Giustizia: nelle carceri dove l’incubo è quotidiano; sempre più detenuti, sempre meno spazi di Fabio Tonacci La Repubblica, 23 ottobre 2010 Celle sempre più asfissianti, piccole, sporche. Ma soprattutto, affollate. Detenuti impilati su letti a castello con la faccia a 30 centimetri dal soffitto, spesso con meno di 3 metri quadrati di spazio vitale a disposizione. Reclusi che continuano ad aumentare, sono quasi 70 mila unità, posti letto che - per una diabolica proporzione inversa - si riducono: appena 45 mila quelli regolari disponibili nei 206 istituti penitenziari italiani. Il collasso del nostro sistema penitenziario è tutti qui, fotografato impietosamente nelle 288 pagine del VII Rapporto nazionale sulla condizioni di detenzione in Italia, stilato dall’associazione non governativa “Antigone”. L’edizione di quest’anno ha un titolo che riporta alla cronaca ancora calda: “Da Stefano Cucchi a tutti gli altri”. Il rapporto, basato sul lavoro di una quarantina di volontari che hanno visitato gli istituti penitenziari, racconta quanto siamo ancora lontani dal principio base sancito all’articolo 27 della Costituzione, quello che recita così: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tre metri di spazio vitale per detenuto, non sono una “rieducazione”, ma un “trattamento inumano e degradante”, come segnala il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura. Da una parte c’è il fallimento del Piano Carceri ideato un anno e mezzo fa dal ministro della Giustizia Angelino Alfano - mancano i finanziamenti per le migliaia di posti letto necessari - dall’altra ci sono clamorosi sprechi. Il carcere di Morcone a Benevento, ad esempio. Ultimato, abbandonato, ristrutturato e mai aperto. O quello di Busachi in Sardegna, costato 5 miliardi delle vecchie lire e non ancora messo in funzione. Nel mezzo, la stipatissima popolazione carceraria. Che psicologicamente sta sempre peggio: l’anno scorso 72 suicidi in carcere su un totale di 113 morti, 55 suicidi nei primi nove mesi del 2010. E che cambia dialetto. Aumentano infatti i detenuti italiani di origine settentrionale - sono uno su quattro, mai così tanti “padani” nella storia penitenziaria del nostro paese - diminuiscono i meridionali. Tra gli stranieri, si infoltisce il gruppo degli europei dell’Est. Romeni e settentrionali, i nuovi detenuti Attualmente i reclusi sono 68.527, tra cui 25.164 stranieri (il 43,7 per cento degli incarcerati è composto da imputati, caso unico in Europa). Rispetto all’anno passato, sono aumentati nel complesso di 6664 unità. Nel 2000 i detenuti totali erano circa 50 mila, tra i quali 14 mila non italiani. La crescita della popolazione carceraria negli ultimi anni è dovuta in primo luogo all’aumento della componente straniera. I reclusi romeni oggi sono 3096, dieci anni fa appena 529. I marocchini erano 3096 nel 2000, oggi sono 5330. La maggior parte è dentro per violazione dell’obbligo di espulsione. Ma il VII Rapporto di Antigone registra anche un aumento della “compagine settentrionale”. I detenuti del Nord sono ben 9.782, quasi il 15 per cento del totale e il 25 per cento degli italiani in galera. Crollano invece le presenze di pugliesi, campani, calabresi, siciliani e sardi. Crescono - e di molto - quelle di emiliani e toscani (vedi tabella). Tra gli istituti penitenziari più affollati, il San Vittore a Milano, quello di Poggioreale a Napoli, il Regina Coeli e quello di Rebibbia a Roma, poi quelli di Sulmona, Fermo, Perugina Capanne, Firenze Sollicciano, Novara, Bologna, Gorizia. Troppi detenuti, poche guardie I magistrati di sorveglianza sono 178 (su un organico di 204). In media, quindi, ognuno deve occuparsi di 394 detenuti. E posto che un recluso presenta di solito almeno dieci domande l’anno (tra richieste di misure alternative, reclami, ricoveri, liberazioni anticipate), ogni giudice deve portare avanti 4 mila procedimenti. Per riuscirci, dovrebbe concluderne 10 al giorno, festivi compresi. Un’utopia. Così come è utopico pensare di vedere prima o poi il personale della polizia Penitenziaria al completo: la pianta organica ministeriale prevede 42.268 unità dislocate nei 206 istituti italiani. Al momento risultano in servizio poco più di 34 mila agenti. E le 2 mila nuove assunzioni promesse un anno fa dal ministro Alfano? Mai viste. Stesso discorso per educatori e assistenti sociali. Il ministero di Giustizia ne prevede in tutto 2838, ma secondo “Antigone” sono circa 2136. Significa che ogni operatore deve assistere sessanta detenuti. Il fallimento del piano carceri Ma è nell’ammodernamento degli istituti e nella costruzione di nuove prigioni e padiglioni carcerari che si concretizza il fallimento del Piano del Governo. Lanciato nel gennaio del 2009 dalla coppia Alfano - Berlusconi, doveva - si disse - risolvere l’emergenza sovraffollamento. Finora è rimasto sulla carta. Prevede la creazione di oltre 17 mila nuovi posti detentivi. Con i soldi stanziati, 200 milioni di euro, se ne fanno appena 4.605. Il resto è ancora da finanziare. Serviranno altri 1,4 miliardi di euro. In un’ordinanza della Corte dei Conti, del 13 luglio 2010, si legge: “L’intera gestione in materia di edilizia penitenziaria risulta contrassegnata da pesanti difficoltà di attuazione per varie ragioni, fra le quali emergono particolarmente la cronica insufficienza dei finanziamenti, i tortuosi meccanismi di assegnazione delle risorse disponibili, le lungaggini procedurali, il frequente e rapido mutamento delle esigenze e degli obiettivi, la dilatazione dei tempi nella fase esecutiva di costruzione delle nuove strutture penitenziarie dovuta anche al sorgere di contenziosi. Non può non farsi cenno, in proposito, alle notizie secondo cui vi sarebbero decine di strutture carcerarie, sparse in tutto il Paese, edificate o incomplete e, comunque, abbandonate”. Tossicodipendenze e carcere, un triste record L’Italia detiene il non certo invidiabile primato di essere il paese con più persone in galera per reati previsti dalla legge sulle droghe: circa il 25 per cento della popolazione carceraria, un detenuto su quattro. La media europea non supera il 16 per cento. Questo perché per i condannati tossicodipendenti si ricorre sempre meno alle misure “alternative” alla detenzione, come la permanenza in strutture socio/riabilitative, nonostante il risparmio - economico e di posti letto - che si otterrebbe. In pratica, ci sono più tossicodipendenti in carcere che in comunità. Giustizia: la parola d’ordine delle Procure “basta arresti, nelle celle non c’è più posto” di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2010 Ci sono anomalie nelle anomalie. Nell’ultimo anno, siamo stati abituati ad aggiornare in negativo il numero record dei detenuti nelle 206 carceri italiane: oggi sono 68.527 le persone recluse. Eppure, c’è da registrare un dato particolare. Per tutto il 2008 i detenuti sono cresciuti di 458 unità al mese. Nel 2009 questo numero è salito a 555, nel primo semestre 2010 a 607. Sempre di più. Poi, però, un crollo: nell’ultimo trimestre la cifra si è ridotta a 89 persone in più ogni trenta giorni. Bene, si dirà, visto il sovraffollamento . Ma questo non significa che ci sia stato un corrispondente crollo del crimine: “Non c’è mai un legame diretto tra la produzione di crimine e la produzione di carcere - spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, che ieri ha presentato il settimo rapporto annuale sulle condizioni di detenzione - la verità è che sono arrivate le segnalazioni delle Procure, per esempio quelle venete: attenzione, sono finiti i posti. Un’assunzione di responsabilità”. Un sistema che non funziona Il rapporto regala considerazioni importanti. Oltre il 43 per cento dei detenuti è composto da imputati (ed è un altro record europeo di cui non andare troppo fieri); 15 mila persone sono in attesa di primo giudizio. Soltanto 7.800 sono gli affidamenti in prova, 4.692 le detenzioni domiciliari. Significa che il sistema non funziona. Il carcere diventa il luogo in cui rinchiudere la gente, anche coloro che - secondo il nostro ordinamento - sono innocenti fino al terzo grado di giudizio. E “i penitenziari sono diventati un’enorme macchina di stratificazione sociale”, racconta il presidente di A buon diritto Luigi Manconi. Perché in cella finiscono tossicodipendenti, stranieri e malati psichiatrici, il 70 per cento della popolazione carceraria. Sono le nostre leggi ad imporlo, la Fini - Giovanardi sulla droga (oltre 28 mila i reclusi per averla violata) e il pacchetto sicurezza di Maroni, per cui viene mandato in galera chi è inottemperante al decreto di espulsione o i recidivi. Gli stranieri sono oltre 25 mila, contro i 14 mila di dieci anni fa. Dentro finiscono soprattutto marocchini e rumeni. Numeri che diventano drammatici quando si osservano le celle di dieci metri quadrati con i letti a castello a tre piani. O quando si pensa ai tagli imposti dal governo anche all’amministrazione penitenziaria, che fatica anche a comprare la carta igienica. Per non parlare della carenza di organico tra gli “addetti ai lavori”. I magistrati di sorveglianza sono 178, a fronte dei 204 previsti. Ognuno deve occuparsi in media di 394 detenuti: considerando che ogni detenuto presenta circa dieci domande all’anno (misure alternative, ricoveri, reclami), ogni giudice deve portare avanti circa quattromila procedimenti. Alla polizia penitenziaria non va meglio: l’organico previsto è di 42.268 unità, i poliziotti in servizio sono 37.348, cui vanno sottratti circa tremila uomini non in servizio attivo. I sindacati lo denunciano da tempo: se nelle carceri non si scatenano rivolte, o se si riescono a salvare tante vite, è solo grazie alla dedizione del personale. E che dire degli educatori e degli assistenti sociali? Che c’è un operatore ogni 60 detenuti. Numeri che non hanno bisogno di commento. Eppure, la politica esprime una “serena indifferenza”, come sostiene Antigone. L’indifferenza della politica Il piano carceri, tanto reclamizzato, è fermo. “Due anni fa è stata proclamata l’emergenza - prosegue Gonnella - ma ad oggi i tre pilastri su cui si basa il piano sono bloccati. Nessuna nuova costruzione carceraria, nonostante lo stanziamento di 500 milioni di euro, nessuna assunzione di poliziotti, nessuna legge perla detenzione domiciliare (discussione avviata e poi arenatasi in Parlamento)”. E a poco servono le pur lodevoli iniziative dei Radicali, come quella del “Ferragosto in carcere”, quando illustri parlamentari si sono re - si conto di persona della situazione. Antigone fornisce un altro dato interessante, quello relativo alla Cassa delle Ammende, ovvero le risorse che derivano dalle ammende pagate dai condannati. Soldi destinati a finanziare programmi di reinserimento. Nel biennio 2009/2010 sono stati finanziati 20 progetti, per un totale di oltre 17 milioni di euro (in media 850 mila euro ciascuno). Di solito questi programmi nascono all’interno della stessa amministrazione penitenziaria. Ci sono, però, due eccezioni, guarda caso siciliane come il ministro Alfano. Quasi cinque milioni di euro sono andati all’Agenzia nazionale reinserimento al Lavoro, voluta dal Guardasigilli a settembre 2009, promossa dalla Fondazione Monsignor Di Vincenzo di Enna e data in gestione al Movimento del Rinnovamento dello Spirito Santo. “Un soggetto praticamente sconosciuto in ambito penitenziario, che ad oggi ha al proprio attivo un inserimento di soli 12 detenuti”, fa sapere Antigone. La seconda eccezione è costituita dal progetto “Luce e libertà”, proposto dalla Usl 5 di Messina e finanziato con quasi 4 milioni di euro. Quando la Sicilia chiama, Alfano risponde. Giustizia: caro Pd… la vergogna in Italia è anche il carcere di Valter Vecellio www.europaquotidiano.it, 23 ottobre 2010 La riflessione che propongo prende le mosse da un manifesto elaborato dal Partito democratico: quattro righe in rosso e tre in nero, fondale bianco, semplice, essenziale, come dev’essere un manifesto, che informa, non è un quadro. “Il lodo Alfano retroattivo - si legge - assicura l’impunità a Berlusconi. Una vergogna per il paese”. Non c’è dubbio, certo: è una vergogna, e anche qualcosa di più. Però, senza negare questa vergogna... Insomma, Marco Pannella da una ventina di giorni è in sciopero della fame, anche - riassumo molto rozzamente - per i diritti negati di chi vive in condizioni disumane dietro le sbarre, puntando il dito sulle morti di troppi detenuti: 135 di cui 57 suicidi, solo quest’anno. Tra le vergogne di questo paese c’è anche che di questa iniziativa di lotta e di dialogo nonviolento non si parli e non si ragioni. In anni lontani, nel 1974, il poeta premio Nobel Eugenio Montale, sulla prima pagina del Corriere della Sera scriveva che “dove il potere nega, in forme palesi ma anche con mezzi occulti, la vera libertà, spuntano ogni tanto uomini ispirati come Andrej Sacharov e Marco Pannella, che seguono la posizione spirituale più difficile che una vittima possa assumere di fronte al suo oppressore: il rifiuto passivo. Soli e inermi, essi parlano anche per noi”. Ma oggi non c’è nessun Montale, Sciascia, Pasolini o Montanelli... Tra le vergogne di questo paese, oltre al lodo Alfano retroattivo, c’è quello che dice la madre di un giovane di 33 anni detenuto nel carcere fiorentino di Sollicciano: “Mio figlio ha già tentato di uccidersi tre volte. È malato e ha bisogno di cure: aiutatemi a fargli scontare la pena in una comunità. Chiedo di valutare la situazione alla luce delle numerose patologie di cui soffre. La carcerazione non lo aiuta sicuramente, credo che ci debba essere un’alternativa al carcere”. Tra le vergogne di questo paese, oltre al lodo Alfano retroattivo, c’è che l’emergenza carceri non riguarda solo il sovraffollamento, con detenuti stipati come sardine nelle celle, ma anche l’ormai cronica carenza di personale tra la polizia penitenziaria. A Pistoia, per esempio, per questo motivo, saltano i processi. Tra le udienze rinviate per causa di forza maggiore quella che vede sotto accusa la cosiddetta “Mamma Ebe”. A causa della mancanza di agenti da destinare alla scorta, uno degli imputati - il marito della “santona” - non ha potuto essere portato in aula. Tra le vergogne di questo paese, oltre al lodo Alfano retroattivo, c’è il fatto che lunedì prossimo gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Favignana daranno il via a un sit - in per protestare per le condizioni di degrado in cui versa il carcere. Sempre tra le vergogne di questo paese, oltre il lodo Alfano retroattivo, a Rovigo il segretario regionale Fp Cgil Biasioli e quello provinciale Pegoraro denunciano le gravi carenze di organico: 118 i carcerati dove dovrebbero essere 79; 66 agenti in organico, 60 gli effettivi. Tra le vergogne di questo paese, oltre al lodo Alfano retroattivo, il collasso delle carceri, in buona parte provocato dal turnover: migliaia di indagati che entrano in carcere per pochi giorni, in attesa di giudizio, quasi sempre per reati connessi al consumo di droga: un detenuto su tre è tossicodipendente. E mentre il governo promette investimenti in nuovi edifici, in cattedrali nel deserto, celle nuove lasciate andare in rovina, padiglioni pronti e mai aperti, il panorama dei 216 istituti peggiora giorno dopo giorno: il carcere in Italia è costituito da strutture vecchie - l’80 per cento ha superato il secolo di vita - detenuti stipati in due metri quadri a persona contro i nove previsti dalla direttiva europea. Amici e compagni del Pd: non sarebbe bello, giusto, opportuno, necessario leggere anche un manifesto del Pd, che denuncia come vergogna di questo paese, oltre al lodo Alfano retroattivo, anche queste cose? Giustizia: Pagano; i suicidi accadono perché in carcere c’è troppa gente, difficile controllare tutti La Repubblica, 23 ottobre 2010 Mancano settanta giorni alla fine dell’anno e nelle carceri italiane ci sono stati 55 suicidi. Sono stati superati i bilanci del 2007 e del 2008. Proviamo a capire che cosa succede con Luigi Pagano, “capo” delle diciotto carceri lombarde: “Il problema è “non perdere di vista” quello che succede nonostante il sovraffollamento,e non è facile”. Qual è un’idea possibile? “Niente di speciale, per carità, ma a determinare i suicidi ci sono due fenomeni. Uno è la scelta personale, e a volte non si può fare nulla. L’altro è sentirti sperduto, impaurito, un derelitto. È chiaro che se il numero degli ingressi è così alto come oggi, rischi di non riuscire a seguire tutti. Ma il personale è abituato a dire che ci troviamo in “un luogo di speranza” e a evitare il più possibile lo stress da primo ingresso”. La “speranza” è quella di uscire? “Non solo. Anche speranza di capire qualche cosa. Ma si fa fatica, perché le risorse sono tarate per un certo numero di detenuti, noi siamo sotto organico, se entrano tanti detenuti di più, fatichi a controllare la situazione. Se prima percepivi i segnali, ora rischi di non percepirli”. San Vittore, milleseicento uomini, cento donne, quando dovrebbe averne novecento al massimo... “Sì, ma tra entrate e uscite sa quanta gente passa in un anno da San Vittore? Abbiamo dodicimila movimenti, è chiaro che se uno ti vuole “fregare”, ci può riuscire”. In tutta Italia ci sono oltre 260 gli operatori picchiati. Siamo tornati alla stagione delle carceri in fibrillazione? “Nonostante tutto non mi sembra, la conflittualità c’è, ma è endemica. Il livello di animosità non è aumentato, almeno in Lombardia, anzi è inferiore rispetto a quello che potresti aspettarti. Su 9.300 detenuti in tutto, i suicidi sono stati tre. È dura, ma ancora ce la facciamo. Spero anch’io, non solo il detenuto”. Giustizia: caso Cucchi; “Noi non c’entriamo, la divisa non ha colpa” di Paolo Persichetti Liberazione, 23 ottobre 2010 “Noi non c’entriamo, la divisa non ha colpa”. Si congeda con queste parole il maresciallo dei carabinieri che aveva portato alla madre di Stefano Cucchi la notizia del decesso del figlio, esattamente un anno fa nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini. Non una imbarazzata frase di circostanza ma l’annuncio di una programmatica impunità. L’episodio è rivelato da Stefania Cucchi nel libro scritto insieme al giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli. Di frasi del genere in questa terribile storia che racconta l’oscenità del potere che si impossessa dei corpi, se ne trovano altre, come quella pronunciata da un’altro uomo in divisa davanti al reparto dove Cucchi è morto, “Ci sono tutte le carte a disposizione. Se volete potete controllare, noi siamo tranquilli”. L’accesso alle carte sarà invece un percorso labirintico, per nulla spontaneo, dovuto unicamente all’attenzione politico - mediatica accesa sul caso dalla pubblicazione delle foto del corpo straziato di Stefano sul tavolo dell’obitorio e dalla caparbietà della famiglia costretta a rinunciare al proprio lutto privato. Le denunce pubbliche innescheranno una doppia inchiesta, parlamentare e amministrativa, arrivando lì dove l’indagine penale da sola non sarebbe mai giunta senza tuttavia dissolvere molte ombre. L’autoassoluzione preventiva appartiene alle caratteristiche peculiari delle burocrazie repressive. È parte del patto tacito stipulato con le gerarchie in cambio della fedeltà e dei servizi prestati, spesso inconfessabili. Non a caso a sancire l’irresponsabilità è arrivato anche il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che a conclusione dell’inchiesta ministeriale affermava “Gli accertamenti amministrativi hanno rilevato fin qui l’assenza di responsabilità da parte della polizia penitenziaria”, nonostante l’indagine interna redatta dal numero due del Dap, Sebastiano Ardita, traesse ben altre considerazioni. “Quando ho potuto leggerla - afferma Ilaria Cucchi - mi sono resa conto che si stava tentando di celare perfino quanto scoperto dalle stesse istituzioni”. A fargli compagnia le dichiarazioni preventive del ministro della Difesa Ignazio La Russa in favore dell’Arma dei carabinieri, quando le indagini erano ancora al punto di partenza, e la sortita ignobile del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al lotta contro le tossicodipendenze, Carlo Giovanardi, per il quale Cucchi se l’era cercata. In questa gara all’esportazione delle responsabilità non è stata da meno neanche la Asl competente per territorio sull’ospedale Pertini, che appena dieci giorni dopo il trasferimento in via cautelare reintegrava il personale sanitario indagato. Eppure nei sei giorni che l’hanno separato dall’arresto fino all’ultimo respiro Stefano Cucchi non ha fatto altro che passare di mano da una divisa e l’altra attraverso caserme, camere di sicurezza, carceri, reparti penitenziari di ospedali. In realtà le divise e i camici, inquadrati da altre divise, nella sua morte c’entrano eccome. “In tutte le tappe che hanno visto Stefano Cucchi imbattersi nei vari servizi di diversi organi pubblici, emerge una incredibile continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti”, afferma il rapporto interno del Dap che riassume così il calvario del giovane: “Assenza di comprensione del disagio, mancata assistenza ai bisogni, trattazione burocratica della tragica vicenda personale e in alcuni casi assenza del comune senso di umanità, si sono susseguiti in un modo probabilmente non coordinato e con condotte indipendenti fra loro, ma con inesorabile consequenzialità”. Il tutto condito da tante violenze, prima durante e dopo, testimoniate da un corpo fratturato e pieno di ematomi. A Cucchi, come recita la canzone di De André, non l’uccise la morte ma chi volle cercargli l’anima a forza di botte. Il libro è la testimonianza dolorosa del percorso di una famiglia legata a valori tradizionali, “religione, legge e ordine”, che proprio per questo scopre il tradimento delle istituzioni in cui ha sempre creduto. Una presa di coscienza che fa dire a Ilaria, “sorella coraggio”, di aver sentito dire in giro che la morte del fratello fa parte di quegli incidenti “inevitabili conseguenze di pratiche e comportamenti che servono a tutelare la sicurezza della collettiva. Forse anch’io, un tempo, mi sarei lasciata andare a cose simili ma oggi so che sono inaccettabili. Perché non ci può essere un motivo valido per cui un ragazzo debba morire in un carcere o in una caserma. Non deve accadere, né deve accadere che l’opinione pubblica lo giustifichi come uno sgradevole inconveniente”. Ad Ilaria e alla famiglia diciamo una cosa sola: non vi lasceremo mai soli. Giustizia: nelle nostre carceri una inciviltà infinita di Peppino Caldarola Il Riformista, 23 ottobre 2010 L’associazione “Antigone” ha diffuso ieri i dati sulla situazione carceraria in Italia. Sono sbalorditivi. Nei 206 istituti dì pena c’è posto per 44.612 detenuti mentre invece sono rinchiuse 68.527persone. Di queste 15.233 sono ancora in attesa di giudizio. Quasi la metà della popolazione carceraria è ristretta per violazione alle leggi sulla droga: si parla infatti di 28.233 persone. Ben 11.601 carcerati devono scontare una pena inferiore a un anno. In queste cifre c’è tutta la situazione della giustizia in Italia e una fotografia anche delle devianze nella nostra società. Appare chiaro che il sovraffollamento oltre a costituire un dato di inciviltà assoluta (la media dei suicidi è molto alta) rende le carceri non un luogo di recupero ma di maggiore acculturazione criminale di chi finisce dietro le sbarre. L’enorme quantità di detenuti che sono in carcere prima che la sentenza sia passata ingiudicato ovvero che sono carcerati preventivamente rispecchia una delle maggiori storture del nostro ordinamento giuridico. Come l’alto numero di persone che finiscono nelle maglie della legge per violazione della legislazione antidroga racconta un altro aspetto della condizione prevalentemente giovanile. Di fronte a tutto questo da anni sentiamo parlare di rilancio dell’edilizia carceraria senza che si abbia notizia di nuovi edifici penali. Il quadro denunciato da Antigone rivela una situazione che spesso ha esposto l’Italia a censure internazionali. Fino a quando si continuerà a far nulla? Ancona: detenuto di 22 anni ritrovato morto in cella, un altro giallo a Montacuto Il Resto del Carlino, 23 ottobre 2010 Un ventiduenne è stato trovato morto dentro la sua cella. Ennesimo giallo nel carcere di Montacuto. La vittima è un ragazzo di origini napoletane, Alberto Grande, e il rinvenimento del suo cadavere è avvenuto nella tarda mattinata di ieri. Si tratta della terza vittima dentro l’istituto di pena anconetano dall’inizio dell’anno. Grande era in attesa di giudizio dopo che assieme ad un tunisino minorenne la notte tra il 17 e il 18 luglio scorsi sequestrarono e rapinarono un tassista a Falconara. I carabinieri li arrestarono dopo che la macchina si era impantanata sulla spiaggia. Per il tassista era stata una notte di autentico incubo. Quando un compagno di cella ha dato l’allarme sul posto sono accorsi medico e infermiere del carcere che hanno tentato di rianimare il giovane, purtroppo invano. Grande non si è mai ripreso e una volta constatato il decesso la salma è stata trasferita all’istituto di medicina legale dell’ospedale di Torrette. Tutte in piedi le ipotesi che hanno provocato l’arresto cardiocircolatorio del ventiduenne. Gli inquirenti e le autorità carcerarie non escludono che si sia potuto trattare di un gesto volontario, magari a seguito dell’assunzione di farmaci. La cosa certa al momento è che sul corpo del giovane non sono stati trovati segni di morte violenta, ma è chiaro che soltanto l’autopsia, disposta dalla procura, chiarirà ogni dubbio. Non c’è stato neppure bisogno dell’intervento del 118, il personale sanitario interno ha effettuato il soccorso e poi constatato il decesso del detenuto: “È stata avviata un’indagine interna per chiarire l’accaduto - spiega Manuela Ceresani, referente della provveditorato regionale delle carceri -, attendiamo la ricostruzione esatta dell’episodio per prendere gli eventuali provvedimenti”. Lecce: nel carcere tubercolosi, scabbia e varicella; è allarme sanitario di Alessandra Lezzi Gazzetta del Mezzogiorno, 23 ottobre 2010 Chiunque soffra di tubercolosi polmonare, nel momento in cui tossisce, starnutisce o anche solo parla, espelle delle goccioline (uno starnuto può rilasciare sino a quarantamila particelle), ognuna delle quali è in grado di trasmettere la malattia. Facile quindi immaginare il livello di preoccupazione e di tensione che si vive in questi giorni all’interno del già sin troppo pieno di problematiche carcere di Lecce. Un vero e proprio stato di allarme se si considera che a registrare un’infezione da tubercolosi è un infermiere in servizio all’interno del penitenziario, un 51enne residente in un paese vicino Lecce. L’uomo naturalmente, appresa la notizia, è stato messo in malattia, ma il suo ruolo all’interno di Borgo San Nicola e la stessa possibile origine della contaminazione determinano una certa giustificabile ansia. Sarà quindi necessario stabilire e sottoporre ad esami approfonditi tutti coloro che hanno avuto contatti con l’infermiere, dai detenuti (numerosi quelli che quotidianamente si rivolgono all’infermeria interna), e poi colleghi, agenti di polizia penitenziaria, addetti dell’amministrazione, oltre naturalmente agli stessi familiari dell’uomo. Da capire, soprattutto, se a contagiarlo sia stato un detenuto, e se lo stesso sia ancora all’interno del penitenziario del capoluogo salentino oppure no. E per quanto grave, non è purtroppo l’unica emergenza sanitaria da fronteggiare al di là del cancello di Borgo San Nicola: oltre a quattro detenuti con la varicella, ce ne sono altri quattro affetti da scabbia. Per loro è stato predisposto l’isolamento sanitario: ossia vengono messi all’interno di celle singole, alle porte delle quali viene chiuso persino lo spioncino e lasciata 24 ore su 24 aperta invece la piccola finestra con le grate che dà all’esterno. L’accesso è consentito naturalmente al personale medico attrezzato di guanti e camici monouso. E così dopo il sovraffollamento che di giorno in giorno supera il suo stesso record, con un numero di detenuti che ha sfiorato le 1500 presenze, a fronte delle 650 per cui il penitenziario è stato costruito, dopo le carenze dell’impianto idrico e di quello elettrico, senza dimenticare quelle non meno importanti del personale di polizia penitenziaria, dopo i tentativi di suicidi, le aggressioni, gli atti di autolesionismo, gli scioperi della fame, ci mancava solo un’emergenza sanitaria come questa. E mentre appare evidente che nessuno ha dato credito non solo alle richieste di attenzione che venivano da dietro le sbarre, ma neanche al richiamo alle responsabilità da parte dello stesso arcivescovo, monsignor Domenico D’Ambrosio, la Uil Penitenziaria, guidata da Donato Montinaro, si riunisce a Bari e snocciola dati, davanti al deputato già sottosegretario alla Giustizia, Luigi Vitali, che si lascia scappare un impegno: un nuovo padiglione per il carcere di Taranto e un nuovo istituto di pena a Bari, pronto in due anni. Sarà vero? E che accadrà nell’attesa? Bologna: la Provincia “arruola” detenuti per cancellare i graffiti dai muri del centro storico Dire, 23 ottobre 2010 A ripulire i muri di Bologna dai graffiti, presto, saranno anche i detenuti del carcere della Dozza. Lo prevede un protocollo d’intesa tra la Provincia di Bologna, il Tribunale di Sorveglianza e Casa circondariale, in particolare attraverso il progetto “Graffi o Graffiti? Percorsi di legalità”. La delibera contenente l’accordo è stata approvata pochi giorni fa dalla Giunta di Palazzo Malvezzi, che ha promosso il progetto. La Provincia intende promuovere “un’iniziativa utile per procedere alla ripulitura del patrimonio cittadino, a cominciare in via sperimentale dagli edifici scolastici presenti nel centro storico di Bologna - si legge nell’atto - ma con l’intento di estendere gli interventi innovativi di ripulitura dai graffiti ad altre scuole di Bologna e provincia, anche al fine di aumentare il grado di partecipazione della società esterna al trattamento e ai processi di inclusione sociale e lavorativa delle persone sottoposte a misure limitative della libertà”. Il progetto, infatti, ha la finalità di “contrastare il degrado cittadino e consentirà, attraverso la collaborazione fra istituzioni e imprese, il recupero e la riqualificazione del patrimonio pubblico - sottolinea Palazzo Malvezzi - e la promozione di progetti di inclusione sociale per dare impulso all’integrazione di persone detenute” alla Dozza. Con questi obiettivi, dunque, si procederà “alla realizzazione di interventi di ripulitura dai graffiti - continua la delibera - coinvolgendo detenuti beneficiari di misura alternativa alla detenzione o di lavoro all’esterno, in prestazioni di attività non retribuite a favore della collettività per un tempo determinato”. Per la formazione dei detenuti sarà richiesta la collaborazione dell’Istituto di istruzione professionale per lavoratori edili (Iiple), con l’intervento di “tecnici esperti nella rimozione dei graffiti”, in tandem con il Consorzio europeo per la formazione e l’addestramento dei lavoratori (Cefal) per l’azione di orientamento e coordinamento. Sono previsti, inoltre, “interventi formativi da parte della Magistratura di sorveglianza”. Infine, i soggetti coinvolti istituiranno un comitato per l’avvio, la realizzazione ed il monitoraggio del progetto “Graffi o graffiti”. Ad ipotizzare l’arruolamento dei detenuti per la crociata anti - graffiti, in particolare quelli giovani che devono scontare pene per reati minori, era stato anche (ad aprile) l’allora esponente leghista Daniele Baldini, oggi finiano: “Un’iniziativa che può essere educativa e formativa per soggetti che hanno intenzione di reintegrarsi nel tessuto sociale e lavorativo del paese a pena scontata”, spiegava in una nota Baldini. Como: interrogazione parlamentare; carcere del Bassone sovraffollato e con carenza di personale Giornale di Como, 23 ottobre 2010 Questi, secondo il senatore Alessio Butti, i due problemi principali del carcere comasco. In seguito a un’interrogazione urgente presentata dal senatore comasco, dunque, il ministero ha fatto chiarezza: “Per quanto riguarda la problematica del sovraffollamento, il ministero della Giustizia comunica che il Bassone, per quanto interessato da tale questione, non presenta criticità connotate da significativo allarme, dal momento che dati recenti parlano di un numero di detenuti ospitati inferiore alla capienza tollerabile di 581 posti detentivi”, fa sapere lo stesso Butti. Per quanto concerne la problematica della carenza di personale, i dati resi noti dai competenti uffici del ministero della Giustizia, interpellati dal senatore Butti, ridimensionano l’allarme per le condizioni di lavoro del personale penitenziario del Bassone. Il senatore lariano precisa: “Alla data del 12 maggio 2010, a fronte di una previsione organica di 308 unità di polizia penitenziaria (di cui 34 unità femminili), risultano presenti in istituto 232 unità di personale (di cui 36 unità femminili), con una differenza, in negativo, di 76 unità. Inoltre, il Piano di mobilità prevede l’assegnazione al carcere del Bassone di ulteriori 3 unità. Con risorse stanziate in Finanziaria, si prevede inoltre un programma di assunzione di 2.000 nuovi agenti di polizia penitenziaria oltre alla prevista assunzione - negli anni 2010, 2011 e 2012 - di personale di polizia penitenziaria”. Alla luce delle istanze avanzate dal senatore Butti, il ministero della Giustizia continua a mantenere alta l’attenzione sulle condizioni di lavoro e di vita all’interno del carcere del Bassone di Como. Camerino (Mc): scelta l’area per l’edificazione del nuovo carcere, sarà pronto entro il 2012 Corriere Adriatico, 23 ottobre 2010 Il progetto per la realizzazione del nuovo carcere fa un altro passo in avanti. La Giunta comunale ha dato parere favorevole alla localizzazione dell’istituto. Esso sorgerà in una zona di 17 ettari fra le località di Caselle e Morro, dopo l’ospedale. Il penitenziario sarà in grado di ospitare 450 detenuti, avrà un costo di 40 milioni e 500 mila euro e sarà realizzato, secondo le previsioni, entro il 2012. La sua costruzione, visti anche i tempi, avrà carattere di estrema urgenza. È a ciò che fa riferimento proprio il provvedimento siglato in Comune in questi giorni e che si presenta, di fatto, come un decreto di occupazione d’urgenza delle aree individuate. Per la realizzazione del nuovo carcere ci si potrà avvalere del Dipartimento della Protezione civile per le attività di progettazione, scelta del contraente, direzione lavori e vigilanza degli interventi strutturali e infrastrutturali. Ad anticipare la notizia della realizzazione del nuovo carcere di Camerino era stato, alla vigilia delle elezioni provinciali, il sottosegretario Giacomo Caliendo che ha lavorato, e molto, per sostenere il progetto a lui presentato dal vice sindaco, Gianluca Pasqui, e dal senatore azzurro, Salvatore Piscitelli. Ma la notizia della benedizione vera e propria del progetto è giunta addirittura dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Gianni Letta, con una telefonata al sindaco, Dario Conti. Il primo cittadino, dopo il contatto istituzionale con Letta, aveva per questo espresso “viva soddisfazione anche perché in un primo tempo il nome di Camerino era stato lasciato fuori dall’elenco delle strutture nel cosiddetto piano Ionta, elaborato dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Invece ufficialmente siamo rientrati nell’elenco ed abbiamo ottenuto i necessari finanziamenti, che non sono cosa di poco conto”. Essere nel nuovo piano carceri dovrebbe equivalere ad avere in mano una garanzia anche per il futuro. Trattandosi di un progetto di somma urgenza, esso comunque dovrà essere portato a termine non oltre la fine del prossimo anno. Favignana (Tp): Uil-Pa Penitenziari; vogliono costruire un altro carcere sull’isola, incredibile! La Sicilia, 23 ottobre 2010 Non uno. ma due carceri sull’isola. La notizia ha dell’incredibile, ma viene indicata come certa dal sindacato della Uil Penitenziari. Come se l’economia delle Egadi debba passare per le strutture penitenziarie; e poi di quale economia si può parlare se alla fine l’occupazione resterebbe sempre la stessa, dunque col paradosso che lo stesso numero di agenti, scarso, dovrebbe occuparsi di due carceri, di cui uno, quello che si trova dentro un antico castello, malconcio e dichiarato invivibile da tutte le ispezioni che si sono susseguite nel tempo “Ci chiediamo con quale coraggio scendono da Roma ipotizzando di aprire il nuovo penitenziario e pensano, nel contempo, di lasciare ancora attivo il vecchio carcere di Favignana? - commenta Gioacchino Veneziano, segretario regionale della Uil Penitenziari - Costoro forse non sanno che già ora non c’è personale sufficiente per gestire il vetusto penitenziario di Castello San Giacomo. Come faranno ad aprire il nuovo istituto? Questa è la conferma che siamo in mano a dirigenti che non conoscono la realtà delle carceri”. I dati sul carcere vengono sciorinati con una certa sicurezza rispetto alla reale situazione: “Dalla rilevazione effettuata il 30 settembre risultavano essere ristrette 132 persone (78 detenuti e 54 internati), stipati in celle degradate, sudice e buie. Di contro il personale di Polizia Penitenziaria presente (al netto dei riposi e congedi) era di sole 25 unità. Le gravi deficienze organiche (meno trenta unità) determinano spesso che nei turni serali e notturni vi sia un solo poliziotto a vigilare sulla sicurezza dell’intera struttura. Non solo. Mancano i fondi necessari a pagare lo straordinario degli agenti e manca persino un Comandante effettivo. La gestione e la rotazione nei servizi lascia a desiderare e le relazioni sindacali non sembrano essere al centro dell’attenzione del direttore. Anche questioni banali - continua Veneziano - si trasformano in conflitti insuperabili. Sembra quasi che non ci sia interesse a risolvere ma ci si impegni ad alimentare le discussioni. Riteniamo tutto questo insensato, ai limiti della provocazione”. Nei giorni scorsi a Favignana è giunto il vice capo del Dap Santi Consolo. I sindacati sono stati messi alla porta. “Non aver permesso alle rappresentanze sindacali di incontrarlo - dice ancora Veneziano - è stato un gesto di grande supponenza e scortesia istituzionale. Evidentemente l’ Amministrazione è orientata ad eludere il confronto con i sindacati. Il silenzio dei vertici dipartimentali, quindi, può essere inteso come un chiaro indicatore di una volontà a procedere senza interlocuzioni o come sintomo della confusione generale che avvolge il Dap. Le incivili, disumane e degradate condizioni di detenzione, cui si coniugano penalizzanti ed infamanti condizioni di lavoro, fanno della questione penitenziaria una vera emergenza sanitaria, umanitaria, sociale e di ordine pubblico. Per questo - annunciano dalla Uil Pa penitenziari - il 25 ottobre dalle 10 alle 13 terremo un sit in di protesta davanti alla sede del Palazzo Municipale con un volantinaggio in cui denunceremo la vergogna del carcere di Favignana. Credo che sarà necessario interessare anche il prefetto, perché la situazione è talmente compromessa che è a rischio l’ordine pubblico”. Trieste: progetto del Villaggio del Fanciullo in carcere; si è concluso il corso per pasticcieri Il Piccolo, 23 ottobre 2010 Giovedì scorso al Villaggio del Fanciullo di Opicina si è tenuta la cerimonia di scoprimento di una targa in legno, realizzata a mano da due detenuti, donata dal carcere di via Coroneo alla stessa struttura di Opicina come segno di ringraziamento a conclusione del percorso di formazione Bred&Bar per panificatori e pasticcieri a favore proprio dei detenuti, che si è svolto appunto in un laboratorio all’interno del “Coroneo” in collaborazione con il Villaggio del Fanciullo. “Un gesto di ringraziamento - si legge in una nota - che il direttore del carcere, Enrico Sbriglia, vuole offrire al Villaggio e in particolar modo agli allievi dei corsi per Addetto alla ristorazione e per Operatore grafico che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto”. Bred&Bar è un’iniziativa finanziata dal ministero della Giustizia - Cassa Ammende, con l’”obiettivo di promuovere il reinserimento sociale dei detenuti e favorire la sicurezza della collettività”. “In particolare - prosegue la nota - i ragazzi dei corsi di ristorazione hanno partecipato alla realizzazione e alla distribuzione dei prodotti nei banchetti in occasione dell’inaugurazione del progetto e della festa nazionale della polizia penitenziaria. Gli allievi del corso per Operatore grafico si sono adoperati nella preparazione dei depliant e delle locandine”. Cremona: detenuto russava, a processo il compagno di cella che gli fracassò la testa con lo sgabello www.cremonaonline.it, 23 ottobre 2010 Con uno sgabello ha fracassato la testa al compagno di cella - “perché russava” - , passato dalla branda al lettino della sala operatoria di Neurochirurgia dell’ospedale Maggiore. Cinque anni fa, a ridurre l’uomo in fin di vita è stato Giacomino Galvani, detenuto nella sezione speciale del carcere. Speciale, perché vi sono reclusi gli accusati di violenza sessuale e pedofilia, ma anche gli ex appartenenti alle forze dell’ordine. Di lesioni gravissime è imputato Galvani, nei cui confronti il giudice Ivano Brigantini ha aperto il processo (aggiornato poi al 22 novembre) con le testimonianze degli agenti della polizia penitenziaria (testimoni del pm onorario Barbara Tagliafierro) intervenuti nella cella, alle cinque e mezza del mattino del 25 maggio del 2005. Quando Galvani, che con il compagno di cella non aveva motivi di rancore, “altrimenti li avremmo separati”, lo colpì più volte con lo sgabello, gli rimboccò persino le lenzuola, gli disse ‘dormi, dormì e tranquillo tornò a coricarsi. Messo in allarme da rumori simili a “una bottiglia che viene sbattuta”, quei trenta, quaranta metri che lo separavano dalla cella, uno degli agenti li fece in dieci secondi, convinto di dover riprendere i detenuti, perché a quell’ora, con l’alba che stava spuntando, in carcere si dorme. Non però, “i musulmani, che dicono la preghiera”. L’agente trovò il detenuto con la testa fracassata in piedi, davanti alla porta. In aula, il testimone ha fotografato la cella: era in ordine, non c’erano, cioè, segni di una colluttazione, ma il cuscino era impregnato di sangue e tracce di sangue le trovò sullo sgabello di legno collocato sotto la mensola dove i detenuti mangiano. E Giacomino Galvani che faceva? Era a letto. “Mi dava fastidio, perché russava”: l’imputato lo disse, “con tono pacato”, al medico di guardia chiamato nella sezione, dove arrivò anche il personale del 118. L’aggredito fu trasportato in ospedale e nella sala operatoria di Neurochirurgia ci finì “in stato soporoso, ma in grado di parlare, anche se confuso” e con “una frattura affondata cranica”, ha spiegato il neurochirurgo, che trovò schegge di legno nel cranio del paziente. Era in pericolo di vita? “Siamo intervenuti per un intervento d’urgenza”. (22 ottobre 2010) Busto Arsizio: premiati detenuti-pasticcieri, come miglior azienda artigiana a Eurochocolate 2010 Ansa, 23 ottobre 2010 I 40 detenuti del carcere lombardo di Busto Arsizio che lavorano nell’azienda “Dolci libertà” hanno vinto il premio Miglior artigiano all’edizione 2010 di Eurochocolate, la kermesse del cioccolato in corso da venerdì scorso a Perugia. L’azienda “Dolci libertà” fa parte del progetto rieducativo che il carcere di Busto Arsizio sta portando avanti in collaborazione con l’Agenzia per il lavoro penitenziario del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Milano: Eurochocolate l’ha premiata ‘perché ha saputo dare ai detenuti una seconda possibilità di reinserimento nella societa”. Tra gli altri premi, quello per il miglior prodotto editoriale è andato a Fabrizio Galla, giovane cioccolatiere piemontese pluripremiato a livello mondiale e al suo libro Virtuosismi sul cioccolato, che racconta con foto e ricette la realizzazione di dolci al cioccolato. Miglior produttore straniero 2010 è, invece, lo stato del Chiapas per l’impegno e la massiccia partecipazione dei produttori locali alla manifestazione nell’ambito di Eurochocolate World. Genova: sul palco detenuti e bambini, “l’incontro possibile” raccontato in un film www.genovapress.com, 23 ottobre 2010 Due laboratori teatrali che si incontrano e si intrecciano per far comunicare fra loro realtà apparentemente inconciliabili e molto lontane, come il carcere e la scuola: ne sono protagonisti otto detenuti della Casa Circondariale di Pontedecimo e una terza elementare della Giovanni Daneo. È il progetto, tanto bello quanto sorprendente “L’incontro possibile” curato dal Teatro dell’Ortica con il carcere di Pontedecimo, la direzione didattica Maddalena, il sostegno della Provincia di Genova e la partecipazione della Regione, del Comune di Genova e dei Municipi Valbisagno e Valpolcevera, di cui un vitalissimo e intenso docu-film racconta lo spettacolo che ha concluso un anno di idee, confronti e slanci creativi “ per aprire canali sempre nuovi tra il carcere e la società - dice l’assessora provinciale Milò Bertolotto - e superando pregiudizi e preconcetti, prova a far conoscere davvero la realtà penitenziaria, a vedere coloro che vi sono reclusi non esclusivamente come responsabile di reati, ma come uomini che scontano una pena, conservando però la stessa dignità di persone e diritti che una società civile deve saper garantire a tutti.” Il film di questo “Incontro possibile” sarà proiettato, nel corso di una conferenza - presentazione nel salone di Palazzo Rosso martedì 26 ottobre alle 16, alla presenza dei rappresentanti delle istituzioni, del teatro e della scuola (l’assessora Milò Bertolotto per la Provincia, l’assessore Pippo Rossetti per la Regione, l’assessore Roberta Papi per il Comune, il provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Salamone, il direttore della Casa Circondariale di Pontedecimo Maria Milano, i presidenti dei Municipi Valpolcevera, Gianni Crivello, e Valbisagno, Agostino Gianelli, la dirigente della direzione didattica Maddalena - di cui fa parte la Daneo - Michela Casareto, il direttore artistico del teatro dell’Ortica, Mirco Bonomi, il regista del film Sergio Schenone) con le attrici - conduttrici Anna Solaro e Simona Garbarino e i detenuti del laboratorio teatrale. “Non esiste fuori e non esiste dentro, esiste l’essere. È questo il messaggio degli splendidi bambini della Daneo - dice Milò Bertolotto - che sul palco emozionano nella loro ricerca di un luogo per incontrarsi e incontrare gli altri, non importa se dentro o fuori, e lanciano messaggi che Pietro, Sandro, Ercole, Assan, Renato, Josè, Gino ed Essab, gli otto detenuti del laboratorio, raccolgono di slancio e a loro volta cominciano a raccontare la propria infanzia, quando la vita poi divenuta così aspra e difficile anche per loro era sogno e gioco, e i risultati di questo progetto rendono sempre più trasparenti anche le mura, necessarie, del carcere”. Molto soddisfatto anche il direttore artistico del Teatro dell’Ortica Mirco Bonomi che dice “Lo spettacolo dei bambini per i detenuti e quello dei detenuti per i bambini, ha concluso un lavoro complesso e spesso entusiasmante, in cuil’immediatezza dei sentimenti ha prevalso sulla complessità dei pregiudizi.” Francia: Frattini sul caso Franceschi; il cuore di Daniele in Italia per gli esami di Meo Ponte La Repubblica, 23 ottobre 2010 La Francia restituirà il cuore e gli altri organi espiantati dal corpo di Daniele Franceschi per le analisi di laboratorio. Lo ha assicurato ieri il ministro degli esteri Franco Frattini, sottolineando: “La magistratura francese sta svolgendo indagini approfondite perché non crede che la vicenda della morte di quel ragazzo nel carcere di Grasse sia stata del tutto chiarita”. Anche la Procura di Lucca sta indagando sul decesso di Daniele Franceschi nel carcere francese, anche se il codice penale lascia ai magistrati scarsi margini di manovra. “L’articolo 10 del codice penale è chiaro - spiega il pm Fabio Origlio, a cui è stato affidato il caso, per ora rubricato come omicidio colposo - nel caso di un delitto a danno di un cittadino italiano all’estero perché possa procedere anche la magistratura italiana occorre che si tratti di un reato punibile con una pena non inferiore nel minimo a un anno, che il colpevole si trovi nel territorio italiano o che l’inchiesta sia richiesta del ministro della Giustizia. In questo caso, se si accertasse che si tratta di omissione di soccorso o omicidio colposo, mancherebbero almeno i primi due requisiti”. Origlio è un magistrato puntiglioso e deciso, il 7 ottobre però ha scritto direttamente al Procuratore di Grasse: “Trattandosi di fatti ipoteticamente di rilevanza penale commessi in danno di cittadino italiano prego la Signoria vostra di voler informare questo ufficio degli sviluppi dell’indagine, anche trasmettendo copia dei risultati dell’autopsia”. Anche i legali della famiglia Franceschi, gli avvocati Menozzi e Lasagna, hanno chiesto l’acquisizione di tutta la documentazione riguardante Daniele, tra cui la cartella clinica e il diario che, secondo la madre, il ragazzo avrebbe tenuto in carcere. L’inchiesta della magistratura francese però continua a ritmo sostenuto. Il 3 novembre Cira Antignano, la madre di Daniele, per intervento del console generale di Nizza sarà ascoltata dal giudice istruttore Sandrine Andrè. Il colloquio era fissato per il 5 ottobre ed era però poi stato rinviato per un malore della donna. Oggi intanto a Viareggio saranno celebrati i funerali di Daniele. Iraq: il sito internet Wikileaks documenta gli orrori; 109mila morti in 6 anni, torture ai prigionieri Agi, 23 ottobre 2010 La bomba di Wikileaks è esplosa sull’Iraq, con la pubblicazione di 400mila documenti secretati da cui emergono torture sistematiche praticate dalle truppe di Baghdad, migliaia di casi di vittime civili, gli aiuti forniti dall’Iran alle milizie sciite. Dai file anticipati da Al Jazira e apparsi subito dopo sul sito di Julian Assange, si apprende che dall’inizio del conflitto in Iraq nel 2003 fino al 2009 sono morte più di 109.000 persone di cui oltre la metà, 66.000, erano civili. Di questi ultimi ben 15mila hanno perso la vita in incidenti di cui finora non si sapeva nulla e che nella maggior parte dei casi sono ascrivibili ai militari iracheni, ha riferito il gruppo londinese Iraq Body Count. Washington aveva sempre negato di disporre di una contabilità delle vittime in Iraq. Nel racconto dell’orrore quotidiano della guerra emergono storie imbarazzanti per gli Usa che potrebbero avere effetti imprevedibili sulle elezioni di Mid-Term del 2 novembre. Anzitutto la copertura delle torture praticate dai militari iracheni, ma anche tantissime le uccisioni di civili ai posti di blocco americani, 681 tra cui donne incinte e bambini. Il Pentagono ha minimizzato osservando che molti episodi erano “stati a suo tempo ampiamente riportati in servizi di cronaca”, ma il danno resta potenzialmente immenso. Da parte sua, il segretario di Stato, Hillary Clinton, ha condannato “nei termini il più chiari possibile” la divulgazione di qualsiasi documento che metta a rischio la vita degli americani. Nei file desecretati, c’è il racconto delle torture inflitte ai prigionieri da parte dei soldati iracheni (abusi fisici di ogni tipo, con particolari raccapriccianti, comprovati dai referti sanitari) e sistematicamente ignorati dagli americani, tranne un intervento isolato nel 2005. Si parla di sistemi simili a quelli impiegati sotto Saddam Hussein: detenuti frustati ai piedi con cavi pesanti, altri appesi ai ganci fissati al soffitto o che ricevevano scosse elettriche sul corpo; e ancora la violenza sessuale o la sua minaccia (un detenuto ha raccontato di esser stato sodomizzato con una bottiglia d’acqua, un altro con un tubo flessibile). Almeno sei detenuti, se non di più, sono morti per le percosse ricevute. I militari Usa scoprirono migliaia di vittime di esecuzioni sommarie, senza che questo venisse denunciato. C’è poi il caso di un elicottero Apache, quello già coinvolto nell’uccisione di due giornalisti della Reuters documentata da Wikileaks, che avrebbe sparato a due miliziani che volevano arrendersi. E si scopre che nel 2005 Al Qaeda voleva attaccare il carcere iracheno di Abu Ghraib, la “prigione delle torture” chiusa dall’Amministrazione Obama. Torture sistematiche ai prigionieri e gli Usa sapevano Torture sistematiche condotte con il tacito assenso delle truppe statunitensi (che sapevano ma non intervennero quasi mai); migliaia di vittime civili (donne anche incinte, bambini finiti sotto il fuoco dei soldati e dei contractor Usa ai check-point), gli aiuti dell’Iran alle milizie sciite. Wikileaks ha fatto quel che aveva minacciato e reso noto quasi 400mila file classificati sulla guerra in Iraq. Nelle ultime dieci settimane, al - Jazeera ha avuto completo accesso al materiale e nella notte precedente all’annunciata divulgazione del materiale sul sito dell’organizzazione di Julian Assange, la tv satellitare qatara ha cominciato a rendere pubblici i documenti. Da quella che è la più corposa fuga di notizie della storia usa, emerge un spaccato molto imbarazzante per Washington: violenze, abusi e vittime innocenti. Secondo i documenti, la guerra ha fatto almeno 109mila vittime, tra il marzo 2003 e la fine del 2009, il 63% delle quali civili (gli Usa hanno sempre negato di aver un conteggio dei morti, ma evidentemente non era così). Nei file desecretati, c’è il racconto delle torture inflitte ai prigionieri da parte dei soldati iracheni (abusi fisici di ogni tipo, con particolari raccapriccianti, comprovati dai referti sanitari) e sistematicamente ignorati dagli americani: “Gli Usa - fa notare al Jazeera - hanno speso milioni di dollari per creare prigioni, tribunali e la rule of law in Iraq; ma i documenti mostrano che le forze di sicurezza irachene violavano quotidianamente i più elementari diritti dei detenuti in loro custodia, con aggressioni, minacce alle loro famiglie, con gli stupri e anche le uccisioni”. “Ancora più importante, molti dei rapporti sugli abusi ai detenuti suggeriscono che gli Stati Uniti hanno consapevolmente violato la convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura: la convenzione proibisce ai firmatari di trasferire un detenuto ad altri Paesi, se vi sono fondati motivi di ritenere che egli rischi di essere sottoposto a tortura; le accuse delle mille torture nelle carceri irachene, molte suffragate da prove mediche, chiaramente sembrano costituire fondati motivi per ritenere che i prigionieri trasferiti nelle carceri irachene potessero essere torturati. Eppure gli Usa trasferirono migliaia di prigionieri agli iracheni tra cui circa 2.000 detenuti consegnati nel luglio del 2010”. “Le torture segnalate dai prigionieri sono spesso quasi identiche a quelle utilizzate dal deposto regime di Saddam Hussein: detenuti frustati ai piedi con cavi pesanti (una forma estremamente dolorosa di tortura, ma che lascia pochi segni sulle vittime); altri appesi ai ganci fissati al soffitto o che ricevevano scosse elettriche sul corpo; e ancora la violenza sessuale o la sua minaccia (un detenuto ha raccontato di esser stato sodomizzato con una bottiglia d’acqua, un altro con un tubo flessibile)”. Solo rari gli interventi delle truppe Usa per fermare le torture: accadde per esempio nel mese di agosto del 2005, ma scrive al Jazeera, “fu un’eccezione piuttosto che la regola”.