Giustizia: tutte le condanne a morte sono odiose, e ciascuna lo è a modo suo Europa, 28 ottobre 2010 “Tutte le condanne a morte sono odiose, e ciascuna lo è a modo suo”. Si può partire da questa lineare affermazione di Adriano Sofri sulla prima pagina di Repubblica per sintetizzare il senso dei commenti di molti quotidiani sulla condanna all’impiccagione contro Tareq Aziz e altri esponenti del regime che fu. E vanno citati anche l’apertura del Riformista - “Basta forca” nell’infinita vendetta irachena” - e il riferimento storico che chiude l’editoriale di Paolo Valentino sul Corriere della Sera: “Non è la presunta moderazione di Aziz un motivo in più per criticare la sentenza capitale. A morte non si condanna nessuno. Serve però a far risaltare l’accanimento vendicativo con cui l’attuale governo iracheno affronta il regolamento di conti con il passato. Sul fondo le sue colpe restano incontestabili e imperdonabili. Invocare, come ha fatto Aziz durante il processo, il ruolo quasi tecnico del diplomatico, esecutore di ordini, mai coinvolto nelle azioni mortifere del raìs, è un espediente antico. Anche problematico a suo modo, come ha dimostrato nei giorni scorsi il rapporto degli storici, ordinato dall’allora ministro degli esteri tedesco, Joschka Fischer, sul ruolo svolto dai diplomatici dell’Auswaertiges Amt sotto Hitler. Ci sono voluti oltre 60 anni di silenzi e sei di seria ricerca per stabilire che non furono servitori obbligati del regime, ma volenterosi carnefici del dittatore. Anche Aziz lo è stato. Per questo va fatta giustizia senza giustiziarlo”. A questo punto si può riprendere la riflessione di Sofri sul quotidiano diretto da Ezio Mauro: “Una condanna capitale inflitta a più di sette anni dall’invasione dell’Iraq e dalla fine proclamata della guerra è brutale non come la vendetta, ma come la burocrazia. Discutere delle responsabilità personali di Tareq Aziz ha senso per chi voglia rifare la storia e anche per il tribunale che voglia esercitare la giustizia penale, ma solo fino alla soglia della condanna capitale. Quest’ultima mette i vincitori dalla parte del torto e pregiudica il futuro della loro impresa. È stato vero per Saddam Hussein - platealmente, con f osceno spettacolo della sua esecuzione - e lo è per Aziz, che di quella tirannide rappresentava “il volto umano”, cioè l’ipocrisia. Un’ ipocrisia cui del resto buona parte dei poteri occidentali era felice di prestarsi, per convenienza d’affari e per il pregiudizio legato alla buona educazione anglosassone e alla fede cattolica”. Sciopero della fame. La notizia della condanna, conclude Sofri, è arrivata in Italia negli stessi giorni in cui “Marco Pannella stava facendo uno sciopero della fame col duplice proposito di denunciare l’intollerabile situazione carceraria italiana e di richiamare l’attenzione sull’opportunità mancata dell’esilio consensuale di Saddam e della sua corte, che avrebbe sventato l’intervento militare”. Pannella ha visto nella condanna di Aziz, come in quella di Saddam, “oltre che lo scandalo della pena di morte, contro il quale i radicali si battono coi migliori titoli, il calcolo di mettere a tacere personalità che potrebbero testimoniare sulla disponibilità all’esilio con un salvacondotto e alla caduta della tirannide di Saddam senza ricorso alla guerra”. È un tema importante, così come quello della situazione carceraria in Italia. Rassegna sintetica di qualche titolo di prima pagina: “Pestaggi in cella, quanti casi Cucchi in carcere?” (Riformista); “Simone condannato come Cucchi” (Il Manifesto); “Non solo lodo Alfano: un nuovo caso Cucchi risveglia il Palazzo sul problema delle carceri” (il Foglio). E ancora il Fatto e, soprattutto, il Messaggero. Giustizia: no alla pena di morte, in difesa della verità di Sergio D’Elia Il Manifesto, 28 ottobre 2010 Salvare Tareq Aziz non è un “mero” atto umanitario ma un obiettivo politico: la difesa del diritto e della verità, della legalità e della giustizia in Iraq. Marco Pannella lotta per affermare questi principi in Iraq e nel cosiddetto “mondo libero” da quando, due armi fa, è apparso chiaro che la guerra in Iraq è stata fatta scoppiare per impedire che scoppiasse la pace e sabotare così la proposta di un “Iraq libero” attraverso l’esilio di Saddam e un’amministrazione fiduciaria dell’Onu. Bush e Blair sono i primi responsabili di questo sabotaggio, con l’aggravante di aver occultato esistenza e praticabilità dell’alternativa alla guerra ai loro parlamenti e all’opinione pubblica. Per aiutare nella ricostruzione della verità, dal 2 ottobre Marco Pannella ha ripreso il suo Satyagraha, letteralmente “amore e ricerca della verità”, con uno sciopero della fame che, alla notizia della condanna a morte di Tareq Aziz, è divenuto anche della sete per evitare l’esecuzione di un testimone chiave. Come con Saddam Hussein, impiccando Aziz, l’Iraq impedirebbe l’accertamento della verità, che costituisce un diritto fondamentale e un interesse inalienabile della collettività, anche di fronte all’elevato prezzo pagato in termini di vite umane e sofferenze in Iraq, non solo tra gli iracheni “occupati”, ma anche tra i “liberatori”. Caduto Saddam, la pena di morte in Iraq era stata sospesa dall’Autorità Provvisoria della Coalizione, ma reintrodotta dopo il trasferimento di poteri alle autorità irachene. Da allora le esecuzioni don si sono mai fermate, neanche sotto il “democratico” governo di Nouri al - Maliki. Non esistono statistiche ufficiali, ma si stimano migliaia di condannati a morte e centinaia di giustiziati dalla fine del regime. Fonti governative parlano di una media di 10 esecuzioni a settimana. Le impiccagioni avvengono attraverso una forca di legno in una angusta cella del carcere al - Kadhmiya, ex quartiere generale dell’intelligente di Saddam Hussein. U è stato impiccato l’ex dittatore e altri esponenti del deposto regime. Video non autorizzati delle esecuzioni di Saddam e di Barzan al - Tikriti, poi resi pubblici, mostrano il corpo di Saddam su una barella con la testa girata di 90 gradi, mentre quella di Barzan si è staccata dal corpo durante l’impiccagione. Dopo la vittoria all’Onu sulla moratoria universale delle esecuzioni Marco Pannella lotta per una “Moratoria della pena di morte anche per Tareq Aziz”, per rompere la tragica continuità con quanto era in voga ai tempi di Saddam e assicurare verità e giustizia a tutte le vittime del regime saddamita e non solo a quelle per cui Aziz è stato condannato a morte. Giustizia: che fine ha fatto il ddl Alfano? il Governo si impegni per rapida approvazione di Donatella Poretti (Parlamentare Radicale) Agenzia Radicale, 28 ottobre 2010 Il disegno di legge Alfano, quello che prevede di scontare l’ultimo anno di pena agli arresti domiciliari e chiamato impropriamente “svuota carceri”, il cui iter al Senato sarebbe dovuto essere rapido, data la grave situazione in cui versano le carceri italiane messe a dura prova dal sovraffollamento e dalla carenza di operatori, è tristemente scomparso. Tale disegno di legge, cercava di operare un intervento, seppur minimale, sulla gravissima situazione del sistema penitenziario italiano, cercando di portare fuori dalle carceri le persone che stavano scontando l’ultimo anno di pena. In realtà, il disegno di legge si è andato svuotando a seguito delle votazioni della Camera ed il testo che è arrivato in Senato, per stessa ammissione del sottosegretario Caliendo, non riuscirà a intervenire se non su pochissime persone (forse 1.000, o al massimo 2.000). Tuttavia, perlomeno si prevedeva la possibile assunzione di 2.000 agenti penitenziari e ciò avrebbe potuto comportare l’apertura di alcuni reparti e quindi avrebbe consentito di intervenire sul sovraffollamento penitenziario. La Commissione giustizia si era impegnata a licenziare rapidamente questo disegno di legge facendo decadere tutti gli emendamenti, perché, per bocca dello stesso presidente Berselli, si sarebbe dovuti arrivare rapidamente all’esame dell’Assemblea, ma in realtà ciò non avviene perché pare manchi la relazione tecnica, cioè mancano i fondi per coprire l’assunzione dei possibili 2.000 agenti penitenziari. Essendo un disegno di legge di iniziativa governativa, forse sarebbe utile che il Governo trovasse anche i finanziamenti per poterlo sbloccare e licenziare rapidamente. Il provvedimento reca la data del 30 luglio 2010; vista l’emergenza della situazione penitenziaria (di cui è inutile ricordare i numeri: si sta per arrivare a 70.000 detenuti, 55 sono i suicidi dall’inizio dell’anno), forse è il caso che lo stesso Governo si prenda un impegno sull’iter di questo intervento che, seppur minimale, rappresenta un segnale per il nostro sistema penitenziario. Giustizia: Palma (Cpt); più posti nelle carceri italiane, ma dove e quando? Ansa, 28 ottobre 2010 L’Italia ha subito cinque condanne in due anni da parte della Corte di Strasburgo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo che vieta trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti. Non era mai successo da 48 anni a questa parte. La segnalazione arriva dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) che ha appena pubblicato la sua relazione annuale. Tra i cinque casi - spiega il presidente del Cpt, Mauro Palma - c’è la condanna al risarcimento di un detenuto per lo stato di sovraffollamento nel carcere in cui era recluso. Ci fa piacere, dunque sapere - aggiunge Palma - che il piano per l’edilizia penitenziaria prevede, nel giro di 24 mesi, 13 mila posti in più in Italia, come ha ribadito ieri l’on. Luigi Vitali (Pdl). Vorremmo conoscere, dunque - dice ancora Palma - quali cantieri sono già aperti e dove. Il presidente del Cpt rileva, infatti, che senza interventi legislativi e proseguendo con una media di 600 ingressi al mese di detenuti in carcere nessun piano di edilizia penitenziaria potrà risolvere l’emergenza sovraffollamento. Il comitato per la prevenzione della tortura, nella relazione annuale, critica l’Italia anche per i respingimenti in mare che non garantirebbero il diritto d’asilo e mettono a rischio gli immigrati rinviati in Libia. Giustizia: Pd; lavoratori penitenziari, le promesse di Alfano hanno fatto perdere fiducia Ansa, 28 ottobre 2010 “La manifestazione della Fp - Cgil di questa mattina per denunciare la drammaticità della situazione delle nostre carceri, trova il convinto sostegno del Partito Democratico anche e soprattutto sulla piattaforma di proposte presentate per ricondurre il sistema penitenziario a dimensione umana e al rispetto dei diritti del lavoro e della dignità delle persone. Di fronte a questa situazione ci chiediamo quando il ministro Alfano darà conto degli impegni assunti in Parlamento a gennaio, ai quali fino ad oggi non sono seguite azioni concrete”. Lo sottolineano Emanuele Fiano, responsabile Sicurezza, e Sandro Favi, responsabile Carceri del Partito democratico. “L’assenza di interventi immediati ed effettivi sta rischiando di far esplodere un sistema che da troppi mesi è al limite delle proprie capacità - avverte Fiano. Il piano carceri proposto quale soluzione unica a tutti i mali che affliggono i detenuti e gli operatori, si è rivelato un bluff, utile solo per guadagnare tempo all’esplodere delle contraddizioni interne alla maggioranza in tema di giustizia e sicurezza. Le promesse di Alfano agli operatori affinché fossero adeguati gli organici, hanno fatto perder la fiducia sulla quale si era fondato quel senso di responsabilità che ha consentito di governare in questi mesi una situazione penitenziaria al limite della deflagrazione”. Giustizia: bambini in carcere; alla domanda “Che ci faccio io qui” nessuna risposta di Laura Kiss La Repubblica, 28 ottobre 2010 Il numero è variabile, comunque mai sotto la cinquantina. Sono figli di detenute, la maggioranza Rom, che stanno scontando la pena nelle carceri italiane. Dopo i tre anni, i bambini vengono affidati a case famiglia o a famiglie italiane, ma spesso sono allontanati dalle madri e finiscono in ambienti estranei. Al Capone, Al Pacino, Rambo, Armani, tutti nomi di bambini con un comune denominatore: crescono in carcere e hanno da pochi mesi di vita a tre anni. Sono i figli delle detenute, per la maggioranza di etnia Rom, che stanno scontando la pena nelle case penitenziarie italiane e che per legge possono portare con sé i figli fino ai tre anni. Nomi celebri, perché queste donne sognano per i loro figli un avvenire diverso dal loro. A volte, raggiunti i tre anni, i bambini vengono affidati a case famiglia o a famiglie italiane, ma il più delle volte quando sono allontanati dalle madri che devono finire di scontare la pena, è la loro comunità che li accoglie al campo e vengono allevati da nonni e zii, in un ambiente a loro completamente estraneo e sotto la tutela di adulti che quasi sempre hanno già altri bambini più grandi a cui badare. Un altro dato da ricordare: ogni giorno la soglia delle carceri italiane è varcata da circa 75 bambini che vanno a trovare un genitore. A volte anche tutte e due. Il lavoro del volontariato. Durante la permanenza in carcere i bambini oggi possono contare su un servizio di asilo nido e sull’aiuto di volontari 1 che si occupano di aiutarli a crescere e di instaurare un percorso di assistenza alle madri. Ma non è stato sempre così. “Nessun bambino dovrebbe mai conoscere il carcere” racconta con passione Leda Colombini, presidente di A Roma Insieme 2, associazione che dal 1994 si occupa delle donne e dei bambini nel carcere di Rebibbia. “All’inizio della nostra attività la maggior parte delle donne recluse erano italiane, per lo più con problemi di tossicodipendenza. La realtà dei loro bambini dietro le sbarre gridava vendetta. Allora non esistevano asili nido che li accogliessero e il nostro lavoro è stato subito quello di cercare di portarli il più possibile fuori dal carcere. Abbiamo allora elaborato un progetto che si chiama “Conoscere e giocare per crescere” e grazie all’aiuto dei volontari e del comune di Roma ora sono 17 anni che tutti i sabati dell’anno, Natale e altre festività incluse, portiamo i bambini fuori dal carcere”. Il ruolo del Comune di Roma. L’obiettivo era e rimane “nessun bambino varchi più la soglia di un carcere”. “La prima cosa da fare è quella di portarli fuori da lì, di far conoscere loro la normalità” prosegue Colombini. “La nostra rete di volontari si è allargata moltissimo in questi anni e ora abbiamo la possibilità di portarli a giocare nei parchi, ma anche al supermercato o alle feste con altri bambini, cose normali che dovrebbero fare i bambini. Il Comune di Roma ogni sabato ci mette a disposizione un pullman e i volontari ci ospitano nelle loro case, organizzano festicciole, abbiamo due famiglie contadine ad esempio che spesso ci invitano in campagna. Quest’anno siamo anche andati tre volte nella tenuta del presidente a Castel Porziano. Non potrò mai dimenticare lo sguardo dei bambini che per la prima volta hanno visto il mare o gli occhi stupiti di una bambina che dopo aver visto la bellissima camera da letto di una nostra volontaria tutta decorata con le farfalle le ha detto “che bella la tua cella”. Ancora molti ostacoli. Il percorso di recupero delle madri è spesso difficile perché queste donne non sanno come fare per cambiare vita, sono legate alla loro cultura e il più delle volte non vedono altro futuro che tornare al campo e ricominciare con la vita di sempre che le porterà inevitabilmente di nuovo in carcere. È per questo che l’associazione promuove incontri con le detenute, laboratori di arte e musico - terapia per madri e bambini e ultimamente, per sensibilizzare il pubblico, ha organizzato una mostra fotografica dal titolo “Che ci faccio io qui? I bambini nelle carceri italiane”. Promossa dall’assessorato alle politiche culturali e della comunicazione del comune di Roma, l’esposizione è nata dalla collaborazione tra l’agenzia fotografica Contrasto e A Roma Insieme. È stata un’occasione per richiamare l’attenzione delle Istituzioni e dei parlamentari su questo problema e sollecitare la discussione sulla proposta di legge a “tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”. Occorre cambiare la legge. Già nel 2005 A Roma Insieme con un gruppo di donne parlamentari bipartisan ha chiesto al Parlamento che venissero modificati 4 punti dell’attuale legge: a) che la recidiva non sia più considerata un ostacolo per attribuire alla madre la misura alternativa alla detenzione in penitenziario; b) togliere la meccanicità all’espulsione delle straniere senza permesso di soggiorno a fine pena ovvero che venga data la possibilità, in caso di parere favorevole, al permesso di soggiorno quando i figli minori sono inseriti nel percorso scolastico italiano; c) che a chi ne fa richiesta, a fine pena, venga data la possibilità di essere ospitate con i figli in case famiglia; d) che le detenute possano accompagnare i figli in ospedale in caso di bisogno di ricovero del bambino. “Sono già passati 5 anni da quando abbiamo presentato la proposta” conclude Colombini. “Sarebbe tempo che il Parlamento legiferasse in questo senso in modo da tutelare la vita di questi minori e delle loro madri”. Giustizia: detenute madri; dal 2014 istituti a custodia attenuata, anche gestiti dai privati di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 28 ottobre 2010 Da gennaio 2014 dovrebbero essere attivati gli istituti a custodia attenuata per detenute madri. La novità consiste nel fatto che potranno essere anche privati. Subito dopo la chiusura della sessione di bilancio, la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati presieduta da Giulia Buongiorno riprenderà la discussione delle proposte di legge recanti disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori. Rispetto alle proposte originarie (presentate dai deputati Rita Bernardini, Donatella Ferranti e Siegfried Brugger) è stato adottato un nuovo testo unificato come documento base. Sono già scaduti i termini per la presentazione degli emendamenti. Il testo si compone di cinque articoli. Il primo va a modificare l’articolo 275 del codice di procedura penale prevedendo che quando sono imputati una donna incinta o una madre con figlio o figli di età non superiore a sei anni che convivono con lei ovvero quando è imputato il padre, nella ipotesi che la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Resta residuale quindi l’ipotesi di custodia cautelare in carcere. In questo caso comunque essa non potrà essere eseguita in un carcere ordinario ma dovrà avvenire in un istituto a custodia attenuata. Il legislatore, però, consapevole che al momento attuale queste strutture di fatto non esistono (ad eccezione che a Milano dove la casa famiglia protetta è stata realizzata con il concorso della provincia) ha deciso di rinviare l’applicazione di questa parte della legge di ben tre anni, ossia al 31 dicembre 2013, quando, si spera, vi saranno istituti nuovi che rispondano a queste esigenze. Nel provvedimento, però, mancano i fondi per costruirle. Bisognerà attingere ai 500 milioni del piano carceri. L’articolo 2 del testo unificato prevede che in caso di imminente pericolo di vita o di gravi condizioni di salute del figlio minore, anche non convivente, la madre condannata, imputata o internata, ovvero il padre, è autorizzata con provvedimento del magistrato di sorveglianza o, in caso di assoluta urgenza del direttore dell’istituto, a recarsi con le cautele previste dal regolamento, a visitare il bimbo infermo. In caso di ricovero ospedaliero, le modalità della visita sono disposte tenendo conto della durata del ricovero e del decorso della patologia. L’articolo 3 modifica l’articolo 47 - ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, prevedendo, in alternativa residuale alla detenzione domiciliare speciale, per chi ha figli tra i 6 e i 10 anni, che la pena possa essere espiata in un istituto a custodia attenuata per detenute madri. L’articolo 4 affida al Ministro della Giustizia l’individuazione, con decreto da adottarsi entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge, delle caratteristiche tipo delle case - famiglia protette anche con riferimento ai sistemi di sorveglianza e di sicurezza. Non viene esclusa la possibilità che le strutture siano gestite da enti privati con cui stipulare convenzioni. L’articolo 5 invece è il più controverso. Rimanda ad altra legge per la copertura finanziaria. La questione della spesa è quella che potrebbe far cadere tutto nel nulla. Si pensi che nell’ultimo bilancio approvato del Ministero della Giustizia i fondi per gli asili nido carcerari sono stati decurtati di un terzo. Giustizia: proposta di legge sull’affettività per i detenuti di Amalia Schirru (Parlamentare Pd) Ristretti Orizzonti, 28 ottobre 2010 Ho presentato alla Camera il pdl Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di relazioni affettive e familiari dei detenuti (3801) - presentata il 21 ottobre 2010, annunziata il 26 ottobre 2010. Con questa proposta di legge, che reca appunto norme in materia di trattamento penitenziario, abbiamo previsto un intervento per consentire al detenuto di vivere e consolidare i propri rapporti affettivi, attraverso incontri più frequenti con la famiglia e la possibilità di intrattenere relazioni intime con il coniuge o il convivente. La Costituzione, all’articolo 27, stabilisce che le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, ne consegue che devono essere garantiti tutti i diritti inviolabili dell’uomo, tra cui quello di mantenere rapporti affettivi e sociali, all’interno della famiglia e nell’ambito dei rapporti interpersonali. La consapevolezza della gravità dell’attuale situazione degli istituti penitenziari, caratterizzata dal crescente sovraffollamento, fa sì che, al di là della buona volontà e della disponibilità dei direttori e degli operatori, i colloqui tra persone condannate ed i familiari si svolgano in sale affollate, rumorose, dove sono presenti spesso anche bambini o minori: ciò impedisce di esternare i propri stati d’animo e contribuisce a determinare uno stato di profonda frustrazione. Per superare tale condizione, si propone di riconoscere ai detenuti il diritto di trascorrere alcuni periodi di tempo con le persone con le quali vi è un rapporto affettivo, in appositi locali, o in aree aperte ove meno difficile è il rapporto “umano”. La presente proposta di legge consta di quattro articoli, che integrano la vigente disciplina penitenziaria: è prevista la realizzazione, all’interno degli edifici penitenziari, di locali idonei, o di apposite aree, ove i detenuti possano intrattenere rapporti affettivi con i propri cari, senza controllo visivo. Viene modificato anche il regime dei permessi, con la possibilità di concedere un permesso di durata fino a quindici giorni per ogni semestre di carcerazione. Si sancisce, inoltre, la possibilità per i detenuti di trascorrere mezza giornata al mese con i propri familiari, in apposite aree all’aperto all’interno delle strutture carcerarie. Infine, ai detenuti stranieri che non hanno visite da parte dei propri familiari, sono concessi colloqui telefonici quindicinali, per un tempo più ampio di quello previsto dalle disposizioni vigenti.” Giustizia: Osapp; i numeri del sistema penitenziario danno torno al ministro Alfano Adnkronos, 28 ottobre 2010 “Il ministro Alfano non fa bene alla Giustizia: non solo in termini di risultati, ma anche e soprattutto in termini di credibilità rispetto al comparto penitenziario che rappresentiamo”. Ad affermarlo è Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, organizzazione sindacale polizia penitenziaria, dopo le ultime dichiarazioni del guardasigilli sugli obiettivi ottenuti dal dicastero sul fronte penitenziario. “Lo diciamo da tempo ma, adesso più che mai, i numeri continuano a non dare ragione al titolare della Giustizia”. Spiega Beneduci: “Con un record di presenze detenuti arrivato a quota 68.901 unità e un totale effettivo di 39.580 poliziotti penitenziari presenti su un organico previsto di 45.216 unità, non è opportuno che s’inneggi tanto agli ottimi risultati ottenuti. Consigliamo al ministro di adottare un profilo basso, sempre che le dimissioni non siano contemplate nel vocabolario di Alfano”. Giustizia: Sappe; necessaria più attenzione della politica verso materie penitenziarie Adnkronos, 28 ottobre 2010 “Mi auguro che sulle materie penitenziarie si abbia un po’ più di attenzione ed accortezza, anche avvalendosi del contributo di chi, come il Sappe rappresenta coloro che in carcere lavorano 24 ore al giorno”.Lo ha dichiarato, in una nota, il segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, Donato Capece. “Sento spesso arrivare pesanti critiche sull’attuale emergenza penitenziaria da parte di alcuni esponenti dell’opposizione parlamentare. Va però detto, ad onor del vero, che le ricadute di due scellerate scelte voluto proprio dal fu governo di centrosinistra in materia di carcere dimostrano la grave superficialità con cui in questo Paese certa classe politica ha affrontato ed affronta le tematiche penitenziarie, a tutto discapito di chi in carcere è detenuto e di chi ci lavora” “Mi riferisco, in particolare, al passaggio della sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale ed all’approvazione dell’indulto. E allora - ha aggiunto Capece - non si può essere come Giano bifronte, cambiare cioè opinione su temi pure molto importanti a seconda se si governa o se si è all’opposizione”. “L’equivoco di fondo, a nostro avviso, è che - ha spiegato il segretario generale del Sappe - con il passaggio della sanità penitenziaria a quella pubblica le Asl pensano di trattare i detenuti come comuni cittadini che ogni qualvolta hanno un problema debbono recarsi presso le strutture pubbliche per farsi curare, invece di ampliare l’offerta di servizi specialistici all’interno delle carceri”. “E tutto questo - ha sottolineato Capece - a discapito della polizia penitenziaria, sotto organico di 6mila e 500 agenti, chiamata spesso ad operare con livelli di sicurezza minimi. Le ricadute dello sciagurato Dpr del 1 aprile 2008, che avrebbe dovuto migliorare la qualità della sanità ai detenuti e che è stato approvato nonostante la quasi totale contrarietà delle organizzazioni sindacali penitenziarie, sono semplicemente drammatiche, poiché si registrano in alcuni casi carenze nella somministrazione dei medicinali, anche salvavita, diminuzione dell’assistenza ai detenuti nonché l’esplosione delle gite turistiche per i detenuti che vengono trasportati presso strutture sanitarie esterne, anche per togliere punti di sutura, fare medicazioni, cure dentarie, fare semplici radiografie, per patologie e interventi, insomma, che prima erano tranquillamente trattate all’interno dei penitenziari”. “L’indulto poi, approvato a maggioranza dal Parlamento - ha continuato Capece - è stato fortemente voluto dal governo di sinistra, che però non ha contestualmente messo in condizione gli enti locali di fornire assistenza e supporto sociale agli oltre 36mila scarcerati,(tant’ è che circa un terzo sono rientrati subito o quasi subito nelle patrie galere), nè ha pensato ad una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensasse organicamente il carcere e l’istituzione penitenziaria e che prevedesse quelle riforme strutturali sul sistema penitenziario chieste autorevolmente anche dal Capo dello Stato”, ha concluso Capece. Giustizia: Sappe; un altro tentativo suicidio di un agente penitenziario, creare centro di ascolto Adnkronos, 28 ottobre 2010 “Sono sconcertato dalla notizia che pochi minuti fa un assistente di Polizia Penitenziaria di circa 40 anni, in servizio nella Scuola del Corpo di Aversa, ha tentato il suicidio mentre si stava recando in servizio ed ora lotta tra la vita e la morte. Forte è la nostra preoccupazione per il fenomeno dei suicidi tra gli appartenenti alle Forze di Polizia, ed alla Polizia penitenziaria in particolare”. Queste le parole del Segretario Generale del Sappe, Donato Capece, dopo il tentativo di suicidio di un Assistente della Polizia penitenziaria in servizio nella Scuola di Polizia di Aversa. Capece aggiunge che “bisogna comprendere e accertare quanto ha eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative dei colleghi suicidi nel tragico gesto estremo posto in essere. L’inquietante periodicità con cui avvengono questi tragici eventi devono fare seriamente riflettere”. L’Amministrazione penitenziaria, dopo la tragica escalation di suicidi dello scorso anno (nell’ordine dei 10 casi in pochi mesi), ricorda Capece, “accertò che i suicidi di appartenenti alla Polizia Penitenziaria, benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, sono, in taluni casi, le manifestazioni più drammatiche e dolorose di un disagio derivante da un lavoro difficile e carico di tensioni”. “Proprio per questo - fa notare - il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria assicurò i Sindacati di prestare particolare attenzione al tragico problema, con la verifica delle condizioni di disagio del personale e l’eventuale istituzione di centri di ascolto. Ma a tutt’oggi non sappiamo quanti sono e dove sono stati attivati questi importanti Centri di ascolto”. È davvero un “luogo comune - spiega il sindacalista - pensare che lo stress lavorativo riguardi solamente le persone fragili. Al contrario, il fenomeno colpisce, inevitabilmente, tutti i lavoratori, e in modo particolare coloro che operano nei servizi di sicurezza e tutela pubblica, che non solo vivono sovente in una costante situazione di rischio, ma spesso vengono a contatto con situazioni di dolore, angoscia, paura, violenza, distruzione e morte non escluse anche le conflittualità interprofessionali in una struttura fortemente gerarchizzata quale è quella della Polizia penitenziaria”. L’effetto burn out tra i poliziotti penitenziari, una forma di disagio professionale protratto nel tempo e derivato dalla discrepanza tra gli ideali del soggetto e la realtà della vita lavorativa. “Per questo riteniamo - dichiara Capece - e lo ribadiamo oggi con forza dopo la tragedia di qualche giorno fa a San Giorgio di Piano, nel bolognese ed il tentativo di suicidio del collega ad Aversa, che l’istituzione di appositi Centri specializzati in grado di fornire un buon supporto psicologico agli operatori di Polizia garantendo la massima privacy a coloro i quali intendono avvalersene possa essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile - conclude - all’interno di un ambiente particolare quale è il carcere, non disgiunti dai necessari interventi istituzionali intesi a privilegiare maggiormente l’aspetto umano ed il rispetto della persona nei rapporti gerarchici e funzionali che caratterizzano la Polizia penitenziaria”. Giustizia: Stefano, la criminalizzazione dei tossicodipendenti e le lacrime di coccodrillo di Lietta Tornabuoni La Stampa, 28 ottobre 2010 La storia del ragazzo Stefano Cucchi è di quelle che mettono paura: somiglia alle vicende e leggende sulle carceri africane o turche, a quegli incubi di violenze, inedia, sporcizia, malvagità narrati dai reduci traumatizzati quando siano riusciti a restare in vita. Stefano Cucchi non c’è: è morto nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini dopo essere stato gravemente malmenato, non curato, abbandonato, dopo aver smesso di mangiare e bere perdendo in pochi giorni una inverosimile quantità di peso. Per la sua morte sono accusati medici, infermieri, agenti della polizia penitenziaria, un funzionario amministrativo. Ma forse la ragione principale della morte e della strenua lotta della famiglia per ottenere giustizia sta nel fatto che il ragazzo faceva uso di droghe. Una retorica speciale che ignora la realtà ha stabilito da noi che il drogato non è una persona, da trattare e rispettare come tutte le persone: è un dannato, un subumano, un essere estraneo alla comunità, uno che non può essere creduto qualsiasi cosa dica, un rifiuto. Campagne condotte magari con le migliori intenzioni, con descrizioni tanto raccapriccianti quanto irrealistiche, hanno contribuito a formare una simile immagine. Questa immagine non è diversificata, non prevede differenze tra chi prende una pasticca il sabato sera e chi spaccia, mette in conto soltanto il nemico della società ordinata e almeno formalmente normale (ammesso che “normale” voglia dire qualcosa), l’oppositore di ogni ragionevolezza, l’assassino che sopprime la nonna per levarle i soldi di una dose, il reietto. È un’immagine distorta, alterata, drammatizzata, estremizzata spesso a scopi pedagogici: raramente come sappiamo convince i giovani, mentre sembra autorizzare altri alle peggiori crudeltà, alle più incivili indifferenze. Il caso Cucchi pare, se non isolato, minoritario: ma è tragico e vergognoso che sia avvenuto, come sono gravi le lacrime di coccodrillo che dà l’occasione di spargere. Giustizia: lo Stato contro i Cucchi? una morte tanto oscura non può tollerare l’impunità e l’oblio di Giovanni Bianconi Sette, 28 ottobre 2010 La battaglia per la morte di Stefano è disputa giudiziaria. Col rischio che Ilaria e pubblica accusa siano su fronti opposti. Un anno fa quello che resta della famiglia Cucchi s’è ritrovato in una camera mortuaria intorno al cadavere sfigurato di Stefano, il figlio maschio arrestato una settimana prima e spirato nel reparto carcerario di un ospedale senza che madre, padre e sorella ne sapessero nulla. Da quel momento sono cominciati lo strazio ma anche la battaglia civile di Ilaria Cucchi e dei suoi genitori, Rita e Giovanni, per elaborare il lutto e dare senso a una morte crudele e inspiegabile. Stefano è stato preso vivo e restituito morto da rappresentanti dello Stato, per cause e colpe che ancora non sono state chiarite; invece è proprio questo che giustamente pretende la famiglia Cucchi, e insieme a loro tutti quei cittadini che non intendono rassegnarsi a vivere in uno Stato ostile, refrattario rispetto ai loro diritti: la verità su quella fine assurda. Ora la battaglia civile s’è trasformata in disputa giudiziaria: ci sono tredici persone (agenti penitenziari, personale medico e ministeriale: meno di quelle che i familiari di Stefano avrebbero voluto) per le quali i pubblici ministeri hanno chiesto il processo. Si discute sui reati contestati, ed è cominciata l’abituale battaglia di perizie; nuovi accertamenti chiesti dalla parte civile per adesso sono stati negati. Com’è ovvio gli imputati si difenderanno con ogni mezzo, ma da alcuni passaggi s’intravede il rischio che pubblica accusa e parenti della vittima procedano su strade diverse e addirittura contrastanti. Speriamo che non accada, e che Ilaria e i suoi genitori non debbano trovarsi ancora una volta sul fronte opposto alle istituzioni. È già successo nei sei giorni del mistero, quando Stefano è passato da caserme dei carabinieri, camere di sicurezza, carcere e ospedale senza che i suoi parenti fossero minimamente informati di come la sua situazione stesse degenerando: i genitori erano dietro una porta e non li lasciavano entrare, mentre dall’altra parte il figlio stava esalando gli ultimi respiri; e subito dopo, quando s’è parlato di decesso per cause naturali. Adesso la famiglia Cucchi chiede che lo stesso Stato che lo aveva in custodia restituisca a Stefano almeno un po’ di dignità, facendo tutto il possibile e il necessario per arrivare all’individuazione e alla condanna dei responsabili. È l’unico modo attraverso il quale si possa elaborare il lutto: non solo quello privato della famiglia Cucchi, ma il lutto collettivo di una società che di fronte a una morte tanto oscura non può tollerare l’impunità e l’oblio. Lettere: carceri e discariche Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2010 Caro Furio Colombo, mi si è impastata nella mente un’unica immagine, che forse è un po’ dantesca ma non così lontana dalla realtà: detenuti e spazzatura, carceri come Terziglio, discariche come prigioni e dovunque persone senza diritti. Esagero o questo è il paese in cui sto vivendo? Flaminia Le immagini dei media hanno avuto una parte nella descrizione del paesaggio di Flaminia. Ma anche qualche altra cosa che, misteriosamente, non diventa notizia ma circola. Vediamo. L’analogia fra detenuti e spazzatura, fra una strada di Napoli e il braccio di un penitenziario italiano è tanto sgradevole quanto vera. Non solo lo dimostra il centinaio di suicidi di esseri umani imprigionati lo scorso anno. Ma anche l’incuria che , “a monte” (dunque destra, sinistra e altri governi) hanno creato il problema. Entrambi i drammi, carceri e discariche, sono giunti a un punto disperato di gravità. Ma in un luogo e lungo il percorso di una delle due disgrazie che tormentano e svergognano l’Italia, le carceri, sono disseminati dei testimoni che non si sono mai distratti e che non cedono. Parlo dei Radicali, da Rita Bernardini a Marco Pannello. Erano là e sono ancora là a dire all’opinione pubblica italiana che non ne vuole sapere, a un governo del tutto privo di interesse per il destino di esseri umani privi di paradisi fiscali, che in prigione, o in prossimità delle prigioni (il caso Cucchi, il caso Aldrovandi) si muore. Pannello, ad esempio sta facendo da due settimane lo sciopero della fame (due ragioni, le carceri e la totale mancanza di verità su come si è arrivati alla guerra in Iraq), nel placido disinteresse di stampa e politica italiana. “Un bel tacere non fu mai scritto” continua a essere il motto di ministri ed esperti che, semmai, annunciano una nuova edilizia carceraria tipo lo skyline del Dubai ma nulla per gli otto chiusi nella stessa cella di un carcere italiano questa sera. Per fortuna c’è Radio - Carcere, non il passaparola nell’ora d’aria ma il programma di Radio Radicale. I politici non sanno ciò che sanno molti direttori di carcere: quante rivolte sono state evitate dagli “inutili” digiuni di Pannello. Furio Colombo Lettere: carceri, anno zero? scrive il Cappellano del carcere di Brindisi Ristretti Orizzonti, 28 ottobre 2010 Di carcere si muore! Dall’inizio del 2010 ci sono stati in carcere 55 morti e 123 tentativi di suicidio. L’impegno delle associazioni, la forte presenza dei cappellani, spesso non bastano a trasformare la pena, la punizione in un momento di rieducazione, di redenzione, per un migliore reinserimento nella società civile una volta scontata la condanna. Così spesso la disperazione - che non fa vedere l’uscita dal tunnel - prevale. I casi di suicidio che hanno occupato le pagine dei quotidiani , stanno lì ad indicare - pur nella differenza delle varie situazioni personali - che nelle carceri c’è un clima di generale invivibilità: si uccide chi è in cella da solo, chi in una cella sovraffollata, chi è entrato da pochi giorni, chi dopo tanti anni di detenzione sta per uscire. Il sovraffollamento ha ormai superato da tempo la soglia della tollerabilità: alla data del 20 Settembre 2010 risultano 23.853 i detenuti in più rispetto all’effettiva capacità recettiva delle nostre carceri, con 68.958 detenuti (di cui oltre il 40% sono in attesa di giudizio!), per una capienza massima di 44.745 detenuti. Il carcere è un concentrato di trattamenti disumani e degradanti. “In galera in questi tempi si vive da cani(con tutto il rispetto per i cani), si sta stretti,in posti talmente angusti che se fossimo polli avremmo dalla nostra parte l’Associazione Protezione Animali, capita anche di dormire per terra. In carcere ci sono tutte le condizioni per andare fuori di testa”(un detenuto). Le strutture (la maggior parte o ex conventi o ex caserme) sono fatiscenti, l’80% dei 206 penitenziari ha più di un secolo di vita!). Per fronteggiare questa situazione cronica che nel nostro Paese si continua a chiamare”emergenza”, sembra che la soluzione più immediata e risolutiva sia la costruzione di nuove carceri. È la soluzione più giusta? “L’affollamento c’è adesso, mentre fino ad oggi, il tempo medio per costruire e organizzare un carcere nuovo si aggira intorno ai dieci anni. Per le carceri già esistenti i tempi sono inferiori, ma è sempre una questione di diversi anni. Il carcere deve essere la risposta alle mafie, ma oggi nelle nostre carceri ci sono principalmente persone di scarsa scolarità, poveri, persone emarginate. Il carcere è soprattutto la più numerosa aggregazione di “poveri cristi” che non la casa dei delinquenti”.(Don G. Rigoldi, Cappellano dell’Ipm Beccaria di Milano). Il Governo prevede per il 2011 la costruzione di nuove carceri(circa 30). Ma questa misura sarà sufficiente rispetto alla situazione di grave crisi che attraversa il sistema penitenziario?” La popolazione carceraria aumenta,gli Agenti di Polizia Penitenziaria diminuiscono!”(Sindacato di Polizia Penitenziaria). Tre anni fa, quando ho iniziato il mio ministero di Cappellano nel carcere di Brindisi, i detenuti erano 60… oggi, al 27 ottobre 2010, con lo stesso personale e con gli stessi “spazi di vita” i detenuti sono circa 220!! Ma il carcere può essere il toccasana di tutti i problemi? “Non sarebbe più utile depenalizzare tutti i reati che potrebbero avere una diversa risposta; ricorrere al carcere solo per casi gravi e pericolosi; pensare che solo quando uno è stato riconosciuto colpevole(e per la legge italiana nessuno può essere considerato colpevole se non dopo i tre gradi di giudizio) finisca in carcere. (P.V. Trani, Cappellano Regina Coeli). È necessario ripensare i termini della “custodia cautelare”! La maggioranza dei detenuti nelle carceri italiane è in attesa del giudizio definitivo o in custodia cautelare. Ma per la legge italiana(come ricordava il Cappellano di Regina Coeli) nessuno può essere considerato colpevole se non dopo i tre gradi di giudizio. È giusto che un presunto innocente debba scontare una pena detentiva? Per quanto riguarda la misura cautelare, così si esprime il parere del C.S.M.” La custodia cautelare in carcere non è una pena né può essere intesa come una forma impropria di anticipazione della sanzione”. Ma è mai possibile che per qualsiasi tipo di reato, la società civile non sia riuscita ad elaborare nessuna forma di pena se non quella detentiva basandosi su un principio carcerocentrico? Così si esprime il Csm nel parere: “Se il carcere rappresenta l’unica risposta che l’ordinamento è in grado di offrire ai problemi della illegalità e della devianza, non può sorprendere né l’incremento progressivo della popolazione detenuta, né la constatazione dell’estrema difficoltà, per una parte della popolazione carceraria, di accesso alle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario”. Il Presidente Napolitano, a più riprese, si è espresso nella stessa linea: “È indispensabile una maggiore e più concreta attenzione per le vittime dei reati. È mia convinzione che la pena detentiva debba essere riservata a chi commette crimini, che ledono gravemente valori e interessi preminenti e intangibili. L’esecuzione della pena deve avvenire nel rispetto della dignità del detenuto e offrendo condizioni per favorire il suo reinserimento sociale”. “Al fenomeno del sovraffollamento e della invivibilità delle carceri si deve rispondere non con la moltiplicazione delle celle, ma con misure alternative alla detenzione: gli arresti domiciliari, dove possibile,l’estensione della “messa in prova” con affido ai servizi sociali per alcuni tipi di reato, l’affido a comunità terapeutiche e non al carcere per i tossicodipendenti che hanno commesso reati a motivo della loro condizione”(On. Rita Bernardini). Anche il Direttore del Penitenziario di Padova invoca il ricorso alle stesse misure alternative e, ricordando il fatto che quasi la metà del totale dei reclusi sono in attesa di giudizio, sottolinea quanto sia necessario anche”modificare il sistema processuale” oltre a “incentivare la possibilità di scontare la pena nei Paesi di origine, considerato il fatto che qui abbiamo il 40% di stranieri”. Nel messaggio per il Giubileo nelle carceri del 2000, il Servo di Dio, Giovanni Paolo II° aveva profeticamente affermato “La punizione detentiva è antica quanto la storia dell’uomo. In molti Paesi le carceri sono assai affollate. Ve ne sono alcune fornite di qualche comodità, ma in altre le condizioni di vita sono assai precarie, per non dire indegne dell’essere umano. I dati che sono sotto gli occhi di tutti ci dicono che questa forma punitiva in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della delinquenza. Anzi, in vari casi, i problemi che crea sembrano maggiori di quelli che tenta di risolvere. Ciò impone un ripensamento in vista di una qualche revisione..”. Il 27 Maggio scorso il Consiglio Superiore della Magistratura, riunito in un plenum, ha approvato un parere al ddl preparato dal Governo per fronteggiare l’emergenza sovraffollamento nelle carceri italiane. Il ddl del Governo prevede la detenzione domiciliare per chi deve scontare una pena residua non superiore anno. Nel parere il CSM afferma con decisione che non solo è necessario, ma è ormai indifferibile un ripensamento di tutto il settore del diritto penitenziario. Che fine ha fatto il ddl del Governo? L’avvocato Carlo Federico Grosso, già presidente della commissione di riforma del codice penale, suggerisce di rovesciare la prospettiva e va “fatto capire all’opinione pubblica che le pene interdittive, pecuniarie e di lavori di pubblica utilità sono un disincentivo all’illecito ben più forte del carcere. Ma serve coraggio”. Serve coraggio per “ripensare tutto il Sistema del Diritto Penitenziario! Ma quale Governo formato dalla classe politica attuale avrà questo coraggio? Perché il Governo, mettendo da parte gli interessi personali , di affittacamere, la preoccupazione per i cavalli o i cani, non tira fuori dal cassetto e approva il ddl che prevede la detenzione domiciliare per chi deve scontare una pena residua non superiore a un anno? On Sig. Ministro della Giustizia Alfano, si parla tanto della riforma della Giustizia; oltre al Lodo Alfano Costituzionale, il processo breve, la separazione delle carriere, con un atto di coraggio e buona volontà , perché non tira fuori dal cassetto il ddl del Governo?... migliaia di detenuti sono in ansia e in trepida attesa… le carceri si svuoterebbero e oltretutto ci sarebbe anche un risparmio economico per lo Stato in quanto la carcerazione, così come è prevista adesso, è uno stare ad oziare 365 giorni l’anno a spese dello Stato, peraltro molto elevate. Occorre tenere presente che la carcerazione, anche se per poco tempo, significa per la persona la morte dal punto di vista civile, umano, familiare, economico. Il carcere non è luogo di rieducazione ma ,al contrario, un luogo di abbrutimento dell’animo umano. Ma questo, per alcuni dalla carcerazione facile e ad ogni costo, è solo un dettaglio insignificante A mio giudizio, c’è un abuso indiscriminato della carcerazione, quando si potrebbero usare, senza contravvenire al senso di giustizia, le pene alternative. Chi deve scontare un minimo di pena non può e non deve essere rinchiuso sic et simpliciter. Le pene alternative devono rappresentare, anche se su base soggettiva, il vero reinserimento del detenuto alla vita. Appare estremamente crudele rigettare in carcere e far marcire nell’ozio, chi magari sta scontando la pena agli arresti domiciliari, lavorando, non contravviene a nessuna legge, e poi gli arriva un definitivo da scontare di pochi mesi con la probabilità della perdita del lavoro! Appare estremamente crudele rigettare i carcere con una pena residua da scontare di soli 4 mesi e 20 giorni chi ne è uscito, patteggiando la pena e per 2 anni e 5 mesi, ha svolto l’attività di libero professionista in tutta Europa, non contravvenendo ad alcuna legge, neanche al codice della strada e recandosi in Africa (Liberia) a prestare opera di volontariato in un paese martoriato dalla guerra civile,dedicandosi soprattutto all’assistenza educativa dei bambini e di giovani contribuendo alla costruzione di un centro ricreativo per ragazzi e giovani,,prodigandosi nell’aiuto al programma assistenziale per i poveri e la popolazione liberiana che vive in una abietta povertà guadagnando giornalmente meno di 0,50 dollari, meritandosi l’apprezzamento della popolazione Liberiana e il riconoscimento da parte dell’Ex Ministro della Salute e della Previdenza Sociale della Repubblica Liberiana, il Dott Peter S. Coleman. Questo “mostro” descritto come “personalità particolarmente spregevole;dal profilo di personalità predatorio”, dopo 2 anni e 5 mesi, è stato rigettato in prigione a scontare una pena residua di soli 4 mesi e 20 giorni! Il carcere a tutti i costi è una enorme ingiustizia! Non ci sto! Come cittadino italiano, che si avvale della libertà di esprimere il proprio pensiero e come uno che conosce la situazione drammatica e inumana de dei detenuti(a differenza di “quelli che legiferano e dispongono con facilità e superficialità della vita degli altri”stando dietro a una scrivania e forse non hanno messo mai il piede in carcere!, Io sto a contatto giornalmente con i detenuti e vivo i loro drammi), mi ribello e alzo la voce contro questo uso - abuso della carcerazione, anche perché, come afferma Mons. Caniato, Ispettore dei Cappellani, il carcere è “struttura anti - umana e anti - cristiana”! La pena alternativa(si tratta sempre di detenzione e di nessuno sconto di pena) non è un atto di clemenza, ma di giustizia! L’uso col contagocce delle pene alternative, non è forse un incentivo all’aumento delle aggressioni,degli atti di autolesionismo e dei suicidi? Carceri: anno zero? La civiltà di un paese si vede dalla situazione delle carceri. La Corte Europea dei Diritti Umani, ha più volte richiamato e sanzionato l’Italia per la gestione delle carceri. Occorre rendere le carceri più vivibili. “Le carceri siano luogo di redenzione perché la dignità umana non si perde anche se si commette un delitto. È giusto espiare la pena per i reati commessi, ma è bene che i luoghi di penitenza siano umanizzati così che possano essere luoghi di redenzione perché un uomo non è mai condannato per sempre e definitivamente”. (Card. C. Sepe). Occorre diminuire il numero dei detenuti: a) riproponendo l’istituto della “messa alla prova”, cioè la possibilità per gli incensurati accusati di aver commesso reati fino a tre anni di pena di vedere sospeso il processo a loro carico a patto però che compiano lavori di pubblica utilità; b) la detenzione domiciliare per chi debba scontare un anno di pena residua, ad eccezione di coloro che sono stati condannati per reati gravi. E non diamo la colpa solo a chi ha il compito di decidere: c’è una responsabilità in ciascuno di noi, singoli cittadini, credenti e praticanti, ogni volta che ci accontentiamo di pensare alla giustizia in termini puramente vendicativi. Ogni volta che ci illudiamo che sia sufficiente rinchiudere dietro le sbarre chi delinque per estirpare il male dalla società. Ogni volta che mettiamo tutti i detenuti sullo stesso piano. Ogni volta che ci disinteressiamo di come vengono trattati nel tempo della detenzione e di come vengono sostenuti una volta ritornati in libertà. È questa la scommessa su cui si gioca il futuro della nostra società. È necessario umanizzare le carceri,potenziare le misure alternative, cambiare la mentalità vendicativa,forcaiola,repressiva(la giustizia faccia il suo corso, ma i cristiani sono chiamati a essere segno di contraddizione), affinché la società sappia riaccogliere i detenuti in quanto persone, perché quanto più rispettiamo gli uomini, tanto più miglioriamo la nostra società. Il Cappellano del carcere di Brindisi P. Fabiano Giovanni, Mercedario Sardegna: Pd; Alfano è inerte davanti all’emergenza umanitaria nelle carceri Apcom, 28 ottobre 2010 “Le nostre visite nelle carceri sarde hanno confermato la nostra preoccupazione per le condizioni di vita drammatiche dei detenuti. Non è ammissibile aggiungere alla pena, che deve essere scontata, il rischio di non essere curati quando ci si ammala: mancano medicine, cure specialistiche e medici di guardia. Alfano aveva assicurato una soluzione sin dal 2008, ma stiamo ancora aspettando che mantenga le sue promesse”. Lo denunciano i deputati Pd Guido Melis e Jean - Léonard Touadi presentando un’interrogazione in commissione Giustizia che ritengono “inaccettabili le sole 18 ore al giorno di assistenza medica garantita a San Sebastiano a Sassari, il Centro clinico di Buon Cammino chiuso per mancanza di fondi. E questo mentre solo il 20% dei detenuti delle carceri sarde risulta dalle statistiche ufficiali in buona salute”. “I ministri competenti - aggiungono - accelerino il passaggio della sanità penitenziaria alle Asl, come da tempo avvenuto nelle altre regioni. Essendo la Sardegna una Regione a statuto speciale dobbiamo seguire in questo passaggio procedure particolari, per esempio nominare una commissione congiunta Stato - Regione. Occorre rapidamente realizzare il trasferimento di funzioni - concludono i deputati - ed è necessario che Governo nazionale e Giunta regionale sarda si facciano carico del problema”. Sicilia: impegno dell’Assessore alla salute per trasferimento medicina penitenziaria alla Regione Adnkronos, 28 ottobre 2010 La Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale ha ascoltato oggi il presidente della Regione siciliana, Raffaele Lombardo, e l’assessore regionale alla Salute, Massimo Russo, sulla situazione della sanità penitenziaria nell’Isola. È stato affrontato il tema del trasferimento delle competenze dallo Stato alla Regione e il caso della reintegrazione socio - lavorativa di 31 soggetti detenuti presso l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, nel messinese. La Commissione d’inchiesta guidata da Ignazio Marino, che durante un’ispezione ha trovato l’Opg di Barcellona in condizioni molto critiche, ha rilevato che la Regione siciliana non ha ancora assunto la gestione della cosiddetta sanità penitenziaria. L’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto copre per il bacino d’utenza maschile la Calabria, la Basilicata e la Puglia, per quello femminile il Lazio, l’Abruzzo, il Molise, la Campania, la Puglia, la Basilicata e la Calabria. “Ciò si è verificato - spiega l’assessore alla Salute Massimo Russo - perché la Commissione paritetica Stato - Regione non ha emanato le norme di attuazione per il recepimento del Decreto del presidente del Consiglio dei ministri del primo aprile 2008, che regola la materia. Le funzioni, dunque, fanno ancora capo al ministero della Giustizia, così come è appunto stabilito dallo stesso Dpcm”. La Commissione ha chiesto alla Regione la disponibilità a favorire le dimissioni di 31 detenuti dall’ospedale giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. “In proposito - continua Russo - abbiamo ricordato che l’Asp di Messina ha promosso un importante progetto, chiamato Luce e Libertà, per il recupero al lavoro di 56 soggetti detenuti. Ma il progetto, che doveva essere finanziato dalla Cassa Ammende del ministero della Giustizia, è ancora sulla carta perché non sono stati attivati i relativi finanziamenti. Ad ogni modo abbiamo dato ampia disponibilità ad agevolare, dove ne sussistano i presupposti, la remissione in libertà di queste 31 persone. Da oggi mi attiverò perché l’Asp di Messina dia risposte celeri in merito”. L’audizione è servita a fissare lo stato dell’arte sul tema e a ribadire la disponibilità dell’amministrazione regionale ad accelerare il processo di trasferimento delle funzioni. “È certo l’impegno della Regione nel farsi carico dell’assistenza sanitaria penitenziaria - aggiunge l’assessore alla Salute - ma deve essere altrettanto certo il trasferimento dei finanziamenti dallo Stato alla Regione, per fare fronte a queste nuove competenze”. “Per mantenere i livelli essenziali di assistenza nelle carceri siciliane - conclude - occorre fare investimenti e assumere il personale che attualmente, invece, è sotto contratto con il ministero della Giustizia. Tutto ciò, comporterà un notevole aumento della spesa per la quale lo Stato deve fare la sua parte”. Lombardo: impegno per 31 dimissioni subito da Opg La Regione siciliana si farà carico di anticipare la dimissione di 31 detenuti che non rappresentano un pericolo sociale dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto e darà una accelerazione al processo di passaggio della sanità penitenziaria dalla competenza del ministero della Giustizia a quella del Servizio Sanitario regionale. Lo ha garantito il governatore della Regione, Raffaele Lombardo, in audizione alla commissione sull’efficacia e l’efficienza del Ssn presieduta da Ignazio Marino, sottolineando che i ritardi sono dovuti a problemi di costi. La commissione, dopo una serie di ispezioni, aveva denunciato proprio le pessime condizioni dei detenuti negli Opg, in particolare di quello del messinese. La Sicilia, peraltro, è l’unica tra le regioni a statuto speciale a non aver ancora approntato nemmeno una bozza di modifica dello Statuto come ha sottolineato Marino in audizione. Noi - ha detto Lombardo - vogliamo farci carico del passaggio di consegne. Ma considerando anche che la Regione è sottoposta a piano di rientro per la sanità, il governatore ha sottolineato i problemi dovuti a una insufficiente dotazione finanziaria a fronte del trasferimento di competenze. Solo il passaggio del personale al Servizio sanitario comporterà un aumento dei costi che vanno dal 58 al 70%. A Barcellona poi, ha osservato Lombardo, c’è il doppio dei detenuti consentiti e contemporaneamente un calo degli agenti di polizia penitenziaria e una diminuzione dei finanziamenti del 60%. Prima di avviare il passaggio di consegne, ha aggiunto l’assessore regionale alla Salute Massimo Russo, vogliamo capire come era organizzato l’Opg e avere verificare le risorse necessarie, perché ad una prima analisi ci troveremo davanti quasi a un raddoppio dei costi. Quanto ai detenuti che possono essere dimessi già prima del passaggio per essere affidati alle Asl, Russo ha assicurato che oggi stesso metteremo in contatto le strutture per favorire le dimissioni. L’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto copre come bacino d’utenza maschile la Calabria, la Basilicata e la Puglia, per quello femminile il Lazio, l’Abruzzo, il Molise, la Campania, la Puglia, la Basilicata e la Calabria. Ciò si è verificato - spiega l’assessore alla Salute Russo - perché la Commissione paritetica Stato - Regione non ha emanato le norme di attuazione per il recepimento del Decreto del presidente del Consiglio dei Ministri del 2008. Le funzioni, dunque, fanno ancora capo al ministero della Giustizia. L’Asp di Messina ha, inoltre, promosso un progetto, Luce e Libertà - aggiunge Russo - per il recupero di 56 detenuti. Ma il progetto, che doveva essere finanziato dalla Cassa Ammende del ministero della Giustizia, è ancora sulla carta perché non sono stati attivati i relativi finanziamenti. Ad ogni modo abbiamo dato ampia disponibilità ad agevolare la remissione in libertà di queste 31 persone. Sicilia: Ignazio Marino (Commissione Sanità); tra 7 giorni verifica su iter delle dimissioni dall’Opg Ansa, 28 ottobre 2010 Invieremo oggi stesso al governatore Lombardo la lista dei 31 detenuti che possono essere dimessi subito dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto e tra sette giorni chiederemo un aggiornamento per verificare che le procedure vadano avanti. Lo ha detto il presidente della Commissione d’inchiesta sull’efficacia ed efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, Ignazio Marino, al termine dell’audizione del presidente della Regione Siciliana Raffaele Lombardo, che ha assicurato l’impegnò della regione a dimettere questi detenuti dall’Opg prima del passaggio di consegne del servizio sanitario penitenziario dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario. L’impegno formale preso dal governatore, ha aggiunto Marino, è un passo importante per intervenire immediatamente e garantire che 31 persone che non rappresentano un pericolo sociale possano essere dimesse e seguite sul territorio. La commissione continuerà a monitorare anche il lavoro per il passaggio delle responsabilità della sanità penitenziaria con il recepimento anche da parte della Sicilia del Dpcm del 2008. Cagliari: morì in psichiatria dopo sei giorni legato nel letto, medici accusati di sequestro di persona di Maria Francesca Chiappe L’Unione Sarda, 28 ottobre 2010 Clamoroso colpo di scena nel caso della morte dell’ambulante quartese Giuseppe Casu. Sette medici del reparto psichiatria del Santissima Trinità di Cagliari sono stati accusati di sequestro di persona aggravato dall’abuso di potere. Giuseppe Casu è stato ucciso da un farmaco tossico per il cuore. Questa, almeno, è l’idea dei periti del Tribunale. Anche se sottolineano: non c’è la certezza ma un’”elevata probabilità”. Il processo sul sessantenne quartese morto il 26 giugno 2006 dopo sei giorni di ricovero in Psichiatria al Santissima Trinità si giocherà tutto su quelle due parole. Però: il paziente è stato legato al letto per tutta la durata del ricovero, dal giorno del trattamento sanitario obbligatorio firmato dal sindaco di Quartu durante lo sgombero degli ambulanti da una piazza, fino a quando si è scoperto che non respirava più. E questo, dicono i periti, non si poteva fare. Di lì la nuova, clamorosa accusa contestata ieri al primario Gian Paolo Turri e agli psichiatri del suo reparto Maria Rosaria Cantone, Antonella Baita, Maria Rosa Murgia, Marco Murtas, Luciana Scamonatti, Marisa Coni: sequestro di persona aggravato dall’abuso di potere. Roba da dieci anni di reclusione. La notifica dell’avviso di conclusione delle indagini firmato dal sostituto Giangiacomo Pilia ha provocato stupore, rabbia, sconcerto negli ambienti medici cagliaritani. Eppure il nuovo stralcio di indagine è sostanzialmente un atto dovuto dopo il deposito della perizia, l’11 ottobre scorso, davanti al Tribunale monocratico che processa Turri e la Cantone per omicidio colposo aggravato: durante il dibattimento il pm lo ha quasi annunciato insieme al tentativo di portare la discussione sulla contenzione fisica. La difesa dei due psichiatri è insorta poiché è stato escluso che quella circostanza abbia portato alla morte del paziente. E allora il giudice Simone Nespoli ha chiesto al pm di motivare le sue domande e Pilia a quel punto ha dichiarato che la perizia avrebbe potuto portare alla contestazione di nuovi reati. In effetti i periti parlano senza mezzi termini di sequestro di persona e lo fanno sotto un profilo strettamente giuridico. Affrontando la questione della contenzione fisica hanno escluso che Casu sia stato ucciso da una trombo - embolia polmonare legata alla lunga immobilità, come invece avevano diagnosticato i medici del Santissima Trinità subito dopo l’improvvisa morte dell’ambulante. I periti Elda Feyles, specialista in anatomia e istologia patologica, Guglielmo Occhionero, psichiatra, e Rita Celli, medico legale, hanno innanzitutto individuato le norme: gli articoli 13 e 32 della Costituzione sulla inviolabilità della libertà personale e sul consenso all’atto terapeutico, il codice deontologico di medici e infermieri sulla contenzione fisica e farmacologica come evento straordinario e motivato, il codice penale: se c’è uno stato di necessità la misura di contenzione, sempre proporzionale al pericolo attuale di un danno grave non altrimenti evitabile, non solo può ma deve essere applicata se non si vuole incorrere nel reato di abbandono di incapace. I periti sono sicuri: “La contenzione fisica è ammessa solo allo scopo di tutelare la vita o la salute della persona... qualora la contenzione fosse sostenuta da motivazioni di carattere disciplinare o per sopperire a carenze organizzative o per convenienza del personale sanitario si possono configurare i reati di sequestro di persona, violenza privata, maltrattamenti”. Non solo, i periti negano che la contenzione a letto sia da considerare un trattamento sanitario vero e proprio: “In generale, per prestare le prime cure il medico deve intervenire e vincere la resistenza solo se il paziente si trova in vero pericolo di vita. Nei casi psichiatrici quel pericolo non c’è quasi mai perché raramente esiste un pericolo di vita rispetto a una malattia mentale. Non risulta che mai nessuno sia morto di allucinazioni o delirio”. I periti valutano dunque “eccessivo” legare a letto un paziente anche se per impedirgli il suicidio o costringerlo a curarsi. Di lì la conclusione: “La diretta coercizione non è fra le prestazioni richiedibili allo psichiatra. E visto che l’organigramma del nuovo assetto della psichiatria non prevede figure di personale di custodia (come prima della legge Basaglia che ha chiuso i manicomi), essendo venuta meno tale esigenza che caratterizzava la vecchia normativa manicomiale, il ricorso all’uso della forza fisica è esterno al rapporto terapeutico”. Nell’indagine - stralcio Baita, Murgia, Murtas, Scamonatti e Coni sono accusati anche di omicidio colposo, reato per il quale Turri e la Cantone sono già sotto processo: per il 29 novembre è fissata la requisitoria del pm. La Asl 8 ha intanto annunciato che in questa fase non prenderà provvedimenti nei confronti dei medici. Viterbo: indagini sulla morte in carcere di Claudio Tomaino; per il Gip “molti punti da chiarire” Ansa, 28 ottobre 2010 Sono molti i punti da chiarire nell’inchiesta sulla morte nel carcere di Viterbo il 19 gennaio scorso di Claudio Tomaino, reo confesso dell’assassinio di quattro suoi familiari avvenuto il 27 marzo del 2006 nelle campagne di Caraffa (Catanzaro). È quanto si rileva nell’ordinanza con la quale il gip di Viterbo, Salvatore Fanti, ha rigettato la richiesta di archiviazione da parte della Procura della Repubblica ed accolto l’istanza di proroga delle indagini presentata dagli avvocati Noemi e Francesco Balsamo, legali della madre di Tomaino, che non crede che il figlio si sia ucciso e chiede che vengano accertate eventuali responsabilità nel suo decesso. La prima questione da approfondire riguarda le tracce di sangue rilevate sul viso di Tomaino e sul guanciale, che, a detta dei legali della madre di Tomaino, non sono mai state esaminate. Rilevanti sono, inoltre, le dichiarazioni di un altro detenuto del carcere di Viterbo, Lillo Barletta, che in una lettera inviata alla Procura di Viterbo ha sostenuto che Tomaino non si è suicidato, ma è stato ucciso. Importante è stabilire, inoltre, i controlli che sono stati eseguiti nella cella in cui era rinchiuso Tomaino la sorveglianza del quale, evidenziano ancora i legali, era stata affidata ad un altro detenuto, Attilio Mazza, il quale però ha dichiarato, che a causa dei medicinali che assumeva, nel momento in cui Tomaino è morto dormiva. “Abbiamo chiesto doverosamente al gip - affermano i legali della madre di Tomaino - come sia stato possibile affiancare a Tomaino un detenuto che, a causa della terapia cui era sottoposto, non era in grado di provvedere neppure a se stesso. Il penitenziario dovrà altresì dimostrare tutti i controlli eseguiti a tutela del Tomaino”. “Aspettiamo gli esiti di queste indagini - affermano ancora gli avvocati Noemi e Francesco Balsamo - con lo spirito di poter avere finalmente ed a distanza di oltre due anni dal decesso, risposte soddisfacenti sulle cause reali del decesso di Tomaino, non rassegnandoci alle conclusioni del pm che per ben due volte ha chiesto l’archiviazione, sostenendo la tesi del suicidio”. Firenze: Ignazio Marino (Commissione Sanità); l’Opg di Montelupo va chiuso, servono alternative La Repubblica, 28 ottobre 2010 Dopo le denunce, la procura avvia un’inchiesta sulle condizioni del carcere di Sollicciano e dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo. Parla Ignazio Marino, che aveva presentato un esposto. Dopo le denunce, la procura della repubblica di Firenze avvia un’inchiesta sulle condizioni del carcere di Sollicciano e dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Il pm Giuseppe Bianco ha aperto un fascicolo esplorativo, battezzato in gergo burocratese “modello 45”, ossia per fatti che non costituiscono reato e senza indagati. A far scattare la macchina giudiziaria due esposti che sono approdati negli uffici di via Strozzi. Il primo presentato nel mese di giugno, dalla Camera penale di Firenze, l’altro, a fine settembre, da Ignazio Marino, che è presidente della commissione di inchiesta sull’efficacia del servizio sanitario nazionale. “La procura si è mossa tempestivamente: questo è il risultato della collaborazione tra istituzioni”, commenta il senatore del Pd. E aggiunge: “L’Opg di Montelupo è una struttura da chiudere, ma occorrerà trovare soluzioni alternative per gli internati che non sono più sottoposti a misure di sicurezza e, dunque, possono essere dimessi. Chi non è più pericoloso - incalza Marino - sia lasciato libero e preso in carico da chi ha il dovere di assicurare il servizio ai pazienti psichiatrici sul territorio”. L’inchiesta della commissione è partita a luglio, con blitz a sorpresa nei sei Opg italiani: Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere. “Nelle sei strutture abbiamo trovato una situazione di degrado vergognosa” è la denuncia del senatore che ha eseguito i sopralluoghi assieme ai carabinieri del Nas. Video e fotografie documentano anche le condizioni in cui versa l’Opg di Montelupo: celle anguste e fatiscenti, in alcuni casi, con servizi igienici sporchi, macchie di umidità a soffitti e pareti, intonaci scrostati e cadenti. “C’è una situazione di sovraffollamento inimmaginabile: alcune celle accolgono nove internati con uno spazio di tre metri quadri a testa”, rivela Marino. L’edificio, che al momento del sopralluogo ospitava 170 pazienti, è vetusto. Per questo, uno dei tre padiglioni che lo compongono è chiuso per ristrutturazione e gli internati sono riuniti nelle restanti celle. “Abbiamo inoltrato alle procure anche la lista delle persone che possono essere dimesse, perché non sono più considerate pericolose. Alcuni di essi sono stati dimenticati per anni negli Opg - conclude Marino - ma è giusto che siano rimessi in libertà e affidati ai servizi psichiatrici presenti sul territorio”. Situazione di sovraffollamento anche nel carcere di Sollicciano, secondo la denuncia la Camera penale di Firenze. Nel penitenziario fiorentino, fino al 29 maggio scorso, “erano rinchiuse 957 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 476 e tollerabile di 760”. E la situazione, nel frattempo è peggiorata. Lunedì scorso, i detenuti erano 1.002. Due esposti documentati da corposi dossier. Ora la parola passa alla Procura. Inchiesta della Procura su Sollicciano e Montelupo La procura di Firenze ha aperto un fascicolo esplorativo sulle condizioni dei reclusi nell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Montelupo e nel carcere fiorentino di Sollicciano. L’iniziativa della magistratura, che al momento non ipotizza né reati né responsabili, trae spunto da un esposto della Camera penale fiorentina (per Sollicciano) e dai sopralluoghi a sorpresa negli Opg svolti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza del Servizio sanitario nazionale, presieduta dal senatore Ignazio Marino del Pd. Titolari del fascicolo sono il procuratore Giuseppe Quattrocchi e il sostituto Giuseppe Bianco. Roma: detenuti elettricisti a Rebibbia, consegnati i diplomi di qualifica Adnkronos, 28 ottobre 2010 A Rebibbia i detenuti diventano elettricisti. Stamattina, informa una nota, sono stati consegnati i primi diplomi di qualifica professionale ai detenuti che hanno preso parte al corso per diventare elettricisti. “È stato un momento di grande emozione per i detenuti ed anche per me consegnare questa mattina a Rebibbia i primi diplomi di qualifica professionale, nell’ambito della realizzazione di un sistema integrato di formazione professionale a favore della popolazione detenuta”, ha spiegato Giuseppe Cangemi, assessore agli Enti Locali e Sicurezza della Regione Lazio. Una iniziativa della Regione Lazio che, in convenzione con Filas S.p.A e con l’Ente Enaip Lazio che si è aggiudicato il progetto didattico, ha predisposto dei corsi di formazione professionale, nelle strutture carcerarie della nostra regione, sia per adulti che per minori, “finalizzato a costituire una strategia di inserimento, rieducazione e reinserimento del detenuto nel mercato del lavoro”, ha ragguagliato Cangemi nel consegnare i primi attestati di qualifica relativi all’esame di elettricista ai detenuti del carcere di Rebibbia. “Le attività formative hanno avuto come obiettivo il consolidamento dei criteri di certificazione delle competenze, il miglioramento della flessibilità e della personalizzazione dei percorsi formativi, la progettazione e sperimentazione di nuovi modelli formativi, avvalendosi delle dotazioni informatiche e telematiche del sistema formativo già esistenti. Nello specifico si sono tenuti i primi corsi di Informatica, per la qualifica di elettricista”, ha osservato Cangemi. “Abbiamo voluto implementare l’integrazione con il mondo del lavoro, - ha spiegato ancora - indirizzando la formazione professionale sui fabbisogni del mercato del lavoro, puntando a una progressiva armonizzazione tra l’istruzione di base, la formazione professionale e l’inserimento al lavoro. In merito alle motivazioni che hanno spinto i detenuti a partecipare ai corso di qualifica professionale si dimostra che le aspettative dei detenuti comunque sono alte, in quanto si considerano i corsi un modo per conseguire un attestato per un futuro lavoro, pertanto un possibile reinserimento sociale”. Pordenone: petizione della Lega contro la costruzione del nuovo carcere, firmano in 315 Il Gazzettino, 28 ottobre 2010 La Lega Nord rilancia la sua “crociata” contro quello che il Carroccio considera un “super - carcere” in Comina. Ieri i padani hanno consegnato una petizione contro il carcere in quel sito sottoscritta da 315 cittadini al presidente del Consiglio regionale Maurizio Franz. C’erano, tra gli altri, Danilo Narduzzi e Mara Piccin. Già nei mesi scorsi Narduzzi aveva espresso la sua contrarietà all’ipotesi di costruire la super struttura. “Non sentiamo la necessità di un carcere che possa contenere 450 persone quando i detenuti, allo stato attuale, sono un’ottantina, di cui oltre 50 stranieri. Pordenone non vuole diventare la meta della malavita straniera”. Ma la Lega va oltre. “I 20 milioni di euro che Regione, Provincia e Comune di Pordenone sono pronti a dare al Ministero come contributo per la costruzione noi li vogliamo impiegare per le vere emergenze del territorio dando respiro ai lavoratori e alle imprese. Noi siamo favorevoli a un nuovo carcere, ma non delle dimensioni previste e in quel sito”. La proposta è di rivedere l’ipotesi San Vito, oppure convocare un tavolo tecnico per valutare la possibilità di ampliare il Castello in piazza della Motta. “Se il problema fosse accogliere i malviventi pordenonesi - conclude Narduzzi - la soluzione sarebbe semplice: basterebbe una casetta a contenerli tutti. Quello che fa rabbia è che a queste latitudini le carceri sono strapiene di stranieri mentre al Sud i detenuti sono quasi tutti locali”. Oristano: ex detenuto vince lite giudiziaria con il parroco, potrà restare a vivere nella Canonica La Nuova Sardegna, 28 ottobre 2010 Non ci sarà bisogno di arrivare al processo. La questione si chiude di fronte al giudice per le udienze preliminari, Francesco Alterio, che ha dichiarato il non luogo a procedere per Antonino Padovano, l’ex detenuto salito agli onori della cronaca per una disputa con il parroco della chiesa della frazione di Sant’Anna, don Antonello Cattide. Il primo aveva occupato i locali della canonica, facendo cosa sgradita al sacerdote. Talmente sgradita, che dopo i ripetuti appelli a lasciare i locali, il parroco decise che ne aveva abbastanza e denunciò l’ospite ritenuto invadente, che nella canonica era arrivato su concessione del precedente parroco, don Giovanni Usai, il quale aveva concesso ospitalità all’ex detenuto calabrese. Poi il parroco cambiò idea, mentre Antonino Padovano restò fermo nelle sue intenzioni: non voleva abbandonare la canonica perché - affermava - aveva contribuito in maniera cospicua al miglioramento delle condizioni dello stabile. Il braccio di ferro si spostò allora in tribunale, diviso tra procedimenti penali e cause civili. Ora restano solo queste ultime, dopo la decisione di ieri mattina, sollecitata dal pubblico ministero Diana Lecca, caldeggiata dall’avvocato difensore Gesuino Loi, accolta dal giudice e poco gradita all’avvocato di parte civile Daniela Schirru che sosteneva le ragioni del sacerdote. Dopo un’ora di camera di consiglio arriva così il colpo di spugna su ben sei reati contestati e scaturiti tutti dalle denunce del parroco. Antonino Padovano si era trovato di fronte a un nutrito capo d’imputazione, nel quale venivano contestati l’invasione di edifici, la violazione di domicilio, la violenza privata, il furto di paramenti sacri e delle chiavi della canonica, la turbativa di funzione religiosa e le molestie commesse durante lo svolgimento delle messe. Niente di tutto questo, tanto che il giudice ha deciso anche la revoca della misura cautelare che impediva ad Antonino Padovano di poter soggiornare nel Comune di Marrubiu, nonostante il giudice della sezione civile gli avesse nel frattempo assegnato la disponibilità dell’immobile. La giustizia civile ha infatti mosso i suoi passi su un binario parallelo a quello della giustizia penale e anche in questo caso l’ago della bilancia sembra pendere dalla parte dell’ex detenuto, al quale i vari giudici che si sono succeduti hanno via via dato ragione su vari aspetti. Ivrea (To): Osapp; agente aggredito da detenuto, usare manette per spostamenti dentro il carcere Apcom, 28 ottobre 2010 Ieri un assistente della polizia penitenziaria di Ivrea (To) di 36 anni è stato aggredito da un detenuto di 26. Lo denuncia l’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. L’episodio è accaduto introno alle 14 e 30. I poliziotti stavano trasferendo un gruppo di detenuti dal primo al terzo piano della struttura, ma il 26enne si è opposto. Prima si è aggrappato ai cancelli del piano terra, poi, quando è stato accompagnato in una saletta vicino all’infermeria, ha iniziato a sbattere la testa contro il muro e poi ha tirato una testata a un agente in pieno viso. Al poliziotto è stata riscontrata un’inclinazione del setto nasale la prognosi è di 10 giorni. “La situazione a Ivrea è tragica - commenta il segretario nazionale Leo Beneduci - l’organico previsto è di 239 agenti eppure sono solo 155. I detenuti dovrebbero essere al massimo 169 e invece sono 324”. “Anche per questo - commenta il sindacalista, che ha scritto una lettera a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta e al ministro Alfano - occorrono provvedimenti urgenti per i detenuti violenti. Chiediamo quindi che venga consentito alla polizia penitenziaria l’uso delle manette, per garantire la sicurezza negli spostamenti interni dei detenuti”. Bologna: all’Ipm in scena il “Don Chisciotte”, tra gli interpreti il capo della Polizia penitenziaria Redattore Sociale, 28 ottobre 2010 “Don Chisciotte Collapse” è il nuovo spettacolo messo in scena dai ragazzi con la regia di Paolo Billi. Diverse le nazionalità: cinesi, magrebini, italiani. Il teatro come utopia per rendere la pena detentiva una situazione ideale per costruire la libertà futura. Con questo proposito Giuseppe Centomani, dirigente del Centro giustizia minorile per l’Emilia Romagna e Paolo Billi, regista, hanno presentato “Don Chisciotte Collapse” il nuovo lavoro teatrale della Compagnia del Pratello che andrà in scena il prossimo 25 novembre (e in replica fino all’11 dicembre) all’Istituto minorile di Bologna. Attiva ormai da 8 anni, la Compagnia è composta (quest’anno) da 10 ragazzi di nazionalità diverse (cinesi, magrebini, italiani) detenuti nel carcere minorile di via del Pratello che si sono confrontati con l’opera di Cervantes. “Si pensa di conoscere quest’opera straordinaria - racconta Paolo Billi, regista - ma in realtà si coltivano solo stereotipi del cavaliere e del suo scudiero”. “Don Chisciotte Collapse”. L’opera dedicata al cavaliere della Mancia è stata esplorata dai ragazzi del Pratello nel tentativo di mettere in scena, non tanto l’ennesima storia di avventure sconclusionate, ma una serie di originali e inusuali visioni. Ecco allora che in scena ci sarà un Don Chisciotte ormai vecchio e cieco (interpretato dal capo della polizia penitenziaria Aurelio Morgillo) con un ragazzino che lo accompagna a teatro a vedere la storia della sua vita. Nello spettacolo, il cavaliere dalla triste figura è al centro di crudeli burle e farse amare nonché vittima di continue violenze fisiche. Il difensore dei deboli e degli oppressi, delle utopie e degli ideali di una cavalleria che non esiste più, è bersaglio della derisione del mondo in cui si trova a vivere. Troppe poche energie per affrontare i tempi che scivolano sul vecchio Don Chisciotte che, affranto da tanta cattiveria, muore. Il ragazzino quindi si ritrova da solo con una lanterna magica per passare una lunga nottata. In “Don Chisciotte Collapse” vi sono due cavalieri: uno è il vecchio che troviamo seduto in mezzo al pubblico accompagnato e assistito da un ragazzino, spettatore a teatro della sua stessa storia, l’altro è il giovane esile e solo, al centro della scena, che si dichiara protettore di deboli e oppressi e che difende utopie, ma è il bersaglio di farse e derisioni da parte di una compagnia di comici. “L’obiettivo era quello di reinventare drammaturgicamente l’artificio letterario di Cervantes - conclude Billi - secondo cui il cavaliere procuratosi con le sue nobili azioni una gran fama nella prima parte del libro, nella seconda viene riconosciuto a vista da tutti coloro che lo incontrano”. Iraq: l’Onu denuncia; documenti segreti rivelano violazioni dei diritti umani su civili e detenuti Il Velino, 28 ottobre 2010 I documenti segreti americani sulla guerra in Iraq resi pubblici mostrano serie violazioni della legislazione internazionale sui diritti umani, compresi l’esecuzione sommaria di un grande numero di civili, la tortura e il maltrattamento dei detenuti, ha affermato l’Alto commissario Onu per i Diritti umani, Navi Pillay. Lo rende noto un comunicato delle Nazioni Unite. Secondo una dichiarazione dell’ufficio di Pillay, gli Stati Uniti erano a conoscenza dell’uso della tortura e dei maltrattamenti inflitti ai detenuti da parte delle forze irachene, ma tra l’inizio del 2009 e luglio 2010 hanno comunque affidato alla custodia irachena migliaia di prigionieri da loro catturati. Avrebbero anche incluso informazioni su diversi episodi mai divulgati in cui le forze statunitensi uccisero civili ai posti di controllo e durante operazioni di guerra. “Le autorità americane e irachene devono adottare le misure necessarie per indagare su tutte le accuse contenute in questi documenti, e punire i responsabili di omicidi illegali, esecuzioni sommarie, torture e altri gravi abusi dei diritti umani, in linea con il Patto internazionale sui diritti civili e politici, a cui entrambi i paesi hanno aderito, e con altri obblighi internazionali”, ha dichiarato Pillay. L’Alto commissario Onu ha chiesto che l’Iraq ratifichi il Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura e il suo Protocollo opzionale, che conferisce a un comitato delle Nazioni Unite il diritto di visitare tutti i luoghi di detenzione e di esaminare il trattamento inflitto ai detenuti. L’alto funzionario ha inoltre sollecitato il governo iracheno a facilitare le visite da parte degli esperti di diritti umani della missione di Assistenza dell’Onu per l’Iraq (Unami), al fine di monitorare la situazione nelle prigioni, favorendo il processo di assistenza e consulenza alle autorità irachene stesse. Iran: eseguita la sentenza di morte per 5 persone condannate per traffico di droga Ansa, 28 ottobre 2010 Il procuratore capo della capitale iraniana, Abbas Jafari Dowlataadi, non ha rivelato l’identità delle cinque persone che sono state impiccate perché ritenute colpevoli di traffico di droga. La sentenza di morte è inserita nella stretta di morsa contro il narcotraffico che il governo iraniano da sempre ha combattuto. La Repubblica islamica condanna legalmente con la pena di morte il traffico di droga perché la legge si ispira ad un’ “interpretazione” della legge coranica. La pena di morte in Iran è un evento comune perché è previsto dal diritto penale per una serie molteplice di reati: dal traffico di droga fino all’adulterio. Aumentano anche le cosiddette “esecuzioni segrete”, da sempre sono state denunciate dalle associazioni non governative che si occupano di diritti umani. Dalle fonti, negli ultimi giorni sembrerebbe che siano state giustiziate circa 100 detenuti nel carcere di Vakilabad al confine con l’Afghanistan.