Giustizia: un nuovo “caso Cucchi” risveglia il Palazzo sul problema delle carceri di Salvatore Merlo Il Foglio, 27 ottobre 2010 Nel giorno in cui il lodo Alfano ottiene nuovi segnali favorevoli in commissione ma continua a essere oggetto di polemiche, un caso di cronaca raccontato dal Messaggero, il decesso nel carcere di Regina Coeli del trentaduenne Simone La Penna in circostanze forse non dissimili da quelle che avevano portato alla morte di Stefano Cucchi, ha parzialmente ridestato l’attenzione del Palazzo sulla situazione delle carceri italiane. Per il decesso di La Penna la procura di Roma ha indagato sette medici e infermieri del carcere romano. Il ragazzo era stato arrestato un anno fa per detenzione di stupefacenti, stava male e aveva perso trenta chili. Una storia che ieri in Parlamento si è intrecciata con le vicende del lodo Alfano e ha rimesso a tema, almeno pare, la questione carceraria. Il sovraffollamento negli istituti di pena e la revisione delle priorità secondo le quali si dovrebbe intervenire nella più complessa riforma della giustizia, ieri sono state oggetto di riunioni e dichiarazioni, non soltanto delle opposizioni, con il determinato contributo dei Radicali e di Marco Pannella. Il leader radicale è in sciopero della fame dal 2 ottobre per denunciare i “cinquantuno suicidi di detenuti nel solo 2010”. Ieri il Pd ha stretto un accordo con il partito di Nichi Vendola (estendibile ai finiani di Fli) intorno alla riforma della giustizia che, come spiega il responsabile d’area, Andrea Orlando, “non ha niente a che vedere con il lodo Alfano, ma individua nella questione carceraria il primo punto”. Anche l’Udc è intervenuta, come spiega Rocco Buttiglione: “Riteniamo necessari degli interventi di carattere ordinario e non costituzionale, in primo luogo per risolvere il problema dell’edilizia carceraria e del sovraffollamento”. L’opposizione, Radicali in testa, contesta al governo di avere varato il cosiddetto Piano carceri, ma di avere poi abbandonato la legge nei corridoi del Senato. Un rilievo cui ieri ha risposto il ministro della Giustizia Angelino Alfano: “Nel periodo che va dal 2008 al 2010 sono stati realizzati duemila nuovi posti, più di quanto non sia stato fatto negli ultimi dieci anni. Per fare le cose ci vuole del tempo”. Il progetto del governo prevede la creazione di circa tredicimila posti in più per i detenuti con la costruzione di undici nuovi istituti penitenziari e l’edificazione di nuovi padiglioni all’interno delle carceri già esistenti. D’altra parte la questione del sovraffollamento carcerario, oltre a essere stata oggetto di numerose contestazioni nei confronti dell’Italia da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo, rischia di diventare oggetto di indagini anche da parte della magistratura italiana. Con effetti che potrebbero essere paradossali. La procura di Firenze ha aperto ieri un fascicolo sulle condizioni dei detenuti nel carcere fiorentino di Sollicciano dove, a marzo del 2010, risultavano recluse 957 persone a fronte di una capienza regolamentare di 476. Il Piano carceri è una priorità del ministro Alfano. Ma secondo indiscrezioni di Palazzo, Giulio Tremonti potrebbe non garantire la completa copertura. La stima dell’investimento è enorme: 1,6 miliardi di euro. Non è detto che al Guardasigilli riesca di forzare la flemma proverbiale del superministro dell’Economia. Lo si scoprirà nel Milleproroghe di novembre. Giustizia: morte assurda di un altro detenuto, le carceri ci fanno vergognare nel mondo di Edoardo Caprino www.ffwebmagazine.it, 27 ottobre 2010 Simone La Penna. Un nome che sino a oggi non aveva trovato la “celebrità”. Ora - almeno i lettori de Il Messaggero - conoscono questo ragazzo di trentadue anni che ha raggiunto la ribalta nel peggiore dei modi. Secondo il giornale capitolino La Penna è morto dopo aver perso 30 chili nel giro di pochi mesi. Dove? In carcere, a Regina Coeli. E perché questo trentenne si trovava dietro le sbarre? Per detenzione - non smercio - di stupefacenti. Il caso richiama - ça va sans dire - Stefano Cucchi e la sua tragica fine. Ma è mai possibile morire in un istituto di pena per “arresto cardiaco provocato da uno squilibrio elettrolitico”? Una morte - risulta dal racconto - atroce con uno stato di denutrizione che ogni giorno peggiorava a vista d’occhio. Il pm chiamato a indagare per omicidio colposo alcuni dei medici che hanno avuto in cura La Penna - si legge sempre su Il Messaggero - vuole andare a fondo sul perché era stato considerato questo ragazzo compatibile con il regime carcerario. Questo che stiamo vivendo è un altro anno horribilis per il pianeta carcere. I suicidi si susseguono - siamo sopra i cinquanta -, alcune necessarie riforme e decisioni tardano ad arrivare, le carceri scoppiano di detenuti - molti dei quali in attesa di giudizio -, vi è scarsità di mezzi e a parte lodevoli eccezioni tutto si può dire tranne che gli istituti di pena rieducano il condannato. Abbiamo un uomo solo che da venti e più giorni combatte nell’indifferenza quasi generale la sua battaglia per una giustizia nel mondo delle carceri italiane. È un leone indomito di ottant’anni che se ne frega altamente della sua salute e sfida la vita e la morte con l’ennesimo sciopero della fame. È Marco Pannella, uno dei pochi politici italiani che non smette un attimo di accendere il faro su uno dei problemi più gravi che l’Italia si trova ad affrontare, una situazione che ci dovrebbe far indignare e ribellare. E invece le riforme della Giustizia, le priorità sono sempre le stesse, il mantra quotidiano per pochi. Ed invece nulla viene detto e fatto concretamente per queste carceri che ci fanno vergognare nel mondo. Casi come quello di Stefano Cucchi, di Simone La Penna (e chissà se vi sono altri casi come questi) non possono lasciare indifferenti. Occorre che la Magistratura faccia il suo corso (in maniera celere, senza guardare in faccia nessuno), ma allo stesso tempo la politica la deve smettere di fare lo struzzo mettendo la testa sotto la sabbia. Le carceri non possono aspettare. Una nazione europea non si misura solo con i rating finanziari, ma anche sul rispetto della dignità umana di tutti, compresi i carcerati e chi all’interno vi opera. Giustizia: quanti “casi Cucchi” nelle carceri italiane? Il Riformista, 27 ottobre 2010 Stefano e Simone erano due ragazzi di poco più di trentenni, finiti nelle maglie della giustizia per la droga, che in carcere hanno trovato la morte. Stefano è Stefano Cucchi riempito di botte mal curato sia nell’infermeria del penitenziario sia nell’ospedale in cui l’avevano tardivamente portato. Simone è Simone La Penna a cui è stata risparmiata la violenza dei carcerieri, ma morto anche lui per le trascuratezze di chi doveva occuparsi della sua incolumità. Per la morte di Stefano è stato condannato a due anni il funzionario del Dap Claudio Marchiandi, che ha patteggiato, mentre i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio per tre guardie carcerarie, autori materiali del pestaggio, secondo l’accusa, e per sei infermieri e tre medici del “Pertini” di Roma. Per la morte di Simone sono indagati altri medici dello stesso ospedale e dell’infermeria del carcere. I familiari di Stefano Cucchi, in particolare la sorella che ha sollevato il caso, sono solo parzialmente soddisfatti delle richieste dei pm. La verità su quello che è accaduto ai due ragazzi morti a distanza di poche settimane l’uno dall’altro alla fine del 2009 deve ancora essere accertata. Pochi giorni fa l’associazione Antigone ha reso pubblici i dati sulla popolazione carceraria nel nostro paese rivelando numeri da far spavento: 68.527 detenuti in 206 istituti di pena che ne potrebbero contenere solo 44.612. Oltre 15mila in attesa di giudizio e ben 28mila reclusi per violazione delle leggi sulla droga. Stefano e Simone sono stati abbandonati e non curati, il primo è stato addirittura barbaramente colpito dai suoi carcerieri, ma la domanda inquietante che la loro vicenda e i numeri forniti da Antigone propongono è quella sulle condizioni in cui è costretta vivere la popolazione carceraria. Troppo spesso si hanno notizie di pestaggi, di violenze contro detenuti e molteplici sono i segnali di un degrado senza limiti della vita di persone spesso recluse prima ancora di una sentenza di condanna. La situazione nelle carceri provoca problemi anche a chi svolge l’attività di custodia, spesso costretto a turni massacranti. Si è da tempo superato il limite della sopportabilità come rivela l’alto numero dei suicidi fra i detenuti. Ha detto ieri l’avvocato della famiglia Cucchi: “Lo Stato che ne aveva la responsabilità l’ha ucciso... Questo caso è la rappresentazione delle centinaia che viaggiano silenti nelle aule di convalida degli arresti, dove le botte di questo o quell’agente vengono sopportate insieme con le manette”. Fino a quando? Giustizia: i 2.000 posti detentivi in più di Alfano? inutilizzati per mancanza di personale di Riccardo Arena www.radiocarcere.com, 27 ottobre 2010 “Abbiamo stabilito un record: siamo il governo che ha realizzato più nuovi posti nelle carceri, rispetto a tutti quelli precedenti. Nel periodo 2008-2010 sono stati realizzati più posti di quelli realizzati nei dieci precedenti, e mi riferisco a oltre 2 mila posti”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, a proposito dell’emergenza carceraria. Ha ragione il Ministro Alfano. Il Governo ha realizzato già 2.225 nuovi posti detentivi. Peccato, peccato davvero, che questi “posti in più” restino vuoti e che le nuove strutture carcerarie siano deserte. per mancanza di personale. Ieri nella trasmissione Radiocarcere su Radio Radicale, si sono raccolte tante testimonianze, da Nord a Sud, da Trento a Enna, circa questi nuovi posti detentivi. Il risultato? I “nuovi posti detentivi”, tanto declamati dal Ministro Alfano, ci sono ed anzi sono anche di più, ne contiamo circa 2.300. Ma sono vuoti ed inutilizzati per mancanza di personale. La domanda è: quanti soldi pubblici sono stati spesi inutilmente? Giustizia: Sbriglia (Sidipe); la pena deve essere espiata con dignità Agi, 27 ottobre 2010 “La politica deve adoperarsi affinché la pena sia espiata in condizioni di dignità e sicurezza tendendo alla rieducazione”. Lo afferma il Sidipe (il Sindacato Direttori Penitenziari) in una nota sottoscritta dal segretario nazionale Enrico Sbriglia, riferendosi anche a quanto accaduto a Stefano Cucchi. Il Sidipe tra l’altro si dice confortato dal fatto che “attraverso lo strumento processuale potrà provarsi a stabilire la verità sui fatti, ribadendo la convinta fiducia nell’operato della magistratura” e ritenendo “ingeneroso e sbrigativo liquidare fatti così gravi, inducendo che possano essere stati determinati da un disimpegno del personale penitenziario”. Sbriglia si sofferma poi sullo stato d’emergenza delle carceri decretato il 13 gennaio 2010 sottolineando che “al di là delle mere solenne dichiarazioni finora nessun progresso risulta essere stato percepito all’interno delle carceri, dove i detenuti continuano a morire per suicidio o per malattia”. Sbriglia infine ribadisce che “gli operatori penitenziari continuano a percepire la mancanza di un progetto strategico capace realmente di fare superare l’emergenza, vivendo uno stato che è percepito diffusamente come di abbandono”. Giustizia: dalla Fp-Cgil del Veneto 10 proposte per un sistema penitenziario umano Agenparl, 27 ottobre 2010 Dieci proposte per un sistema penitenziario umano, che rispetti il lavoro e la dignità delle persone. - Modificare la normativa sulla custodia cautelare, per ridurre il tasso di carcerazione di 15 unità per 100.000 abitanti; con questa misura si ridurrebbe la presenza nelle carceri di 9/10.000 detenuti, arrivando a una percentuale di imputati detenuti inferiore al 30%. - Nuove misure per il reinserimento sociale dei detenuti. Attività di giustizia riparativa, inserimento lavorativo, istruzione, formazione e attività sociali alle quali concorrano l’Amministrazione penitenziaria (anche con le risorse della Cassa delle Ammende) e le reti dei servizi sociali, nella prospettiva di una partecipazione di Enti locali e terzo settore. - Estendere l’istituto della sospensione del procedimento con la messa alla prova dell’imputato che, per la sua positiva sperimentazione nel settore minorile, può risultare efficace nel contrasto di fenomeni di microcriminalità prevenendone l’evoluzione verso manifestazioni criminali più pericolose. Una misura che consentirebbe una riduzione di almeno 15 punti, cioè 8/10.000 detenuti. - Modificare le misure previste dalla Ex-Cirielli e dai pacchetti sicurezza fin qui adottati che eliminano la sospensione dell’esecuzione delle pene fino alla valutazione della magistratura di sorveglianza circa l’applicabilità di una misura non detentiva. - Modificare la legge Fini-Giovanardi in materia di sostanze stupefacenti, rimuovendo gli inasprimenti di pena per detenzione e spaccio di lieve entità, la prevalenza delle circostanze aggravanti e le preclusioni all’accesso a tali misure per i recidivi. Avviare almeno la metà dei tossicodipendenti detenuti (7/8.000 persone) al trattamento in comunità varrebbe una riduzione del tasso di carcerazione complessivo di quasi 12/13 punti. - Modificare la legge Bossi-Fini in materia di immigrazione, eliminando la circostanza aggravante per la condizione di clandestinità, la sproporzione delle pene per insufficienza degli strumenti di difesa, la difficoltà di accesso alle misure alternative o sostitutive, il carcere per la sola violazione dell’obbligo di espulsione (1/10 delle incarcerazioni annue). - Provvedere alla chiusura degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) ed eliminare le misure di internamento psichiatrico per attuare quanto previsto dalla legge Basaglia e dal decreto 229 del 99. Abolire le altre misure di sicurezza divenute pressoché indistinguibili dalle pene detentive. Risorse, sinergie coi territori e col Servizio Sanitario Nazionale per realizzare il superamento della misura di sicurezza in ospedale psichiatrico giudiziario. - Adeguare la dotazione organica della Polizia Penitenziaria, anche in ragione dell’ampliamento delle attuali strutture penitenziarie. Assumere almeno 6.000 unità aggiuntive e mettere in atto un piano di ottimizzazione delle risorse umane disponibili, comprese quelle distolte dal servizio negli istituti di pena, risultando sproporzionata la quota (quasi la metà, 18.000 uomini e donne) destinata ad altri servizi che genera insostenibili carichi di lavoro per il personale impiegato nei servizi d’istituto. - Riportare i finanziamenti al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria almeno ai livelli del 2001, anche per consentire il pagamento dei servizi di missione e delle numerose ore di lavoro straordinario espletate e non corrisposte al personale di Polizia Penitenziaria. - Mettere in atto il piano carceri del Governo sul fronte edilizio inserendo in finanziaria lo stanziamento di 1,5 miliardi di euro necessario per attuarlo”. Giustizia: Stefano Cucchi e Simone La Penna; due morti “di carcere” che potevano essere evitate La Stampa, 27 ottobre 2010 Due morti che si potevano evitare, due casi di indifferenza e di cieca burocrazia costati la vita a giovani rinchiusi nel carcere di Regina Coeli. Del primo, com’è noto, è protagonista Stefano Cucchi, pestato a sangue da un gruppetto di agenti e morto il 22 ottobre dell’anno scorso. Il secondo caso, di cui si è saputo solo ieri, riguarda un altro arrestato, Simone La Penna, rinchiuso in cella nonostante fosse gravemente malato, tanto che il suo cuore ha smesso di battere un mese dopo quello di Stefano. Chiedeva di essere curato, ma i medici e gli infermieri del carcere, finiti sotto inchiesta, avevano dichiarato che le sue condizioni erano compatibili con la vita dietro le sbarre. L’agonia di Cucchi “venne trattata come una pratica burocratica”, e i medici dell’ospedale si mossero “con l’esigenza di mettere le carte a posto per non far trapelare nulla di quanto era accaduto”, cioè il pestaggio compiuto dagli agenti nelle celle di sicurezza del palazzo di Giustizia. Per questo motivo, 12 fra agenti, medici e infermieri andrebbero processati per lesioni aggravate e abbandono di persona incapace seguito dalla morte, oltre a una serie di reati minori. Questa la richiesta avanzata ieri al giudice per l’udienza preliminare dai pm che hanno indagato sul caso di Stefano, arrestato il 16 ottobre dell’anno scorso per droga e morto sei giorni dopo. I sostituti procuratori Vincenzo Barba e Francesca Loy hanno anche chiesto la condanna a due anni di carcere per il tredicesimo imputato, Claudio Marchiandi, funzionario del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria”. “E ieri, nello stesso giorno in cui i magistrati hanno formalizzato le loro accuse per la morte di Cucchi, si è saputo dell’altra brutta storia che ha per protagonista e vittima Simone La Penna, 32 anni, arrestato per droga e morto in carcere un mese dopo Cucchi. Soffriva di anoressia; le sue condizioni, secondo i legali della famiglia, non erano compatibili con la detenzione. Eppure, dopo settimane trascorse fra il centro clinico del penitenziario romano e l’ospedale Sandro Pertini, il cuore di Simone ha smesso di battere nel chiuso di una cella. Il giovane chiedeva di essere curato. Aveva perso 30 chili e nonostante ciò nessuno ha capito che si stava spegnendo lentamente. Per la sua morte la procura della Repubblica ha indagato sette fra medici e infermieri di Regina Coeli: alcuni di loro avrebbero addirittura inviato relazioni rassicuranti al giudice di sorveglianza che doveva decidere sull’eventuale ricovero del detenuto in un ospedale. Le condizioni di Simone, secondo gli esperti del carcere, erano compatibili con la vita in cella. Toccherà ai magistrati decidere se chiedere per loro il rinvio a giudizio come hanno fatto per il caso Cucchi. Il che, però, non significa necessariamente che giustizia sia fatta. Così, ad esempio, la pensano i familiari di Stefano, i quali sostengono che “la procura ha fatto un gran lavoro, ma si muove lontano dalla realtà. Sono parole di Ilaria Cucchi, sorella del giovane morto, che non accetta la tesi dei pm secondo cui non c’è relazione fra il pestaggio avvenuto nella cella di sicurezza del Palazzo di Giustizia e la morte del giovane avvenuta dopo una settimana. I magistrati, in base a una consulenza di esperti, sostengono che Stefano fu ucciso non dalle botte degli agenti della polizia penitenziaria, ma dall’inerzia dei medici che lo abbandonarono al suo destino in ospedale, senza curarlo”. Giustizia: Simone condannato come Cucchi di Luigi Manconi e Valentina Calderone Il Manifesto, 27 ottobre 2010 Mentre in un’aula del Tribunale di Roma si teneva l’udienza del processo per la morte di Stefano Cucchi, la cronaca giudiziaria restituiva memoria a un’altra vicenda, che presenta molte analogie con quella appena ricordata. Simone La Penna, trentadue anni, deceduto a Regina Coeli il 26 novembre 2009, è morto “per denutrizione” un mese e quattro giorni dopo Cucchi. In carcere da nove mesi, La Penna era in attesa di giudizio per violazione della legge sugli stupefacenti. Aveva sofferto di anoressia, malattia che aveva affrontato, sottoponendosi a due ricoveri. Era guarito, Simone. Un bel ragazzo, alto, di quasi ottanta chili. In nove mesi di carcere ne ha persi oltre trenta. Dopo un primo periodo di detenzione a Viterbo, inizia il suo calvario: vomito, perdita di peso, squilibri nei livelli di potassio. Di conseguenza viene ricoverato nel reparto detentivo dell’ospedale Belcolle di Viterbo: la cura sembra funzionare e viene dimesso. Ritorna in carcere e il suo peso riprende a calare. Viene trasferito nel carcere romano di Regina Coeli ed è ormai chiaro che la sua patologia è strettamente correlata alla detenzione. Gli avvocati presentano varie istanze affinché gli vengano concessi gli arresti presso il domicilio o in altro luogo idoneo a curarlo. Le richieste però vengono tutte, tenacemente, respinte. Secondo i medici lo stato di salute di La Penna è “compatibile con il regime detentivo”. Dai primi di giugno fino alla fine di luglio La Penna resta ricoverato nel centro clinico di Regina Coeli, ma le sue condizioni si aggravano: e, il 27 luglio, viene ricoverato nel reparto detentivo del Pertini. Lo stesso in cui ha perso la vita Cucchi. Passa due giorni in quell’ospedale, e qui gli viene somministrata una terapia che sembra funzionare. Quindi, viene riportato nell’infermeria di Regina Coeli. Il 26 novembre, alle 8 di mattina, viene trovato esanime all’interno della cella, ma il decesso risalirebbe a quattro ore prima. Simone La Penna muore in carcere e il suo corpo è ridotto a poco più della metà di com’era prima di entrarvi. Deperito, prosciugato, come svuotato. Ieri il pm Eugenio Albamonte ha annunciato l’avvio dell’inchiesta, con l’iscrizione nel registro degli indagati di sette tra medici ed infermieri del Pertini e di Regina Coeli. Il reato ipotizzato è omicidio colposo e le domande che pone il pm sono semplici: perché i medici non hanno segnalato le sue condizioni? Gli sono stati prescritti i farmaci necessari? Qualcuno si è preoccupato che li assumesse? Questa vicenda, nonostante l’assenza di lesioni procurate da terzi, ricorda molto da vicino quella di Stefano Cucchi, per la cui morte, ieri, è stato chiesto il rinvio a giudizio di sei medici e tre infermieri (oltre che di tre agenti di polizia penitenziaria accusati di lesioni aggravate e abuso di autorità e di un funzionario dell’amministrazione) accusati, tra l’altro, di abbandono di incapace. Le analogie con altre storie sono numerose e se ne potrebbero citare a decine. Ne ricordiamo una fra tutte, risalente al 1999, e assai familiare a questo giornale. Marco Ciuffreda, morto nel carcere di Regina Coeli per qualcosa che possiamo definire abbandono terapeutico. Gli erano stati concessi i domiciliari, ma non c’erano abbastanza volanti e poliziotti per accompagnarlo a casa e, così, è rimasto in carcere più di quanto la legge disponesse. La terapia prescrittagli non prevedeva metadone, che pure assumeva tramite il Ser.T. presso cui si curava. I sanitari del carcere sottovalutarono le sue condizioni, non garantirono la vigilanza medica per oltre ventiquattro ore e Ciuffreda venne portato in ospedale quando ormai era troppo tardi. Nel processo penale, nessuno è stato ritenuto colpevole della sua morte; in quello civile, lo Stato ha riconosciuto alla famiglia un risarcimento di 6.000,00 euro per “ingiusta detenzione”. Ieri è stata aperta l’indagine per la morte di La Penna e, nel processo per quella di Cucchi, si sono ascoltati gli argomentatissimi interventi dei legali della famiglia, Fabio Anselmo e Sandro Gamberini. Dunque, qualcosa di positivo, al momento, sembra emergere: ci auguriamo che alla fine prevarrà sulla intollerabile sensazione che, da quel 1999, nulla sia cambiato. Giustizia: Procura; per morte di Simone La Penna indagati 6 medici e 1 infermiere di Regina Coeli Adnkronos, 27 ottobre 2010 Non siamo di fronte ad un nuovo “caso Cucchi” e le persone indagate per omicidio colposo sono 6 medici ed un infermiere in servizio nella struttura medica interna al carcere di Regina Coeli e non, come è stato scritto nell’ospedale Sandro Pertini. La precisazione viene dalla Procura della Repubblica di Roma e precisamente dal pubblico ministero Eugenio Albamonte dopo che è stato accostato al caso Cucchi quello che ha per vittima Simone La Penna. Un detenuto sofferente di anoressia manifestatasi durante la sua detenzione e morto il 26 novembre dello scorso anno. “Dall’ospedale Sandro Pertini - è stato precisato - La Penna è passato qualche volta per essere visitato, ma il ricovero era stato disposto in carcere dove, per una vicenda di droga, scontava una condanna definitiva a 2 anni e 4 mesi di reclusione. Secondo il magistrato per La Penna, che al momento della morte pesava 30 chili, non si può parlare di vessazioni o di maltrattamenti perché a determinare la sua tragica fine potrebbe essere stato un caso di colpa professionale oppure di incompatibilità con il ricovero in carcere. E per avere una spiegazione è stata fatta dal magistrato una perizia collegiale allargata anche ai consulenti delle altri parti. La prima relazione è già stata depositata e ora il pm Albamonte attende le altre consulenze per confrontare le conclusioni e disporre eventuali approfondimenti. Giustizia: la famiglia di Simone; ora vogliamo la verità di Martina Di Berardino e Massimo Sbardella Il Messaggero, 27 ottobre 2010 La fotografia più nitida di Simone La Penna la conserva la nonna, un’anziana signora che abita nella campagna di Zagarolo, come tutta la famiglia di questo ragazzo ucciso dall’incuria e dalle negligenze di un carcere romano, Regina Coeli. Lo stesso di Stefano Cucchi e di tanti altri. Come Cucchi, Simone è morto “consumato”, nell’indifferenza di medici e infermieri che adesso si ritrovano indagati per omicidio colposo. Pesava 49 chili, quando lo hanno raccolto nella sua brandina. Mentre ieri, la nonna raccontava di una ragazzone da oltre un metro e ottanta, e di ottanta chili di peso: “Aveva una figlia bellissima, che oggi ha tre anni. E una compagna che lo amava. E che stava cercando di tirarlo fuori da questa situazione tremenda”. “Lo hanno lasciato spegnere come una candela - racconta Massimo La Penna, papà di Simone - lo imbottivano di psicofarmaci, così dormiva e non si lamentava”. E ancora: “A maggio dell’anno scorso aveva avuto un arresto cardiocircolatorio, lo ricoverarono due giorni al Santo Spirito, ma le sue condizioni non migliorarono. Andavamo ai colloqui e lo vedevamo stare sempre peggio, ormai pesava pochissimo, lui ci faceva coraggio, era un ragazzo buono. E pensare che qualche magistrato di fronte alle consulenze mediche del nostro avvocato, ci ha risposto che Simone faceva solo i capricci”. Invece il professor Ferracuti, docente di psicologia clinica alla Sapienza, aveva mandato relazioni molto chiare ai consulenti del magistrato di sorveglianza, dalle quali emergeva la condizione patologica del suo paziente: “Era depresso e anoressico, si lasciava andare; era doveroso metterlo in un’altra condizione, il carcere lo stava distruggendo ma nessuno ci ha dato ascolto”. Aveva anche una sorella, Simone La Penna. Si chiama Martina, ha 26 anni. Sarà lei, nei prossimi mesi, a sostenere i genitori, papà Massimo e mamma Cinzia, nel calvario giudiziario che li attende, seppure come parti civili nel procedimento penale. Da undici mesi, da quel 26 novembre 2009, non passa giorno che Martina non dedichi un pensiero, e un’azione, alla ricerca della verità. “È quello che vogliamo, semplice verità: Simone era incompatibile con il regime carcerario. Era stato dimostrato nei mesi precedenti, ma non è bastato. Lo hanno comunque lasciato morire”. A demolirlo psicologicamente, racconta Martina, il senso di impotenza di fronte alle difficoltà di cambiare vita. “Da quando era diventato papà, la figlia era la sua ragione di vita. Purtroppo la lentezza della giustizia faceva sì che mentre pensava di rimettersi in riga arrivavano a conclusione procedimenti pendenti. Poi, il 27 gennaio 2009, mentre era ai domiciliari venne rimesso in cella per spaccio di stupefacenti; un’accusa mai provata visto che non gli fu trovato assolutamente nulla. E iniziò il calvario che l’ha condotto alla morte”. Simone non aveva una fedina penale da criminale, spiega Martina: “Era solo un tossicodipendente che aveva commesso piccoli reati. La pena in questi casi dovrebbe servire al recupero, non essere punitiva”. Indifferenza, negligenza, abbandono: Sono le parole che ricorrono di più nei discorsi di Martina. “Simone lo scriveva sempre nelle sue lettere. Era abbandonato a sé stesso. Non volevano sentirlo e gli davano psicofarmaci, così dormiva. Quel mattino terribile eravamo andate là, con mia madre. A portargli dei soldi. Una doccia gelata quando ci hanno detto che era morto. E ci sono volute sei ore e mezza perché ce lo facessero vedere”. Della vicenda, solo un mese prima della morte, si era interessato anche il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni: “Segnalai che questo ragazzo aveva mostrato un calo fisico tragico e non aveva più la capacità di rispondere a qualunque tipo di sollecitazione. Dissi chiaramente che doveva essere portato fuori dal carcere perché incompatibile con la detenzione, ma questa mia opinione fu contraddetta dai medici del carcere stesso”. Domani alla Camera interrogazione Pd su morte La Penna “Domani il ministero della Giustizia risponderà alla Camera all’interrogazione del Pd che chiede al governo di fare luce sulle circostanze in cui è deceduto nel carcere romano di Regina Coeli, Simone La Penna”. Lo comunicano i deputati del Pd della II commissione di Montecitorio, Donatella Ferranti, Andrea Orlando, Cinzia Capano, Mario Cavallaro, Pasquale Ciriello, Anna Paola Concia, Gianni Cupreo, Guido Melis, Pina Picierno, Anna Rossomando, Marilena Samperi, Lanfranco Tenaglia, Pietro Tidei, Jean Leonard Touadi. “Vogliamo sapere - concludono - le valutazioni del ministro sulle modalità di trattamento del detenuto Simone La Penna in relazione al suo quadro clinico e sulle cause del suo decesso e se non intenda assumere iniziative per fare piena luce circa i fatti suesposti al fine di contribuire ad accertare le relative responsabilità”. Giustizia: Ilaria Cucchi; i primi colpevoli della morte di Stefano sono quelli che lo hanno pestato di Anna Rita Cillis e Carlo Ficozza La Repubblica, 27 ottobre 2010 Che la verità entri nelle aule di giustizia”. Così Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, dopo la richiesta di rinvio a giudizio per dodici indagati e due anni di reclusione per un altro accusato che ha scelto il rito abbreviato. Non è soddisfatta delle richieste dei pm? “Sì: i pm hanno svolto un lavoro importante con serietà e scrupolo. Del loro impegno va dato atto senza dubbi, ma siamo ancora lontani dall’accertamento delle responsabilità”. Si spieghi meglio... “L’accusa ai tre agenti penitenziari di aver procurato solo “lesioni lievi” mi sembra insufficiente ma i pm hanno tenuto conto solo della perizia dei medici legali della procura, che nega una cosa semplicissima ed evidente a quanti altri hanno visitato mio fratello: le fratture erano recenti e non, com’è stato scritto, pregresse o dovute a una malformazione. Stefano insomma, non se le era procurate prima di finire in carcere, ma nelle ore immediatamente successive al suo arresto. Stava benissimo quella sera e sei giorni dopo l’abbiamo trovato morto e in condizioni terribili. Una cosa è certa: se non fosse stato arrestato non sarebbe morto. Invece oggi si vuol dire che Stefano sarebbe deceduto anche se fosse rimasto a casa sua chissà per quale patologia che lui stesso ignorava ai avere”. Cosa chiedete? “Che venga presa in considerazione la perizia dei nostri consulenti. Loro non sono i soli a sostenere che Stefano stava male per le fratture conseguenti al pestaggio nel sotterraneo del tribunale. Mio fratello è stato arrestato sano nella tarda serata del 15 ottobre dell’anno scorso ed è deceduto all’alba di sei giorni dopo nel padiglione carcerario dell’ospedale Sandro Pertini, con la schiena rotta e altri traumi”. Lei crede che quelle lesioni potrebbero aver causato la sua morte? “Hanno sicuramente avviato il processo della sua fine. Un processo conclusosi in quel letto della corsia-carcere del Pertini dove Stefano era finito complice il tentativo di copertura di quel pestaggio, assicurato dal dirigente del provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, che ora ha chiesto il rito abbreviato”. Cosa avrebbe fatto quel dirigente? “Di sabato, fuori servizio, si è recato da un medico compiacente nel padiglione carcerario del Pertini, per far ricoverare lì mio fratello invece che in un ospedale attrezzato come si sarebbe dovuto fare. Perché, allora, viene negato il nesso tra il pestaggio nel bunker del tribunale e la morte di Stefano quando si è convinti della copertura a quella aggressione attuata dal dirigente dell’Ufficio detenuti?”. Giustizia: l’avvocato; Stefano è stato picchiato, poco cambia stati carabinieri o agenti penitenziari Adnkronos, 27 ottobre 2010 “L’avvocato Perugini dice di conoscere i nomi di chi ha picchiato Stefano Cucchi? Bene. Ma doveva farli prima. Se ne ha le prove ne prenderemo atto e ci comporteremo di conseguenza”. Così ai microfoni di CnrMedia l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, si rivolge a Diego Perugini, legale di Nino Menichini, uno degli agenti penitenziari rinviati a giudizio per lesioni aggravate. “È pacifico - dice Anselmo - che Stefano sia stato picchiato, non abbiamo preferenze su una divisa rispetto a un’altra. Se è stato picchiato dai carabinieri o dagli agenti penitenziari, poco cambia. Noi, fino ad oggi, non abbiamo motivo per dire che ci siano altri responsabili rispetto agli imputati a processo. Ma se ci saranno delle novità, ci comporteremo di conseguenza. Certo, Perugini dovrà essere molto convincente”, conclude Anselmo. Lettere: la burocrazia del boia di Adriano Sofri La Repubblica, 27 ottobre 2010 La notizia sulla condanna all’impiccagione emessa in Iraq contro Tareq Aziz e altri esponenti del regime baathista conferma che tutte le condanne a morte sono odiose, e ciascuna lo è a modo suo. Questa perché è ovvia e tardiva. L’ovvietà è odiosa quando mostra come le persone in genere e le autorità in particolare aderiscano ottusamente alla propria parte in commedia, e anche in tragedia. na condanna capitale inflitta a più di sette anni dall’invasione dell’Iraq e dalla fine proclamata della guerra è brutale non come la vendetta, ma come la burocrazia. Discutere delle responsabilità personali di Tareq Aziz ha senso per chi voglia rifare la storia e anche per il tribunale che voglia esercitare la giustizia penale, ma solo fino alla soglia della condanna capitale. Quest’ultima mette i vincitori dalla parte del torto e pregiudica il futuro della loro impresa. È stato vero per Saddam Hussein - platealmente, con l’osceno spettacolo della sua esecuzione - e lo è per Aziz, che di quella tirannide rappresentava “il volto umano”, cioè l’ipocrisia. Un’ipocrisia cui del resto buona parte dei poteri occidentali era felice di prestarsi, per convenienza d’affari e per il pregiudizio legato alla buona educazione anglosassone e alla fede cattolica. Nel momento in cui ciascuno si misurò con le scelte decisive, Tareq Aziz non seppe distinguersi, e anche nelle migliori stanze del Vaticano e di Assisi stette al gioco d’azzardo del suo capo, illudendosi forse che gli ultimatum americano e inglese si lasciassero fermare dalla diplomazia internazionale e dalla mobilitazione pacifista. Qualunque cosa pensasse in realtà, Aziz, anche lui sequestrato nella sua parte, fece propri i toni rodomonteschi del suo principale. Se davvero nel regime iracheno si prese in considerazione l’esilio pur di scongiurare l’invasione, Aziz non ne diede segno. Diceva la verità quando assicurava che da anni l’Iraq non disponeva più di armi di distruzione di massa, e mentivano, anche scientemente, coloro che avevano deliberato l’invasione e che non se ne sarebbero lasciati distogliere a nessun costo. “Siamo in grado di difenderci da soli”, proclamò. Era una millanteria. La “guerra” non ebbe partita. Il dopo guerra, al contrario, non è mai finito. Guerra e dopoguerra si sono riempiti di crimini, e la mano feroce dei tribunali dei vincitori è il peggior modo di riscattarli. I tribunali internazionali delle Nazioni Unite, che giudicano imputati di regimi colpevoli di genocidi terribili, escludono dal proprio statuto la pena di morte, e questa esclusione è la condizione preliminare “alla loro autorità. Ieri si sono sentite da noi dichiarazioni solenni sull’Occidente che ripudiala pena di morte: magari. La contraddizione sta nell’accettazione della pena di morte da parte degli Stati Uniti, tanto più amara nella condizione dell’Iraq. Bisogna sperare che l’opinione delle persone e dei paesi faccia prevalere negli americani l’auspicio della rinuncia alla pena capitale a Baghdad. E almeno l’adesione al voto delle Nazioni Unite per la moratoria sulla pena di morte. Marco Pannella stava facendo uno sciopero della fame col duplice proposito di denunciare l’intollerabile situazione carceraria italiana e di richiamare l’attenzione sull’opportunità mancata dell’esilio consensuale di Saddam Hussein e della sua corte, che avrebbe sventato l’intervento militare. Convinto che a quella eventualità lo stesso tiranno fosse disponibile, Pannella ha visto nella condanna capitale di Aziz ieri, come già in quella di Saddam Hussein, oltre che lo scandalo della pena di morte, contro il quale i radicali si battono coi migliori titoli, il calcolo di mettere a tacere personalità che potrebbero testimoniare sulla disponibilità all’esilio con un salvacondotto e alla caduta della tirannide di Saddam senza ricorso alla guerra. È un tema importante, e alla convinzione di Pannella non mancano indizi, benché più probabilmente Saddam e i suoi fossero così accecati dal proprio stolido fanatismo e dall’azzardo sulle divisioni internazionali e la mobilitazione pacifista da credere fino all’ultimo di riuscire a legare le mani di neocon e militari interventisti. Cui, si è visto, prudevano troppo. Come che sia, strappare Tareq Aziz e gli altri condannati all’esecuzione quando è comunque assicurata loro la galera a vita - è un impegno grave di tutti, se non per ricostruire il passato, per immaginare un futuro meno tetro. Lettere: Stefano, un anno fa silenzio di Stato (senza tutele) di Ilaria Cucchi Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2010 Un anno fa moriva mio fratello Stefano, mentre si trovava sotto la custodia dello Stato e dei suoi rappresentanti. Moriva dopo essere stato fermato per possesso di sostanze stupefacenti, dopo la convalida dell’arresto da parte di un giudice e un pm che, come ho appreso leggendo gli atti d’indagine, non lo avevano nemmeno guardato in faccia, non si erano nemmeno accorti che Stefano aveva il volto gonfio per le botte prese nei sotterranei di quello stesso tribunale. Subito dopo mio fratello veniva inghiottito dal carcere e alla sua famiglia veniva negata ogni informazione sulle sue condizioni, a copertura del pestaggio che - oltre alle varie ecchimosi evidenti - gli aveva provocato delle fratture gravi alla colonna vertebrale e tutta una serie di conseguenze connesse ad esse. Dopo sei giorni dal suo arresto, siamo stati informati della sua morte tramite il decreto per l’autopsia, quando l’incarico era stato già conferito, per “morte naturale”. In poche parole si è ritenuto opportuno avvisare della morte di Stefano prima il medico legale che la sua famiglia. Ma d’altra parte questo rispecchia in pieno un atteggiamento che ho capito essere molto spesso insito all’interno del mondo carcerario. Quello di Stefano è stato il 79esimo decesso in carcere avvenuto nel 2009. Dopo circa un mese ce ne fu un altro, quello di Simone La Penna, in circostanze che appaiono inquietanti, foss’anche solo per la sconvolgente negligenza che c’è stata nei suoi riguardi, che fa pensare a comportamenti che troppo spesso in quelle realtà fanno parte della consuetudine. Una famiglia consegna un proprio congiunto, sano, nelle mani delle Istituzioni. Quelle stesse Istituzioni lo restituiscono morto e non si sentono nemmeno in dovere di dare delle spiegazioni. E così, nei rari casi in cui quella famiglia ne trova la forza, inizia una lunga e dolorosa battaglia, spesso al di sopra delle proprie capacità. Una battaglia che porterà quella famiglia, già duramente provata, a scontrarsi con i pregiudizi e con i muri fatti di ostilità e coperture. Con uno spirito di corpo che a pensarci bene danneggia solo che lo mette in atto. Lettere: suicidi in carcere, servono soluzioni di Carmelo Musumeci La Nazione, 27 ottobre 2010 Dall’inizio dell’anno i suicidi in carcere sono 55 e nessuno ne parla. Molte persone al di là del muro di cinta si domandano perché molti detenuti si tolgano la vita. Invece molti detenuti al di qua del muro si domandano quale motivo hanno per non togliersi la vita. Una volta il carcere era solo una discarica sociale, ora è diventato anche un cimitero sociale. E da un po’ di anni a queste parte la cosa più difficile in carcere non è più morire, ma vivere. I detenuti in carcere vengono controllati, osservati, contati, ogni momento del giorno e della notte, eppure riescono facilmente a togliersi la vita. Diciamo la verità: i detenuti non sono amati e non importa a nessuno se si tolgono la vita. Ormai le persone perbene si voltano dall’altra parte, mentre altri fanno finta di non vedere quello che vedono. Eppure di questa “gentaglia” non andrebbe buttato via nulla, perché con lo slogan “Tutti dentro” e “Certezza della pena” i partiti più forcaioli vinceranno le prossime elezioni. Lo Stato non fa nulla per evitare la morte in carcere, non per niente l’Italia è il Paese più condannato della Corte Europea dei Diritti Umani. Sardegna: si studia trasferimento di 50 internati sardi dall’Opg di Montelupo in strutture dell’isola La Nazione, 27 ottobre 2010 Da gennaio dell’anno prossimo i 50 detenuti sardi ricoverati nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino saranno a carico della Regione. Per la Sardegna il trasferimento sarà molto oneroso: la nostra Isola è rimasta l’unica in Italia a non aver attuato il passaggio della Sanità penitenziaria dallo Stato alle Asl (se ne discuterà giovedì in Consiglio regionale). Da gennaio i pazienti detenuti costeranno alle casse regionali 200 euro al giorno ciascuno. Nell’Opg toscano sono internati detenuti provenienti da Umbria, Toscana, Liguria e Sardegna. Le prime tre hanno formalizzato il passaggio di competenze e hanno riportato a casa i pazienti. La nostra Isola ancora no. Tradotto, dall’anno prossimo, visto che ancora niente è stato deciso sul loro destino, la Toscana ci addebiterà la retta per ogni internato. I conti sono presto fatti: 10 mila euro al giorno, 300 mila euro al mese, 3,6 milioni all’anno. Certo, il ricovero in strutture sarde avrebbe dei costi, anche elevati, ma almeno quei soldi contribuirebbero a dare una boccata d’ossigeno all’economia isolana. Invece no, verranno spesi in Toscana. L’argomento è delicato. A parte la questione burocratica, ancora in alto mare, non sono state ancora identificate le strutture destinate all’ospitalità degli internati. La scelta è complicata, anche perché deve essere fatta in funzione di tre livelli di protezione : ad alta intensità assistenziale (con la vigilanza della Polizia penitenziaria), a residenzialità attenuata o a residenzialità abilitativa. Il progetto c’è, ma è da brividi. I detenuti rinchiusi alla Rotonda di Tempio presto verranno trasferiti nel nuovo istituto. Così gli internati potrebbero finire nelle celle, modificate ma sempre celle, della vecchia struttura tempiese. Ma chi sono gli internati sardi? Per lo più hanno subito processi per reati di scarsa rilevanza. Dal punto di vista giuridico sono imputati prosciolti per vizio di mente al processo, ritenuti incapaci di intendere e volere a causa di un’infermità psichica totale. Internati in un Opg per 5 o 10 anni, al termine dei quali veniva rivalutata da medici e magistrati la pericolosità sociale. Se l’internato non risultava più socialmente pericoloso veniva scarcerato, in caso contrario doveva essere nuovamente internato. C’è qualcuno rinchiuso da oltre 25 anni per banali furtarelli o oltraggio a pubblico ufficiale: ergastoli bianchi. “Il nostro obiettivo è di trasferirli tutti in Sardegna, ma prima sarà necessario predisporre adeguate strutture per riceverli ed accoglierli in modo idoneo”, precisa l’assessore regionale alla Sanità Antonello Liori. “Pensiamo a tre strutture alternative all’Opg, che abbiano non più di 16 posti ciascuna, con moduli distinti per livello di sorveglianza. Il Ministero ha promesso 3 milioni di euro, ma la Regione è disposta a incrementarli”. Lazio: il Garante; cambia il volto della detenzione minorile, meno stranieri e più italiani Asca, 27 ottobre 2010 Nel Lazio cambia il volto della detenzione minorile. Se, fino a pochi anni fa, detenuti minorenni e giovani in carico ai Servizi Minorili erano in maggioranza stranieri, negli ultimi tempi è cresciuta in maniera preoccupante la quota degli italiani. Cambia anche il tipo di reati: gli stranieri commettono soprattutto reati contro il patrimonio, (furti) gli italiani sono autori di condotte più gravi. I dati sono stati diffusi alla presentazione del Protocollo d’Intesa fra Garante dei Detenuti Angiolo Marroni e Donatella Caponetti, Dirigente del Centro per la Giustizia Minorile del Lazio, organo decentrato del Dipartimento Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia. Nel 2009 all’Istituto Penale Minorile (IPM) di Casal del Marmo si è registrato un aumento delle presenze medie giornaliere, con 52,2 ragazzi a fronte dei 49,6 del 2008 e dei 46 del 2007. In valore assoluto lo scorso anno all’Ipm sono passati 192 giovani: 50 italiani (48 uomini e 2 donne, la maggioranza fra i 16-17 anni) e 142 stranieri (97 uomini e 45 donne). Gli italiani sono passati dagli 8,1 di media del 2007 (17,6%) ai 17,8 del 2009 (34,1%), Scende la media degli stranieri passati dai 37,9 del 2007 (82,3%) ai 34,4 dello scorso anno (65,9%). Per quanto riguarda le imputazioni, gli stranieri sono accusati sopratutto di reati contro il patrimonio. Più gravi i reati dei minori italiani: omicidio (2 accusati), tentato omicidio (6), violenza sessuale di gruppo (3), rapina (22) ed estorsione (5 accusati). Lo scopo del Protocollo è di garantire i diritti fondamentali alla formazione professionale, allo studio, alla salute e al reinserimento sociale dei giovani reclusi mediante la promozione di interventi di qualità e di misure strutturali volte a migliorare i Servizi offerti ai minori detenuti. “La Giustizia Minorile - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - è un pezzo pregiato del nostro sistema di esecuzione penale preso ad esempio in Europa visto che le professionalità che vi lavorano si sono dimostrate all’altezza dei cambiamenti che si registrano negli ambiti giovanili. Da anni lavoriamo, con reciproca soddisfazione, con il Centro per la Giustizia Minorile del Lazio perchè siamo convinti che, in una fase socialmente critica come quella attuale, è importante assicurare una rete di garanzia ai minori che hanno problemi con la giustizia. In più, la giustizia minorile presenta numerosi ambiti di riflessione per il mondo giudiziario degli adulti come la gestione del trattamento del minore, in carcere e fuori, e in particolare alla messa in prova. Una misura che, pur essendo punitiva, ha dato risultati positivi per ridurre l’ingresso in carcere”. Ancona: i Radicali denunciano; detenuti morti per somministrazione eccessiva di psicofarmaci Il Messaggero, 27 ottobre 2010 “Eccessiva somministrazione di farmaci nel carcere di Montacuto”. È quanto denuncia Andrea Granata, segretario dell’associazione radicali Marche, ipotizzando possibili responsabilità interne alla casa circondariale sulla morte di Alberto Grande, il detenuto di 22 anni, napoletano, deceduto in cella venerdì scorso. La terza morte in pochi mesi nel penitenziario anconetano, dopo quelle di un marocchino di 27anni e di un tunisino di 26. “Il decesso del giovane - dice Granata - probabilmente è stato dovuto alla massiccia assunzione di farmaci, come i due suicidi che l’hanno preceduto. Dove i risultati dell’autopsia disposta sul corpo del 22enne napoletano dovessero confermare l’ipotesi della massiccia assunzione di psicofarmaci, ci attendiamo che senza ulteriore indugio l’autorità giudiziaria si occupi di accertare eventuali profili di responsabilità penale”. Stando ai radicali esisterebbe, come più volte denunciato dal partito, un problema psicofarmaci nelle carceri italiane, dato da somministrazioni ai fini non terapeutici ma di sedazione istituzionale legata anche al sovraffollamento delle case circondariali. Grande da tre mesi stava scontando una condanna per rapina. A luglio, insieme ad un amico tunisino, aveva sequestrato un tassista, a bordo del mezzo di servizio, tenendolo in ostaggio per una notte sotto la minaccia di una pistola scacciacani. Grande era salito sul taxi alla stazione di Ancona e aveva obbligato il tassista a guidare fino a Senigallia, a forte velocità, facendo numeri da film sul lungomare. Questo fino all’arrivo dei carabinieri che lo avevano arrestato. Le tre morti consecutive, che si sono verificate nel carcere di Montacuto, hanno portato anche le senatrici del centrosinistra Marina Magistrelli, Silvana Amati e Luciana Sbarbati a presentare un’interrogazione al ministro della Giustizia Alfano proprio per una sospetta intossicazione di farmaci o oppiaci. Il carcere di Montacuto più volte è balzato alla cronaca per il problema del sovraffollamento che metterebbe a rischio sia la vita dei detenuti che degli agenti di polizia. Firenze: al via inchiesta della Procura sulle condizioni di vita a Sollicciano e nell’Opg di Montelupo La Repubblica, 27 ottobre 2010 Montelupo tra degrado e affollamento, così l’ospedale finisce sotto inchiesta. La procura fiorentina apre un fascicolo anche sulle condizioni dei reclusi a Sollicciano. Dopo una visita della Commissione Sanità a Montelupo, il senatore Marino aveva presentato un esposto. La procura di Firenze ha aperto un “fascicolo esplorativo” sulle condizioni dei reclusi nel carcere fiorentino di Sollicciano e nell’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Montelupo. L’iniziativa della magistratura, che al momento non ipotizza né reati né responsabili, segue un esposto della Camera penale fiorentina (per Sollicciano) e i sopralluoghi negli Opg svolti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficienza del Servizio sanitario nazionale. In una nota, illustrando i motivi dell’esposto, nel giugno scorso la Camera penale ricordava, tra l’altro che “a Sollicciano, alla data del 29.05.2010, risultavano recluse 957 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 476 unità e tollerabile di 760. Ad oggi, dall’inizio del 2010, ci sono stati 31 suicidi, 44 tentativi di suicidi”. I sopralluoghi della Commissione parlamentare riguardarono gli Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Aversa (Caserta), Napoli, Montelupo Fiorentino (Firenze), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mantova). I commissari riscontrarono carenze in tutte le strutture, a parte quella lombarda. Ignazio Marino, presidente della commissione, spiegò che, secondo lui, l’Opg di Montelupo “è una struttura da chiudere” e parlò di “situazione grave”. Favignana (Tp): la Uil contro il ministero; due carceri sull’isola sarebbero impossibili da gestire La Sicilia, 27 ottobre 2010 Avviata una petizione per contestare il ministero, firma anche il sindaco. Appello al prefetto. “È impensabile procedere ad aprire la nuova struttura senza il necessario adeguamento degli organici” “Se anche il sindaco Lucio Antinoro, ha inteso firmare la nostra petizione per non aprire il “nuovo” carcere di Favignana senza aumentare l’organico del Corpo di Polizia Penitenziaria è segno che qualche ragione l’abbiamo”. Per il segretario regionale della Uilpa Penitenziari, Gioacchino Veneziano, l’iniziativa messa in campo ieri - un sit in dinanzi all’ingresso del carcere - è stata un successo. “In appena 3 ore sono stati circa 300 i cittadini che hanno apposto la loro firma”. “Il sindaco - dichiara Veneziano- con grande sensibilità ha ricevuto la delegazione Uilpa Penitenziari ed ha voluto porre in evidenza alcuni aspetti che lo preoccupano. Non solo di ordine pubblico quant’anche di mera gestione amministrativa. L’apertura del nuovo carcere e la contestuale sopravvivenza della vecchia struttura del San Giacomo, infatti, metterebbe in seria difficoltà la comunità di Favignana sia per quanto concerne la possibilità di una puntuale erogazione di acqua potabile che per la possibilità di raccolta dei rifiuti solidi urbani. Lucio Antinoro è d’accordo con la Uil anche sulla richiesta di investire il prefetto di Trapani per una valutazione a 360° delle problematiche, comprese quelle afferenti la mobilità agevolata del personale sui mezzi di trasporto via mare”. La manifestazione origina dalla palesata volontà del ministero della Giustizia e dell’ Amministrazione Penitenziari di aprire il nuovo carcere senza alcun confronto con le rappresentanze sindacali. “A parte le ragioni logistiche sottolineate dal sindaco che non possiamo non condividere - conclude il segretario regionale della Uilpa Penitenziari - è impensabile procedere ad aprire la nuova struttura senza il necessario adeguamento degli organici di polizia penitenziaria e del personale amministrativo. Ne è pensabile di trasferire sic et simpliciter i detenuti e il personale da una struttura all’altra. In tal modo si potrebbe anche raggiungere l’ obiettivo di migliorare la vivibilità per i detenuti, e non è poco, ma resterebbero ferme tutte le attività complementari, comprese le lavorazioni. Soprattutto, però, si continuerebbe a non garantire i diritti al personale, che non può continuare a scontare sulla propria pelle l’incapacità organizzativa dell’Amministrazione Penitenziaria”. Alghero: 240 detenuti a fronte di solo 80 agenti, nel carcere è “emergenza personale” www.alguer.it, 27 ottobre 2010 La situazione del carcere di Alghero è la più grave degli istituti della Sardegna e in mancanza di un intervento urgente rischia di accusare pesanti problemi di sicurezza. La popolazione carceraria è di 240 detenuti, a fronte di solo 80 unità in servizio, con una percentuale di 2,7 detenuti per ogni unità di Polizia Penitenziaria. È evidente, tra le problematiche, la sperequazione rispetto al carcere di Sassari, in cui operano 160 agenti per 180 detenuti. L’Istituto di Alghero non è più l’isola felice nella realtà isolana, quando nel 2000 ospitava 80 detenuti e 130 agenti. La situazione odierna è gravissima, decisamente più allarmante di quella dei carceri di Buoncammino, Iglesias e Tempio, carceri che vivono situazioni simili ma non di questo livello di gravità. Oggi nell’istituto di pena di Via Vittorio Emanuele c’è stato un incontro a cui ha partecipato il Sindaco Marco Tedde, con il Commissario del reparto di Polizia Penitenziaria, Antonello Brancati, insieme al segretario nazionale del sindacato Ugl del settore, Giuseppe Moretti, al segretario regionale Salvatore Argiolas, ai segretari delle Provincie di Sassari, Nuoro, Cagliari, Luigi Taula, Libero Russo e Alessandro Cara. Alla gravissima carenza di personale si aggiungono una serie di problematiche legati ai trasferimenti dei detenuti; Alghero è infatti sede di aeroporto e le traduzioni aggravano la già deficitaria situazione dell’organico. L’incontro è stato chiesto dall’Ugl, che ha chiamato ad Alghero il segretario nazionale insieme al sindaco di Alghero per fare un fronte comune con l’Amministrazione penitenziaria per tentare di riportare serenità e dignità lavorativa nel carcere di Alghero. Terni: il presidente Pizz’Abruzzo insegna l’arte della pizza ai detenuti www.primadanoi.it, 27 ottobre 2010 Dall’Abruzzo a Narni, in Umbria, per guidare gruppi di detenuti del carcere di Terni alla preparazione di pizze all’interno del Festival “Eruzioni”, organizzato dall’Associazione culturale ternana e che si svolgerà dal 28 al 31 ottobre prossimi. Si tratta di Nicola Salvatore, residente a Castel Frentano, presidente di Pizz’Abruzzo Doc e che metterà la propria esperienza per completare la formazione di detenuti che frequentano un corso di panetteria, pizzeria e pasticceria nel penitenziario umbro. Per quattro giorni lo splendido centro storico di Narni sarà occupato da spettacoli, convegni, presentazioni di libri. Tutto il comparto alimentazione e ambiente della rassegna sarà imperniato sulla lotta agli sprechi, sui consumi “a chilometro zero” e sull’educazione alimentare soprattutto delle giovani generazioni. Ci sarà anche un premio, “L’Anello d’Oro”, ispirato alla Corsa dell’Anello, la più importante manifestazione folkloristica narnese, che sarà assegnato all’astronoma Margherita Hack, all’attore e regista Moni Ovadia e al giornalista Antonio Padellaro. Anche per Nicola Salvatore è previsto un riconoscimento per il lavoro da lui svolto l’anno scorso, durante l’emergenza terremoto a L’Aquila, quando i pizzaioli di Pizz’Abruzzo Doc si sono prodigati nella tendopoli di Barisciano. Nicola Salvatore, maestro pizzaiolo di lungo corso e di esperienza e professionalità conclamate, incontrerà anche alcuni dei volontari narnesi e ternani della Protezione civile che, nei mesi post sisma, prestarono la loro opera in Abruzzo. Ma il suo impegno nel Festival sarà più articolato: tutte le sere, dalle 19,30 a mezzanotte sfornerà pizze… eccezionali non soltanto per la loro bontà, ma proprio perché gli impasti verranno preparati dai detenuti, che dall’incontro con Nicola Salvatore certamente potranno arricchire la loro specializzazione in vista del futuro. E prima di mandare in tavola le pizze, tra l’altro, Salvatore intratterrà tutti coloro che vogliono scoprire i segreti della pizza, con estemporanee brevi lezioni di “Pizza in casa”. L’invito a partecipare alla kermesse gli è arrivata da Vito Saturno, editore e direttore della “Guida alle Pizzerie d’Italia Edikronos”, che presenterà in anteprima per l’Italia la nuova edizione della Guida. Genova: il premio “Donna fuori dal coro” alla direttrice del carcere di Milano Bollate Ansa, 27 ottobre 2010 Anche la direttrice del carcere di Bollate (Milano), Lucia Castellano riceverà il premio “Genova: Una donna fuori dal coro”. Il premio è organizzato da Terziario Donna e Ascom Confcommercio Genova e Lucia Castellano è stata ritenuta un “esempio unico nel panorama italiano per programmi innovativi di riabilitazione e reinserimento dei detenuti”. Il riconoscimento è andato, tra le altre, a Claire Hajaj, paladina della difesa dei diritti dei bambini iracheni e Mira Shiva, medico indiano, fondatrice del movimento dei “Popoli per la Salute”. Immigrazione: in Puglia cure e medico di base agli stranieri anche se senza permesso di soggiorno Il Manifesto, 27 ottobre 2010 Sì alle cure urgenti e alla scelta del medico di base per gli stranieri con codice Stp (ossia gli stranieri temporaneamente presenti). Il presidente del Consiglio dei ministri aveva impugnato di fronte alla Corte Costituzionale la legge con cui la Regione Puglia, a larga maggioranza, del Consiglio, aveva assicurato l’assistenza sanitaria agli immigrati anche irregolari. E ora arriva la sentenza della Consulta (n. 299/2010). Con questa sentenza, del 22 ottobre scorso, la Corte respinge quasi integralmente il ricorso presentato dal premier Berlusconi. Sono quindi tutelati i diritti fondamentali degli immigrati (anche non in regola con il permesso di soggiorno) a cui assicurare le cure urgenti e continuative, comprese la scelta del medico di fiducia e l’assistenza farmaceutica. La legge regionale n. 32/2009 prevede infatti che “gli stranieri assistiti; con il codice Stp abbiano diritto alla scelta del medico di base (non previsto dalle disposizioni nazionali)”. E questa disposizione vale anche per i cittadini neocomunitari. E ancora “la legge regionale prevede anche che ai cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultano assistiti dallo stato di provenienza, privi dei requisiti per l’iscrizione al Ssn (Servizio Sanitario Regionale) e che versino in condizioni di indigenza, sono garantite le cure urgenti, essenziali e continuative attraverso l’attribuzione del codice Eni (europeo non in regola). In linea con la Costituzione Sono state ritenute anche le politiche di inclusione sociale previste dalla legge regionale pugliese anche sotto l’aspetto di misure alternative alla detenzione (quali, ad esempio, la disponibilità di un alloggio)”. “E una vittoria sul fronte delle politiche di salute, dell’inserimento socio lavorativo, ma anche dì tutte le politiche di settore per l’integrazione piena degli immigrati”, afferma l’assessore al welfare della regione Puglia, Elena Gentile. Mondo la denuncia dell’Onu; calpestati i diritti umani di milioni di detenuti di Giampaolo Pioli e Donatella Mulvoni Affari Italiani, 27 ottobre 2010 È la realtà emersa dal rapporto presentato da Manfred Nowak, inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura. Sono state visitate le prigioni di 18 Stati. “Se i membri di ogni Parlamento, prima di iniziare il loro mandato, passassero una settimana in un qualsiasi centro di detenzione, imparerebbero molto sullo stato dei diritti umani nel loro Paese”. Manfred Nowak, inviato speciale Onu contro la tortura, chiude il suo mandato durato sei anni con un report molto negativo sul rispetto dei diritti umani nel mondo. Il maggior punto di osservazione è stata la prigione. “Abbiamo dieci milioni di detenuti. Gran parte di loro sono trattati in modo disumano. Non hanno accesso all’ora d’aria, non possono vedere i parenti, hanno subito processi sommari, vivono in celle sovraffollate e sporche”. Per Nowak si tratta di una “crisi globale della detenzione” che ben esprime la condizione dell’intera società. In ben diciassette dei diciotto Paesi visitati sono stati riscontrati casi di tortura. “In alcuni Stati erano isolati e limitati, in altri facevano parte della quotidianità” spiega Nowak. Si salva solo l’Inghilterra. Prima fra tutti Guantanamo Bay. Nonostante giudichi l’amministrazione Obama molto più attenta e impegnata di quella Bush, per l’inviato speciale Onu “quel carcere rimane illegale. I detenuti ci sono ancora, anche se hanno più speranze”. I diritti umani sono ridotti al minimo in Paesi come Jamaica, Nigeria, Papua New Guinea. “Qui ho trovato una generale atmosfera di violenza e povertà. In molti casi le peggiori aggressioni provenivano proprio dalle guardie carcerarie”. Cuba invece ha ritrattato l’invito, impedendogli l’ingresso. “Anche con gli Usa è stato difficile ottenere il permesso di poter parlare da solo con i detenuti”. Notizie tutt’altro che positive provengono poi dalla Grecia, impegnata come il resto dell’Europa, ad arginare il problema dell’immigrazione. “Migliaia di persone sono trattate come animali. Il fatto che non abbiano i documenti sembra giustificare le crudeltà nei loro confronti”. Nel 1984 fu firmata la Convezione Onu contro la Tortura (Cat). Vent’anni dopo, l’inviato delle Nazioni Unite, non ha registrato alcun miglioramento. “I diritti umani dei più deboli sono ancora calpestati perché gli Stati non si sono impegnati ad applicare le leggi internazionali. I governi devono ricordarsi che la tortura non è la giusta arma per combattere i crimini”. Manfred Nowak, che durante il mandato ha svolto regolarmente la sua professione di insegnante a Ginevra, dei dieci milioni di detenuti totali, ne ha intervistato un migliaio, rinchiusi nelle carceri di 18 Paesi. “Ho visitato solo il 10% degli Stati, ma ho cercato di selezionarli tenendo conto dell’area geografica, della loro storia e del sistema politico in modo che fossero rappresentativi. Non essendo un impiegato Onu, ho cercato di dedicargli più tempo possibile compatibilmente con il mio lavoro”. Un impegno per il momento abbastanza limitato nei confronti di un problema che secondo il professore dovrebbe diventare centrale al Palazzo di Vetro. Iraq: Tareq Aziz condannato a morte, appello dell’Europa e del Vaticano per salvarlo di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 27 ottobre 2010 “Se gli americani attaccheranno moriremo con il fucile in mano”, diceva Tareq Aziz con lo sguardo stanco e l’eterno sigaro tra le dita nei giorni appena prima la guerra del marzo 2003 e alla vigila del suo ultimo viaggio da Papa Giovanni Paolo II. Stanco, eppure controllato, parlava di morte, ma cercava una via d’uscita a tutti i costi, lui che era definito il “volto presentabile di Saddam Hussein”. Ieri aveva lo sguardo perso nell’aula dell’Alto Tribunale di Baghdad mentre ascoltava la sua condanna a morte. Per impiccagione, come è avvenuto negli anni scorsi per Saddam e una decina di altri dirigenti del vecchio regime baathista. La formula della sentenza è generica: accusato di avere partecipato alla “persecuzione dei partiti religiosi”, con riferimento ovvio all’opposizione sciita massacrata senza pietà nel quasi trentennio della dittatura. Camicia azzurra spiegazzata, apparecchi acustici per i suoi 74 anni portati male e peggiorati dagli acciacchi della lunga prigionia, Aziz a tratti ha appoggiato la fronte al banco, disperato, perduto. I suoi avvocati promettono battaglia. Tornano a puntare sull’identità religiosa di Aziz e sulla sua immagine di baathista dal volto presentabile: cattolico caldeo, ex ministro degli Esteri iracheno al tempo dell’invasione del Kuwait nel 1990 e poi della prima Guerra del Golfo. Tanti media occidentali nelle settimane convulse durante l’attacco anglo-americano nel 2003 pensarono sino all’ultimo che lui, approfittando della confusione, avrebbe tradito Saddam. Invece non fu così. Sì consegnò però spontaneamente due settimane dopo l’irruzione dei Marines nella capitale. Alcuni mesi fa venne consegnato dagli americani alla polizia irachena. Un momento delicatissimo per il Paese. Dalle elezioni di marzo ancora non c’è un governo. Le unità combattenti americane si sono ritirate a fine agosto. Restano circa 49 mila soldati Usa con compiti per lo più di addestramento del nuovo esercito iracheno. Ora si parla di un compromesso tra il fronte sciita del premier Nouri Al Maliki e i partiti curdi. I sunniti però si sentono traditi, accusano l’Iran d’interferenze pesanti. Il loro candidato, Yiad Allawi, ha ottenuto un risultato migliore di Maliki. Eppure non riescono a costruire la maggioranza. Il rischio è che tornino al terrorismo. Anche il 44enne primogenito del condannato, Ziad Aziz, legge la persecuzione di suo padre come un nuovo, grave segnale di destabilizzazione interno. “La verità è che Maliki, i suoi padrini a Teheran assieme agli esponenti del vecchio partito sciita Dawa vogliono vendicarsi. Provarono ad assassinare mio padre nel 1980. Ora hanno il coltello dalla parte del manico e non se lo lasciano scappare. Lo uccideranno. Non ci sono dubbi. Avevano promesso che avrebbero rinunciato alle violenze della debaathificazione. Ma non è vero. Sono uomini faziosi, legati a piccole logiche di faide religiose. Non possono far altro che trascinare il Paese nel caos”, ci dice sconsolato per telefono dal suo esilio ad Amman, dove sono rifugiati tanti membri dell’antica nomenklatura legata a Saddam. La madre, Violet, si trova in Yemen. “Anche lei non sa più cosa fare. In passato ha provato a chiedere solidarietà in Vaticano, a Roma, Parigi e altre capitali europee. Ma senza esito”, aggiunge. Ziad Aziz resta scettico nel sentire che Catherine Ashton, Alta Rappresentante per la politica estera europea, ha già chiesto a Baghdad di cambiare la sentenza. “Tre anni fa incontrai alcuni alti esponenti della Santa Sede a Pescara per cercare di arrivare al Santo Padre e lanciare un nuovo appello internazionale. Ma fu inutile. Noi cristiani del Medio Oriente possiamo contare sul loro sostegno solo a parole”, commenta. Eppure qualche fatto arriva. Le proteste della comunità internazionale stanno crescendo. Il presidente Napolitano e il ministro degli Esteri Frattini hanno tra gli altri ribadito appieno la loro condanna della sentenza di morte. Anche il portavoce della Sala Stampa Vaticana, Federico Lombardi. ha ricordato che l’esecuzione di Tareq Aziz impedirebbe “la riconciliazione dell’Iraq”. E Marco Pannella ha aggiunto lo sciopero della sete a quello della fame che aveva iniziato oltre venti giorni fa. Stati Uniti: pena di morte; giustiziato detenuto in Arizona dopo dubbi su utilizzo anestetico Asca, 27 ottobre 2010 È stato giustiziato alle 22.26 di ieri sera (le 07.26 ora italiana di oggi) Jeffrey Landrigan, un detenuto dell’Arizona condannato nel 1989 per omicidio. La sua esecuzione era stata rimandata per i dubbi sul tipo di anestetico da usare per l’iniezione letale. Era infatti emersa la possibilità che gli venisse somministrato un farmaco straniero non approvato dalla US Food and Drug Administration (Fda), ma gli avvocati di Landrigan hanno sporto causa, sostenendo che il condannato avrebbe potuto morire provando grandi dolori. Negli Stati Uniti vi è una carenza generale del sodio tiopentale anestetico, uno dei tre componenti dell’iniezione letale, cosa che ha costretto a rimandare tutte le esecuzioni nel Paese. Landrigan è stato giustiziato solo dopo che lo Stato dell’Arizona ha fornito i nomi dei farmaci, le loro date di scadenza e le prove che il loro utilizzo è stato autorizzato e approvato dalla Fda. I giudici della Corte suprema hanno però stabilito che “non ci sono prove che il farmaco non sia sicuro”. Landrigan è morto nel carcere di Florence.