaco di Roma è - secondo le agenzie di stampa - persona vicina al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Ingenuamente pensavamo che un “Garante” dovesse essere persona indipendente ed autonoma. Sandro Favi, responsabile carceri del Partito Democratico, afferma: “Ci lascia perplessi la nomina a Garante dei diritti dei detenuti del comune di Roma dell’ispettore Vincenzo Lo Cascio, vicino a tutte le iniziative del capo del Dap Ionta, che in materia di trattamento penitenziario n on ha certamente brillato, ma ha previsto di utilizzare i fondi della cassa delle ammende per opere di edilizia penitenziaria invece che per programmi volti al recupero e al reinserimento dei detenuti”. Il commento più sprezzante è quello di Francesco Storace, consigliere della Destra Capitolina che dichiara: “Dopo la nomina di un appartenente al Dap come garante comunale dei detenuti ci aspettiamo, coerentemente, Alemanno nomini Dracula all’Avis”. Critico anche Ugo Cassone (Pdl), che seppure si dice sicuro della professionalità di Lo Cascio, aggiunge che “forse avremmo gradito di più la nomina di un avvocato e non di un appartenente al Dap”. In casa Pdl però anche il delegato del sindaco allo Sport Alessandro Cochi, in quota Alemanno, esprime “qualche perplessità per il fatto che Lo Cascio proviene dal Dap. Forse, qualora fosse necessario, si potrebbe pen sare ad aprire un tavolo con le associazioni perché ci sia! equilib rio tra le diverse posizioni”. Il capogruppo di Sel nel Consiglio regionale del Lazio Luigi Nieri definisce la nomina “una provocazione che tradisce lo spirito di questa istituzione. Come può pensare, Alemanno che un detenuto possa rivolgersi a un poliziotto magari per denunciare maltrattamenti subiti proprio dagli stessi poliziotti in carcere?”. Lettere: l’equivoco del “carcere duro”, una formula usata a sproposito… di Vittorio Grevi (Giurista) Corriere della Sera, 31 ottobre 2010 Quando si parla del regime carcerario differenziato previsto dall’articolo 41-bis della legge penitenziaria, si sente spesso usare la formula “carcere duro”. È questa, tuttavia, una formula fuorviante, in quanto evoca modalità particolarmente afflittive di esecuzione della pena detentiva (se non, addirittura, della carcerazione preventiva), quasi che lo scopo fosse di aggiungere un “di più” di sofferenza a carico dei soggetti già sottoposti a restrizione della libertà personale in carcere (un po’ come succedeva un tempo nei confronti dei detenuti in catene, o vincolati dalla palla al piede, ovvero segregati a “pane, acqua e pancaccio”, secondo quanto prevedeva ancora il regolamento del 1931). Non a caso proprio in questa prospettiva ci si richiama, talora, al “carcere duro” quale simbolo di maggiore asprezza nella punizione dei delitti più efferati: al punto che la medesima espressione viene spesso usata anche come argomento di polemica politica, ed anzi ben oltre, fino alle odiose minacce di morte di recente rivolte contro il ministro Alfano. In realtà, le cose non stanno così. Certo il regime previsto dall’articolo 41-bis introduce alcune significative limitazioni rispetto al godimento dei diritti (ad esempio in tema di corrispondenza e di colloqui, di rapporti con gli altri reclusi, di permanenza all’aria aperta e, in genere, di regole di trattamento) spettanti per legge ai comuni detenuti. E non c’è dubbio che simili limitazioni producano, in concreto, un grave irrigidimento delle modalità della vita detentiva. Tuttavia il loro scopo non è quello di infliggere una maggiore afflizione - fine a se stessa - a carico di quanti le subiscono, bensì esclusivamente quello di evitare che i medesimi possano mantenere dal carcere illeciti “collegamenti con l’associazione criminale” mafiosa, terroristica o eversiva, cui essi appartengano. Si tratta di una necessità imprescindibile, rispetto a certi detenuti, ma la differenza non è di poco conto, e non solo sul piano teorico. Tanto è vero che, appena una tale esigenza di sicurezza verso l’esterno dovesse venire meno, anche il relativo regime carcerario di rigore dovrebbe essere revocato. Sardegna: sanità penitenziaria; il passaggio di consegne va approvato dal Consiglio dei ministri L’Unione Sarda, 31 ottobre 2010 La norma sul trasferimento della sanità penitenziaria dallo Stato alla Regione giovedì è passata al vaglio del Consiglio regionale. Ora, però, è necessario schiacciare il pedale dell’acceleratore. I 500 mila euro stanziati dalla Giunta per superare il periodo di transizione saranno sufficienti sino al 31 dicembre, poi, se il dispositivo di attuazione non verrà convertito in legge i direttori degli istituti di pena saranno costretti a ricorrere a tagli drastici delle prestazioni mediche e infermieristiche ai detenuti. La norma di attuazione licenziata con 35 voti favorevoli, 4 contrari e 27 astenuti, nei prossimi giorni verrà inviata a Roma per l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri. Una volta concesso il nulla osta, il dispositivo dovrà essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. Passati 15 giorni diventerà legge a tutti gli effetti, abrogando di fatto il dispositivo provvisorio sulla sanità carceraria risalente al 1970. L’opposizione, ma anche l’ex presidente della Prima commissione Mario Floris (adesso assessore), avevano sollevato rilievi e perplessità sulle risorse che saranno trasferite alla Regione per garantire l’assistenza ai carcerati e ai 50 internati sardi, ospitati sino a fine anno (a 200 euro al giorno) nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Il timore, neanche tanto remoto, è che gli accordi tra Stato e Regione non guardino al futuro, quando verranno aperti i quattro nuovi istituti di pena e la popolazione carceraria raddoppierà. Bisogna ricordare che i detenuti acquistano la residenza nella località dove sono reclusi. Per Anna Maria Busia, componente della Commissione paritetica, con l’approvazione della legge la Regione potrà accedere ai fondi Cipe per la Sanità penitenziaria. Con la legge sulla sanità penitenziaria la Regione avrà piena potestà sugli istituti di pena. Non solo, entreranno in gioco anche altre figure istituzionali, come il sindaco, che dovranno vigilare sui luoghi di reclusione ora diventati luoghi di cura. Ma che fine faranno gli specialisti che lavorano a Buoncammino e all’istituto per minori di Quartucciu? Per i medici (due incaricati, uno provvisorio), i caposala (3) e l’infermiere professionale il passaggio all’Asl 8 sarà automatico e poco cambierà dal punto di vista contrattuale. Discorso più complicato per infermieri (33), medici (31) e tecnici (7) a contratto: per loro è prevista una proroga sino alla scadenza dell’accordo. Sardegna: i sardi pagheranno la sanità per la popolazione carceraria La Nuova Sardegna, 31 ottobre 2010 Prove di federalismo fai da te. Tra mille perplessità del Consiglio regionale, giovedì, è stato approvato un Ordine del giorno che “autorizza” la Giunta a prendere in carico anche la sanità penitenziaria, (35 voti a favore, 27 astenuti Pd e Idv, 4 contrari del gruppo Comunisti-Rosso mori). La partita non è secondaria: la Sanità ha già un peso enorme nel bilancio della Regione e si dovrà far carico delle spese per la popolazione carceraria che, peraltro, per buona parte è gestita dal ministero che invia in Sardegna i detenuti. La Giunta approverà ora l’intesa con il Governo nazionale senza sapere quali saranno le compensazioni: “Ci affidiamo alla buona volontà del Governo”, ha detto Silvestro Ladu. Che l’argomento sia complesso l’ha rilevato Ben Amara ricordando che l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per la violazione della convenzione europea sui diritti umani. La situazione carceraria è esplosiva se è vero che il 60% dei detenuti è affetto da malattie infettive. Ma qui il problema riguarda ancora una volta il rapporto con lo Stato: “Ci facciamo le norme di attuazione per le risorse che ci spettano”, ha affermato Gian Valerio Sanna, “e ne approviamo altre, come in questo caso, che ci accollano altre risorse”. Franco Cuccureddu (Mpa) ha fatto un paragone con la sanità “ordinaria”: “Se un sardo si fa operare in un ospedale della Lombardia perché l’intervento non è praticabile nell’isola a pagare è la Regione. E allora non si capisce perché non viene introdotto il concetto della residenza anche per i detenuti, perché qui il ministero ce ne manda davvero tanti”. L’assessore Liori ha ripreso la questione dei diritti civili da rispettare e ha assicurato l’impegno della Giunta nella trattativa che si aprirà con il Governo. L’unico problema - è stato rilevato da più parti - è che la trattativa sarà svolta dal Comitato paritetico dove la Sardegna “conta uno su ventuno regioni”. E se nella conferenza Stato-Regioni è guerra, la Sardegna rischia di essere schiacciata. Viterbo: il Gip non crede al suicidio, Claudio Tomaino potrebbe essere stato ammazzato in cella di Gianni Tassi Il Messaggero, 31 ottobre 2010 Potrebbe essere stato ammazzato in cella a Mammagialla Claudio Tomaino, 29 anni, calabrese, autoaccusatosi della strage di Caraffa avvenuta il 27 marzo del 2006 nel Catanzarese nella quale vennero uccisi a colpi d’arma da fuoco padre, madre e i loro due figli. Per la seconda volta consecutiva, infatti, il gip del tribunale viterbese, Salvatore Fanti, ha rigettato la richiesta di archiviazione presentata dal sostituto procuratore, Renzo Petroselli, imponendogli altri tre mesi di indagini per dissolvere alcuni dubbi ritenuti importanti. Potrebbe quindi non trattarsi di suicidio bensì di omicidio. Un delitto avvenuto dentro il carcere viterbese ad opera di chi aveva interesse a che Tomaino non svelasse i veri autori di quella strage o dei suoi complici. Quella mattina del 27 marzo 2006 nella campagna di Caraffa, in località Tre Olivare, viene sterminata un’intera famiglia: Camillo Pane e la moglie Annamaria, i figli Eugenio e Maria, di 20 e 18 anni, zii e cugini di Tomaino. In un primo momento si parla di più autori dell’omicidio poi, invece, è lo stesso Claudio Tomaino ad autoaccusarsi. Raccontando anche che era stato spinto da motivi economici (era debitore di 120 mila euro nei confronti dello zio). Ma forse la vicenda della “Strage di Caraffa” è ancora tutta da scrivere. Ne è convinta Maria Pane, la madre di Claudio Tomaino, individuato dalla Procura di Catanzaro come unico colpevole degli omicidi. Talmente convinta da aver chiesto alla stessa Procura catanzarese di riaprire le indagini su quel caso, tramite un esposto presentato dall’avvocato Noemi Balsamo. Troppi, a suo dire, i dubbi rimasti irrisolti al termine di un cammino investigativo che è apparso subito troppo facile rispetto al delitto consumato e ai segreti che potrebbero averlo determinato. Claudio Tomaino, rinchiuso nel carcere di Viterbo in attesa di giudizio, viene trovato morto la mattina del 18 gennaio 2008. Le autorità carcerarie parlano subito di suicidio per soffocamento. L’uomo si sarebbe tolto la vita infilando la testa in una busta di plastica dentro la quale aveva immesso il gas di un fornello scaldavivande. Ma su quel presunto suicidio ha sempre mostrato dubbi la madre dell’uomo. E adesso, per la seconda volta, il gip del tribunale viterbese, dopo aver respinto la richiesta di archiviazione presentata dal pm, convinto del suicidio, ha disposto altri tre mesi di accurate indagini. “Ci sono punti oscuri da chiarire - dice l’avvocato Francesco Balsamo, legale rappresentate della madre di Claudio Tomaino - primi tra tutti quelle tracce di sangue rinvenute sul volto del presunto suicida, sul lenzuolo e sulla federa del cuscino. Un suicidio per soffocamento non provoca fuoriuscita di sangue”. E aggiunge: “Possibile che il piantone che era in cella con lui, cioè un altro detenuto che aveva il compito di controllarlo, non si sia accorto di nulla? E che dire delle dichiarazioni di quel detenuto che ha affermato che il giorno prima della morte Claudio Tomaino era stato aggredito e pestato a sangue?”. L’avvocato Balsamo tira in ballo anche quell’autopsia “assai sommaria” effettuata a due giorni dalla morte. “Per non parlare di una serie di carenze investigative sulle quali adesso bisognerà fare luce”. Va detto che in altre quattro occasioni Tomaino ha tentato il suicidio. “Tentativi approssimativi e innocui - evidenzia Balsamo - messi in atto solo per dimostrare il suo stato psichico”. Ovverosia il classico escamotage per salvarsi dall’ergastolo. Cagliari: “scarcerato” il bebè di un mese, con la madre è ospite di un istituto religioso L’Unione Sarda, 31 ottobre 2010 Due notizie da Buoncammino. La prima è quella buona: la donna polacca in cella con il figlioletto di un mese ha ottenuto gli arresti domiciliari e ora è ospite di un istituto religioso cagliaritano. L’altra, quella cattiva, riguarda il detenuto tunisino che attende il trasferimento in un carcere del suo Paese: ha ripreso lo sciopero della fame e ora è ricoverato nel centro clinico per aver ingerito un accendino. Ieri sera il bimbo e la madre di 25 anni hanno lasciato la cella di Buoncammino dopo 19 giorni. La donna era stata arrestata con la sorella perché trovata in possesso di 3,5 chili di cocaina. Il bimbo, con la mamma, ha raggiunto l’istituto religioso dove sono ospitati anche gli altri due fratellini di 4 e 5 anni. L’avvocato Domenico Alessandrini, che proporrà il patteggiamento della pena per la sua assistita, è riuscito a dimostrare ai giudici del Tribunale l’inadeguatezza del carcere, dove non è disponibile neanche il latte artificiale, per un piccolo di quell’età. Non sono stati sufficienti 21 giorni di sciopero della fame al tunisino Jalel El Asghaa, di 30 anni, ricoverato nel centro clinico di Buoncammino, per ottenere dalle autorità diplomatiche del suo Paese il lasciapassare per far rientro in patria in attuazione del decreto di espulsione emesso dal magistrato di sorveglianza quale pena alternativa alla detenzione. “Viste le inutili promesse fornitegli da un rappresentante del Consolato ha ripreso a rifiutare il cibo”, afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo diritti riforme. “È auspicabile che le autorità tunisine rilascino al più presto il permesso”. Bologna: accertamenti della Procura sul detenuto suicida; perché aveva i lacci delle scarpe? Ansa, 31 ottobre 2010 Il pm Antonella Scandellari della procura di Bologna acquisirà i documenti sanitari, e non solo, riguardanti Gheghi Plasnicj, il detenuto sloveno di 32 anni che si è ucciso ieri mattina nel carcere di Bologna. Il giovane, trasferito dal penitenziario di Ravenna alla Dozza da poco tempo e con vari precedenti penali fra cui un tentato omicidio, si è impiccato ai tubi della doccia usando i lacci delle scarpe come cappio. Il fatto che avesse a disposizione le stringhe sarà oggetto di ulteriori verifiche da parte degli inquirenti, anche perché l’uomo aveva già tentato il suicidio in passato, era in cura dal servizio di psichiatria e assumeva farmaci. Sul cadavere sarà eseguita presto l’autopsia. Secondo Giovanni Battista Durante, il segretario generale aggiunto del Sappe (sindacato autonomo di polizia penitenziaria), il regolamento interno del carcere bolognese non vieta specificatamente l’uso di stringhe o cinture, a meno che non ci siano rischi tali da richiedere prescrizioni o procedure particolari. “In genere i divieti riguardano più il possesso di oggetti che possano ferire o provocare danni agli altri - ha aggiunto Durante - Ad esempio i detenuti hanno i rasoi usa e getta ma niente vieta di togliere la lametta che c’è dentro e usarla”. Anche per questo il Sappe chiede di rivedere il regolamento: “Ad esempio si dovrebbe vietare l’uso delle bombolette di gas che servono per cucinare - ha spiegato il sindacalista - e in genere bisognerebbe vietare la possibilità di cucinare in cella. E comunque spesso le celle sono piene di roba, tanto che a volte diventa difficile fare le perquisizioni”. Nel maggio scorso Plasnicj fu arrestato a Savio, frazione alle porte di Ravenna. A bordo di un’auto sulla statale Adriatica, non si era fermato all’alt di una pattuglia dei carabinieri, aveva tentato di investire un militare e infine speronato una gazzella. Nella sua macchina furono poi trovati gioielli, probabilmente rubati, per un valore di circa 40.000 euro. Inoltre guidava senza aver mai conseguito la patente e sotto l’effetto di alcol. Bologna: Gheghi Plasnicj aveva già tentato il suicidio diverse volte ed era stato ricoverato all’Opg Dire, 31 ottobre 2010 Gheghi Plasnicj “aveva tentato il suicidio già diverse, all’interno di altre strutture ed era seguito dal servizio psichiatrico e visitato periodicamente: proprio per questo si trovava all’interno del reparto di infermeria della Dozza”. Lo rivela il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante, spiegando che l’agente penitenziario è intervenuto immediatamente, ma non c’è stato nulla da fare. Il 32enne era arrivato a Bologna nella primavera scorsa, arrivando dall’ospedale di Ravenna. In precedenza, però, era stato anche all’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Era detenuto per diversi reati, tra cui il più grave era tentato omicidio. “Mentre la politica continua ad interrogarsi su quali provvedimenti adottare nelle carceri si continua a morire - commenta Durante - chiediamo un impegno di tutti i gruppi politici affinché si faccia presto ad approvare il disegno di legge Alfano, attualmente in commissione giustizia del Senato”. Quello di questa mattina “è il 58esimo suicidio dall’inizio dell’anno” manda a dire Durante, ricordando che “l’Emilia-Romagna continua ad essere una delle regioni dove i suicidi ed i tentavi di suicidio sono tra i più alti d’Italia”. La Camera penale di Bologna, alla luce dell’accaduto, sottolinea “l’urgenza di un intervento politico che ponga fine ad una situazione non più tollerabile”. Il suicidio di oggi, si legge nella nota degli avvocati penalisti, porta a 145 il numero di morti in carcere nel 2010, di cui 58 suicidi. Per la Camera penale un così alto numero di morti “è la conseguenza del sovraffollamento, della mancanza di un sostegno psicologico, della impossibilità di intraprendere un percorso di risocializzazione e dell’essere pigiati in 1.100 in una struttura che ha una capienza regolamentare di 480 posti, nella quale oltre la metà dei detenuti è in attesa di giudizio”. Al momento, “in attesa che la magistratura accerti le cause e le modalità del decesso- conclude la Camera penale- non possiamo che ribadire con forza la necessità di un intervento politico che ponga fine ad una situazione non più tollerabile”. Sul caso del suicidio alla Dozza interviene anche il capogruppo di Sel-Verdi Emilia-Romagna, Gian Guido Naldi. “Altro che funzione rieducativa, le nostre carceri non riescono nemmeno a tutelare la dignità umana dei detenuti. Dobbiamo agire subito” chiede Naldi, dicendosi “profondamente colpito da questa ennesima tragedia che si è consumata in una struttura detentiva della nostra Regione”. Naldi concorda con quanto detto dal segretario generale della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno, che oggi ha gridato contro “l’ecatombe” dei suicidi dietro le sbarre. Ricordando che l’assemblea legislativa di viale Aldo Moro da alcune settimane sta visitando le carceri dell’Emilia-Romagna, constatando così le “intollerabili e inumane condizioni di detenzione”, Naldi vede in questi suicidi “la conseguenza di situazioni inammissibili in un paese civile, come l’eccessivo sovraffollamento dei detenuti, la scarsità d’organico, di mezzi e di occasioni di recupero sociale”. Il consigliere chiede perciò alle istituzioni di intervenire. Sul quanto accaduto alla Dozza interviene anche Maurizio Serra della Cgil Funzione pubblica: “La situazione è stata ampiamente dibattuta e c’è un sovraffollamento ampiamente denunciato e quindi condizioni di vita per i detenuti e di lavoro per gli agenti al limite” dice Serra. Occorre dare ai detenuti la possibilità di “lavorare e fare in modo che ci siano condizioni di maggiore vivibilità”, anche perché “la carenza di personale è legata alle condizioni di vita all’interno del carcere”. Infatti, se da un lato “per i detenuti c’è il sovraffollamento - prosegue Serra - per chi lavora ci sono doppi turni, riposi mancati”. Secondo la Cgil, “l’insieme del tutto crea livello di qualità della vita basso e al limite”. Marzocchi (Regione) da tempo chiediamo intervento, fino ad oggi nessun riscontro da Alfano “Esprimo il dolore mio personale e di tutta la Regione per questo nuovo caso di un detenuto che si toglie la vita in un carcere dell’Emilia-Romagna. Non da oggi denunciamo una situazione di sovraffollamento e di inadeguatezza delle strutture e dei servizi carcerari che si è fatta ormai insostenibile”. Questo il commento dell’assessore regionale alle Politiche sociali Teresa Marzocchi alla notizia del suicidio di un detenuto sloveno nel penitenziario bolognese della Dozza. “Lo stesso presidente Errani - ricorda Marzocchi - ha scritto al ministro Alfano, ma fino ad oggi devo amaramente constatare che le nostre sollecitazioni non hanno avuto alcun riscontro”. Per l’assessore “è un problema di umanità e di civiltà, che riguarda non solo l’Emilia-Romagna, ma tutto il sistema penitenziario italiano”. Dunque, conclude Marzocchi, “rinnoviamo ancora la nostra richiesta di un intervento urgente, che riteniamo non più differibile”. Vicenza: i detenuti lanciano un grido d’allarme; il carcere scoppia, mancano perfino le lenzuola Giornale di Vicenza, 31 ottobre 2010 Grido d’allarme dalla casa circondariale: “Noi dobbiamo pagare per i nostri errori, ma non possiamo subire tutto, si apra un’inchiesta”. I detenuti: “C’è poca biancheria ricucita e giallastra per lo sporco” Il direttore: “Elemosinate ovunque, c’è stato un balzo di carcerati”. Due facciate fitte, calligrafia pulita, parole pesanti. Mittente: detenuti della casa circondariale di Vicenza. La premessa: “Noi vogliamo e dobbiamo pagare per i nostri errori, ma tutto ciò non significa subire tutto. Chiediamo che si apra un’inchiesta”. Il “tutto” lo raccontano a raffica: cibo contingentato e “non commestibile”, attese di 8-9 mesi per una visita in ospedale, condizioni igieniche impossibili, spesa effettuata due volte la settimana per alimenti di prima necessità e recapitata dopo 20 giorni, lenzuola “cioè pezzetti di stoffa ricuciti e dal colore giallastro per lo sporco” insufficienti per tutti “e si fa a turno una settimana sì e un’altra no”, mancanza di educatori “solo due e non si vedono mai”. Il direttore del carcere Fabrizio Cacciabue non ci sta: “Stiamo dando il massimo, non tutto corrisponde a verità, se qualche problema si è verificato è perché abbiamo dovuto far fronte in pochi giorni ad un balzo improvviso a 371 detenuti, erano 330, oggi sono 367. Il carcere avrebbe 146 posti”. Il direttore parte dalle lenzuola. “Abbiamo dovuto elemosinarle in tutto il Triveneto, il carcere di Verona ce ne ha date 50, ora il Provveditorato regionale ci ha concesso di acquistarne alcune centinaia sul libero mercato, abbiamo fatto un bando, il prezzo sarà maggiore ma non abbiamo alternative. La lavanderia funziona a pieno ritmo, anche lo stress delle lenzuola è notevole”. “Non nego le difficoltà logistiche: è capitato soprattutto ultimamente che magazzinieri e addetti alla spesa siano stati utilizzati per servizi di traduzione (gli spostamenti dei detenuti) e questo ha causato ritardi nelle consegne”. “Sono previsti un primo e un secondo, il cibo non è cattivo, può accadere che la frutta non sia appetibile, in questo caso interviene il sanitario presente nella struttura. La ditta che ha vinto l’appalto fornisce i pasti, una commissione effettua controlli ogni giorno. I pasti sono calcolati sulla base del menù fissato dal Dipartimento in base alle grammature individuali, succede che venga dato anche più cibo”. I detenuti scrivono che, per chi ha mal di denti, il carcere dovrebbe passare un litro di latte al giorno al posto del secondo piatto “ma qui - lamentano - ci sono persone che non lo prendono da 50-60 giorni”. Al direttore non risultano diete lattee: “Per le persone che hanno edentulia (mancanza di denti) è previsto il pane al latte”. “Se un detenuto ha un’emergenza viene accompagnato all’ospedale, è il medico a valutare se ci sono situazioni che possono aspettare, non il singolo paziente”. “Siamo impegnati su più fronti, iniziative che verranno rese note al momento opportuno, visto che coinvolgono collaborazioni diverse. Quanto al numero di educatori essi non sono due, bensì tre, oltre ad un direttore di area pedagogica”. Cacciabue ribadisce: “Stiamo dando il massimo. Tele di ragno non ce ne sono. Se mi arriverà la lettera sono pronto in mandarla in Procura”. Chi si accosta con frequenza al carcere non nega i problemi, molti dei quali legati ad una realtà quotidiana fatta di “tre ore d’aria e altre 21 in celle invivibili, dove dovrebbe esserci un unico detenuto e invece si trovano in tre”. Una situazione insostenibile e che incattivisce: “Il tempo non esiste, c’è chi non si lava, chi rifiuta il cibo”. “Però - si sottolinea - con il passaggio della sanità all’Ulss c’è stato un salto di qualità. Per il resto, sovraffollamento in primis, molto dipende dalle decisioni politiche”. Genova: Uil; marocchino aggredito da altri detenuti e poi lui se l’è presa con gli agenti Dire, 31 ottobre 2010 “Questa mattina intorno alle 10.00 un detenuto marocchino, noto per le sue intemperanze, è stato oggetto di violenta aggressione da parte di una decina di detenuti di nazionalità italiana. L’episodio si è verificato al secondo piano della sesta sezione del carcere genovese di Marassi”. Lo dice in una nota Eugenio Sarno, segretario generale Uil Pa Penitenziari. “Il pronto intervento degli agenti penitenziari in servizio ha evitato peggiori conseguenze per l’incolumità del detenuto maghrebino - spiega Sarno. Nonostante le botte ricevute e le lesioni riportate lo stesso ha trovato la forza di tentare di aggredire con una lametta il personale che lo stava portando, precauzionalmente, in altra sezione. Per tali ragioni dopo essere stato sottoposto a visita medica, il predetto detenuto è ora al piano terra della sesta sezione, legato al letto di contenzione”. “Questa della promiscuità tra etnie è una delle tante criticità che il personale deve cercare, in splendida solitudine, di gestire. A Marassi già più volte si sono registrati episodi di violenza e risse tra detenuti di estrazione diversa - continua Sarno. Le difficoltà di linguaggio, le diverse culture e religioni, i diversi usi e costumi in un quadro di grave sovrappopolamento delle strutture penitenziarie alimentano le tensioni che sfociano in violenza. Violenze che per l’esiguità degli organici e la scarsità delle risorse logistiche non possono essere ne prevenute ne gestite ne controllate”. “Sia ben chiaro che i nostri penitenziari sono sempre più terra di nessuno. Praterie di conquista dei violenti e dei boss che impongono regole e codici - prosegue Sarno. È ben chiara l’impotenza degli agenti penitenziari chiamati a sorvegliare, da soli, centinaia di detenuti. Agenti che non possono contare su alcuna arma o mezzo di difesa e debbono, quindi, affidarsi ai soli mezzi di cui possono disporre: buon senso, tolleranza, arguzia, intelligenza, professionalità. Ma i 208 poliziotti penitenziari aggrediti e feriti dai detenuti, in questo 2010, certificano che a volte non bastano nemmeno tali doti”. “Vogliamo solo auspicare che non sia necessaria una immane tragedia perché il pendolo emotivo, che regola l’attenzione verso il carcere, faccia accendere i riflettori sulle degradate, incivili, illegali condizioni della detenzione e sulle infamanti condizioni di lavoro - conclude Sarno. Evidentemente non bastano i 25mila detenuti in più rispetto alle capacità ricettive, le 6.500 unità di pol. pen. vacanti, i 57 suicidi, i circa 1000 tentati suicidi, i 5.000 atti di autolesionismo grave, i 15 detenuti evasi, le 13 evasioni sventate (oltre ai già citati 200 agenti feriti) perché la politica ed i politici volgano sguardo e l’attenzione verso quelle discariche sociali, contenitori del disagio, che sono le nostre prigioni”. Il direttore: serve più aiuto da parte dei servizi psichiatrici “Lancio un allarme e voglio che aumenti l’impegno della Asl per il servizio psichiatrico all’interno della struttura. Avanti così non si può andare”. È questo l’allarme lanciato dal direttore del carcere genovese di Marassi Salvatore Mazzeo, dopo l’ennesimo episodio di violenza, avvenuto questa mattina, da parte di un detenuto con problemi psichiatrici nei confronti di un agente di polizia penitenziaria che ha riportato una lieve lesione alla spalla. “Questo detenuto è un soggetto psichiatrico, un tunisino con una condanna a circa 10 anni - ha spiegato Mazzeo - è un soggetto che già conosciamo bene. Proviene dal reparto psichiatrico del carcere di Torino, vuole stare in carcere, ha questi atteggiamenti di grande ostilità nei confronti dei nostri agenti”. Un episodio che evidenzia la necessità di rafforzare la presenza della ASL 3 genovese all’interno dell’istituto: “Le strutture psichiatriche tengono questi soggetti per un periodo di osservazione di 30 giorni poi li dimettono e quindi tornano nelle sedi di assegnazione. Purtroppo l’attività di cura psichiatrica qui a Marassi si limita ad una consulenza e non c’è una vera presa in carico di questi pazienti. Questa è una nota dolente che ho già fatto presente perché il servizio psichiatrico così com’è ora non è sufficiente per far fronte alle esigenze all’interno del carcere”. Forlì: la Cgil attacca; carcere in condizioni critiche, protestiamo ma non sta cambiando nulla Romagna Oggi, 31 ottobre 2010 La Cgil e la Fp Cgil di Forlì il 14 ottobre scorso hanno denunciato “la grave situazione di degrado in cui versa da anni la Casa Circondariale forlivese”. “Al di là dell’immediato clamore mediatico suscitato sia nelle Istituzioni Locali - si legge in una nota del sindacato - che nei vertici del Ministero della Giustizia, non da ultimi i vari politici locali, ad oggi il Carcere pare letteralmente scomparso dall’attenzione e dal merito pur non essendo mutato nulla”. “Ci appaiono, quindi, doverose alcune domande: Quali concrete iniziative e in quali tempi la direzione del carcere intende attivare e mettere in atto per superare una condizione di inaccettabile ed evidente compromissione dei livelli minimi di tutela della salute delle persone?” si chiede la Cgil, che si pone un’altra questione: “Come il Ministero della Giustizia nelle figure del Provveditore Regionale, del Capo Dipartimento, del Ministro Alfano intendono intervenire per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori penitenziari e della popolazione detenuta?” “Come pensano di esercitare la loro competenza i soggetti che hanno responsabilità territoriali specifiche nella tutela dei cittadini come l’Ausl, l’Amministrazione Comunale e, se ne ricorrono i presupposti, la Magistratura?” si chiede ancora il sindacato. “La Cgil e la Fp ritengono inaccettabile ed incivile costringere le persone a lavorare o vivere in condizioni disumane, in ambienti con topi, scarafaggi, escrementi , parassiti ecc. e chiedono che in trasparenza si dicano qualità, tempi e modi degli interventi aprendo se occorre, noi riteniamo di si, tavoli specifici affinché si agisca tempestivamente a tutela di tutti coloro che a vario titolo frequentano la Casa Circondariale, perché la struttura non è un mondo avulso della società civile, ma parte integrante del vivere e del bene comune”. “La Cgil e la Fp continueranno a vigilare e tenere alta l’attenzione pubblica anche attraverso la mobilitazione dei lavoratori interessati” si conclude la nota della Cgil. Gorizia una denuncia in Procura da parte della Camera penale sulle condizioni del carcere Messaggero Veneto, 31 ottobre 2010 Il marcato degrado in cui versano le strutture del carcere di via Barzellini - evidenziato ieri nel reportage pubblicato sulle pagine del nostro giornale - aveva indotto lo scorso giugno la Camera Penale di Gorizia, presieduta dall’avvocato Riccardo Cattarini, a presentare una formale denuncia alla Procura della Repubblica, invocando un’indagine tesa a verificare “non solo se siano stati commessi reati, ma soprattutto se siano in atto situazioni di pericolo per l’utenza e il personale, che potrebbero dare atto a responsabilità anche colposa in caso di evento di danno”. Nel testo del documento si evidenzia “la drammatica situazione che vive il sistema penitenziario anche locale”, sottolineando come l’intervento intenda tutelare “i diritti dei detenuti, che sembrano subire una persistente lesione al diritto alla salute, alla sicurezza, all’incolumità e alla partecipazione ai programmi rieducativi secondo i canoni previsti dalla Costituzione”. “Qualora venissero accertate le mancate corrispondenze alle normative vigenti, sembra indispensabile porsi il problema della legittimità della permanenza nella sede del personale di Polizia penitenziaria e dei detenuti”, si legge nel documento, inoltrato agli organi competenti il 17 giugno scorso. Nel testo si chiede inoltre la verifica urgente dell’adeguatezza delle strutture sanitarie interne al carcere, della condizione di salute dei singoli detenuti, dello stato degli arredi (letti e materassi in particolare) e delle condizioni igieniche delle cucine e delle attrezzature. Altre richieste d’indagine riguardano il riscaldamento, l’impianto d’illuminazione, le modalità di svolgimento dell’ora d’aria e la qualità del cibo offerto dall’istituto penitenziario. Ad oggi non si ha notizia di eventuali provvedimenti intrapresi in merito alla vicenda dalla Procura. Cinque opzioni per il nuovo carcere Cinque aree potenzialmente adatte ad ospitare la nuova casa circondariale di Gorizia sono state individuate nel corso degli ultimi mesi dall’ufficio tecnico comunale, che a tal proposito ha provveduto a predisporre una dettagliata relazione. Il documento è proprio in queste ore al vaglio del sindaco, Ettore Romoli, che preferisce mantenere stretto riserbo sui siti indicati dai tecnici: “È prematuro svelare dettagli sui luoghi, anche considerando i tempi biblici che si prospettano per l’iter”. “Si creerebbero inutili polemiche preventive da parte delle comunità eventualmente coinvolte”, spiega il sindaco. Dei cinque siti è dato sapere soltanto che “rispondono alle esigenze di metratura indicate a più riprese anche nei giorni scorsi” e che, secondo quanto rivela Romoli, “si tratta di terreni non comunali, situati alla periferia della città”. Per alcuni dei siti indicati come idonei dalla relazione dell’ufficio tecnico, insomma, potrebbe rivelarsi necessario l’avvio di delicate e farraginose procedure d’esproprio: “Sempre ammesso e non concesso che il Ministero decida effettivamente di stanziare i fondi necessari alla costruzione di un nuovo carcere a Gorizia, per la cui realizzazione sarebbe necessario uno stanziamento realmente ingente”, evidenzia con malcelato pessimismo il primo cittadino. Una volta esaminata da Romoli, la relazione sarà inoltrata per opportuna conoscenza alla Prefettura e, successivamente, al Ministero della Giustizia, che dovrà valutare la richiesta del Comune: “Soltanto a quel punto - afferma il sindaco -, ricevuta la disponibilità del governo, sarà il caso di aprire il dibattito con la cittadinanza sulla collocazione del nuovo carcere”. Due anni fa, secondo quanto riferito al Messaggero Veneto dal direttore della struttura detentiva, Francesco Macrì, era stato effettuato un sopralluogo nella caserma Pecorari di Lucinico: un episodio che, anche per le proteste dei cittadini dell’area, non ebbe alcun seguito. Secondo Macrì, è necessaria un’estensione di almeno sei ettari, in maniera tale da permettere la costruzione di una struttura capace di ospitare circa duecento detenuti. I tempi, in ogni caso, si preannunciano oltremodo lunghi: “Al di là di ogni presa di posizione, ritengo sia necessario intervenire gradualmente, con lavori di manutenzione che permettano di incrementare i livelli di vivibilità della struttura”, dice ancora Romoli. Gorizia: il direttore; due sezioni su tre sono inagibili, serve urgentemente un carcere nuovo Messaggero Veneto, 31 ottobre 2010 Due sezioni su tre inagibili, perenne sovraffollamento e una situazione di fatiscenza arginata con sempre maggior fatica. Il carcere di Gorizia cade a pezzi, letteralmente. Tanto da spingere il direttore della casa circondariale, Francesco Macrì, a definire “inutile” qualsiasi intervento strutturale mirato al recupero dello stabile di via Barzellini. “Bisogna costruire un nuovo carcere, ristrutturare questo sarebbe illogico”, spiega. Tre anni fa sono state chiuse due sezioni della prigione del capoluogo isontino, inferendo un durissimo colpo alla capienza totale della struttura, passata da 80 posti ad appena 30. “Un numero largamente insufficiente per le esigenze della comunità provinciale - spiega Macrì - che ci costringe a fare i conti con un sovraffollamento quasi perenne. Soltanto la capacità del personale civile e degli agenti della Polizia penitenziaria, oltre all’obiettiva collaborazione dei detenuti, permette di superare disagi altrimenti largamente insormontabili”. Ieri mattina le celle al terzo piano della casa circondariale ospitavano in tutto 49 persone, 29 delle quali di etnia straniera: “In larga parte si tratta di reati legati allo spaccio di droga, a furti, a violazione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione, con permanenze che generalmente non superano i cinque anni”. Il carcere di Gorizia, infatti è classificato come struttura “di media sicurezza”: non può, cioè, trattenere ospiti con condanne superiori ai cinque anni: nessun omicida, insomma, tra le mura di via Barzellini. Mura scalcinate che trasudano umidità, evidenziano perdite d’acqua e non fanno nulla per nascondere i decenni di incuria: fanno eccezione le stanze al secondo piano, ristrutturate appena tre anni fa. La spesa per rimettere in sesto lo stabile e permettere dunque di ripristinare la capienza pregressa? Quattro, forse cinque milioni di euro. “Decisamente troppi per un intervento che consentirebbe di risolvere il problema in maniera provvisoria, con una capienza insufficiente - evidenzia ancora il direttore -. L’auspicio è che l’istituzione comunale riesca a individuare quanto prima un luogo capace di ospitare la struttura carceraria: servono almeno sei ettari per poter costruire una casa circondariale capace di ospitare almeno duecento detenuti e di rispondere quindi alle esigenze del territorio”. Attualmente, i detenuti in esubero vengono dirottati nelle strutture di Udine e Trieste, previa autorizzazione del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Padova, che ha giurisdizione sulle carceri del Triveneto. A mancare quasi completamente, “nonostante il pregevole sforzo del personale e dei volontari”, sono le attività laboratoriali, per le quali non esistono materialmente spazi da allestire. “Cerchiamo di operare per aumentare la qualità del trattamento carcerario, ma al momento non possiamo proporre un’offerta paragonabile a quelle di altre realtà circondariali”, dice Macrì, che si appella all’amministrazione comunale: “Bisogna trovare una soluzione definitiva, costruendo un nuovo carcere. I rapporti col Comune? Sono scarsi: il sindaco Romoli non è mai venuto a visitare le nostre strutture, tutti i discorsi intavolati sono rimasti lettera morta”, spiega il direttore. Bagno in cella, aule didattiche e corsi con i pc Pareti scrostate, intonaci cadenti e finestre tappate alla bell’e meglio con cartoni e plastica. È il desolante quadro che si presenta di fronte a chi si supera il cancello al primo piano del carcere di via Barzellini, inagibile da ormai due anni. “In queste condizioni non era possibile continuare a ospitare detenuti in quella sezione”, ci spiega il direttore della casa circondariale, Francesco Macrì, che ci ha accompagnato nella nostra visita nel carcere del capoluogo isontino. Tempi tutto sommato celeri quelli per il rilascio del nulla osta necessario a permetterci di varcare l’ingresso della struttura detentiva: a due settimane dalla richiesta, il ministero della Giustizia ha provveduto a concedere l’autorizzazione. Espletate le formalità di rito e superati gli uffici amministrativi, usciamo sul cortile su cui s’affaccia l’ingresso vero e proprio del carcere. Ad accompagnarci, oltre al direttore, il comandante della Polizia penitenziaria, il commissario Alessandro Bracaglia: i suoi uomini sono costretti, costantemente sott’organico, a fare gli straordinari. Letteralmente, perché per fronteggiare l’atavica carenza di personale sono costretti a turni di otto ore, anziché le sei previste: “Complessivamente siamo in 41 - spiega Bracaglia -, mentre di norma dovremmo essere in 54”. Agli agenti si aggiunge il personale civile, sette impiegati in tutto. Al piano terra del carcere sono ospitate le stanze utilizzate per i colloqui con gli avvocati e per gli interrogatori di garanzia. In uno stanzone appena un po’ più ampio, con otto panche e quattro tavoli, si svolgono gli incontri con i familiari: sono al massimo sei al mese, mentre quattro sono le telefonate concesse ogni mese ai detenuti. Sulla parete che dà sul giardino della vecchia scuola Pitteri si apre il cortile, dove gli ospiti del carcere godono dell’ora d’aria e inscenano, di tanto in tanto, interminabili gare di calcetto. Il primo piano, come detto, risulta inagibile: in una stanza è ospitata la biblioteca, con oltre mille volumi, attiva una volta alla settimana e gestita da un detenuto. Saliamo di un piano, il secondo, oggetto di una profonda ristrutturazione nel 2007: gli infissi sono stati completamente sostituiti, i muri sono candidi di pittura (anche se affiora qualche macchia d’umido, causata da un tetto colabrodo) e le celle - che ospitano dalle due alle sei persone - sono complete di bagno. Sono le 11 di mattina: qualcuno dorme, altri giocano a carte, qualcuno si dedica all’attività fisica, sfruttando gli attrezzi della palestra appositamente allestita. Ci sono anche aule didattiche, con tanto di lavagne e pc per i corsi d’informatica. Mentre transitiamo è in corso di svolgimento una lezione d’italiano. È quasi ora di pranzo, che viene servito a partire da mezzogiorno meno un quarto: a preparare i piatti, basandosi su menu appositamente studiati dal ministero, sono due detenuti, all’opera già dalla mattina. Deserta è la sala cinema, un gioiello con pavimento di cotto e predisposto con impianto audio-video. Il motivo? Statico: la stanza si trova esattamente sopra la sala delle udienze del Tribunale e il solaio non reggerebbe alle sollecitazioni di più persone. Qualche metro più in là una stanza adibita a cappella: qui don Alberto e don Paolo dicono messa, “oltre a fornire un contributo prezioso per la comunità carceraria, venendo incontro alle esigenze di chi non ha familiari o amici che possano provvedere a piccoli problemi, come l’acquisto di un paio di scarpe o d’indumenti”, spiega il direttore, accompagnandoci verso l’uscita. Bologna: all’Ipm Sindacati in stato d’agitazione; condizioni inaccettabili, il Dap intervenga Dire, 31 ottobre 2010 I sindacati della Polizia penitenziaria di Bologna (Sappe, Osapp, Cisl, Uil, Sinappe, Ugl, Cigl, Cnpp) hanno indetto lo stato di agitazione per le condizioni in cui versa l’istituto minorile del Pratello e “chiedono l’intervento immediato del Dipartimento della Giustizia Minorile di Roma”. La decisione è stata presa dopo l’incontro avuto questa mattina con la direzione del carcere minorile. “La direzione- scrivono i sindacati in una nota congiunta- ha descritto e rappresentato ai sindacati che la situazione è diventata insostenibile, a causa la grave carenza d’organico di polizia penitenziaria, il sovraffollamento dei detenuti minori che non permettono di concedere i diritti soggettivi al personale di polizia penitenziaria”. A causa di questa situazione, “il personale è costantemente sottoposto a turni massacranti per lunghi periodi, con la revoca delle ferie già programmate, la soppressione dei riposi e la programmazione di due turni di lavoro nella stessa giornata”. In tutto questo, per il mese di novembre la direzione ha organizzato 15 repliche delle attività teatrali che coinvolgeranno i detenuti della struttura. I sindacati ora chiedono “l’adeguamento dell’organico di Polizia penitenziaria; lo sfollamento dei detenuti in eccedenza, considerando che attualmente cinque detenuti dormono sui materassi riposti sul pavimento” e “la garanzia che al personale vengano concessi i diritti soggettivi fondamentali, come ferie e riposi”. Chiedono inoltre “chiarimenti sui motivi che hanno determinato le dimissioni da parte dell’attuale comandante di reparto”. Se da Roma non arriveranno riscontri, i sindacati sono pronti “una serie di manifestazioni”. Rovigo: un presidio contro il carcere “che spinge alla morte” Il Gazzettino, 31 ottobre 2010 Una trentina di giovani, provenienti da diverse parti del Veneto, hanno manifestato ieri pomeriggio davanti alla casa circondariale di Rovigo, in via Mazzini all’incrocio con via Mure San Giuseppe. Un presidio di solidarietà, come era stato definito dagli organizzatori, ai detenuti rinchiusi “per non dimenticarli”. Temendo momenti di tensione e disordini, la questura aveva organizzato un servizio d’ordine composto da polizia e carabinieri. I manifestanti, che portavano uno striscione con la scritta: “Di carcere si muore”, hanno letto un comunicato di sostegno ai carcerati. La protesta, accompagnata dalla musica ad alto volume, si è svolta comunque senza incidenti. L’appuntamento era stato annunciato da una serie di volantini attaccati ai cestini portacarta del centro storico. “Per ricordare chi, vittima di leggi repressive o vessazioni di ogni genere si suicida in carcere. Per chi ogni giorno subisce violenze fisiche e psicologiche”, recitava l’annuncio. I suicidi nelle carceri, cronicamente sovraffollati, sono purtroppo un fenomeno diffuso e anche alla casa circondariale di Rovigo, lo scorso agosto, un detenuto aveva tentato di togliersi la vita. Iran: tre mesi insieme a Sakineh nella prigione-lager, tra torture e disperazione Ansa, 31 ottobre 2010 Carcere di Tabriz, Iran. In quattro camerate, pochi metri quadrati sudici e senza luce, sono rinchiuse duecento donne, divise a seconda del reato per cui sono state arrestate. Tra di loro, c’è Sakineh Mohammadi-Ashtiani, accusata di adulterio e complicità nell’omicidio del marito. Si proclama innocente ma, un giorno, le autorità le fanno firmare un documento redatto in farsi, lingua a lei totalmente sconosciuta: è la sua confessione, quella che le fa rischiare a lungo la condanna alla lapidazione. Shahnaz Gholami, giornalista iraniana che ora vive in Francia, per 99 giorni, tra il 2006 e il 2007, ha condiviso la stessa cella di Sakineh. E, in un incontro con l’Ansa a margine di un convegno, a Pordenone, sulla discriminazione femminile in Iran, ha raccontato la tragedia della sua compagna di prigionia: “Quando ha capito, Sakineh è svenuta dalla disperazione”. La Gholami è certa della sua innocenza. “Non ha mai accettato la tesi dell’accusa e se lo ha fatto è perché è stata torturata”, ha spiegato l’ex prigioniera. Poi, in tribunale, una mattina, le hanno fatto leggere la sua confessione, in farsi. “Sakineh è quasi analfabeta e parla solo l’azero, ha firmato senza capire nulla. Solo dopo, la direttrice del carcere le ha rivelato cosa comportava quella firma, facendola piombare nella disperazione”, è il ricordo della Gholami. Fino ad allora, Sakineh “si era distinta per il suo ottimismo, per la sua voglia di vivere. Era convinta di farcela, anche perché, secondo la sua versione, non aveva mai tradito il marito. E non lo aveva ucciso: l’uomo era morto accidentalmente, fulminato mentre faceva la doccia”. La Gholami, sfruttando un permesso accordatole per il suo cattivo stato di salute, è fuggita dall’Iran, rifugiandosi prima in Iraq, poi in Turchia, infine in Francia. Ma ha trascorso sei anni nella prigione di Tabriz. “Eravamo duecento, io ero nella stanza assegnata alle donne accusate dei reati più gravi. Trenta di loro, erano già state condannate a morte”. Le detenute erano isolate, spesso sottoposte a torture finalizzate ad “ottenere confessioni di reati inesistenti”. Dall’undici agosto scorso, non si hanno più notizie di Sakineh. E la Gholami ammette di essere “molto preoccupata. Già tre anni fa era molto dimagrita ed era stordita dai sonniferi”. Da tre settimane, in carcere, ci sono anche Sajad Qaderzadeh e Javid Hutan Kian, figlio e avvocato di Sakineh. “Entrambi sono stati picchiati. Kian, forse, sarà processato la prossima settimana. Sajad è ancora sotto tortura”, ha spiegato nel corso del convegno la presidente del Comitato contro la lapidazione Mina Ahadi, sottolineando che “in Iran nessun legale ora è disposto a difendere Sajad, per timore di essere arrestato”. Questa sera, dal Friuli, la Gholami e la Ahadi, insieme ad altri oppositori al regime di Teheran, parleranno in diretta al popolo iraniano, via satellite. E, ancora una volta, ribadiranno che “i rivoluzionari del ‘79 non volevano un governo teocratico. Questo regime ci è stato imposto ed ora in Iran non c’è giustizia”.