Giustizia: la Lega propone il “carcere duro” per i condannati di “omicidi efferati” Dire, 21 ottobre 2010 “Basta con il buonismo nei confronti di chi commette omicidi efferati come quelli di Avetrana. Non sono tollerabili ed è inaccettabile vedere queste persone, magari condannate, uscire dal carcere solo dopo pochi anni. Quindi noi prevediamo un regime carcerario duro come quello riservato ai mafiosi con il 41 bis, niente sconti di pena. Queste persone devono pagare in carcere per quello che hanno fatto”. Il capogruppo della Lega al Senato Federico Bricolo, spiega così il senso della proposta di legge presentata oggi a Palazzo Madama, un ddl che porta per ora la firma del capogruppo del Senato, Federico Bricolo, e dei senatori Lorenzo Bodega e Sandro Mazzatorta, e che prevede il carcere duro per chi si macchia di delitti particolarmente efferati come omicidi aggravati da motivi futili o abietti, a sfondo sessuale. Il disegno di legge, presentato nel corso di una conferenza stampa al senato a cui partecipano oltre al capogruppo anche i senatori del Carroccio Rosi Mauro, Sergio Divina e Sandro Mazzatorta, introduce nel codice penale due nuovi articoli, il 41-ter, da applicare in “situazioni di grave allarme sociale emergenti nella società civile” e il 58-quater che vieta la concessione di benefici a chi è condannato per questi omicidi efferati. La facoltà di applicare la sospensione di benefici e applicare le restrizioni spetta al ministro della Giustizia anche a richiesta del ministro dell’Interno. Di fronte a “sdegno e allarme sociale occorre reagire tutelando i cittadini - spiega Mazzatorta - e questo si può fare attivando un regime carcerario speciale”. Quindi “5 anni di carcere duro che è prorogabile per periodi di 4 anni. La proroga viene disposta in base a osservazioni scientifica della personalità del detenuto”. Inoltre, prosegue Mazzatorta “saranno definiti degli appositi stabilimenti penitenziari solo per queste persone o in apposite sezioni speciali”. Tra le misure previste dal ddl: un colloquio ogni 2 mesi videoregistrato, per chi non fa colloqui può essere autorizzato un colloquio telefonico mensile di 10 minuti registrato; limitazioni a somme e oggetti ricevuti dall’esterno; visto di censura sulla corrispondenza; un’ora al giorno d’aria e al massimo con un’altra persona. Una volta che si è condannati ci sarà, tra le altre cose, il divieto di lavoro esterno, permessi premio e detenzione domiciliare; nessun beneficio se non si espiano i due terzi della pena o in caso di ergastolo 26 anni. Divina sottolinea che “ogni società ha un tasso di criminalità che decide di accettare, noi dobbiamo attivare dei freni inibitori a comportamenti socialmente inaccettabili e inaccettati e la nostra proposta si ispira ad una teoria “economica del criminale” che modula i suoi comportamenti anche in ragione dei rischi in cui incorre. Pene severe o severità nell’applicazione delle pene alzano questo livello di rischio, che invece oggi nel nostro sistema sono pressoché pari a zero”. La vicepresidente del Senato Rosi Mauro osserva che “spesso ci si dimentica delle vittime e ci si concentra sui colpevoli di delitti efferati, e questo è un messaggio molto sbagliato che diamo alla società“. Giustizia: l’Europa unita… dall’orrore carcerario di Davide Guadagni Il Tirreno, 21 ottobre 2010 Accade oggi in Europa che un uomo di 36 anni, Daniele Franceschi, che proviene da un paese membro (la politica ha ben altro da fare e non bada troppo al ridicolo delle parole) ha la ventura, per uso improprio di una carta di credito in un casinò, di finire nelle carceri di un altro paese membro e da lì, per ragioni che a più di due mesi dal fatto sono tutte da chiarire, esce cinque mesi dopo con i piedi in avanti. Esce dopo molti giorni, esce a fatica, esce per gli interventi e l’insistenza di una madre, Cira Franceschi, straziata. Non esce un uomo, ma un corpo irriconoscibile mutilato e straziato. Fasciato come una mummia. Una mummia come se fosse un nuovo packaging con cui l’Europa fa circolare la merce umana. La Farnesina s’impegna, dice, ma a tutt’oggi non riesce né a incidere né a ottenere una qualche spiegazione. E allora aumenta nella madre di Daniele la voglia di far da sé e scrive una lettera a Carla Bruni, perché è nota, perché è italiana, per ottenere giustizia, per capire com’è successo. Siamo ridotti così: ad amministrare la giustizia con le lettere di raccomandazione, come per un posto in Comune. Fa anche un’incursione davanti al carcere per urlare la sua protesta che le procura insulti, l’arresto (con tanto di manette con le braccia dietro la schiena) e un calcio che le frattura tre costole. Scusate ma siamo in Europa o in un film dell’orrore? Le galere, chi le conosce da qualunque parte della barricata lo sa, sono un non luogo dove gli spazi fisici, i corpi, hanno un ruolo protagonista. Il fatto di essere luoghi extraterritoriali, con regole diverse da quel che le circonda le rende paradossalmente più affini le une alle altre di quanto si somiglino i paesi che le contengono. Per cui la storia di Daniele Franceschi in Francia ricorda molto da vicino quella di Stefano Cucchi in Italia. Chi ha i capelli bianchi poi ricorda in Toscana un’altra morte infame e analoga, quella di Franco Serantini. In ognuno di questi casi la prima preoccupazione del potere è stata di occultare la prova somma: il corpo della vittima. Quei corpi che quando poi sono riemersi, strappati dalle mani di chi non voleva mollarli, sono diventati le evidenze lampanti e strazianti di infami abusi. E così scopriamo un’altra Europa unita, quella dell’orrore carcerario, della reticenza. Che ha tante sedi quante sono le carceri. Carceri che soffrono tutte delle stessa malattia, il sovraffollamento, l’inadeguatezza delle strutture e del personale. Malattia che ne procura altre come l’intolleranza, la disperazione, la violenza contro gli altri e contro se stessi. Carceri attualmente stracolme di extracomunitari dove, però, come il caso Franceschi dimostra, l’ingiustizia è uguale per tutti. Carceri che dall’inizio dell’anno nel nostro paese hanno contato 54 suicidi. Il significativo contributo italiano all’alta media europea. Giustizia: Berselli (Pdl); ritirati emendamenti ddl pene domiciliari, ora approvare testo Ansa, 21 ottobre 2010 Nell’odierna seduta della commissione Giustizia del Senato sono stati ritirati dai presentatori gli emendamenti presentati al ddl 2313 che prevede, tra l’altro, l’esecuzione presso il domicilio del condannato delle pene detentive non superiori all’anno. Il presidente Berselli si è dichiarato lieto di tale decisione sicché la prossima settimana l’Aula del Senato potrebbe approvare definitivamente il testo così come già licenziato dalla Camera”. Lo rende noto l’ufficio stampa di Filippo Berselli (Pdl), presidente della commissione Giustizia al Senato. Nella nota si legge che “secondo Berselli si tratta di una legge che affronta responsabilmente la drammatica situazione delle carceri italiane in funzione di un intollerabile sovraffollamento suscettibile di determinare, sempre secondo Berselli, anche possibili sommosse. Si tratta peraltro di un provvedimento temporaneo che varrà soltanto fino al 2013. Berselli si dice convinto che quanti potranno utilizzare tale beneficio ne rispetteranno scrupolosamente le condizioni, in quanto si è contestualmente aumentata la pena prevista per il reato di evasione portandola da un anno a tre anni quando prima era invece solo da sei mesi ad un anno”. Giustizia: Sappe; la riforma della giustizia tenga contro criticità del sistema penitenziario Asca, 21 ottobre 2010 “Spero e mi auguro che l’annunciata riforma della giustizia, annunciata oggi dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, tenga nel debito conto la drammatica situazione penitenziaria del Paese, giunta ormai a livello emergenziale e sulla soglia delle 70mila presente. Una situazione di tensione continua, che si sta determinando in molti istituti penitenziari del Paese come attestano anche le oltre 250 aggressioni a nostri Agenti in carcere registrare dall’inizio dell’anno. Ieri il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è sceso in piazza a Roma proprio per denunciare l’assenza di provvedimenti concreti per deflazionare le carceri, assumere nuovi Agenti e ripensare il sistema penale e sanzionatorio italiano. Spero che l’annunciata riforma della giustizia tenga nel debito conto queste criticità.” È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione alle dichiarazioni odierne del Presidente del Consiglio Berlusconi. Capece aggiunge: “I dati in nostro possesso attestano che la popolazione carceraria oggi conta 68.536 detenuti, a fronte di circa 43mila posti letto regolamentari, mentre le carenze organiche di Polizia Penitenziaria assommano a ben 6mila e 500 unità. Circa la metà dei detenuti, 36.575, sono le persone che in carcere scontano una condanna, più 1.806 internati (i detenuti non in ragione di una condanna specifica, ma perché considerati socialmente pericolosi): gli altri 30.076 detenuti sono imputati in attesa di giudizio e già questo fa comprendere l’anomalia del sistema penitenziario italiano. Gli stranieri sono 25.211 (poco più gli imputati, 12.760, che i condannati, 12.262). Rispetto alla durata della pena inflitta le cifre fornite dal Dap segnalano come 3.181 scontino una pena inferiore a un anno e 11.900 fino a tre anni. I detenuti per reati con pene superiori ai 10 anni sono 5.830 (di cui 1.759 con condanne a più di 20 anni), mentre quelli condannati all’ergastolo sono 1.499. Queste cifre confermano la drammatica criticità del sistema carcere, rispetto al quale mi auguro che l’annunciata riforma della giustizia riforma un definitivo rimedio”. Giustizia: caso Cucchi; un anno fa la morte di Stefano, si cerca ancora la verità Dire, 21 ottobre 2010 Un anno fa la morte di Stefano Cucchi. È il 22 ottobre del 2009, e il 31enne romano è stato arrestato solo poco giorni prima, il 16 ottobre, nei pressi del parco degli Acquedotti per essere stato trovato in possesso di una ventina di grammi di sostanze stupefacenti. Sei giorni in parte ancora avvolti nel mistero e su cui ancora si deve fare chiarezza. A chiederla è in primis la sua famiglia. Cucchi viene portato prima in Tribunale per il processo per direttissima, poi a Regina Coeli, al Fatebenefratelli e infine all’ospedale Sandro Pertini, dove muore. Durante questo periodo la famiglia tenta invano di vedere Stefano, (ex) tossicodipendente, e di parlare con i medici che lo hanno in cura. La famiglia non crede alla ricostruzione della ‘morte naturalè e presto pubblica le fotografie dove Stefano appare con il corpo tumefatto. Si aprono diverse inchieste. I pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy ordinano una consulenza, il cui esito afferma “il rapporto diretto tra le lesioni e la morte”. Anche le perizie eseguite dai consulenti della famiglia rivelano che “Stefano Cucchi non è morto per disidratazione”, ma per un trauma che ha provocato la frattura della colonna vertebrale e che secondo i periti di parte civile risale tra le ore 14 e le ore 15 del 16 ottobre. Il decesso sarebbe avvenuto dunque “per cedimento cardiaco connesso con le entità traumatiche ricevute”. Lo scorso 15 luglio si apre al Tribunale di Roma l’udienza preliminare, con la richiesta di rinvio a giudizio per tredici persone formulata il 17 giugno dai pm. Si tratta, nello specifico, dei sei medici e tre infermieri (tutti in servizio al Pertini e accusati di falso ideologico, abuso d’ufficio, abbandono d’incapace, rifiuto di atti d’ufficio, favoreggiamento e omissioni di referto a seconda delle singole posizioni processuali), di tre agenti penitenziari (per loro l’accusa è lesioni aggravate e abuso d’autorità) e del direttore dell’Ufficio detenuti del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria (accusato di falso ideologico e abuso d’ufficio). Nel corso dell’udienza preliminare, l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, chiede al gup di disporre una perizia per stabilire le cause della morte di Stefano e per dimostrare l’insufficienza del reato di lesioni contestato agli agenti penitenziari, che secondo il legale dovrebbero rispondere di omicidio preterintenzionale. È di ieri la decisione del gup di respingere la richiesta per la superperizia. La sorella Ilaria: ancora non si vuole ammettere la verità È stato “un anno difficile, di elaborazione del lutto”, iniziato con “l’incredulità che provavo quando mi hanno chiamato per il riconoscimento all’obitorio del corpo di Stefano”. Una sensazione che “ricordo perfettamente”, e che è durata “per un lungo periodo”. Così Ilaria Cucchi racconta all’agenzia Dire un anno senza Stefano, quello trascorso da quel 22 ottobre 2009, quando dopo sei giorni dall’arresto per droga il 31enne romano è morto nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. E proprio Ilaria quell’incredulità e quel “dolore” ha deciso di viverli “pubblicamente”, di condividerli da subito con la stampa e la televisione, cui ha affidato le immagini drammatiche del corpo del fratello. “È stato un atto di forza disperata”, dettato dalla necessità di “non accettare la bugia della morte naturale. Ho gridato la mia rabbia” e sì, “ci vuole coraggio”. In questo anno “ho messo in discussione me stessa, la mia famiglia, ho parlato di tutto” a costo di rivivere “quotidianamente il dolore”. Ma in ballo c’è “la verità“ su Stefano, sulle cause della sua morte, ma anche sulla sua vita, che Ilaria racconta nel libro “Vorrei dirti che non eri solo” appena pubblicato da Rizzoli. “Lo racconto senza nascondere nulla, come ho sempre fatto. Non siamo una famiglia perfetta, abbiamo avuto problemi legati alla droga”. Un libro, e poi un recital, spettacoli, appelli, interviste e programmi tv: le iniziative per non lasciare che quella di Stefano rimanesse una “morte segreta”, in questo anno sono state moltissime, come tanta è stata “la solidarietà che ho ricevuto. Per questo ho deciso di dare vita a un’associazione, perché quando ricevi senti di dover ridare”. Si chiamerà “Le loro voci”, un “nome difficile, ma chi ci è passato sa che l’ostacolo è non sapere a chi rivolgersi”, perché “potenzialmente può capitare a tutti”. E poi “Le loro voci” sarà “un monito per lo Stato e per le forze dell’ordine, affinché sappiano che esiste una associazione che non lascia sole le persone”. È arrabbiata Ilaria. Contrappone la “trasparenza, con cui ho sempre raccontato tutto”, alla giustizia, che “evidentemente non è per tutti, non per le persone come noi, non per Stefano”. Il suo corpo “parla chiaro”, ma si cerca di “sminuire le responsabilità degli autori del pestaggio”. Ieri la notizia della superperizia rifiutata dal gup e richiesta dalla famiglia di Stefano, “umiliata in aula da qualcuno che non voleva che fossimo lì - dice ancora Ilaria all’agenzia Dire - Ci hanno fatto accompagnare fuori da un carabiniere. Chiederò agli avvocati di fare un esposto per capire da chi è partito l’ordine”. Lei è stata “accusata di avere troppi rapporti con i media”, ma “per me non è un problema se i giornalisti assistono alle udienze”. Non vuole far passare nulla sotto silenzio Ilaria, nemmeno la giornata di venerdì, che segna un anno esatto dalla morte di Stefano. Anche questa sarà piena di incontri e iniziative, ma “in modo pacato. Abbiamo organizzato tutto nella nostra parrocchia, la Santa Giulia a viale Filarete, nel nostro quartiere”. Ci sarà la commemorazione alle 15.30, poi “gli altri appuntamenti, a cui tengo molto: di nuovo la presentazione del libro, uno spettacolo della compagnia Magma teatro che si chiama “Un cucchiaino”, a ricordare che a salvare Stefano, almeno secondo i magistrati della Procura di Roma, “sarebbe bastato un po’ di zucchero”. “Abbiamo invitato anche altri familiari”, quelli che hanno vissuto “storie simili alla nostra, come Lucia Uva”. Venerdì in parrocchia, Davide Silla canterà il suo rap per Stefano Cucchi, “E poi finalmente la luce”. Quella sulla verità della morte di Stefano, quella che “noi sappiamo - dice Ilaria - ma che non si vuole ammettere”. Antigone: quella dei giudici è una decisione non apprezzabile Secondo il difensore dei detenuti, Anastasia, “non si capisce la ragione per cui i giudici non hanno ammesso le ulteriori perizie su Stefano Cucchi. Sarebbe lecito qualsiasi tentativo di approfondire la verità”. “Non si capisce la ragione per cui i giudici non hanno ammesso le ulteriori perizie su Stefano Cucchi richieste dalla famiglia”. Così Stefano Anastasia, difensore civico dei detenuti dell’associazione Antigone, sul caso del giovane romano arrestato il 15 ottobre del 2009 e deceduto una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini. “Sarebbe lecito - ha spiegato Anastasia a margine di un convegno sul carcere a Firenze - qualsiasi tentativo di approfondire la verità. Pertanto quella dei giudici non è stata una decisione apprezzabile”. Anastasia ha poi precisato che, oltre all’ormai noto caso Cucchi, “in Italia ci sono tanti altre violenze di cui non sappiamo nulla”. “Nelle carceri italiane - ha detto - ogni anno si registrano circa 150 decessi, 20 dei quali sono sospetti”. Cochi (Pdl) e Valeriani (Pd): vicinanza ai familiari “A quasi un anno dalla scomparsa di Stefano Cucchi, vogliamo esprimere la nostra più sentita vicinanza e solidarietà ai cari del giovane deceduto il 22 ottobre scorso al Sandro Pertini in circostanze ancora da accertare. Una tragica vicenda che non si restringe al dolore profondo che ha colpito una singola famiglia, ma che ha toccato l’intera comunità cittadina e nazionale, smuovendo la coscienza popolare. Una sofferenza neanche lontanamente immaginabile quella della famiglia Cucchi, resa ancora più straziante dalle difficoltà processuali emerse, e intorno a cui ci stringiamo da uomini ancora prima che da rappresentanti istituzionali. Auspichiamo quanto prima il raggiungimento della verità e che, quindi, sia fatta giustizia sulla triste vicenda che ha riguardato un cittadino romano”. È quanto dichiarano Alessandro Cochi e Massimiliano Valeriani, rispettivamente consiglieri Pdl e Pd dell’Assemblea capitolina. Lettere: a Solliciano sei detenuti nelle celle per uno… di Adriano Sofri Il Foglio, 21 ottobre 2010 Il carcere di Sollicciano, Firenze - parlo di questo perché è a un mezzo tiro di schioppo da me, ma tutta l’Italia è paese - ha una capienza di 497 persone detenute. Ne contiene 1.014 (tre sono bambini). Ogni volta che supera la soglia mostruosa di mille, Franco Corleone comincia uno sciopero della fame. Allora trovano il modo di far scendere provvisoriamente la cifra sotto i fatati mille - 998, per esempio, qualche giorno fa. Il tempo di farlo smettere, e si torna a riempire. Ieri il Corriere fiorentino, dando notizia di un’ispezione dei consiglieri regionali Brogi e Danti, intitolava così: “Anche in sei nella cella per uno”. Prego di fermarsi un momento e rileggere: anche in sei nella cella per uno. E di pensarci, un altro momento. Immaginate di dover seppellire sei corpi nello spazio di uno. Pazzesco, no? E ora immaginate di seppellirli vivi, sei nello spazio di uno. Molto più pazzesco, no? E ora, ci sarà ancora qualcuno che si sorprenda della generosa e responsabile determinazione con cui il ministero della Giustizia, il governo e l’intero arco di forze che lo sostiene o gli tiene bordone hanno voluto imporre il Lodo Alfano retroattivo? Sardegna: nel passaggio di competenze tra Stato e Regione detenuti senza assistenza sanitaria La Nuova Sardegna, 21 ottobre 2010 L’assistenza sanitaria ai detenuti in Sardegna è in fase critica perché il trasferimento delle competenze dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al Servizio sanitario nazionale non è ancora avvenuto e si è potuto accedere solo in parte alla quota relativa di finanziamento. La nostra Regione è, insieme alla Sicilia, l’unica a non aver ancora ottemperato alle norme che ne regolamentavano l’attuazione. Questo ritardo si aggiunge ad una situazione che già era allarmante: solo il 20% dei detenuti risulta in buona salute, mentre il 75% versa in condizioni mediocri o scadenti ed il 4 - 5% in condizioni gravi. Il cambio di governo nazionale e di amministrazione regionale non ha favorito la celerità del trasferimento, anche perché la Giunta sarda attuale ha voluto cambiare i componenti della commissione paritetica Stato/Regione di nomina propria. Decisione, questa, discutibile visto che la commissione non incideva sulle legittime scelte politiche, ma doveva semplicemente produrre la norma di recepimento prevista dallo status di Regione a statuto speciale. Così, il termine ultimo per il trasferimento è scivolato in avanti: dal 30 settembre 2008 sono passati 2 anni senza risultati concreti. Ed il direttore del carcere di Buoncammino ha annunciato la chiusura per mancanza di fondi del Centro clinico annesso al carcere. Operatori del settore (magistrati, sanitari, associazioni di difesa dei diritti dei malati e dei detenuti, etc.) hanno perciò lanciato un grido d’allarme, anche perché fra i provvedimenti tampone previsti c’è quello del trasferimento presso strutture della penisola dei malati più bisognosi, con disagi per detenuti e personale e aggravio di spese. L’assessore alla sanità ha comunicato lo stanziamento di 500 mila euro per far fronte all’emergenza fino a fine anno, ma ha negato obblighi nella vicenda se non quello morale. Il problema deve essere affrontato con sollecitudine molto maggiore di quanto non sia avvenuto finora, non solo perché il carcere non può vivere una sorta di extraterritorialità rispetto al diritto costituzionale alla tutela della salute, ma anche perché il rispetto dei diritti e della dignità del cittadino recluso è interesse della comunità civile, perché favorisce il reinserimento a fine pena e offre una risposta non aleatoria ai bisogni di sicurezza sociale. Igliesias (Ca): a due passi dal carcere c è una fogna a cielo aperto La Nuova Sardegna, 21 ottobre 2010 D’estate il Rio Spurgu è il ricovero di mosche, zanzare ed insetti; d’inverno il canale che scorre a fianco dell’ingresso del carcere d’Iglesias assume carattere torrentizio e c’è il rischio di inondazioni. Eppure nessuno è mai intervenuto per risolvere l’allarme. La casa circondariale è lì da 20 anni ma quel canale fognario continua a minare la salute dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria, costretti a vivere vicini ad pericoloso focolaio di infezioni. L’aria spesso è irrespirabile mentre le sponde del canale sono ricoperte da rovi, arbusti e da altre erbe infestanti. Le visite frequenti al carcere della commissione regionale sui diritti umani non hanno mai fatto emergere il problema salute e i componenti della commissione non si sono mai preoccupati di rilevare e di segnalare alle autorità competenti i disagi che lo scorrere delle acque nere, miste alle acque piovane, sono fonte di inquinamento dei terreni circostanti. Ma gli inconvenienti aumentano d’estate quando, oltre all’eccessiva umidità dell’aria provocata dalle pozze nere, l’aria diventa irrespirabile per gli odori nauseabondi che provengono dal Rio Spurgu. Ad accentuare i timori e le preoccupazioni degli ospiti in cella è anche la mancanza di qualsiasi livello di sicurezza nella strada di accesso. Il ponte in cemento che consente di superare le due sponde del canale fognario, è privo di parapetto e di notte, sotto la luce artificiale dei fari, qualche mezzo potrebbe precipitare nel torrente. Insomma, la zona è nel più completo abbandono. Il canale fognario d’estate ospita ogni genere di insetto e anche i visitatori rischiano di essere attaccati da zecche e vespe. Oltre alla segregazione imposta dalla condanna, i detenuti devono anche sopportare i miasmi che l’acqua di fogna stagnante per ore e giornate intere, rilasciano nell’aria. Dal carcere a Monteponi il passo è breve: anche qui lo scarico fognario del rione Vergine Maria continua a disturbare gli automobilisti e i proprietari delle case coloniche della zona. Appena si arriva a Laveria Mameli si deve entrare in apnea altrimenti si rischia di accusare malesseri e conati di vomito. È una situazione decisamente più drammatica: una sorta di lago artificiale conserva le acque nere per mesi stagnando nella cavità naturale a lato della strada. Tutto ciò consiglia ai passanti dei percorsi alternativi. Ma non si parla mai di una bonifica. Milano: accordo tra il Prap e la Confederazione italiana dell’impresa per lavoro ai detenuti Il Velino, 21 ottobre 2010 Nei prossimi giorni, più precisamente lunedì 25 ottobre, nella casa circondariale di Milano “San Vittore” verrà siglato l’accordo tra l’amministrazione penitenziaria della Lombardia e la Confimea (Confederazione italiana dell’impresa) per incrementare gli inserimenti lavorativi delle persone detenute. L’accordo si pone infatti l’obiettivo di favorire l’incontro tra le competenze professionali delle persone ristrette nelle carceri lombarde e le proposte avanzate dalle aziende confederate realizzando concrete occasioni di impiego sia presso gli istituti penitenziari che in ambiente libero, nella ferma convinzione che il lavoro sia uno degli elementi fondamentali per favorire l’inclusione sociale dei detenuti una volta scontata la pena inflitta e, di conseguenza, ridurre il rischio di una loro recidiva. Fin dal 2009 l’amministrazione penitenziaria della Lombardia abbia istituito “ArticoloVentisette”, l’agenzia regionale per la promozione del lavoro penitenziario che ha già portato all’inserimento di 53 detenuti e gettato le basi per futuri progetti. La previsione di impiego è di altri 200 inserimenti. “Vorremmo trasformare il principio enunciato nell’articolo 27 della Costituzione, a cui la stessa agenzia istituita dall’amministrazione penitenziaria si richiama, in una solida e fattiva realtà”. Questo è l’auspicio del presidente di Confimea Roberto Nardella. “Perché proprio la riduzione sensibile delle percentuali di recidiva, che si traduce in maggior sicurezza per la convivenza sociale e, particolare non trascurabile, in un risparmio per la collettività di decine di milioni di euro l’anno, è una delle motivazioni che muove il progetto e anima di entusiasmo la nostra Confederazione. Ci auguriamo che l’attenzione e il disponibile impegno dell’Amministrazione Penitenziaria Lombarda si estenda anche ad altre regioni d’Italia”. Rovigo: la Polizia penitenziaria è senza uomini, in attesa del nuovo carcere per 210 detenuti Il Gazzettino, 21 ottobre 2010 Hanno scritto direttamente al capo del Dipartimento della polizia penitenziaria Franco Ionta per chiedere un incontro urgente sulla situazione del carcere di Rovigo. Il segretario regionale Fp Cgil Alessandro Biasioli e quello provinciale Gianpietro Pegoraro vogliono richiamare l’attenzione dei vertici nazionali per denunciare le gravi carenze di organico all’istituto penitenziario, che si acuiscono ulteriormente nei casi di distacchi in altri enti o per scorta dei detenuti. I numeri parlano chiaro: 118 i carcerati per una capienza tollerabile tra uomini e donne di 79, il personale previsto dal Dipartimento è di 66 agenti ma ne vengono impiegati solo 60 di cui 5 in distacco, 1 in maternità e 2 in congedo permanente. Otto agenti sono esonerati dal servizio notturno, tre per la legge 104/92 (sulla disabilità o disagio sociale), cinque compongono il nucleo traduzioni. Quindi il personale maschile che si turna è di 20 agenti. “Una situazione che comporta - spiega Pegoraro - un aumento di notti mensili che supera abbondantemente quello stabilito a livello locale, una diminuzione di riposi festivi, la mancanza del rispetto della persona e della sicurezza. Nella sezione detentiva femminile, con tre turni anziché quattro, sono impiegate solo 8 agenti, uno solo per tutto il servizio notturno e talvolta uno per due turni in un giorno”. I due segretari della Cgil sottolineano poi che non vengono rispettati nemmeno gli accordi locali e per questo chiedono una convocazione urgente di un tavolo di confronto prima di arrivare alle vie legali per il rispetto del diritto al riposo settimanale, alle ferie e ad un minor numero di turni notturni. Il 28 ottobre anche una delegazione di Rovigo parteciperà alla manifestazione di Roma della polizia penitenziaria contro il disagio subìto a causa del sovraffollamento generalizzato delle carceri italiane e della carenza di organico. I lavori per la realizzazione del nuovo carcere Quasi ultimata la parte per 210 detenuti. Manca il secondo stralcio: 150 alloggi per la polizia penitenziaria e la parte “riabilitativa”. Già stanziati i 22 milioni per completare l’opera. Situato tra la tangenziale est e via Calatafimi, su un’area di 9,5 ettari, con una superficie di 26 mila metri quadri e un volume di 88 mila metri cubi, ormai anche a vista d’occhio si può notare la fase di avanzamento dell’opera, con il muro di cinta terminato che si erige su sette metri e mezzo di altezza. All’interno di quella barriera in calcestruzzo è quasi ultimata la parte detentiva vera e propria che dovrà ospitare 210 detenuti, ma all’appello manca ancora il secondo stralcio dell’intervento, che dovrà includere i 150 alloggi per la polizia penitenziaria e tutta la parte “riabilitativa”, quegli spazi sociali che consentiranno ai detenuti di interagire con l’esterno e di praticare attività sportiva, laboratori, coltivazioni all’aperto e luoghi per i colloqui con i familiari. “Sei mesi fa circa abbiamo ricevuto dal ministero il finanziamento di 22 milioni di euro per il completamento del carcere - afferma Patrizio Cuccioletta, presidente del Magistrato delle Acque di Venezia e del Provveditorato Interregionale delle Opere pubbliche, ente responsabile del procedimento, si tratta di 22 milioni di euro che serviranno per completare la parte interna al muro di cinta, i cui lavori per continuità tecnica e progettuale saranno affidati alla stessa ditta che sta già operando sul cantiere (la Sacaim di Venezia, ndr.) e per realizzare tutta la parte esterna degli alloggi e della riabilitazione. Per quest’ultima andremo in gara. Siamo in attesa del progetto esecutivo, dopodiché spero che con l’inizio dell’anno si possa avviare il secondo stralcio”. Sulla possibilità, considerati i gravi problemi di sovraffollamento delle carceri italiane e anche di quello attuale di Rovigo che ospita il doppio dei detenuti di quanto previsto dagli standard, di ampliare in corso d’opera la capienza di quello in costruzione, Cuccioletta non si sbilancia ma ritiene di poterlo escludere. “È indubbio che l’area ha grandi spazi - afferma - ma noi siamo il braccio operativo del Governo e ad oggi nessuna comunicazione ci è arrivata in tal senso. Stiamo procedendo con il progetto originario che non è cambiato”. Se poi per raddoppio del carcere si intende la possibilità che in una cella da due detenuti ce ne possano stare anche quattro, il presidente chiarisce. “Questo è più facile in quelle strutture vecchie di ospedali o conventi riadattati a istituti penitenziari. Nei carceri nuovi le celle vengono concepite molto più ristrette sulla base di standard edilizi precisi. L’obiettivo è quello di tenere il detenuto il meno possibile rinchiuso per favorire, sempre all’interno della struttura, un recupero sociale con altre attività”. Milano: da Antigone quattro domande a candidati primarie del centrosinistra per il sindaco Redattore Sociale, 21 ottobre 2010 I temi della lettera aperta a Onida, Boeri, Pisapia e Sacerdoti: chiusura di San Vittore e nascita di un nuovo carcere, sostegno ai detenuti, compiti della polizia locale, presenza di immigrati, dipendenti da droga o alcool, rom, senza dimora. Antigone Lombardia rivolge quattro domande ai candidati alle primarie del centrosinistra a Milano: siete favorevoli alla chiusura di San Vittore e alla nascita di un nuovo carcere? Quali provvedimenti intendete attuare a sostegno delle persone detenute? Quale controllo eserciterete sulle condizioni di vita all’interno dei tre penitenziari milanesi? Quali compiti assegnerete alla polizia locale e come pensate di evitare che le carceri siano sovraffollate di persone emarginate? L’associazione che si occupa dei diritti delle persone recluse ha inviato oggi ai quattro canditati (Valerio Onida, Stefano Boeri, Giuliano Pisapia e Michele Sacerdoti) una lettera aperta: “Ci sembra di ottimo auspicio il fatto che ben due dei canditati (Onida e Pisapia, ndr) provengano dal mondo della giustizia e siano personalità unanimemente riconosciute per i loro meriti professionali e per il loro impegno personale in questo campo”. Anche se il sindaco non ha poteri diretti sull’esecuzione delle pene, può fare molto. A partire dal progetto della cittadella della giustizia, previsto nel Piano di governo del territorio (pgt) in discussione in Consiglio comunale: “come intendete procedere? In caso di trasferimento di San Vittore, come intendete impiegare i terreni attualmente occupati dal carcere?”. La Giunta Moratti, sostiene Antigone Lombardia, ha penalizzato le associazioni che si occupano di detenuti: “In che modo intendete coinvolgere il privato sociale nella progettazione di interventi di sostegno” ai reclusi o agli ex detenuti? In cella ci finiscono soprattutto i poveracci. Colpa delle “politiche securitarie” del governo di centro destra e, più in piccolo, anche della Giunta di Milano. “Quali interventi per promuovere l’inclusione e prevenire la carcerizzazione di quelle categorie sociali (immigrati, dipendenti da droga o alcool, rom, senza dimora)” che affollano le carceri di Milano? Opera (Mi): in carcere si impara a leggere Libera-Mente, con l’Associazione culturale Cisproject Il Giornale, 21 ottobre 2010 Un importante progetto rivolto ai detenuti del maggiore carcere italiano, ad opera dell’associazione culturale Cisproject In Carcere per imparare a Leggere Libera-Mente. Che si annunciasse un evento degno di rilievo per il tema che trattava lo si era intuito fin dalla prima conferenza stampa che annunciava: “Angeletti Vi porta in carcere”. Io, come tutti del resto, che amo la libertà come dono assoluto dato all’uomo da Dio, mi sono chiesto cosa c’è sotto? E avendo trovato interessante la proposta mi sono subito disposto ad essere “recluso” per un giorno. Certo con la garanzia di uscire,visto che non sono un “pericoloso ricercato”! Infatti si trattava di entrare in un carcere e non in uno qualsiasi, ma quello di massima sicurezza di Opera, che è la maggiore delle 225 carceri italiane (e d’Europa) con circa 1.400 detenuti, di cui 1.300 con condanne definitive, rappresentando, come si sa, il Gotha dei detenuti ritenuti di massima pericolosità. Dopo averci presentato il progetto il 13 ottobre si è capito chiaramente di cosa si trattava attraverso la viva voce del presidente della Cisproject - Associazione culturale - progetti sviluppo e promozione umana, dott.ssa Barbara Rossi, che ci introduceva nel “Progetto leggere libera - mente”, dandoci una testimonianza dal vivo attraverso Aniello Pappacena - ex detenuto di Opera, dove ha partecipato a “leggere liberamente”. L’Associazione culturale Cisproject con il suo progetto è attiva nel Carcere di Opera dal 2009, in stretta collaborazione con la Casa di Reclusione di Milano - Opera, con l’Associazione San Vincenzo De Paoli e l’Opera San Francesco per i Poveri. L’obiettivo principale di questo percorso di biblioterapia consiste nell’utilizzare la lettura, quale importante strumento di rieducazione e trattamento all’interno del carcere. Il progetto fa tesoro di pregresse esperienze di lettura promosse da alcuni volontari, che hanno attivato un gruppo di “Leggere libera - mente”, che si incontra settimanalmente per confrontarsi su libri, condividere pensieri, poesie, racconti, potenziato da un secondo gruppo, di scrittura creativa, che si incontra ogni 15 giorni da oltre 15 anni. Ciclicamente, ogni 1 - 2 mesi, il lavoro dei gruppi converge nel teatro. Il progetto quindi confermava giuste le intuizioni circa l’evento che si voleva promuovere ed ecco che, con una certa soddisfazione, mista ad orgoglio, posso dire che entrare da “liberi” non è una cosa semplice, perché sono state richieste mille formalità, tutte sacrosante, se si considera il posto in cui stavamo per essere introdotti, ma ne valeva veramente la pena. Il tema dell’incontro che è stato”Lettura e umorismo” e senza dubbio alcuno, mi ha ripagato ed appagato a cominciare dal primo impatto che si è avuto quando, accompagnati dagli agenti di custodia si è messo piede nella sala del teatro, dove è scoppiato un fragoroso applauso dei detenuti e del personale operante al suo interno, che non era per noi ma per i tre testimonial eccezionali Aldo Giovanni e Giacomo. Il trio comico, che precedeva il piccolo drappello della stampa e cine-foto operatori, si è prestato generosamente con la loro arte quale contributo per incoraggiare e sostenere il progetto che sta dando ottimi risultati, concludendo con una esilarante interpretazione di un viaggio in una fantomatica, quanto improbabile auto da Milano a Pizzo Calabro, nella chiave comica ed umoristica che ha fatto esplodere risate e battimani a non finire. Ci è stato chiesto di testimoniare l’importanza e il potere della scrittura e della lettura in relazione all’umorismo, per divenire ambasciatori di punti di vista peculiari ed innovativi, al fine di aprire nuove prospettive in un ambiente ristretto come il carcere e non possiamo che aderire convintamente a questo invito, perché si sente parlare di carcere nei momenti di “crisi” oppure in occasione di eventi particolari, che turbano gli equilibri del sistema, quasi mai si parla di cosa succede all’interno nella sua quotidianità. I numeri parlano di sovraffollamento (al 30 giugno 2010 in quelle italiane erano presenti 68.258 detenuti, contro i 44.568 posti regolamentati),un divario che, purtroppo è destinato a crescere continua a crescere. Altre volete si parla di morti per i suicidi che sono sempre più numerosi, l’ultimo, l’8 ottobre 2010: 53° suicidio in carcere. In 10 anni sono morti oltre 1.680 detenuti. Mai ci chiediamo quanto tempo viene dedicato invece al trattamento? Quanto lavoro viene speso per aiutare queste persone a costruirsi un futuro diverso? Le risorse umane diminuiscono, si sa. Ad esempio, gli ultimi dati propendono per circa 5 minuti di psicologo al mese per detenuto, tempo destinato a ridursi. Questi dati sono sconsolanti e per questo mi fermo perché non farebbero che mettere allo scoperto la piaga del sistema penitenziario italiano, comunque un grazie innanzitutto a tutti i partecipanti al progetto, che nei loro interventi sono riusciti a trasmettere emozioni positive, un grazie anche a tutti gli operatori, agli Agenti di custodia, al direttore Giacinto Siciliano, al dr. Luigi Pagano che con la sua umiltà professionalità ha fatto e continua a fare tanto per il sistema carcerario della Lombardia, occupando il ruolo di provveditore agli istituti di pena lombardi, un grazie a chi sostiene e gestisce questo progetto, ma anche a tutti i detenuti di Opera perché hanno saputo emozionarmi con il loro entusiasmo e le loro estemporanee battute che stavano in tema con l’evento. Io spero di essere capace di trasmettere questa mia emozione ai lettori della nostra testata, sensibile a queste problematiche da sempre. Firenze: l’appello della madre di un detenuto malato; mio figlio ha già tentato tre volte il suicidio La Nazione, 21 ottobre 2010 “Mio figlio ha già tentato di uccidersi tre volte nel carcere di Sollicciano. È malato e ha bisogno di cure: aiutatemi a fargli scontare la pena in una comunità”. A chiederlo è la madre di un giovane di 33 anni, residente in Valdinievole e detenuto nel penitenziario fiorentino dal maggio scorso perché deve scontare una pena di 6 anni e 8 mesi per rapina: la sua salute in bilico e la fragilità psicologica lo hanno già spinto a cercare la morte ingerendo farmaci. La madre racconta nei dettagli i fatti avvenuti dopo l’ultimo tentativo di suicidio, il 15 ottobre scorso. “Ho telefonato in carcere intorno alle 20, dopo che ero stata informata che lui si trovava in ospedale per aver ingerito un grande quantitativo di farmaci. La notizia mi era stata data da uno psichiatra esterno che lo segue periodicamente. Questa è la terza volta che mio figlio finisce in ospedale per aver ingerito troppi medicinali. La guardia carceraria che mi ha risposto ha detto di rivolgermi a un avvocato (erano circa le 20) e che se mio figlio era lì non era certo colpa sua, poi ha chiuso. Dovrebbe provare quello che proviamo noi familiari dei detenuti... forse avrebbe risposto diversamente”. La madre ha un lavoro fisso, ma ha a carico un altro figlio, disoccupato da un paio d’anni. L’ex - marito è nullatenente e non può aiutarla in alcun modo. La donna si rivolge a Francesco Faldi, giudice di sorveglianza del tribunale di Firenze. “Chiedo di valutare la situazione alla luce delle numerose patologie di cui soffre. La carcerazione non lo aiuta sicuramente, credo che ci debba essere un’alternativa al carcere. Noi non chiediamo di liberarlo, ma di avere la possibilità di andare in una comunità terapeutica che sarebbe pronta ad accoglierlo a Pistoia. Giudice Faldi, dipendente tutto da lei. Non credo che voglia un altro morto in carcere, so che lì dentro è un inferno, so che mio figlio ha sbagliato, ma è pur sempre un essere umano. Mi rivolgo anche al direttore del carcere di Sollicciano: prenda provvedimenti disciplinari nei confronti dei collaboratori che fanno abuso di potere contro detenuti e famiglie. Vorrei che venisse aperta un’inchiesta interna per capire come mio figlio, essendo in un reparto psichiatrico da circa due mesi, può abusare senza controllo di grandi quantità di farmaci. Mi rivolgo anche all’onorevole Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti, chiedendo di fare qualcosa per migliorare la vita di tutti e prendere in considerazione il mio sfogo, facendo qualcosa per mio figlio”. Pistoia: mancano gli agenti per la scorta, saltano i processi Il Tirreno, 21 ottobre 2010 L’emergenza carceri non riguarda solo il sovraffollamento, con detenuti stipati come sardine nelle celle, ma anche l’ormai cronica carenza di personale tra la polizia penitenziaria. E a Pistoia, ancora una volta, per tale motivo, sono saltati dei processi. Tra le udienze rinviate per causa di forza maggiore ieri mattina in tribunale, quella che vedeva sotto accusa Mamma Ebe. A causa della mancanza di agenti da destinare alla scorta, uno degli imputati - tra l’altro il marito della Santona - non ha potuto essere portato in aula dal carcere di Sollicciano, dove si trova detenuto. Un diritto garantito all’imputato dalla legge quello di essere presente al proprio processo. I giudici perciò non hanno potuto far altro che rinviare immediatamente l’udienza al prossimo 21 dicembre, rispedendo a casa i testimoni dell’accusa citati per ieri mattina: cinque poliziotti del commissariato di Cesena che condussero l’inchiesta che rivelò come, nonostante arresti e condanne, Gigliola Giorgini avesse continuato ad esercitare la “missione” di guaritrice non solo in terra emiliana ma anche nella sua villa sulle pendici del Montalbano. Le disposizioni di sicurezza impongono che la scorta per ciascun detenuto da trasferire sia composta da tre agenti. Nei giorni in cui i trasferimenti previsti sono relativamente molti, capita quindi che non ci sia un numero sufficiente di agenti da destinare ai furgoni blindati. L’alternativa sarebbe sguarnire in modo pericoloso le carceri. Per quanto riguarda il tribunale di Pistoia, il nucleo traduzione competente per i detenuti che non si trovano nel carcere cittadino è quello della polizia penitenziaria di Prato. Che ieri mattina doveva far fronte contemporaneamente ad un numero di scorte sopra le sue possibilità. Oltre al processo contro Mamma Ebe, per tale motivo, è saltato anche un processo per stupefacenti davanti al giudice monocratico con sette imputati, tre dei quali detenuti. Anche in questo caso, testimoni a casa e nuove citazioni a carico delle cancellerie. Tornando alla cronaca giudiziaria, ieri mattina, contrariamente alle attese, Mamma Ebe era oltretutto presente in aula. Detenuta nel carcere femminile di Sollicciano, aveva voluto essere presente soprattutto per incontrare il marito, Gabriele Casotto, la cui traduzione non è stata possibile. Associazione per delinquere, esercizio abusivo della professione sanitaria, falso materiale e ideologico in ricette mediche e truffa ai danni dell’Asl le accuse per le quali lei e, a vario titolo, altre 12 persone (altre 4 sono già uscite dal procedimento patteggiando la pena nella fase delle indagini preliminari) sono imputate davanti al tribunale collegiale. Favignana (Tp): lunedì un sit-in degli agenti per le condizioni di degrado in cui versa il carcere Agi, 21 ottobre 2010 e contro il progetto di aprire un nuovo penitenziario nell’isola. Lo promuove la Uil-pa Penitenziari lunedì prossimo, dalle 10 alle 13, davanti alla sede del municipio dove si svolgerà anche un volantinaggio. “Ci chiediamo con quale coraggio scendono da Roma ipotizzando di aprire il nuovo penitenziario e pensano, nel contempo, di lasciare ancora attivo il vecchio carcere di Favignana. Come faranno ad aprire il nuovo istituto? Questa è la conferma che siamo in mano a dirigenti che non conoscono la realtà delle carceri”, accusa il segretario regionale della Uil-pa Gioacchino Veneziano. Dalla rilevazione effettuata il 30 settembre, a Favignana risultavano essere rinchiuse 132 persone (78 detenuti e 54 internati), stipati in celle “degradate, sudice e buie”. Di contro il personale di polizia penitenziaria presente (al netto dei riposi e congedi) era di sole 25 unità. “Le gravi deficienze organiche - afferma il sindacalista - determinano spesso che nei turni serali e notturni vi sia un solo poliziotto a vigilare sulla sicurezza dell’intera struttura. Non solo. Mancano i fondi necessari a pagare lo straordinario degli agenti e manca persino un Comandante effettivo. La gestione e la rotazione nei servizi lascia a desiderare e le relazioni sindacali non sembrano essere al centro dell’attenzione del direttore. “Credo che sarà necessario interessare anche il prefetto di Trapani - dice Veneziano - perché la situazione è talmente compromessa che è a rischio l’ordine pubblico. Anche la presenza di internati in una struttura che non ha le caratteristiche di una casa di lavoro alimenta forti tensioni. I quattro tentativi di suicidio da gennaio ad oggi, sventati dalla polizia penitenziaria, ne sono una diretta testimonianza”. Camerino (Mc): ok del ministero alla richiesta degli Ipab, ora i detenuti aiuteranno gli anziani Corriere Adriatico, 21 ottobre 2010 Anche i detenuti nella casa circondariale di Camerino daranno una mano per aiutare i nonnini e le nonnine ospiti della “Casa Amica”, la residenza per gli anziani della città. Il ministero della Giustizia, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha dato infatti il nulla osta all’impiego, durante il giorno, di alcune detenute per l’attività di solo volontariato. L’avvocato Rosella Gaeta, nuovo presidente degli Ipab, le istituzioni pubbliche che si occupano della gestione della casa di riposo, ad agosto aveva avanzato richiesta in tal senso al responsabile del dicastero della Giustizia, onorevole Angelino Alfano, e al direttore del carcere, Lucia Di Feliciantonio. Nelle scorse ore la risposta ufficiale che, sentito il magistrato di sorveglianza di Macerata, autorizza l’impiego di una detenuta dalle ore 9 alle ore 19, previo obbligo di firma su di un apposito registro. La direzione della casa di riposo dovrà riferire al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’andamento del lavoro svolto che consisterà in piccoli impieghi quotidiani che saranno però di grande aiuto per gli ospiti della residenza per anziani. “Sono molto contenta dell’avvio di questa nuova attività. Al momento riguarda una sola detenuta ma mi auguro che questo progetto possa interessare sempre più persone per le quali sarà un modo come un altro per uscire dall’isolamento e per reintegrarsi nella società - commenta il presidente delle Ipab, Rosella Gaeta -. I detenuti svolgeranno solo lavoro esterno e non entreranno in contratto con i nonnini. Saranno utilizzati per dare risposta ad alcune semplici richieste: l’acquisto di medicinali, di un giornale, lo svolgimento di altre mansioni che avrebbero, diversamente, distratto il personale interno. Questa iniziativa potrebbe avere un seguito anche con la realizzazione del nuovo carcere e potrebbe dare vita ad un vero e proprio progetto modello - aggiunge ancora l’avvocato Gaeta, che commenta - Prima d’ora non si era mai pensato a ciò per la casa di riposo”. Le necessità quotidiane di nonnini e nonnine sono tantissime. A “Casa Amica” c’è bisogno anche di generi alimentari, di semplice cancelleria, di sapone per l’igiene. Chi volesse dare una mano d’aiuto può versare un contributo economico che si può richiedere direttamente alla struttura oppure offrire materiale vario. Servono latte, fette biscottate, zucchero, bagno schiuma, calzini, salviettine, detersivi, rasoi. Cosenza: telefonini in carcere, il Gip sospende l’agente penitenziario finito sotto inchiesta di Giovanni Pastore Gazzetta del Sud, 21 ottobre 2010 La fisionomia dell’inchiesta sul rinvenimento dei telefonini in carcere è stata impalcata nell’ordinanza applicativa di misure cautelari eseguita nei giorni scorsi. Un provvedimento d’interdizione professionale, nei confronti d’un agente penitenziario, firmato dal gip Francesco Luigi Branda su richiesta del procuratore Dario Granieri e del pm Giuseppe Casciaro. Un atto col quale viene imposta la sospensione temporanea dal servizio all’assistente capo, Salvatore Gabriele, 43 anni, di Lattarico, perché indagato. Il giudice lo accusa di corruzione. Certo, l’agente non si aspettava carezze, né sconti al momento della sua confessione resa spontaneamente ai suoi colleghi che lo avevano scoperto e denunciato alla magistratura. Sapeva benissimo d’aver sbagliato, conoscendo le regole. E consapevole dell’errore ha ammesso l’ipotetica condotta contraria ai doveri del suo ufficio. Sarebbe stato lui a far entrare i telefoni nel penitenziario. Apparecchi cellulari che sarebbero serviti a tre detenuti, E.M., V.G. e F.B. (quest’ultimo è l’unico di Cosenza) per comunicare col mondo esterno. Un impegno garantito dietro la promessa di denaro da parte dei tre reclusi. L’assistente capo della Polizia penitenziaria avrebbe custodito, all’interno d’una tasca dell’uniforme di servizio, tre apparecchi telefonici mobili e due sim - card per consentire le chiamate. È stato un collega ad accorgersi per primo che qualcosa non andava nel reparto di sicurezza della casa circondariale “Sergio Cosmai”. E ha immediatamente segnalato i suoi sospetti al commissario Vincenzo Paccione che ha avviato subito una riservatissima indagine. I detective penitenziari hanno setacciato varie piste prima di dirigere le loro attenzioni verso l’insospettabile collega. E dopo un percorso carsico, le investigazioni hanno raggiunto l’approdo sperato individuando l’ipotetico agente corrotto e sequestrando i telefonini e le sim utilizzate per le chiamate. Le “divise azzurre” avrebbero inquadrato la vicenda in un arco temporale compreso tra settembre e l’8 ottobre, giorno in cui ci fu il blitz nella casa circondariale e gli agenti penitenziari rinvennero i “corpi di reato”. L’attività investigativa, naturalmente, non si è ancora esaurita. Sui cellulari, finiti sotto chiave, sono iniziati gli accertamenti scientifici attraverso la lettura dei tabulati e lo studio delle celle telefoniche. Tecniche d’intelligence che permetteranno d’individuare il luogo di destinazione delle chiamate. E attraverso la localizzazione delle telefonate si potrà trovare il riscontro sull’identità già nota degli utilizzatori degli apparecchi. I detective della polizia penitenziaria non sono nuovi a operazioni di questo tipo. Già qualche mese fa scoprirono che, attraverso alcuni dipendenti d’una ditta esterna, i detenuti avrebbero pasteggiato con aragoste, gamberi e champagne e nutrivano il loro corpo con creme di bellezza. Le investigazioni degli agenti puntarono verso quei tre impiegati che avrebbero avuto il ruolo d’approvvigionare i reclusi. Anche in quel caso, la Procura avviò una inchiesta e il fascicolo venne affidato al pm Antonio Cestone che indagò per frode nelle pubbliche forniture. Napoli: dopo corso in carcere ex detenuto dell’Ipm di Nisida assunto come aiuto-pizzaiolo Ansa, 21 ottobre 2010 Ha partecipato ad una selezione di 60 ragazzi, tutti aspiranti pizzaioli detenuti nel carcere minorile di Nisida. E, al termine di un corso di 36 ore, ha segnato l’obiettivo: l’assunzione, in qualità di aiuto - pizzaiolo, in uno dei ristoranti della catena “Fratelli La Bufala”. Il progetto “Finché c’è Pizza, c’è speranza”, promosso dall’Associazione partenopea Scugnizzi e finalizzato alla reintegrazione nella società dei giovani detenuti dell’istituto penale minorile di Nisida, era stato sposato lo scorso mese di marzo dal gruppo di ristorazione campano che, ad oggi, conta già più di cento location in tutto il mondo. L’iter per l’assunzione di un detenuto, che attualmente gode del beneficio dell’affidamento in prova ai Servizi Sociali di Napoli, è andata a buon fine lo scorso mese di luglio. Modalità e finalità dell’iniziativa saranno presentate nel corso di una conferenza stampa che si terrà a Napoli il 25 ottobre, alle ore 11, nella sede del Consiglio della Regione Campania. “Sto pagando il mio debito con la giustizia per un errore commesso quando avevo 15 anni - racconta il ragazzo di Nisida - Temevo una certa diffidenza nei miei confronti da parte dei colleghi e invece nel mio nuovo posto di lavoro ho trovato l’accoglienza e la solidarietà di tutti. Ho capito di aver sbagliato e, proprio da questa seconda possibilità, riparte ora la mia nuova vita”. Milano: presentato oggi nel carcere di San Vittore l’Edge Festival 2010 Ansa, 21 ottobre 2010 Spettacoli di teatro - danza, musica, mostre fotografiche con artisti italiani ed europei che hanno fatto del teatro la via d’uscita dalla marginalità. È l’Edge festival 2010, pratiche artistiche e inclusione sociale “per un teatro dei diritti e delle persone” che si aprirà venerdì 22 ottobre a Milano e che vedrà in scena anche attori ex detenuti o diversamente abili. Il programma, presentato oggi nel carcere milanese di San Vittore, prevede due fine settimana al teatro Elfo e Puccini e una giornata non stop alla Triennale. In programma molte prime regionali e nazionali. Si parte, per esempio, il 22 ottobre con Oltre il limite, uno spettacolo teatrale interpretato da attori danzatori e non di Catania che inaugurerà il festival con il lavoro - manifesto della Compagnia di Piero, dedicato alla figura del pilota di volo estremo Angelo D’Arrigo. Il 23 ottobre è la volta di Lezioni di astronomia, di Maurizio Gianotti e Gustavo Verde incentrato sulla storia appassionata e commovente di Elisa, ragazza autistica con la sindrome di Asperger e sul suo ossessivo contare le stelle e di un giovane africano, il solo che riuscirà a intessere un dialogo vero e diverso con la giovane donna. Rilevante, secondo gli organizzatori, la mostra fotografica allestita nei luoghi degli spettacoli “Che ci faccio io qui. I bambini nelle carceri italiane” che documenta, con le fotografie dell’agenzia Contrasto la realtà di cinque istituti penitenziari italiani. Il progetto è sostenuto del Cee programma cultura 2007 - 2013 e dalla Regione Lombardia ed è patrocinato, tra gli altri, dal Provveditorato lombardo dell’Amministrazione penitenziaria e della Provincia di Milano. Nel carcere di San Vittore (la direttrice Gloria Manzelli ha partecipato alla presentazione della rassegna) da novembre a dicembre si terrà un’articolazione del festival con workshop e eventi, tra cui la presentazione dello spettacolo “Il progetto di Bach e Mozart” di Adriano Vianello. Milano: il cantautore Mennini, ideatore del progetto “Liberi per sempre”, incontra gli studenti Agi, 21 ottobre 2010 Il cantautore Alberto Mennini, ideatore del progetto “Liberi per sempre”, incontrerà lunedì 25 ottobre a Milano gli studenti dell’Istituto Tecnico Statale per le Attività Sociali Giulio Natta e poi, a novembre, gli studenti di un liceo di Faenza e a dicembre gli quelli di un istituto tecnico di Pescara e di Grottaferrata (Roma, per raccontare l’esperienza del viaggio “Liberi per sempre”. Un incontro tra musica e sociale che si concluderà in tutti e quattro le città con un concerto. “Liberi per sempre” è un progetto ideato dalla Associazione Liberi Onlus e realizzato in collaborazione con il Dipartimento della Gioventù, il Ministero della Giustizia - Dipartimento per la Giustizia Minorile Direzione Generale per l’Attuazione dei Provvedimenti Giudiziari, la Provincia di Roma, la Fondazione Roma - Terzo Settore, la Regione Lazio e Osa (Operatori Sanitari Associati). Il progetto è appoggiato dal Mei 2010. Si colloca nell’ambito delle iniziative volte a stimolare una riflessione sui temi della devianza minorile e del disagio giovanile sia all’interno che all’esterno dei penitenziari, utilizzando come linguaggio la musica e l’arte in genere. L’intento è quello di portare la voce dei minori ristretti nelle scuole superiori di secondo grado al fine di stimolare una riflessione su questi temi. Il 27 novembre inoltre il progetto Liberi per sempre sarà presentato all’interno del Mei. Il tour Liberi per sempre proseguirà nei primi mesi del 2011 e saranno coinvolte ancora altre regioni come Calabria, Campania, Sicilia , Lazio e Emilia Romagna. Il libro - raccolta, che lo stesso Mennini regalerà agli studenti durante gli incontri, è il risultato di un viaggio realizzato negli Istituti Penali per Minorenni dal cantautore che ha incontrato, con la sua band, i minori ristretti in un confronto fatto di musica ed emozioni. Il libro, edito dalla stessa Associazione Liberi Onlus in 10.000 copie, ha allegati un cd audio e un dvd documentario, risultati appunto del percorso musicale ed artistico intrapreso durante il Tour negli Istituiti Penali per Minorenni. Il libro Dvd sarà distribuito gratuitamente anche negli Istituiti Penali per Minorenni. Il progetto “Liberi per sempre” è stato accolto patrocinato e finanziato dal Dipartimento della Gioventù. Francia: caso Franceschi; il calvario di Cira, la mamma-coraggio che pretende verità Il Tirreno, 21 ottobre 2010 È abituata a soffrire. Ma anche a combattere. Cira Antignano, 66 anni, mamma di Daniele Franceschi - l’operaio viareggino morto nel carcere francese di Grasse il 25 agosto scorso in circostanze ancora tutte da chiarire - ha il volto scavato dalla fatica. Nei suoi occhi intensi si leggono la stanchezza per le troppe notti trascorse insonni e i tormenti per i troppi perché ai quali non riesce a darsi una risposta. Ma non c’è traccia di rassegnazione. “Finché avrò forza, mi batterò perché sia fatta piena luce su quanto è accaduto a Daniele in quella maledetta cella”. Le hanno ribattezzate mamme - coraggio, quelle come lei. Un’etichetta che forse a Cira sta perfino stretta. Perché la morte del figlio in carcere - anche se è certamente la più pesante - non è la prima tragedia che le sue spalle forti hanno dovuto sopportare. Originaria di San Giorgio a Cremano, uno dei tanti paesi cresciuti a dismisura alle pendici del Vesuvio, è emigrata a Viareggio tanti anni fa in cerca di una vita migliore di quella che le si prospettava. Un obiettivo che per qualche anno sembrava aver raggiunto. Poi, nel 1990, il suicidio del marito, impiccatosi nell’officina di cui era uno dei soci, ha cambiato radicalmente la sua vita. Anche economicamente. “Ho dovuto lottare per tirare avanti, per far crescere Daniele e Tiziano, i miei due figli. Ed è stata dura. Anche perché io posso contare soltanto su una pensione da 450 euro al mese”, sospira. Il vero calvario, quello di cui ancora non intravvede la fine, inizia però il 18 febbraio scorso. Quando Daniele, 36 anni e un lavoro in una ditta della nautica viareggina perso pochi mesi prima, parte alla volta del casinò di Cannes, in Costa Azzurra. “Ricordo ancora quando mi salutò e partì in macchina insieme ad altri due amici. Era tranquillo, sorridente. Mi disse di non preoccuparmi, perché sarebbe rientrato la sera stessa”. Solo che la sera non è mai tornato. “Mi resi conto che era successo qualcosa quando al mattino andai in camera sua per svegliarlo. Non c’era, il letto era ancora rifatto. Provai a chiamarlo sul cellulare, ma squillava a vuoto. E subito pensai ad una disgrazia”. E una disgrazia era avvenuta, anche se ben diversa da quella immaginata da mamma Cira. “Non è stato facile sapere che era stato arrestato e ricostruire poi cosa era accaduto. C’era il problema della lingua e i francesi fanno di tutto per non aiutarti”. Già, i francesi. La prima volta che Cira è andata a trovare Daniele in prigione non glielo hanno fatto neppure vedere. “Ero con mia cugina Maria Grazia e ci hanno fatto un sacco di storie perché per incontrarlo serviva un permesso speciale del giudice. Fatto sta che tornammo in Italia senza vederlo. Riuscii soltanto a fargli avere dei vestiti tramite il suo avvocato francese”. Da allora, mamma Cira ha potuto vedere il figlio soltanto durante un paio di visite: una ad aprile e una a maggio. “L’ultima volta che ci siamo incontrati mi disse che sperava di rientrare in Italia a dicembre, per Natale. E io sarei dovuta tornare a Grasse a settembre. Invece tutto si è fermato a quel 25 agosto...” Ora la sua missione è quella di far venire alla luce la verità su quanto accaduto in carcere. “Non è possibile che una persona che ha sbagliato e sta pagando in carcere per i suoi errori, da quel penitenziario esca dentro una bara. Ma io non mi fermo: in questa battaglia mi guida il sorriso di mio figlio”. Fra lei e la verità c’è però un muro. Fatto di omertà e menzogne. “Dalla Francia hanno tentato di farci credere di tutto. E di ostacolarci in ogni modo. Dapprima mi hanno impedito di poter vedere mio figlio morto. Poi non hanno ammesso la presenza di un medico legale di parte durante l’autopsia. Infine mi hanno ammanettata e arrestata quando ho manifestato davanti al penitenziario. Se non avevano niente da nascondere, perché questo atteggiamento? Alla fine con il loro comportamento hanno solo alimentato ogni genere di sospetto. Ma non sono riusciti né riusciranno a fiaccarmi...” Mamma Cira un’idea di come è morto il figlio se l’è comunque fatta. “Io non voglio pensare che me l’abbiano ucciso davvero di botte dentro il carcere. Certo, la frattura al naso rilevata sul volto di Daniele qualche dubbio lo solleva. Credo però che mio figlio sia morto per il completo, colpevole disinteresse di chi doveva custodirlo e che invece ha ignorato la sua richiesta d’aiuto. Altro che infarto fulminante come vogliono farci credere le autorità francesi...”. Il piccolo giallo della lettera a Carlà Sul “caso Franceschi” torna a muoversi anche la diplomazia italiana. A un mese e mezzo dal primo incontro, questo pomeriggio il ministro degli Esteri Franco Frattini riceverà per la seconda volta Cira Antignano nella sede della Farnesina a Roma. La madre di Daniele, oltre che dalla cugina Maria Grazia Biagini, sarà accompagnata dal sindaco di Viareggio Luca Lunardini e dall’onorevole Manuela Granaiola, parlamentare del Pd eletta in Versilia. Intanto nasce un piccolo “caso” sulla lettera che proprio Cira Antignano ha scritto nei giorni scorsi alla première dame Carla Bruni per sollecitare un suo intervento sulla vicenda. Fonti vicine alla moglie del presidente Sarkozy hanno smentito da Parigi che la lettera sia mai arrivata all’Eliseo. L’avvocato Maria Grazia Menozzi, legale della famiglia Franceschi, conferma invece che la lettera è stata inoltrata lunedì per posta celere internazionale. Intanto per domani all’ospedale Versilia è fissata la seconda autopsia sul corpo di Daniele. Ad effettuarla sarà Lorenzo Varetto, medico legale che si è occupato anche del caso di Garlasco. La situazione nelle carceri francesi è scandalosa “La situazione delle carceri francesi è scandalosa e indegna del nostro Paese”. Pierre Botton, fondatore e presidente dell’associazione ‘Les prisons du coeur’ non usa mezzi di termini. Botton non parla per ‘sentito dirè, ha vissuto lui stesso, sulla sua pelle, l’esperienza della galera scontando una lunga pena nella carceri transalpine per appropriazione indebita, tra cui un lungo periodo proprio nella prigione di Grasse, la stessa dalla quale Daniele Franceschi è uscito soltanto da morto. Botton, che collabora con l’attuale ministro della Giustizia Michelle Alliot - Marie per migliorare il sistema carcerario transalpino, non ha dubbi: “Quando entri in una prigione francese non sei più un essere umano. Non c’é alcun rispetto della dignità. Il nostro Paese è evoluto in tutti i settori, tranne che in questo, dove esiste ancora oggi una sorta di universo parallelo, dove è rimasta una cultura di un altro mondo”. Sul caso di Franceschi, Botton sottolinea che una storia legata ad una “carta di credito illegale non merita una condanna a morte”. “Ed è scandaloso che una bambina di nove anni - riferito alla bimba di Daniele - perda una padre perché la Francia é incapace di avere un sistema carcerario degno di questo nome. È una vergogna”. Secondo le dichiarazioni rilasciate da Botton nelle carceri transalpine muore un detenuto ogni tre giorni. Mentre il 50% dei suicidi avviene nei primi venti giorni di detenzione. Frattini attacca l’Eliseo: la Francia deve dare risposte Il ministro degli Esteri Franco Frattini è categorico: “Vogliamo sapere tutta la verità sulla morte di Daniele Franceschi, vogliamo sapere se ha subito violenze e da chi...”. Ieri il ministro ha ricevuto Cira Antignano, la madre di Daniele Franceschi, il giovane detenuto morto misteriosamente nel carcere di Grasse in agosto e dopo aver parlato con lei ha ribadito il suo impegno nella vicenda. Cira Antignano che era accompagnata dal sindaco di Viareggio, Luca Lunardini, e da Grazia Biagini, la cugina che da quest’estate condivide con lei la battaglia con la giustizia francese, ha ripetuto di non credere alla versione data dalle autorità transalpine della morte del figlio. “Non mi hanno consegnato il suo diario - ha spiegato la donna che, tramite Repubblica, nei giorni scorsi ha rivolto un accorato appello a Carla Bruni - Daniele scriveva tutto, me lo diceva sempre. In quella pagine c’è la risposta alle mie domande”. Il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, ieri ha confermato che la magistratura farà piena chiarezza sulla morte di Franceschi sottolineando che gli inquirenti sono in attesa degli esami tossicologici effettuati dopo il primo esame necroscopico. La prima e approfondita autopsia “italiana” sui resti di Daniele Franceschi sarà però effettuata stamattina dal medico legale Lorenzo Varetto, incaricato dall’avvocato Maria Grazia Menozzi, il legale della famiglia Franceschi. Sindaco Viareggio: domani una nuova autopsia sul corpo di Daniele Domani a Viareggio ci sarà una nuova autopsia sul corpo di Daniele Franceschi, e “così potremo verificare se ha ancora gli occhi”. In caso contrario, “il procuratore generale francese avrebbe dichiarato il falso”. Lo ha spiegato ai giornalisti il sindaco di Viareggio Luca Lunardini, che oggi ha accompagnato la madre del ragazzo morto in un carcere francese ad un incontro con il ministro degli Esteri Franco Frattini. Finora dalla Francia è stata negata l’asportazione degli occhi di Franceschi e si è spiegato che quando viene prelevato l’umore vitreo, indispensabile per certe analisi perché rivela elementi che altri tessuti non rivelano, l’occhio perde volume e rientra, dando l’impressione che l’organo sia stato prelevato. Lunardini ha riferito che sulla vicenda Franceschi alcune cose “lasciano ancora perplessi”. Per prima cosa, il fatto che gli occhi “ad un primo esame del medico legale italiano non ci sono”, facendo pensare che siano stati asportati insieme con altri organi del corpo di Daniele, sui quali si stanno effettuando le perizie. Circostanza smentita dai francesi, secondo cui dagli occhi sono stati prelevati soltanto dei liquidi. Su questo, “domani avremo la risposta perché sarà chiaro se gli occhi ci sono ancora o meno”, ha aggiunto Lunardini, e allo stesso modo si potrà accertare “se gli ruppero il naso”. Poi c’è l’incongruenza dell’infarto. “Una visita su Daniele ha escluso che si trattasse di infarto, poi invece hanno detto che è morto di infarto”. Infine, la questione del corpo conservato a 4 gradi sopra zero e non a 20 sotto zero come consuetudine, con il risultato che il cadavere è arrivato in Italia in pessimo stato. Anche il sindaco di Viareggio, come la madre di Franceschi, ha ringraziato Frattini, Alfano e tutte istituzioni per “l’assoluto impegno” nella vicenda. E a chi gli ha chiedeva che idea si fosse fatto, ha risposto: “almeno il pensiero che ci sia stata omissione di soccorso c’è”. Mauritania: tre salafiti condannati a morte dal tribunale della capitale Agi, 21 ottobre 2010 Il giudice aveva chiesto la pena capitale per altre quattro persone. Tre cittadini salafiti, detenuti nel carcere di Nouakchott sono stati condannati a morte dal tribunale locale per aver preso parte nel 2008 ad una sparatoria dove perse la vita un agente di polizia. I tre sono accusati anche di far parte del movimento al - Qaeda nel Maghreb Islamico. La notizia è stata diffusa dalla tv satellitare in lingua araba al - Jazeera. Fra i tre salafiti c’è anche Khadim Ould Semman considerato uno dei leader del gruppo Ansar Allah al - Murabitun. Altri quattro detenuti sono stati condannati a 15 anni di reclusione. Anche per loro il tribunale aveva chiesto la pena capitale. In Mauritania la pena capitale non viene applicata da oltre vent’anni. L’ultima esecuzione è datata 1987.