Giustizia: menzogne da talk show… Bruno Vespa rovescia la realtà del carcere e delle pene di Paolo Persichetti Liberazione, 25 ottobre 2010 Nei giorni scorsi il Corriere della sera ha dato rilievo alla denuncia pubblica lanciata da Sabina Rossa, figlia del sindacalista rimasto ucciso nel gennaio 1979 in un attentato delle Brigate rosse. La donna, oggi parlamentare del Pd, raccontava di essere stata convocata per posta dal tribunale di sorveglianza di Bologna. Un funzionario di polizia l’attendeva per raccogliere su un verbale di “sommarie informazioni” il suo parere riguardo alla domanda di liberazione condizionale presentata da Prospero Gallinari, esponente storico delle Br, ormai al suo trentesimo anno di pena scontata, tra carcere e arresti domiciliari ottenuti a causa delle sue condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario. Da una decina di anni i giudici di sorveglianza hanno istituito una prassi non contemplata dalla norma di legge, l’articolo 176 cp. Ritengono essenziale per la concessione della liberazione condizionale la presenza del perdono dei familiari delle vittime, equiparandola di fatto alla concessione della grazia. Misura di clemenza profondamente diversa che estingue, per intero o in parte, la pena. La liberazione condizionale introduce invece un regime di “libertà vigilata” la cui durata non può oltrepassare i 5 anni. Sabina Rossa ha contestato sia il merito della richiesta che la procedura intrapresa. Altri tribunali di sorveglianza pretendono dal detenuto che voglia farne domanda l’invio di lettere con richiesta di perdono ai familiari delle vittime. Prassi che riapre ferite laceranti e carica sulle spalle dei familiari scelte politiche e giudiziarie che appartengono allo Stato. È quanto sostenuto dalla senatrice Rossa che sottolinea come “il perdono della persona offesa non sia richiesto dalla legge”. Per questo ha anche presentato una proposta di legge, che ha raccolto l’assenso di altri familiari e parlamentari, con l’obiettivo di ripristinare una separazione tra diritto e morale introducendo criteri di giudizio oggettivi, come il comportamento. Giovedì scorso Bruno Vespa ha colto al volo l’occasione per invitare a Porta a porta la senatrice e dedicare una intera puntata alla “giustizia che non fa giustizia”, al “carcere che scarcera”. Un minestrone di disinformazione, di errori grossolani e propaganda forcaiola che metteva insieme situazioni diverse: esecuzione di pene ultradecennali, casi di cronaca nera ancora alle prime indagini come quello d i Sarah Scazzi, delitti a sfondo razzista come quello di Alessio Burtone, vicende passate in giudicato come i nuovi omicidi commessi dal collaboratore di giustizia Angelo Izzo, o i delitti nazisti firmati Ludwig di Abel uscito per fine pena, per dire in sostanza che c’è troppa clemenza in giro nonostante le carceri esplodano, che un condannato arriva a scontare appena un terzo della pena inflitta (panzana grottesca). Un frullato incommestibile di chiacchiere da bar, fandonie e bugie incapace persino di percepire il ridicolo quando, dopo aver denunciato la solita incertezza della pena, nel chiedere alla senatrice Rossa che fine avessero fatto le persone condannate per la morte di suo padre, ha ricevuto come risposta: “uno è stato ucciso nel marzo 1980 in un blitz dei carabinieri del generale Dalla Chiesa in via Fracchia, l’altro è in carcere da più di 30 anni”. Accade così che vi sia una realtà virtuale tutta in bianco e nero, quella raccontata da Vespa, che narra un paese rovesciato dove il crimine se la passa liscia e le vittime non trovano giustizia. E poi il mondo reale come quello descritto nel VII rapporto sulle carceri italiane presentato ieri mattina a Roma dall’associazione Antigone. I detenuti sono 68.527 per soli 44.612 posti letto. Praticamente non ci sono più nemmeno i posti in piedi. Niente a che vedere con le cifre ascoltate nel salotto di Vespa. I semiliberi sono appena 877. Alla faccia del carcere che mette fuori facilmente. L’area penale esterna, cioè quelli che scontano misure alternative per condanne, inferiori o residuali, sotto i due - tre anni, sono 12.492. Tra questi quelli che hanno commesso reati sono appena lo 0,23%. Nel paese dove si racconta che l’ergastolo non esiste più, i “fine pena mai” sono 1491. I detenuti con meno di 25 anni sono invece 7.311, i bambini sotto i tre anni 57. Quelli che hanno commesso violazioni della legge Fini - Giovanardi sulle droghe 28.154, il doppio della media europea. 113 i morti in carcere, di cui 72 suicidi e 18 ancora da accertare. Nei primi 9 mesi del 2010 i suicidi sono già a quota 55. Ad avere solo un anno da scontare sono 11.601, a riprova del fatto che in carcere è più facile entrare che uscire. 43,7% i reclusi (record europeo) ancora giudicabili, tra questi 15.233 in attesa del primo giudizio. Siamo il paese del carcere preventivo, della pena anticipata, della sanzione senza processo dove finiscono solo poveri, immigrati, tossicodipendenti, infermi di mente. Quelli che da Vespa non vedremo mai. Giustizia: carcere come rimozione sociale di Andrea Boraschi (A Buon Diritto) L’Unità, 25 ottobre 2010 Se interrogassimo un campione rappresentativo della popolazione generale su temi quali lavoro, welfare, caro vita, economia, ambiente (e su altri ancora) otterremmo una serie di indicazioni più o meno articolate, ma certamente non univoche, su quali siano i problemi correnti e le relative possibili soluzioni. Ho la netta impressione (confortata da studi recenti) che esistono, invece, almeno un paio di questioni sociali, nel nostro paese, nei confronti delle quali l’opinione pubblica è schierata in maniera più marcata e unilaterale. Una di esse è l’immigrazione; l’altra, significativamente, è la “questione sicurezza”. Non si tralasci di intendere quanto le due siano strettamente (e cupamente) connesse tra loro; e come la seconda preveda, ancor più della prima, nel sentire collettivo, un orizzonte limitatissimo di “soluzioni”. Meglio ancora: se si può pensare al contrasto alla criminalità come a un concorrere di più fattori, si pensa invece alla repressione della criminalità riferendosi a un solo strumento: il carcere. Il problema è che, per quanto questo orientamento sia diffuso, in pochi, pochissimi sanno davvero cosa sono e come funzionano gli istituti di pena nel nostro paese. L’associazione Antigone pubblica annualmente un meritorio rapporto sullo stato dell’esecuzione della pena in Italia. Una lettura che potrebbe rivelarsi istruttiva per molti tra quanti vedono nella “gattabuia” la panacea di ogni allarme sociale. Alcuni dati sono consolidati e cominciano a essere noti persino ai più sordi. Parliamo dei livelli di affollamento (un’edilizia penale che potrebbe al più ospitare 44mila unità e che invece ne conta 68mila); dei tassi di suicidio (maggiorati fino a 20 volte rispetto a quelli che si registrano nella popolazione libera); del fatto che circa 15mila persone sono recluse senza aver neppure affrontato il primo grado di giudizio. Potremmo poi discutere di molti altri indicatori che evidenziano come il carcere, sopra ogni altra cosa, sia una soluzione inefficace, un gigantesco, farraginoso e costosissimo strumento di riproduzione di delinquenza e marginalità. Ma alcuni tra questi indicatori, forse meno eclatanti, ci suggeriscono qualcosa di aggiuntivo: il nostro è il paese con più tossicodipendenti reclusi in Europa, con oltre 25mila stranieri detenuti, spesso solo in virtù del reato d’immigrazione clandestina; e, ancora, con tassi di analfabetismo e scarsa scolarizzazione, tra la popolazione carceraria, altissimi. Non potrebbe darsi, dunque, che il carcere sia divenuto, da strumento di sanzione della criminalità, strumento di rimozione del disagio sociale? Non somiglia forse a una scalcinata quanto feroce macchina di occultamento dell’iniquità e della disparità? Vi si detengono i delinquenti o i più deboli? Giustizia: quei bimbi dietro le sbarre ma senza colpe, a Rebibbia è emergenza di Luciana Cimino L’Unità, 25 ottobre 2010 Dei 57 bambini che “abitano” nelle carceri femminili italiane, i 22 di Rebibbia vivono addirittura in una situazione di sovraffollamento: sei lettini più sei in una sola stanza. In altri penitenziari, un solo bimbo circondato da adulti. Ci sono bambini che non dicono come prima parola “mamma” ma “chiavi” o “apri”. E lo spazio intorno a loro non lo chiamano cameretta ma cella. Sono i figli delle detenute destinati a condividere fino ai tre anni di età lo stesso destino di privazione della libertà delle loro madri, quando non c’è nessun altro familiare a poter provvedere a loro. Nel nostro paese sono 57 i bambini che vivono nelle carceri femminili. Di questi, 22 si trovano nel reparto Nido del penitenziario di Rebibbia, a Roma, in una condizione di angosciante sovraffollamento. “La capienza massima è di 15 bambini - denuncia il Garante per i diritti dei detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni - e l’affollamento crea un disagio aggiuntivo a questi bimbi”. Fino a sei letti più altri sei lettini in una stanza. Per questo da qualche giorno cinque bambini sono costretti a passare la notte in infermeria e quindi “sono a contatto con donne affette da importanti patologie e a rischio contagio”. “Nonostante l’impegno degli operatori e dei volontari la situazione di questi bambini è davvero drammatica - continua il Garante - Non solo sono condannati a trascorrere in una cella l’età cruciale ma per colpa del sovraffollamento, stanno pagando in maniera insopportabile colpe che non sono le loro”. Se negli anni 70 e 80 erano le terroriste a tenere con sé i figli in cella oggi, come a Rebibbia, sono soprattutto ragazze rom e extracomunitarie in carcere per furti o per droga. “Che la prigione non faccia bene ai bambini è indubbio - dice Gennaro Santoro dell’Associazione Antigone - il nostro osservatorio ha riscontrato che i bambini in carcere accusano disturbi nell’umore e ritardo nella parola. Ma il dato di maggiore drammaticità è rappresentato dal fatto che la vita quotidiana dei bambini detenuti varia a seconda dell’istituto di detenzione”. Mentre a Milano, per esempio, è attivo dal 2007 un istituto a custodia attenuata per le madri, senza sbarre, con personale specializzato per l’infanzia e agenti in borghese, ad Avellino i bambini non possono uscire mai dal penitenziario; a Civitavecchia e a Bologna non è presente personale specializzato; in nessun istituto si sono riscontrate iniziative in preparazione del distacco tra detenuta e infante che, categoricamente, avviene al terzo anno di età. E ancora, mentre Rebibbia vive il dramma del sovraffollamento in altri istituti paradossalmente la disgrazia è spesso rappresentata dal fatto che sia presente un solo bambino circondato da persone adulte. Il volontariato non basta “Il fatto è che il bambino in carcere è un aberrazione”, chiosa Leda Colombini dell’associazione A Roma Insieme che da 17 anni si occupa di portare fuori i bimbi di Rebibbia. “Noi ogni sabato li portiamo al bioparco, ai giardini, al mare, a fare tutto quello che fanno i bambini normali per evitare la discriminazione e per ridurre i danni che la carcerazione provoca in un’età tanto importante per lo sviluppo”. Ma secondo Colombini il volontariato non basta. L’obiettivo è che nessun bambino varchi più la soglia di un penitenziario. Per questo 5 anni fa la Consulta penitenziaria del Comune di Roma (che raccoglie oltre 70 realtà di volontariato) e la Comunità di Sant’Egidio hanno presentato una proposta di legge che prevede pene alternative per le mamme. “È la terza legislatura che avvia la discussione sulla legge ma non si riesce a portarla a casa - dice ancora Colombini - ora è ferma alla Commissione Giustizia della Camera, speriamo che la presidente Bongiorno sia più sensibile”. Ma che succede al bambino al compimento del 3° anno d’età? Se la madre resta in carcere e non ci sono parenti prossimi le strade sono due: la casa famiglia o l’affido. Hanno fatto questa scelta Tiziana e Pamela Di Troila, due sorelle romane di 32 e 28 anni che da due anni si prendono cura di due gemelli rom di 5 anni, Antonio e Antonello. Tiziana ha filmato nel 2007 un documentario sui bambini nel carcere di Rebibbia, Vietato ai minori che girato ha numerosi festival. Da li le due sorelle hanno cominciato con il volontariato e infine “è venuto naturale aiutare questa ragazza bosniaca”. E così loro si son ritrovate a gestire due bambini. “Sono sacrifici enormi, perché li portiamo a scuola e poi ogni tanto anche al campo rom sulla Pontina, dove hanno dei fratelli ma l’abbiamo detto all’assistente sociale: siamo sicure che la mamma poi non tornerà a fare quello che ha fatto, perché l’aiuto è concreto”. Giustizia: sui muri gigantografie per “vedere” vita dei detenuti, proposta di legge bipartisan Adnkronos, 25 ottobre 2010 Stampe fotografiche 2x3 sui muri degli istituti di pena nelle grandi città per illustrare la vita quotidiana dei detenuti e ripristinare un contatto tra il mondo carcerario e quello esterno. Sono le “Finestre sul carcere”, progetto proposto in via sperimentale da maggioranza e opposizione con un disegno di legge di cui è prima firmataria la senatrice del Pdl Simona Vicari e che è stato sottoscritto anche da esponenti di Pd e Udc. Una proposta, spiega Vicari, che vuole regolamentare per legge un’iniziativa che l’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia ha già considerato fattibile. “La realtà carceraria del nostro Paese - dice l’esponente del centrodestra - viene affrontata quotidianamente sulla base della percezione del reato. Poco, o quasi mai, si riflette sul percorso e sui luoghi di espiazione della pena”. Le carceri, insomma, “risultano troppo spesso quasi invisibili agli occhi dei cittadini, come fossero microcosmi rimossi”. “L’unica cosa che rimane nell’immaginario del cittadino - spettatore - sottolinea Vicari - è il riconoscimento fisico delle barriere di cui gli istituti penitenziari sono circondati. Sarebbe quindi importante aprire una finestra su questi muri per abbattere il calo della percezione da parte di chi magari tutti i giorni passa accanto a queste strutture che non sono una ‘non società: al proprio interno racchiudono una realtà fatta di persone, luoghi, regole, tensioni emotive; rappresentano un mondo che si muove, in condizioni del tutto proprie, con tempi e modi che non pregiudicano la semplicità delle azioni quotidiane”. Giustizia: Pisapia, anche a Milano seguiamo esempio di Pannella che protesta per le carceri Ansa, 25 ottobre 2010 Marco Pannella ancora una volta richiama le nostre coscienze con lo sciopero della fame che sta portando avanti da più di 20 giorni. Una battaglia non violenta, gandhiana, per reclamare verità e giustizia sulla guerra in Iraq, sul Tibet oltre che sulla malagiustizia carceraria in Italia. È quanto afferma in una nota il candidato sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Sono solidale con lui - aggiunge - e condanno il silenzio mediatico che avvolge, come una cappa irrespirabile, questa sua battaglia personale oltre che dei militanti radicali (e non solo) che a lui si sono uniti. Il problema carceri in Italia e più in particolare a Milano - afferma l’ex presidente della commissione Giustizia della Camera - è da me ben conosciuto. Non è tollerabile che si parli di giustizia solo per difendere gli interessi di pochi (o meglio di uno) quando ormai sono più di 50 i suicidi all’interno dei penitenziari italiani dall’inizio dell’anno e molti dei detenuti sono reclusi in attesa di giudizio oppure potrebbero essere condannati a misure alternative. Come futuro sindaco di Milano - conclude - intendo riporre al centro della vita della città il mondo carcerario, la popolazione carceraria, tutta, che è parte imprescindibile e importante della metropoli ambrosiana. Giustizia: un anno fa moriva Stefano Cucchi, picchiato e torturato di Italo Di Sabato (Responsabile nazionale Osservatorio sulla Repressione) Liberazione, 25 ottobre 2010 L’altro ieri era un anno dalla morte di Stefano Cucchi, il giovane geometra romano di 31 anni, arrestato per una piccola quantità di stupefacenti e morto dopo pochi giorni per le torture, le violenze e i soprusi che ha subito nei vari passaggi dalla caserma dei carabinieri al carcere. Stefano come Federico Aldrovandi, Riccardo Rasman, Aldo Bianzino, Marcello Lonzi, Nick Aprile Gatti, Giuseppe Tunisi, Giuseppe Uva, era solo un ragazzo. Aveva forse commesso uno sbaglio. Questo però non giustifica la fine che ha fatto Stefano e le tante altre “vittime di Stato” né la fatica assurda, disumana, affrontata da famiglie e amici per ottenere la verità. L’opinione pubblica è rimasta spesso indifferente. Morti del genere provocano disagio. La gente preferisce distogliere gli occhi: troppo imbarazzante ammettere che le persone pagate per difenderci finiscano talvolta, magari, per massacrare i nostri figli o i nostri amici. Non si tratta qui di mettere in discussione il ruolo delle forze dell’ordine. Tutti conosciamo persone degne che indossano la divisa, uomini e donne che svolgono un lavoro impegnativo in condizioni difficili. Ma non possiamo ridurre il problema, come spesso si tenta, alla retorica minimizzante delle “poche mele marce”. In primo luogo, inizia a nascere il sospetto che non siano poi così poche; in secondo luogo, viene da chiedersi in quale cultura, in quale speranza di impunità, in quale clima politico queste mele marciscano. Sappiamo che la degenerazione democratica di un paese non è una cosa astratta. Nasce nelle ovattate stanze del potere ma si traduce in vita concreta, ricade a cascata in mezzo a tutti noi, prende corpo nelle strade e nei rapporti tra persone. Impossibile pensare che le contraddizioni e le tensioni di un paese in crisi non si riflettano nelle sue forze dell’ordine, che della convivenza civile in quel paese dovrebbero essere garanzia. Esse sono come un rene sensibile che assorbe le scorie, tutti i veleni di un organismo in difficoltà. Ogni volta che un poliziotto picchia un ragazzo fermato perché aveva qualche grammo di fumo in tasca, o magari alza il manganello su un manifestante inerme, sta. creando uno strappo. La società dei diritti è uno schermo eretto a proteggerci. Ma questo schermo è sempre più a brandelli e ciò che si vede, dietro, è un vuoto spaventoso. Il famoso “fascio soft” in cui molti italiani ritengono di vivere oggi, illiberale ma non certo sanguinario, rischia di rivelarsi non così “soft” quando per ogni minimo motivo, o anche senza motivo, si rischia di incontrare il manganello di un poliziotto. Sono passati più di nove anni da quando molti di noi hanno assaggiato il gusto acre del gas tossico Cs e sono stati inseguiti da frotte di poliziotti sovraeccitati lungo i vicoli di Genova. La macelleria genovese del 2001, madre di tutti i soprusi polizieschi, non ha mai avuto una seria rielaborazione da parte di questo paese. Eppure, a prescindere dalle opinioni politiche, ogni cittadino dovrebbe sentirsi turbato dall’idea di quegli avvenimenti. La maggior parte dei ragazzi pesantemente pestati alla Diaz o di quelli sequestrati e torturati a Bolzaneto non avevano a che fare con alcun atto di vandalismo. La violenza degli agenti fu gratuita e per questo ancora più radicale. E per chi a tutt’oggi si ostina a difendere gli agenti coinvolti, viene da pensare ci sia una sola plausibile giustificazione: il desiderio nascosto, o forse neppure nascosto, di essere stato al posto di quei poliziotti, libero di menare le mani. Non pesa solo l’eredità della Legge Reale. A volte sembra esserci in questo paese un rinnovato desiderio di violenza. C’è chi aspetta di vedere all’opera la mano meno democratica della polizia. C’è chi giustifica le mele marce e contribuisce così al diffondersi della malattia. Ma la gente normale, quella che rifiuta la violenza, quella che desidera sentirsi rassicurata e non impaurita quando vede una divisa: questa gente, cosa può fare? Ma ricordando oggi Stefano Cucchi è doveroso parlare anche della drammatica situazione carceraria. La vicenda di Stefano ha squarciato il velo dell’ipocrisia carceraria, ha aperto uno sguardo pubblico dentro le prigioni e gli ospedali detentivi. Ma la morte di Stefano non ha scosso però le coscienze di chi ci governa. Tutto, dopo le solite lacrime di coccodrillo, è rimasto come prima. Le galere - dimenticate da tutti, governo, opposizione e media - sono ormai al limite estremo di tollerabilità umana. I detenuti sono costretti a vivere in modo indegno, ammassati in spazi di vita impossibili. Il personale penitenziario è anch’esso costretto a una vita massacrante. Mettere a rischio la serenità degli operatori significa mettere a rischio i diritti e l’incolumità personale dei detenuti. I parlamentari di destra e sinistra che hanno visitato le carceri a ferragosto non hanno prodotto una che sia una proposta di soluzione del problema. Il Piano carceri del governo è ormai carta straccia. Periodicamente - e oramai poco credibilmente - il ministro della Giustizia Alfano promette misure eccezionali, espulsioni di massa di stranieri, nuovi programmi di edilizia penitenziaria e nuove assunzioni di poliziotti. Di fronte alla tragedia di una condizione carceraria drammatica, di fronte all’internamento di massa di consumatori di droghe e di immigrati irregolari, di fronte a oggettivi trattamenti inumani e degradanti non si deve chiedere a noi il suggerimento di soluzioni alternative allo status quo. Il sovraffollamento carcerario, la violenza istituzionale, la carcerazione di massa del disagio sociale non sono eventi naturali. Sono il frutto di politiche pubbliche scellerate decise per ottenere consenso. È necessario, quindi, invertire la tendenza politica che dagli anni Novanta in poi ha operato sotto l’insegna dell’ipertrofia legislativa e della bulimia carceraria, se non torniamo a pensare, almeno a sinistra, che il vero senso dello Stato è la prevenzione del crimine e del disagio, è la promozione delle politiche sociali per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 della Costituzione), non risolveremo mai il dramma del carcere e del disagio sociale e non saremo mai competitivi ed alternativi a quelle fabbriche della paura di destra che, invano, nelle elezioni della seconda repubblica il centro - sinistra ha sempre cercato di simulare. Giustizia: Ilaria Cucchi; per qualcuno la sentenza sulla morte di Stefano è già scritta Ansa, 25 ottobre 2010 Una denuncia alla Procura della Repubblica è stata presentata stamani da Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, detenuto per droga morto un anno fa all’ospedale Pertini di Roma. La denuncia, spiega Ilaria Cucchi, si riferisce a ‘quanto accaduto nella scorsa udienza” del processo in corso a Roma. Nell’udienza, secondo quanto riferì Ilaria, “siamo stati scortati fuori dal tribunale dai carabinieri, ci spiace di avere dato tanto fastidio al pm - aggiunge - tanto da doversene lamentare col giudice”. “A fronte delle gravi dichiarazioni rilasciate dal Pm - scrive Ilaria Cucchi - durante la stessa udienza, dove si fa esplicito riferimento a condizionamenti esterni, prendiamo atto che per l’onorevole Giovanardi, che fa parte del governo, la sentenza è già scritta”. Giovanardi ieri aveva invitato la famiglia “di fidarsi dei pubblici ministeri, di non mettersi in conflitto con la pubblica accusa, perché a me sembra di una gravità inaudita il fatto che una persona possa morire perché non viene curata o non viene nutrita. Insistere sulla colpa dei tre agenti, voler a tutti i costi farli condannare per omicidio premeditato quando la stessa accusa non arriva a queste conclusioni, è una strada che consiglierei alla famiglia di non seguire”. “D’altronde - continua Cucchi - non ci stupisce, visto che il professor Albarello aveva dichiarato a Canale 5 che il suo compito sarebbe stato quello di dimostrare la totale responsabilità dei medici, e questo ancor prima di iniziare le operazioni peritali”. Lettere: dalla Casa Circondariale di Padova; in 11 per cella, pronti a protesta con sciopero del vitto Il Mattino di Padova, 25 ottobre 2010 Alla cortese attenzione della direttrice Antonella Reale. Con la presente lettera noi detenuti presso la casa circondariale di Padova, vogliamo esporle i vari problemi che ci sono all’interno di codesta struttura, come pure nelle altre strutture penitenziarie, non solo del nord - Italia, bensì in tutta la penisola. Come anticipato nell’edizione di giovedì 30 settembre dal giornale Il Mattino di Padova dalla dottoressa Antonella Reale (direttrice di codesto istituto penitenziario) ci sono i seguenti problemi: 1) sovraffollamento: dove questo istituto ha la capienza di 96 persone siamo arrivati in questi giorni a toccare la soglia di 271 persone. Celle da quattro persone stipate all’inverosimile, persone costrette a dormire per terra, senza cuscino per giunta, perché al posto di 4 si arriva a 10 - 11 persone per stanza. 2) sanità: detenuti con tipologie mediche di varie entità, costrette a convivere con il male, causa la mancanza di personale medico sanitario specifico, qualsiasi tipologia di dolore viene curato con una semplice tachipirina, o puntura, esempio: mal di testa, cervicali, denti ecc. A volte, le medicine prescritte dai dottori dell’ospedale devono essere acquistate o da noi detenuti di tasca nostra, o dai famigliari, molti dei quali fanno già molti sacrifici. Noi detenuti, se non vedremo un interesse da parte di chi di dovere, ci vedremo a nostro malgrado costretti ad indire uno sciopero in modo pacifico ad oltranza per far sì che il nostro appello non cada nel vuoto, come già accaduto in precedenza. Lo sciopero si svolgerà nel seguente modo: rifiuto del vitto carrello. Lettera firmata Lombardia: Provveditore; lavoro è unica forma duratura sicurezza, 100 detenuti già operano fuori Ansa, 25 ottobre 2010 Un centinaio di detenuti delle carceri lombarde lavora all’esterno e, con il nuovo accordo siglato oggi a Milano con la Confederazione italiana dell’ impresa (Confimea), altri lo faranno. “Visto il grave sovraffollamento - commenta il provveditore regionale delle carceri lombarde Luigi Pagano - il lavoro è l’unica forma duratura di sicurezza sociale, è un investimento e dà prospettive concrete all’invito a cambiar vita”. La Confimea conta 4,4 milioni di addetti, 450mila partite Iva e 520 sedi territoriali in Lombardia e annovera piccole e medie imprese in tutti i settori. “Da tempo - spiega Pagano - perseguiamo queste iniziative di lavoro. Oltre ai detenuti che lavorano all’esterno, ci sono quelli in misure alternative, che in Lombardia registrano la percentuale più alta”. In genere fanno lavori dequalificati, ma firmando nuovi accordi, spiega Pagano, “si spera che ci siano più lavori di qualità e che ci sia la possibilità di coltivare talenti”. Nell’area milanese, al momento, i detenuti sono 1.700 a San Vittore (contro le circa 900 unità ottimali), 1.200 a Opera e 1.100 a Bollate. Anche i lavori interni al carcere stanno aumentando, perché servono a ‘ridurre le tensioni interne e come ponte con il reinserimento all’esternò, ha spiegato Pagano. All’interno possono lavorare tutti, anche i detenuti ad alta sicurezza, come a Opera, dove hanno fatto i gelatai; all’esterno chi non ha commesso reati ostativi. I 100 detenuti che lavorano fuori dal carcere sono concentrati quasi tutti a Bollate (dove ci sono detenuti con pene inferiori ai 3 anni). Gli accordi fatti sono con l’Amsa per il riciclo di rifiuti tecnologici, con il canile milanese, con l’assessorato ai cimiteri, con il Tribunale di Milano per la digitalizzazione di atti giudiziari, con un laboratorio di cioccolateria. E già da ora si cercano accordi per un coinvolgimento nell’Expo. Sardegna: intervista ad Antonella Sini, medico penitenziario; il carcere è in sé una malattia di Monia Melis www.sassarinotizie.com, 25 ottobre 2010 La sanità penitenziaria isolana continua a stare in un limbo: per il momento non è di competenza né del governo, né della Regione. Questo perché la Sardegna non ha ancora recepito il passaggio di competenze dallo Stato, così in questa situazione di stallo mancano i soldi e non è ancora chiaro se il diritto costituzionale alla Salute sarà garantito ai detenuti sardi. Nonostante le dichiarazioni delle scorse settimane dell’assessore regionale, Antonello Liori, gli appelli e gli esposti presentati in Procura dell’associazione Socialismo diritti e riforme guidata da Maria Grazia Caligaris. Per capire meglio quali siano le difficoltà della sanità in carcere, quali le malattie e le patologie più comuni è ora di dare la parola a chi conosce la realtà. Sassari Notizie vi propone la prima parte di un’intervista ad Antonella Sini, medico psicoterapeuta, che ha lavorato per anni al San Sebastiano e nel carcere di Alghero. Gran parte dei reati sono legati alla droga e alla tossicodipendenza, come ricordava anche la direttrice del San Sebastiano, Teresa Mascolo, dati che oscillano e superano il 60 per cento E lo conferma anche la dottoressa Sini, che racconta così il suo lavoro durato ben 21 anni: “Io e i miei colleghi andavamo in carcere a richiesta. Per due problemi in particolare: le crisi di astinenza e la preparazione e lo studio di misure alternative alla carcerazione”. Situazioni di emergenza ma seguite da vicino, con un lavoro di continuità che si fatica a pensare con le risorse che attualmente non ci sono. “Nel primo caso l’astinenza era quasi sempre da eroina, appena la persona entrava, di solito si dichiarava tossicodipendente (anche per ottenere le agevolazioni) e dopo la chiamata cercavamo di risolvere la situazione nel giro di 24 ore, anche di domenica. Ma non si arrivava mai al punto di trovare la persona in un assoluto stato di agitazione. Il detenuto veniva tenuto in isolamento e poi sottoposto a cure farmacologiche”. Ed è la stessa dottoressa che evidenzia le difficoltà attuali: “Io so di un medico addetto alle tossicodipendenze che va alcune ore la mattina, ma senza la reperibilità”. Un particolare che capovolge interamente il sistema di chiamata per urgenza e rallenta le procedure, mettendo in difficoltà operatori e a rischio gli stessi detenuti. L’altro motivo fondamentale per cui Antonella Sini entrava in carcere era la predisposizione di programmi terapeutici - riabilitativi, con richiesta di misure alternative da portare avanti con il Serd o con una comunità terapeutica. Secondo art. 94 d.p.r. 309/90 una persona può lavorare e condurre una vita quasi normale ma deve sottostare alle regole tra cui non frequentare altri tossicodipendenti, e ovviamente non commettere reati. “Negli anni - spiega il medico - ho visto più volte le stesse persone, in parte erano conosciute, perché escono e rientrano sempre per piccoli reati legati alla droga”. Una tendenza che si ripete anche ora nel carcere di San Sebastiano. Le malattie e i centri clinici. Antonella Sini conferma che finora i centri clinici delle carceri che ha visitato funzionavano per casi non gravi, mentre i pazienti che avevano necessità di un ricovero venivano piantonati in ospedale dagli agenti penitenziari. Questa possibilità potrebbe diventare un lusso, secondo quanto dichiarato anche dalla direttrice del carcere, l’aumento dei ricoveri extra sarà una delle conseguenze della situazione di stallo con ricadute su altri capitoli di spesa (ad esempio quella dei turni del personale di guardia). Le malattie più frequenti sono sempre quelle legate alla tossicodipendenza, anche se il medico puntualizza: “Il carcere in sé è una malattia. Ma le patologie più diffuse sono l’epatite evoluta in cirrosi, la C prevalentemente, ma anche la B. Negli ultimi anni si possono curare, le terapie funzionano abbastanza. Ma c’è anche chi attraverso e grazie alla malattia cercava di uscire. Mi è capitato di avere utenti gravemente ammalati di Aids e di epatite a cui ho consigliato “Forse è meglio che resti in carcere che così vieni curato, altrimenti fuori”. Capita infatti che i detenuti di questi tipi di reati siano poveri e le cure che devono affrontare richiedono oltre ai soldi tempo e costanza. Chissà se i medici che ruotano attorno al carcere se la sentiranno di dare consigli simili, con la carenza assoluta di assistenza interna che si prospetta. Trentino: approvato Decreto Legislativo, ora la sanità nelle carceri compete alle province Il Trentino, 25 ottobre 2010 Mario Malossini è soddisfatto. Molto soddisfatto. Lo si avverte chiaramente dalla sua voce mentre, al telefono, spiega quanto sia importante il risultato ottenuto dalla Commissione dei 12 che egli presiede. Il Consiglio dei ministri, infatti, ha approvato ieri quattro Decreti Legislativi che contengono norme di attuazione di Statuti delle Regioni a statuto speciale Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. Per quanto riguarda il Trentino Alto Adige, il primo decreto legislativo dispone il trasferimento alle Province autonome di Trento e di Bolzano delle funzioni statali relative all’assistenza sanitaria ai detenuti e agli internati negli istituti penitenziari e quelle relative ai servizi minorili per la giustizia. Tra le funzioni trasferite sono comprese anche quelle concernenti il rimborso alle comunità terapeutiche, sia per i tossicodipendenti che per i minori affetti da disturbi psichici. “Un risultato importantissimo - continua Malossini - per raggiungere il quale mi sono speso molto in prima persona. Le condizioni attuali all’interno delle carceri, nel nostro caso a Trento, Rovereto e Bolzano, sono indescrivibili. Ora, nel giro di poche settimane, dopo il decreto del presidente del Consiglio, le cose cambieranno drasticamente. Il personale sanitario passerà dallo Stato alla Provincia e sarà compito della Provincia provvedere all’acquisto di materiali e attrezzature, così come quello di monitorare la situazione e intervenire per risolvere eventuali problemi. Inutile dire che i tempi di intervento si ridurranno notevolmente rispetto ad ora”. Calabria: il Prap avvia la realizzazione del “polo della legalità” Agi, 25 ottobre 2010 Via libera alla realizzazione del polo della legalità in località “Pistoia” nell’immobile concesso in comodato d’uso gratuito dal Comune di Catanzaro all’amministrazione penitenziaria. Una struttura che, come è stato più volte sottolineato, costituirà un forte deterrente ai fenomeni di criminalità organizzata che si registrano nei quartieri a sud, attraverso la presenza stabile del personale della polizia penitenziaria e di un sofisticato sistema di videosorveglianza. Il Provveditore regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Nello Cesari, ha informato il sindaco Rosario Olivo che la Direzione generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha avviato formalmente le procedure tecnico - amministrative finalizzate alla ristrutturazione dell’intero stabile, dando così attuazione - “agli impegni assunti da questo Ufficio, come cristallizzati nel contratto e nel successivo atto di integrazione che ne ha ampliato la destinazione d’uso originariamente stabilita”. Cesari, nella comunicazione inviata al sindaco Olivo, ha ricordato che “la struttura ospiterà la sede della Centrale Regionale di coordinamento, cioè di un sistema di collegamento centralizzato, dotato di impianti, monitor, sala trasmissione per la visualizzazione ed il coordinamento degli automezzi dell’Amministrazione, inserito in un sistema di collaborazione operativa tra le cinque forze di polizia”. “Inoltre - ha proseguito il Provveditore regionale - conformemente alla ratio dell’originaria destinazione, il fabbricato ospiterà l’Ufficio regionale della Formazione e Aggiornamento dei quadri dirigenti e direttivi appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria, che opererà in collaborazione con l’Università del Capoluogo, degli Enti locali e delle territoriali agenzie formative”. “Peraltro, in considerazione che i predetti uffici sono incardinati nella struttura di questo Provveditorato, si ritiene, nel rispetto della nuova destinazione d’uso, che lo stabile possa diventare la sede degli uffici dell’Amministrazione Penitenziaria non propriamente carceri (Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria e Ufficio dell’esecuzione Penale esterna di Catanzaro), al fine di consentirne un migliore ed efficiente funzionamento”. Il sindaco Olivo ha parlato di “importante risultato ottenuto in materia di sicurezza e controllo del territorio in una zona a rischio come quella di Corvo - Aranceto - Pistoia”. Ancona: 22enne morto in carcere, per un’intossicazione di farmaci o per overdose di stupefacenti di Alessandra Pascucci Il Resto del Carlino, 25 ottobre 2010 L’autopsia sul 22enne parla chiaro. Aperte due inchieste: qualcuno non ha vigilato? Quella di Alberto Grande è la terza morte nel giro di pochi mesi nel penitenziario anconetano. Il 25 settembre morì in circostanze sospette. Ajoub Ghaz, tunisino. Il primo caso di morte sospetta nel carcere di Montacuto risale invece al mese di maggio di quest’anno, quando un 27enne marocchino è stato ritrovato senza vita steso sul pavimento della cella. Alberto Grande non risultava affetto da particolari patologie che ne minassero la salute. Sarebbe stata un’intossicazione a provocare il decesso di Alberto Grande, il 22enne trovato morto venerdì mattina nella sua cella del carcere di Montacuto, dove si trovava da poco più di tre mesi. L’autopsia eseguita ieri pomeriggio dal medico legale, il dottor Mauro Pesaresi, su disposizione del sostituto procuratore Irene Bilotta, ha escluso che il giovane sia morto per cause traumatiche, né sono emerse patologie o malformazioni che possano giustificare il decesso. All’esame autoptico ha partecipato anche il dottor Roberto La Rocca, perito incaricato dalla famiglia di Alberto. Per approfondire l’ipotesi dell’intossicazione da sostanze esogene formulata dagli esperti di medicina legale è stato disposto un esame tossicologico, i cui risultati potranno chiarire se sia stato un mix di farmaci, oppure l’assunzione di sostanze stupefacenti, a costare la vita al giovane. Entrambe le ipotesi aprono però mille interrogativi sulle procedure di controllo adottate nel carcere anconetano, tanto sulla somministrazione di medicinali quanto sull’introduzione di sostanze stupefacenti, specie dopo la morte avvenuta in circostanze molto simili il 25 settembre, quando fu ritrovato agonizzante il tunisino Ajoub Gazh, di appena 26 anni. Entrambi molto giovani, entrambi detenuti a Montacuto da 3 mesi, i due ragazzi stavano uscendo dalla tossicodipendenza e veniva loro somministrato metadone, abbinato a tranquillanti. Anche per il tunisino, rispetto al quale era stata ipotizzata inizialmente un’intossicazione da farmaci, si attendono i risultati dell’analisi tossicologica. In carcere la somministrazione di farmaci avviene tassativamente dietro prescrizione medica e l’assunzione dovrebbe essere attentamente controllata: al detenuto il medicinale viene consegnato in infermeria, dove deve avvenire anche l’assunzione, sotto gli occhi di un infermiere e di una guardia carceraria. Che in questo caso sia mancata la vigilanza prevista? Che il 22enne abbia eluso i controlli, accantonando farmaci che poi ha assunto tutti insieme? Che sia riuscito a procurarsi sostanze stupefacenti, dall’effetto potenzialmente letale se abbinate al metadone? Oppure non è stato valutato attentamente l’effetto dei farmaci prescritti? Interrogativi che gettano un’ombra sulla gestione del carcere. Accanto all’inchiesta aperta dalla Procura di Ancona, che escluderebbe decisamente l’ipotesi del gesto volontario, l’amministrazione carceraria ha aperto un’inchiesta interna, come avviene per prassi: in attesa dei risultati tossicologici, si vuole approfondire se sia mancato il necessario controllo. Intanto ieri mattina sono stati ascoltati i 4 detenuti che dividevano la cella con Grande, che hanno riferito di non aver notato nulla di irregolare. Il ragazzo non aveva risposto quando lo avevano chiamato per la colazione e, quando si sono avvicinati per svegliarlo, si sono accorti che era morto. “Attendiamo i risultati delle analisi medico legali - commenta Manuela Ceresani, dell’amministrazione carceraria - ma va tenuto presente che, nonostante la giovane età, l’assunzione prolungata di sostanze stupefacenti potrebbe compromettere la salute di chi le assume”. La rabbia della madre: nessuno ci ha avvisato di quanto era successo Nessuno li aveva avvisati che il figlio era stato trovato morto in carcere venerdì mattina, sono stati informati del decesso 24 ore dopo, mentre si trovavano davanti ai cancelli di Montacuto per la visita settimanale. Per i genitori di Alberto Grande, napoletani residenti da 5 anni a Falconara, allo strazio di avere perso un figlio di appena 22 anni si è aggiunta tanta rabbia: per non essere stati informati di quanto accaduto (la notizia della morte è gli è stata comunicata dall’avvocato Andrea Coen, che seguiva Alberto per la rapina al tassista che gli era costata il carcere) e per una morte avvenuta in una struttura vigilata, dove i controlli medici e penitenziari dovrebbero matematicamente escludere una morte per intossicazione. “Parlano di Napoli ma mio figlio è morto ad Ancona - si sfogava ieri pomeriggio la mamma con amici e familiari -. Non è possibile che un ragazzo di 22 anni entra sano e esce cadavere dal carcere. Andrò fino in fondo a questa storia a costo di smuovere il Padreterno”. I genitori di Alberto hanno incaricato l’avvocato Emanuele Giorgini di rappresentarli in questa vicenda e ieri il legale li ha accompagnati all’obitorio di Torrette, dove è stata eseguita l’autopsia. “È scandaloso che l’amministrazione penitenziaria non abbia informato la famiglia - commenta l’avvocato Giorgini - abbiamo chiesto spiegazioni e da quanto siamo riusciti a sapere dal carcere si sono giustificati dicendo che non avevano i recapiti dei genitori”. Quanto alle cause della morte, “si tratta del terzo decesso in un anno, che si tratti di coincidenze appare molto strano, specie considerando il caso più recente, avvenuto meno di un mese fa. Non è normale che ragazzi di vent’anni muoiano così”. Il legale esclude il gesto volontario: “La madre lo aveva visto la settimana scorsa ed era sereno, aveva fatto domanda per lavorare e per partecipare ad un corso da pizzaiolo e ad uno di informatica. Sapeva che doveva stare ancora in carcere ed aveva accettato il fatto di dover pagare il suo debito con la società”. Grande, oltre ai genitori, lascia una figlia di appena 3 anni, affidata alla madre che vive nel napoletano. I Radicali: terzo suicidio dell’anno con psicofarmaci La morte di un ventiduenne napoletano avvenuta nel carcere anconetano di Montacuto, sabato scorso, probabilmente per la massiccia assunzione di farmaci, come i due suicidi che l’avevano preceduta, riaccende i riflettori sulla questione psicofarmaci in carcere e più in generale della sanità penitenziaria. Lo afferma, in una nota, Andrea Granata Segretario dell’Associazione Radicali Marche. “Come più volte evidenziato dai Radicali esiste un problema psicofarmaci nelle carceri italiane dato - aggiunge - da somministrazioni a fini non terapeutici ma di “sedazione istituzionale”. La questione del sovraffollamento carcerario è reale e drammatica - spiega - ma rischia di essere la foglia di fico dietro la quale chi ha competenze e responsabilità della sanità penitenziaria continua a celarsi. Ove i risultati dell’autopsia disposta sul corpo del ventiduenne napoletano dovessero confermare l’ipotesi della massiccia assunzione di psicofarmaci ci attendiamo che senza alcun ulteriore indugio l’autorità giudiziaria si occupi di accertare eventuali profili di responsabilità penale”. Di Giacomo (Sappe): un carcere sovraffollato e da terzo mondo” Secondo il consigliere nazionale del Sappe Aldo Di Giacomo “quello di Ancona si sta rivelando un carcere da terzo mondo per sovraffollamento: a Montacuto ci sono 410 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 168, gli agenti dovrebbero essere 198 e invece ce ne sono 121. Una situazione veramente critica che denunciamo da tempo”. Ancona: tutti in cella… va dentro anche chi può scontare pene diverse e così il carcere scoppia Corriere Adriatico, 25 ottobre 2010 C’è chi va in carcere per reati commessi undici anni fa e non certo per omicidio, ma aver usato due assegni rubati. E ci va un rifugiato politico che era d’accordo col magistrato per pagare con la reclusione domiciliare l’errore di aver fatto entrare nell’ombra connazionali, ma s’è ritrovato dietro le sbarre. E poi il carcere scoppia. Cosa c’è dietro le morti a ripetizione nella cassa circondariale di Montacuto? Un meccanismo inceppato carica la bomba a orologeria. Sembrano non esistere punizioni fuori dalla cella. La riflessione è di Andrea Nobili, avvocato attento al tema dei diritti civili, e assessore comunale. “Sono rimasto colpito da questi episodi che si verificano a Montacuto dove c’è una situazione davvero al collasso”. Dato atto agli operatori di polizia penitenziaria che “fanno il possibile per cercare di ridurre i disagi e anche loro sono allo stremo e ce la mettono tutta per far fronte a una situazione massacrante”, rimarca che “non funziona il sistema delle misure alternative alla detenzione”. Questo, anche per “la linea piuttosto rigida adottata dal Tribunale di Sorveglianza”. Così aumenta la popolazione carceraria, “anche di soggetti che potrebbero vivere situazioni diverse”. Nobili propone esempi concreti. “Un italiano è andato dentro per fatti commessi nel 1999, aveva ricettato due assegni. Ha grossi problemi fisici e mentali, di disagio sociale”. E poi. “L’altro è un giovane di origini curde, rifugiato politico inserito nel nostro tessuto sociale e lavorativo. Ha definito un procedimento nel quale era accusato di immigrazione clandestina con un patteggiamento, e d’accordo col Pm aveva ottenuto gli arresti domiciliari che si sarebbero trasformati in detenzione domiciliare”. È finito in prigione. “Non c’è mai stato e non capisce perché ci va adesso”. Lui che da diversi anni risiede nel nostro Paese, ha la carta d’identità italiana. “Questo tipo di reati si commettono anche senza averne la percezione, sono stati inflessibili”. “Casi emblematici”, che invitano a riflettere sul “fallimento delle politiche che propongono percorsi diversi alla carcerazione”. E poi finisce che “si verificano situazioni purtroppo molto complicate, e questo è un elemento sul quale val la pena fermarsi per una riflessione molto seria partendo proprio da Ancona”. Anche perché “al centro di queste storie ci sono casi umani al limite che possono portare anche al rischio di atti autolesionistici”. L’avvocato Nobili che frequenta molto la casa circondariale, nota anche che “la popolazione carceraria è cambiata, ed è composta soprattutto da extracomunitari e persone che vivono situazioni di grande degrado economico, sono i reietti dell’umanità”. I problemi arrivano quando “in carcere ci finisce uno che non è reietto, e non riesce a ritagliarsi in una situazione oggettivamente dura uno spazio che consenta una forma di adattamento rassegnato”. E l’esasperazione può arrivare a spingerlo alla risoluzione di farla finita. Pericolo insito “nei tanti momenti di tensione che si percepiscono” a Montacuto, e di tanto in tanto detonano in tragedia apparentemente inspiegabili. Modena: Costi (Pd): in due mesi la situazione nel carcere è ulteriormente peggiorata Modena 2000, 25 ottobre 2010 Nel carcere di Modena in due mesi la situazione è ulteriormente peggiorata. “Ad agosto i detenuti erano 453, più del doppio rispetto ad una capienza regolamentare di 221. Oggi siamo arrivati a quota 470”. Lo denuncia la consigliera regionale Palma Costi, che – come aveva preannunciato – nei giorni scorsi ha nuovamente visitato il carcere circondariale di S. Anna. “Il mio impegno relativamente alle carceri modenesi – spiega – sarà continuativo e costante nei prossimi cinque anni”. Tre, quattro, anche cinque persone per cella, problemi di sovraffollamento e di igiene, ma non solo. “Il recupero di chi deve scontare pene detentive lunghe – spiega Palma Costi – può avvenire solo con la dignità del lavoro e dello studio. Oggi nel nostro carcere manca la possibilità per la maggioranza dei detenuti di lavorare e di studiare e quindi di intraprendere un percorso di rieducazione e reinserimento. Nonostante l’impegno dell’amministrazione carceraria, del volontariato e delle istituzioni le possibilità di lavorare riguardano circa 50 persone, con meno ore rispetto al passato, mentre c’è un solo corso di alfabetizzazione per 40 persone, a fronte di 80 richieste”. “Per questo – spiega la consigliera Pd – la soluzione non può passare solo attraverso la promessa della costruzione di una nuova ala con 150 posti. Quello che è necessario sia per rispettare la dignità dei detenuti sia per dare reali garanzie di sicurezza ai nostri cittadini, è un progetto complessivo sulla pena, che superi i limiti attuali e renda effettiva la possibilità di recuperare chi è stato detenuto”. “Per la nostra Costituzione – prosegue la consigliera regionale PD – la pena deve avere, infatti, una funzione rieducativa. La situazione delle nostre carceri non rispetta oggi questo dettato. Ormai nelle carceri finiscono nella stragrande maggioranza le persone più disagiate, problematiche e soprattutto povere. Mentre i ricchi, quelli più vicini al potere, trovano il modo di restarsene fuori. Chi ruba un portafoglio va dentro, chi ha ridotto sul lastrico decine di migliaia di persone invece no. Non solo: a causa delle norme varate dal Governo le nostre carceri scoppiano di immigrati e tossicodipendenti, senza nessun beneficio vero per la società, che rispettivamente trarrebbe giovamento solo dalla loro integrazione e dal loro recupero”. “Molti – prosegue Costi – entrano in carcere per periodi brevi e ormai è risaputo che le pene brevi sono controproducenti: chi entra rompe con relazioni, affetti, lavoro e rischia il contatto con organizzazioni criminali. Per le pene brevi servono misure alternative al carcere, che costano molto meno tanto sul piano umano quanto su quello economico”. “La condizione dei detenuti si riflette in modo altrettanto negativo sul personale di custodia – prosegue Palma Costi – che continua ad essere assolutamente insufficiente. Così come sotto organico rimane il personale dirigente del carcere (una figura dirigenziale a fronte di 4 in organico). In una situazione umanamente e psicologicamente difficile il carcere ha una sola psicologa per 198 detenuti. Solo l’impegno quotidiano del personale in servizio riesce a limitare le conseguenze di queste gravi carenze, rendendo le condizioni di vita nel carcere meno intollerabili”. “Il Paese è costretto ad occuparsi di leggi ad personam – conclude Costi – mentre è urgente che il ministro Alfano si occupi seriamente della politica carceraria, cambiando quelle norme che fanno scoppiare le carceri e nel contempo redigendo un vero progetto di amministrazione della pena conseguente al dettato costituzionale, con finanziamenti e risorse umane adeguate”. Trieste: morto Scialpi, uccise la cognata e accecò la moglie di Maddalena Rebecca Il Piccolo, 25 ottobre 2010 Graziano Scialpi, l’ex giornalista di 48 anni che nel dicembre del 1996 in un appartamento di viale Miramare freddò a colpi di pistola la cognata e accecò la moglie, è morto l’altra sera all’Ospedale civile di Padova. Il suo cuore ha cessato di battere poco dopo la mezzanotte nella stanza in cui era stato ricoverato alla fine di agosto e dove, appena pochi giorni fa, aveva ricevuto la notizia della sospensione della pena per motivi di salute. Era malato da tempo. Il tumore aveva seriamente compromesso il funzionamento dei polmoni e aggredito la spina dorsale, tanto da convincere appunto la direzione del carcere Due Palazzi di Padova, dove stava scontando una condanna a 30 anni (scesi poi a 24 per effetto di indulto e buona condotta), a trasferirlo dalla cella al reparto di Oncologia. Un trasferimento giudicato però colpevolmente tardivo dai genitori di Scialpi, che hanno seguito e accudito il figlio fino all’ultimo, e dalle voci raccolte da Radiocarcere e Radio Radicale. “Graziano è stato ucciso - si legge nella nota comparsa poche ore dopo il decesso sul sito internet www.radiocarcere.it. La sua è una delle tante morti causate dal carcere e dalla negazione del diritto alla salute. Era un anno che Graziano chiedeva di essere curato, da un anno accusava terribili dolori. Eppure non è stato fatto nulla. Gli sono stati negati sia l’esame radiologico richiesto sia le cure di cui avrebbe avuto bisogno - scrive l’autore della rubrica Riccardo Arena. rilanciando un’accusa mossa da tempo dai genitori dell’ex detenuto - . Qualcosa si è mosso solo lo scorso agosto, quando è stato trovato paralizzato nella sua cella in condizioni così gravi da non riuscire più neppure a urinare. Solo allora i medici del Due Palazzi si sono decisi a portarlo in carcere dove gli è stato diagnosticato il cancro. La sua - conclude la nota - è la storia di un omicidio commesso in carcere e dal carcere”. Una storia che lo stesso Graziano Scialpi di recente aveva raccontato in un’intervista al Piccolo , ammettendo di tornare spesso indietro con la memoria a quel maledetto 21 dicembre del ‘96. “Certo che ci penso - aveva dichiarato dal suo letto d’ospedale - . Come fa un uomo a dimenticare un episodio del genere? È un episodio che ha modificato e violentato la vita di più famiglie e ha gettato la mia nel girone più buio dell’inferno. Ho capito subito che avevo sbagliato e che avevo commesso il più violento dei crimini. Me ne sono pentito immediatamente. Tuttora ritengo giusto che io debba pagare per il male che ho fatto agli altri, ma perché dovrei restare in carcere per trent’anni? Perché la legge non deve essere uguale per tutti? Nella mia cara Trieste - aveva aggiunto riferendosi a Roberto Ruzzier, lo squartatore di San Giacomo - un altro assassino è stato condannato a meno di vent’anni di carcere anche se, dopo aver ucciso una persona, l’aveva fatta a pezzettini e gettata nel cassonetto dei rifiuti. Perché, insomma, due pesi e due misure?”. Parole in grado di riaprire ferite peraltro impossibile da rimarginare del tutto. Come quelle di Fernanda, la moglie a cui la folle violenza dell’ex giornalista, allora 34enne, tolse per sempre l’uso della vista. Lui voleva punirla per aver “osato” chiedere la separazione. E l’ha fatto sparandole in faccia con la pistola sottratta al padre. La stessa calibro 22 da cui partirono i proiettili costati la vita alla cognata Giovanna Flamigni, maestra d’asilo di 24 anni, uccisa mentre nella stanza a fianco piangeva disperato il figlio di Scialpi, di appena due anni. Cagliari: non ci sono più corsi, così la scuola di Polizia penitenziaria a Monastir rischia la chiusura Agi, 25 ottobre 2010 “La scuola di polizia penitenziaria di Monastir, inattiva da diverso tempo, rischia la chiusura”. Lo sostiene la presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” Maria Grazia Caligaris nel sottolineare come “l’assenza di corsi formazione e di aggiornamento, nonostante la promessa del ministro Angelino Alfano di 2.000 nuovi agenti da assumere per far fronte all’emergenza carceri, non consenta l’utilizzazione della struttura”. Dopo aver ospitato diversi corsi di allievi agenti, la scuola, una delle nove a disposizione della polizia penitenziaria - si legge in una nota - è inattiva da diverso tempo nonostante vi siano la direzione e una trentina di agenti in servizio. Constatata la non operatività della struttura, in attesa dei nuovi bandi di concorso per il reclutamento di nuovi agenti, è opportuna una temporanea chiusura in modo da utilizzare il personale per far fronte al grave sovraffollamento degli istituti di pena dell’isola ed alla forte carenza di agenti soprattutto nel carcere di Buoncammino anche nella prospettiva dell’imminente apertura del reparto ospedaliero protetto negli Infettivi di Is Mirrionis. L’apertura del reparto, ultimato da tempo, è in ritardo anche per l’insufficiente numero di agenti che ha risposto all’interpello promosso dal provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Bologna: poliziotto penitenziario spara all’ex compagna poi si suicida Apcom, 25 ottobre 2010 Un agente di polizia penitenziaria in servizio a Ferrara ha sparato tre colpi di pistola con la Beretta d’ordinanza contro la donna con la quale aveva una relazione, finita poco tempo fa, e poi si è suicidato. È successo stamattina in una palazzina di San Giorgio di Piano, nel Bolognese, dove - come riferisce il Corriere di Bologna - i carabinieri hanno trovato i due corpi senza vita vicini, riversi a terra nel sangue nell’androne del palazzo. Non sono ancora chiare le motivazioni del gesto e gli inquirenti sono al lavoro anche per ricostruire l’esatta dinamica del fatto. La donna, Caterina Tugnoli, 42 anni, di San Giorgio di Piano, era impiegata all’Arpa. L’uomo, Stefano Vistola, 40 anni, di San Severo (Foggia), agente della polizia penitenziaria, lavorava dal 1994 nel carcere di Ferrara e dormiva in caserma. I due avevano una relazione, durata circa 3 anni e finita pochi giorni fa. Entrambi avevano un matrimonio alle spalle ed erano separati: Vistola lascia una figlia di 11 anni (che vive con la madre nella Marche) e la donna due figlie, di 17 e 21 anni, che vivevano con lei. Al momento della tragedia, la più piccola era a scuola, l’altra era ancora a letto. Avezzano (Aq): al carcere di San Nicola tornano i detenuti, è rimasto chiuso 4 anni per rifacimenti Il Centro, 25 ottobre 2010 Riapre il carcere San Nicola di Avezzano. I primi detenuti, provenienti da tutta la regione, sono stati trasferiti nella struttura penitenziaria marsicana. Nelle prossime settimane il carcere funzionerà a regime. Chiuso nel 2006 per ristrutturazione, oggi può ospitare circa cento detenuti. Dopo la firma del decreto di riapertura del carcere da parte del ministero della Giustizia, è iniziato anche il reintegro del personale, fase che sarà terminata entro la fine di questo mese. Per il momento al San Nicola sono arrivati i detenuti “lavoratori” che stanno sistemando gli ultimi dettagli prima dell’arrivo degli altri reclusi. In totale il carcere può ospitare un centinaio di persone e vi lavoreranno una quarantina di agenti di polizia penitenziaria. Le quaranta celle realizzate sono spaziose e fornite di servizi interni con doccia. La chiusura del carcere aveva portato allo stato di agitazione da parte del personale e addirittura l’astensione dalla mensa di servizio. C’erano stati anche sit - in davanti al carcere. La mobilitazione aveva interessato nel 2009 anche gli avvocati del foro marsicano che avevano più volte protestato per la situazione di difficoltà a cui dovevano far fronte per l’assenza sul territorio di un penitenziario. Le polemiche arrivarono soprattutto nel periodo in cui l’opinione pubblica si interrogava sull’eccessivo affollamento delle carceri italiane, sui problemi di celle che potrebbero ospitare un massimo di tre persone, quando invece si trovavano ad accogliere sei o addirittura otto detenuti assieme, con un unico bagno spesso senza acqua calda. Situazione che aveva portato anche all’indulto. La chiusura del penitenziario marsicano era stata disposta con un decreto del Ministro della Giustizia del 13 febbraio 2006 “considerate le precarie condizioni igieniche e strutturali della struttura” che pregiudicavano la sicurezza degli operatori e dei detenuti. Erano stati stanziati in un primo momento un milione e mezzo di euro per gli interventi. Il termine dei lavori, iniziati nel 2006, era stato fissato al 31 gennaio 2009. Successivamente furono assegnati ulteriori fondi, circa un milione e mezzo, per un secondo lotto di interventi che ha permesso di realizzare opere che rendono il carcere più accogliente dotandolo di sistemi tecnologici più avanzati. I lavori si sono protratti, quindi, ancora per un anno e mezzo. La nuova struttura permetterà di alleggerire in maniera determinante le strutture carcerarie di Sulmona, L’Aquila e anche Pescara che nel frattempo avevano dovuto supplire alla chiusura di Avezzano con inevitabili disagi. È prevista anche la realizzazione di un nuovo carcere. La struttura dovrebbe sorgere nella zona nord della città, nell’area compresa tra la caserma dei vigili del fuoco e l’ospedale. Modena: Sappe; alla Casa Lavoro di Saliceta un grande caos, allontanate la direttrice La Gazzetta di Modena, 25 ottobre 2010 Il rapporto disciplinare contro un ispettore che ha rifiutato di far entrare persone non autorizzate è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma l’esasperazione degli agenti di custodia della Casa di Lavoro a Saliceta ieri si toccava con mano. Nella manifestazione che per un paio d’ore ha rallentato il traffico a cavallo tra via Giardini e Strada Saliceta, alcuni agenti hanno cominciato a camminare avanti e indietro sulle strisce pedonali con le bandiere azzurre del loro sindacato in spalla. Gli automobilisti incuriositi passavano, suonavano il clacson e ripartivano dopo aver aspettato qualche manciata di secondi. Alcuni ripartivano sbuffando a tutto gas, altri con un sorriso di comprensione. Un dialogo difficile del resto visto che i manifestanti avevano finito i volantini da consegnare ai guidatori. Qualche slogan gridato dai finestrini e nient’altro, ma chi poteva capire annuiva per abitudine. Per sostenere la protesta contro il mancato pagamento degli straordinari obbligatori, la paralisi nella gestione delle carceri e il mancato rispetto degli impegni, il Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria) ha promosso una mobilitazione regionale. Il bersaglio più immediato della protesta modenese era la testa dell’attuale direttrice della struttura, Federica Dallari: “Chiediamo l’allontanamento del vertice della Casa di Lavoro di Saliceta” era scritto bene in chiaro sul volantino, giusto sotto il pagamento degli straordinari. E per far capire l’aria che tira in tutte le carceri il Sappe non ha usato giri di parole: “Protestiamo contro l’immobilismo asfissiante e l’apatia dei vertici del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia Romagna per i problemi dei baschi azzurri”. “Dalla sera alla mattina poche settimane fa abbiamo scoperto che sono state tagliate 66 mila ore di straordinario nella nostra regione - spiega il segretario regionale del Sappe, Vito Serra - Questo significa, ad esempio, che per Saliceta ne verranno a mancare più di 250, nella migliore delle ipotesi. Dunque, qui come in ogni carcere, gli agenti sono obbligati per la forte mancanza di personale a colmare i vuoti con gli straordinari che poi non vengono neppure pagati. In teoria potrebbero essere recuperati ma come si fa senza colleghi al lavoro? In Emilia servono almeno 200 agenti in più”. “A Saliceta - gli fa eco Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto - ci sono 20 agenti in meno del necessario e 50 internati in più: si badi bene, si parla di ex detenuti di grande pericolosità, non di gente qualsiasi. Da Piacenza a Rimini la situazione non cambia. Nelle nove carceri, le due case di lavoro e l’ospedale psichiatrico giudiziario mancano all’appello 650 agenti, cioè ci sono 1.750 colleghi che lavorano al posto dei 2400 stabiliti per legge. I detenuti invece, che potrebbero essere al massimo 4500, sono 6500. Non c’è altro da dire”. Ma è la protesta contro la direttrice Dallari che a Modena trova tutti compatti. “Io sono quello che ha vietato a qualche decina di persone di entrare a Saliceta senza autorizzazione - riassume l’ispettore Musa - e sono stato deferito per questo in via disciplinare. Ho applicato il regolamento, né più ne meno, come faccio da 28 anni, ma la direttrice ha voluto sanzionarmi. Come si può lavorare in queste condizioni?” “Nei giorni scorsi - aggiunge un collega - è partito un ordine di servizio in cui è stato vietato di contare i detenuti in aula durante la lezione. Ma come? Siamo noi che dobbiamo firmare i rapporti sulle presenze e che dovremmo fare, garantire ciò che non controlliamo?”. Teramo: disse “il detenuto non si massacra in sezione si massacra sotto”; ora Luzi è tornato al lavoro Il Centro, 25 ottobre 2010 A marzo la richiesta di archiviazione della procura, qualche giorno fa la “riabilitazione” del ministero della giustizia. Giuseppe Luzi, l’ex comandante degli agenti di polizia penitenziaria di Castrogno sospeso dopo il caso dell’audio shock sul presunto pestaggio di un detenuto in carcere da parte di alcuni agenti, incassa anche la revoca della sospensione. Per lui, che tra qualche mese andrà in pensione, c’è solo un richiamo scritto, una sorta di censura. Luzi venne sospeso dallo stesso ministro di giustizia Alfano. L’ex comandante, subito dopo l’esplosione del caso, aveva ammesso che era sua la voce che si sentiva nel colloquio shock registrato sul cd e che ha fatto il giro d’Italia finendo sulle prime pagine di tutti i giornali nazionali. E lui che dice: “Il detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto. Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto”. Il testimone Uzoma Emeka è morto in carcere un mese dopo i fatti, stroncato da un tumore al cervello che nessuno ha diagnosticato. Luzi, interrogato dal magistrato, ha ammesso il colloquio registrato, ma ha sempre sostenuto che quelle frasi andavano interpretate in un contesto di forte tensione. Ha sempre respinto ogni accusa di violenza sul detenuto, negando di averne tollerato l’utilizzo nei confronti di tutti i reclusi. Ha sempre respinto l’accusa di aggressione, sostenendo che in sua presenza nessun agente ha mai alzato le mani su detenuti. Una storia, quella del presunto pestaggio, che nonostante la richiesta d’archiviazione fatta dal pm David Mancini (che negli atti ha fortemente sottolineato l’omertà registrata in carcere e proprio per questo l’impossibilità a fare chiarezza sulle diverse versioni fornite) presenta ancora molte ombre. Restano le accuse di Mario Lombardi, il detenuto che al magistrato ha raccontato di essere stato picchiato dagli agenti come atto di ritorsione per una sua resistenza nei confronti di un poliziotto. Alla fine è rimasto l’unico a pagare visto che è indagato per lesioni nei confronti di un agente. Treviso: tre agenti penitenziari a processo con l’accusa di aver picchiato un detenuto romeno La Tribuna di Treviso, 25 ottobre 2010 Chiesto il processo per i tre agenti di polizia penitenziaria di Treviso accusati di abuso d’ufficio, percosse e minacce per le presunte botte a un detenuto rumeno nel carcere di Santa Bona. Dopo la chiusura delle indagini da parte del sostituto procuratore Giuseppe Salvo, è stato fissata l’udienza preliminare. I fatti contestati, stando alla Procura, sono accaduti nell’ottobre 2007 ai danni del rumeno venticinquenne Lucian Elwis Andricsak, finito in cella per aver stuprato una donna a Spresiano, mentre la signora stava tornando dal lavoro. Tre gli episodi di percosse al centro delle indagini, avvenuti il 12 e 13 ottobre e cinque gli agenti inizialmente coinvolti nell’inchiesta. Lucian Elwis Andricsak, sentito in sede di incidente probatorio, aveva riconosciuto però solo tre agenti su cinque. Sul corpo del rumeno c’erano in effetti segni di percosse: gli agenti avevano spiegato l’accaduto sostenendo di essere intervenuti per calmarlo, dopo una reazione violenta da parte sua. Andricsak aveva denunciato le lesioni davanti al giudice Umberto Donà. Napoli: “Finché c’è pizza c’è speranza”, per la reintegrazione nella società dei giovani detenuti Ristretti Orizzonti, 25 ottobre 2010 Il progetto “Finché c’è Pizza, c’è speranza”, promosso dall’Associazione Scugnizzi da sempre impegnata nel sociale, ha inteso proseguire la propria attività a favore dei ragazzi cosiddetti “difficili” organizzando insieme all’Antica Pizzeria Donna Regina il corso per aspiranti pizzaioli, finalizzato alla reintegrazione nella società dei giovani detenuti dell’istituto penale minorile di Nisida, ha raggiunto il suo obiettivo. Uno dei giovani, detenuti che attualmente godono del beneficio dell’affidamento in prova ai Servizi Sociali di Napoli, sarà assunto in qualità di aiuto - pizzaiolo, in una nota catena di pizzerie. A questo singolare progetto hanno partecipato 60 ragazzi, tutti aspiranti pizzaioli detenuti nel carcere minorile di Nisida. E, al termine del corso di 36 ore portato al termine con successo dal maestro pizzaiolo Ernesto Fico, ecco arrivata la possibilità di vagliare l’assunzione tra i ragazzi che hanno partecipato al programma di riabilitazione. Le modalità e le finalità dell’iniziativa saranno presentate nel corso di una conferenza stampa che si terrà a Napoli il 25 ottobre 2010, alle ore 11, presso la sede del Consiglio della Regione Campania (Primo piano, Isola F13, Centro Direzionale di Napoli). L’opinione del maestro pizzaiolo Ernesto Fico, che ha svolto il corso Il corso di aspirante pizzaiolo, da me diretto, non ha avuto la presunzione di formare un ottimo pizzaiolo, ma si è posto il fine di creare un’occasione di incontro tra l’imprenditoria della ristorazione campana e alcuni giovani sfortunati che hanno chiesto di far pace con la vita riscattandosi con un lavoro onesto. Ed è proprio in questo senso che si è lavorato dando la possibilità ai giovani ospiti dell’Ipm di Nisida di apprendere la tecnica del mestiere, offrendo loro la possibilità di un inserimento nel tessuto sociale/economico della ristorazione. Pertanto invito a tutti gli amici ristoratori a vagliare l’idea di assumere un ragazzo diciamo “difficile” come li ha definiti il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in una lettera che mi ha inviato, credetemi io sono stato a stretto contatto con loro per 3 mesi e posso solo dirvi che non hanno niente di “difficile”. Hanno solo tanta difficoltà a inserirsi nel mondo lavorativo tutti possono sbagliare, specialmente alla loro età, e pertanto diamo a loro una possibilità di inserimento, loro che sono il futuro di domani. Roma: concerti di solidarietà a Rebibbia, per richiamare l’attenzione sui problemi del carcere Redattore Sociale, 25 ottobre 2010 L’iniziativa è promossa dalla Consulta penitenziaria del Comune di Roma e dalle altre realtà che hanno organizzato il sit - in davanti al Parlamento del 24 settembre scorso. Primo appuntamento il 28 ottobre a Rebibbia. Concerti di solidarietà nella Casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso per ricordare i morti suicidi e richiamare l’attenzione sull’annoso tema del sovraffollamento e sulle condizioni inumane in cui sono costretti a vivere i detenuti. L’iniziativa è promossa dalla Consulta penitenziaria del Comune di Roma e dalle altre realtà (Conferenza nazionale volontariato giustizia, Seac, Ristretti Orizzonti, Arci, Cnca, Gruppo Abele, Uisp, Forum droghe, Consorzio Open, Fondazione Villa Maraini, Lila, Forum nazionale per la tutela della salute dei detenuti e degli internati, Legacoopsociali) che hanno dato vita al sit - in del 24 settembre scorso davanti al Parlamento per denunciare gli innumerevoli mali dell’universo carcere: sovraffollamento, suicidi, incompatibilità con la detenzione di alcune tipologie di reclusi, tagli alla spesa e fallimento del Piano straordinario per l’edilizia penitenziaria, per citarne solo alcuni. Il primo concerto del giovane regista e cantautore, Marco Puggini, è previsto per il giorno 28 ottobre presso il teatro dell’istituto Rebibbia Nuovo Complesso alle ore 16.00. Nel mese di novembre si esibirà, invece, la mezzosoprano Federica Proietti, mentre fino a oggi hanno dato la loro disponibilità il trombettista Nello Salza, la cantante Pilar e il chitarrista classico Filadelfio Cordial. I Concerti di solidarietà fanno parte di una serie più ampia di iniziative che le organizzazioni promotrici hanno programmato all’esterno e all’interno degli istituti: l’obiettivo è tenere viva l’attenzione sull’emergenza carcere e chiedere alla classe politica di risolvere il problema del sovraffollamento attraverso l’inserimento in circuiti alternativi di detenuti in attesa di giudizio, tossicodipendenti, malati e madri con figli fino a tre anni. L’iniziativa intende inoltre chiedere la chiusura definitiva degli Ospedali psichiatrici giudiziari, ottenere l’applicazione della riforma della medicina penitenziaria in tutte le regioni ed evidenziare i problemi di reinserimento dovuti ai troppi tagli alla spesa sociale, che stanno costringendo molte realtà del privato sociale a chiudere le proprie attività, vanificando di fatto i principi e i benefici previsti dalla legge Gozzini. Roma: presentato il primo calendario dei detenuti in Italia, proventi a nido Casa circondariale Ansa, 25 ottobre 2010 I volti, i gesti, il quotidiano dei detenuti di Rebibbia vanno a comporre il primo calendario di un carcere italiano. Trecentosessantacinque giorni dedicati a chi ha perso la libertà ed è costretto dentro una casa di reclusione, ma che nonostante tutto continua a vivere. La pubblicazione è stata presentata questo pomeriggio a Roma, nel corso della seconda edizione del Salone dell’editoria sociale. “Schegge di vita nella casa di reclusione di Rebibbia” è il titolo del calendario nato dalla volontà di un’insegnante del carcere, Maria Falcone, ed edito da Infinito Edizioni. I mesi del 2011 sono scanditi dai protagonisti di Rebibbia, detenuti che devono scontare l’ergastolo o ancora pene molto lunghe e che vengono immortalati tra i banchi di scuola, nei campi o nelle diverse attività creative e ricreative. “Insegno italiano e pedagogia ai detenuti - spiega Maria Falcone - questa iniziativa è nata dalla volontà di fare gesti concreti all’interno dei gruppi scolastici, dalla raccolta di poesie e testi fino al calendario che è in assoluto il primo in Italia di questo genere”. L’editore, Luca Leone, annuncia: “Una volta coperti i costi del calendario (che sarà disponibile nelle librerie, negli spazi di cultura indipendente e sul sito della casa editrice), tutti i proventi saranno devoluti al nido di Rebibbia dove al momento ci sono 24 bambini. Ho sostenuto questo progetto perché mi è sembrato subito di grande rilevanza etica, specchio di un mondo non troppo lontano da ognuno di noi”. Immigrazione: ispettore di Polizia a processo, con l’accusa di violenza sessuale nel Cie di Milano Agi, 25 ottobre 2010 È stata fissata al 2 dicembre prossimo davanti al gup di Milano, Simone Luerti, l’udienza preliminare a carico di Vittorio Addesso, l’ispettore di polizia accusato di abusi sessuali nei confronti di J., 28enne nigeriana, che si trovava nel Centro di Identificazione ed Espulsione di via Corelli, a Milano. Il pm Marco Ghezzi chiede di processare Addesso “per aver costretto J., abusando di persona sottoposta a limitazione della libertà personale, a subire atti sessuali e più precisamente mentre la parte lesa si trovava sdraiata nella sua camera all’interno del Cie, entrava e si sdraiava sopra la donna iniziando a toccarle il seno”. Al poliziotto viene contestata l’aggravante “di aver commesso il fatto con abuso di poteri inerenti le sue funzioni presso il Centro”. L’episodio, che risale all’agosto 2009, era stato denunciato dalla stessa J. al processo per la rivolta di via Corelli, in cui era tra gli imputati e che si concluse con la sua condanna a sei mesi di carcere. Il racconto era poi stato confermato dalla ragazza durante un incidente probatorio. “Questa richiesta di rinvio a giudizio - è il commento di Eugenio Losco, uno dei legali della donna - rappresenta la messa in stato d’accusa dei Cie come carceri in cui sono detenute persone innocenti che non hanno commesso nessun reato, della legge che li ha istituiti e, in definitiva, dell’idea di mondo che rappresentano”. J. si trova attualmente in una struttura protetta in Puglia dopo aver denunciato gli aguzzini che la costringevano a prostituirsi. Stati Uniti: 700 detenuti utilizzati come cavie per esperimenti medici, ora il Governo chiede scusa di Adriana Bazzi Corriere della Sera, 25 ottobre 2010 L’America si scusa per un esperimento in cui 700 detenuti furono infettati con l’agente della sifilide, per verificare l’efficacia della penicillina. L’America lo ha fatto per la seconda volta: pochi giorni fa il Segretario di Stato Hillary Clinton si è scusata pubblicamente con il Guatemala per una sperimentazione, condotta dal 1946 al 1948, durante la quale almeno 700 individui, tra detenuti, malati mentali e soldati, sono stati deliberatamente infettati con l’agente della sifilide (e di altre malattie veneree), grazie anche alla complicità involontaria di prostitute, per verificare, poi, l’efficacia della penicillina. Era già successo fra il 1932 e il 1972 con il tristemente famoso studio di Tuskegee: allora 400 raccoglitori di cotone dell’Alabama, malati di sifilide, erano stati lasciati senza cure allo scopo di studiare gli effetti della malattia. Per questo esperimento era stato l’allora Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton a presentare le sue scuse, nel 1997. Poco tempo dopo è stato creato il Centro di bioetica di Tuskegee, uno dei primi negli Stati Uniti, e il problema delle sperimentazioni cliniche nell’uomo è diventato argomento di discussione fra ricercatori, bioetici, politici, filosofi, pazienti, sostenitori dei diritti civili e, persino, giornalisti. Discussioni che hanno prodotto, nei Paesi occidentali, una serie di regole e leggi per la tutela di chi vi partecipa, compresa la dichiarazione di Helsinki. Proprio in questi giorni, in Italia, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri un disegno di legge su “Sperimentazione clinica e altre disposizioni in materia sanitaria” che, fra l’altro, prevede nuove regole per i comitati etici (che hanno il compito di tutelare i diritti di chi partecipa a sperimentazioni) e l’individuazione di nuovi requisiti per i centri autorizzati alle sperimentazioni cliniche, a partire dai test di laboratorio fino a quelli sull’uomo. Bene. Ma leggendo la letteratura scientifica, frequentando congressi internazionali, visitando centri di ricerca, dall’America alla Cina, ascoltando ricercatori e pazienti, e, perché no, navigando in Internet, ci si imbatte in una serie di questioni ancora più complesse. Intanto si percepisce la pressante necessità di trovare persone disponibili a partecipare alle sperimentazioni, soprattutto di farmaci. Basti pensare che sono in sviluppo 800 nuove molecole anti - cancro: dove reperire i malati? Negli Stati Uniti il reclutamento avviene anche attraverso giornali e siti Internet. Ma non basta: così l’industria, da tempo, si è rivolta ai Paesi in via di sviluppo. Che spesso non hanno regole così severe come in Occidente. All’ultimo congresso degli oncologi americani si è posto il problema dell’affidabilità di queste sperimentazioni per valutare efficacia e sicurezza di medicinali che arriveranno poi sul mercato mondiale. E non ci sono solo i farmaci: ci sono anche le terapie con le staminali, i dispositivi medici, come protesi o stent, i nuovi interventi chirurgici (dai trapianti estremi all’uso di robot in sala operatoria) che dovrebbero essere valutati attraverso accurati e ampi protocolli sperimentali. La questione è più complicata di quello che sembra e merita un dibattito molto approfondito con tutti i cittadini. Tutti potenziali “cavie”. Iraq: Human Rights Watch; il Governo e gli Usa indaghino sulle torture nelle carceri irachene Agi, 25 ottobre 2010 Dopo la pubblicazione dei documenti riservati sulla guerra da cui emergono sistematici abusi sui detenuti nelle carceri irachene, l’organizzazione per i diritti umani in un comunicato ha esortato Baghdad a “perseguire i responsabili delle torture e di altri crimini”. Per Hrw, anche Washington deve indagare per “verificare se i militari americani hanno violato il diritto internazionale consegnando migliaia di prigionieri iracheni alle forze di sicurezza locali pur consapevoli del chiaro rischio di tortura a cui li stavano esponendo”. Secondo il vicedirettore di Human Rights Watch in Medio Oriente, Joe Stork, “queste nuove rivelazioni mostrano che la tortura da parte delle forze di sicurezza irachene era un fenomeno dilagante ed è rimasto completamente impunito”. “È chiaro - ha concluso - che gli Stati Uniti fossero a conoscenza di abusi sistematici da parte delle truppe irachene e, nonostante questo, hanno continuato a consegnare loro prigionieri”. Messico: 13 detenuti in centro di riabilitazione per tossicodipendenti uccisi a fuciliate dai miliziani Ansa, 25 ottobre 2010 Tredici detenuti di un centro di riabilitazione per tossicodipendenti a Tijuana, in Messico settentrionale, sono stati uccisi da un gruppo di miliziani armati fino ai denti che sono entrati nell’edificio e hanno ucciso a fucilate. La notizia viene riportata da diversi media messicani nelle loro edizioni digitali online. La stampa messicana nei giorni scorsi aveva riportato la notizia che i comandanti di polizia municipale e l’esercito, prevedevano eventuali ripercussioni dopo il recente sequestro record di 105 tonnellate di marijuana (poi diventate 134 tonnellate). In passato ci sono stati attacchi analoghi di sicari ai centri di riabilitazione per tossicodipendenti in Messico per uccidere i detenuti. Lo scorso 11 giugno, 19 persone sono state uccise e quattro ferite in una di queste strutture nell’ormai tristemente conosciuta a livello mondiale, Ciudad Juarez. All’inizio di questo mese nel corso di una recente visita a Tijuana, il presidente Felipe Calderon, aveva annunciato la riduzione della criminalità nella Baja California, Stato usato come esempio della “risolta” sfida della sicurezza nel Paese. Il massacro di Tijuana giunge quasi 48 ore dopo che un altro gruppo armato ha ucciso Venerdì, 14 ragazzi mentre partecipavano ad una festa a Ciudad Juarez, considerata la città più violenta del Messico al confine con El Paso (Texas, Usa). Iran: amputata la mano a un ladro, la pena è stata eseguita davanti agli altri detenuti Ansa, 25 ottobre 2010 L’amputazione è stata eseguita davanti agli altri detenuti. Le autorità iraniane hanno amputato la mano a un detenuto di 32 anni, condannato per furto, nella città di Yazd, nel centro del Paese. Stando a quanto riferito dalla radio di Stato, l’amputazione è avvenuta davanti agli altri prigionieri. Si tratta del secondo caso in un mese di taglio della mano inflitto a un ladro. La settimana scorsa, un giudice ha inflitto la stessa pena a un uomo sorpreso a rubare in un negozio di dolci.