Giustizia: il mio digiuno è per i diritti dei detenuti di Franco Corleone Terra, 14 ottobre 2010 Il cinismo dei potenti, del ministro Alfano e dei reggitori delle carceri è senza pudore. È bastato che l’estate passasse senza rivolte e proteste per disinteressarsi del destino dei detenuti, degli ultimi tra gli ultimi. Il cinismo dei potenti, del ministro Alfano e dei reggitori delle carceri è senza pudore. È bastato che l’estate passasse senza rivolte e proteste per disinteressarsi del destino dei detenuti, degli ultimi tra gli ultimi. Anche un provvedimento mediocre come il disegno di legge del governo che prevede la detenzione domiciliare per l’ultimo anno di pena giace al Senato dopo un iter stentato alla Camera e nel frattempo il numero dei detenuti veleggia verso quota 70mila. Il sovraffollamento viene evocato come se si trattasse di una calamità naturale inaspettata e non invece di un evento fortemente voluto attraverso scelte di politica criminale indirizzate alla repressione di fenomeni sociali. Il carcere è così diventato il luogo per accogliere tossicodipendenti, immigrati, poveri: una discarica sociale, etnica, generazionale. Il rischio dell’assuefazione è quasi inevitabile. Come garante dei detenuti di Firenze non ci sto. Quando il carcere di Sollicciano ha stabilmente superato la cifra di mille detenuti, ho annunciato uno sciopero della fame per denunciare l’invivibilità assoluta determinata dal doppio delle presenze regolamentari che è giunto al sesto giorno. Anche una presenza di otto o novecento detenuti è vergognosa, ma avevo promesso ai detenuti che mai si sarebbe superata la quota dei mille, e così sono stato costretto a iniziare una protesta contro l’inarrestabilità dell’emergenza e soprattutto per affermare un limite, una sorta di tabù, che non si può violare. Ovviamente non è un digiuno puramente simbolico. Ho presentato una piattaforma di richieste minime, ragionevoli ma essenziali. Ho chiesto un impegno della Regione per un progetto pilota per far uscire almeno 100 tossicodipendenti dal carcere in affidamento presso le comunità di accoglienza, la garanzia della presenza della scuola in Istituto e l’attivazione di una seconda cucina per garantire un vitto decente. So bene che proprio nel massimo dell’esplosione della crisi del carcere è necessaria una battaglia politica per mettere tra le priorità la riforma del carcere che è legata indissolubilmente alla crisi della giustizia, come è emerso anche dal recente convegno di Magistratura Democratica a Bologna. Ma occorre anche rifiutare la logica del tanto peggio tanto meglio. Si deve lottare per garantire gli spazi concreti per esigere il rispetto dei diritti e l’applicazione della legge penitenziaria. Il Parlamento e questa maggioranza non hanno certo la volontà di cancellare la legge Giovanardi sulle droghe o la Cirielli sulla recidiva e neppure di approvare l’istituzione della figura del garante dei diritti dei detenuti che potrebbe mettere in mora una gestione senza un’idea sulla pena. Le regioni governate dal centro sinistra, parlo dell’Emilia, della Toscana, dell’Umbria e della Puglia dovrebbero individuare una linea comune alternativa partendo dalla nomina di figure autorevoli come autorità di garanzia anche per rispondere in modo coordinato al disastro provocato dalla destra. È troppo? Giustizia: Cnca; il Ministero vuole smantellare il dipartimento della giustizia minorile Redattore Sociale, 14 ottobre 2010 Il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza esprime preoccupazione e sconcerto per il nuovo regolamento di organizzazione del ministero di Giustizia che, se venisse approvato, porterebbe allo smantellamento del dipartimento. Preoccupazione e sconcerto per il nuovo regolamento di organizzazione del ministero di Giustizia. È quanto esprime il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) sul provvedimento che, se venisse approvato, porterebbe allo smantellamento del dipartimento della giustizia minorile. Per questa preoccupazione, il Cnca chiede al ministro Alfano di poter incontrare, al più presto, un esponente del suo ministero per esporgli le ragioni della contrarietà al nuovo regolamento. Il testo sopprime due direzioni generali del dipartimento della giustizia minorile: quella del Personale e quella dei Beni e servizi. Queste funzioni passerebbero al dipartimento dell'organizzazione giudiziaria e a quello dell'amministrazione penitenziaria, mentre al dipartimento della giustizia minorile resterebbero due sole direzioni: quella generale per l'attuazione dei provvedimenti giudiziari e quella per le attività internazionali. Lucio Babolin, presidente del Cnca: "Ma come fa a funzionare in modo serio ed efficiente una struttura che non controlla più il proprio personale e le proprie risorse? La giustizia minorile italiana è apprezzata in tutto il mondo per il suo alto livello di competenza e di efficacia. E invece di potenziarla assegnandole semmai le risorse economiche di cui avrebbe bisogno, le si dà un colpo mortale. E per quale ragione poi? Per risparmiare e per razionalizzare, ci viene detto. Ma smantellare una struttura che funziona non porta risparmio, toglie un valore alla collettività". Secondo Babolin, infatti, "i centri per la Giustizia minorile sono in molte zone del paese un presidio fondamentale per promuovere una cultura della legalità e per sostenere tanti ragazzi e ragazze che vivono in condizioni particolarmente difficili, inseriti in quartieri ancor più problematici, spesso segnati dalla forte presenza delle mafie. L'attività di tali servizi dipende in misura significativa dalla loro autonomia nell'organizzare e gestire le risorse umane e finanziarie. Tutta l'azione sui territori in favore dei 'ragazzi del penalè ruota intorno a essi. Se li ridimensioniamo, il sistema perderà il proprio perno. Un governo che vuole davvero contrastare la criminalità e le mafie - conclude Babolin - non può approvare una tale riorganizzazione". Giustizia: Cassazione; no al carcere preventivo per studenti-bulli Ansa, 14 ottobre 2010 Allontanare in maniera radicale dall’ambiente scolastico gli studenti indagati per atti di bullismo attraverso la pena detentiva potrebbe essere controproducente. La Cassazione (sentenza 36659) ha accolto il ricorso presentato dalla difesa di due studenti di un istituto professionale indagati per reati vari di bullismo nei confronti dei quali il Tribunale per i minorenni di Potenza, disattendendo la disposizione del gip, aveva applicato la misura della custodia cautelare in attesa del processo. Secondo la Cassazione, che ha rinviato il caso al Tribunale di Potenza, è sbagliato escludere a priori una misura cautelare diversa dal carcere, in quanto è necesarrio capire che effetti produce "l’allontanamento dall’ambiente scolastico in ordine al pericolo concreto di reiterazione delle condotte criminose". Nei confronti dei due studenti, all’epoca dei fatti non ancora 18enni, il Tribunale dei minorenni di Potenza, il 12 maggio scorso, aveva ravvisato una "spiccata pericolosità sociale, tale da rendere assai probabile la reiterazione di analoghi comportamenti delittuosi" legati al bullismo nei confronti dei compagni. Nel corso dell’indagine era stata sequestrata anche una pistola ad uno dei due bulli, che aveva provocato la decisione di tenerli in carcere in attesa del giudizio. La difesa dei due ha fatto ricorso con successo in Cassazione, facendo notare che il Tribunale "aveva omesso completamente di motivare sulla inadeguatezza di altre misure meno afflittive" al carcere "quali gli arresti domicliari o l’obbligo di dimora nel comune di residenza o il divieto di avvicinarsi all’istituto" aggiungendo che "dopo l’intervento della Polizia il comportamento scolastico dei due indagati era cambiato come rilevato dalla relazione della dirigente scolastica e dagli operatori dell’azienda sanitaria". La Cassazione ha accolto la tesi difensiva dei due studenti giudicandola "fondata": "il provvedimento impugnato appare affetto dal vizio di motivaziona apparente, in quanto esclude l’adeguatezza di ogni altra misura cautelare senza una specifica indagine sugli effetti che l’allontanamento dei prevenuti dall’ambiente scolastico, con altre misure cautelari, potrebbe produrre in ordine al pericolo concreto di reiterazione delle condotte crminose". Quindi, ferma restando "la gravità del quadro indiziario", sarà ora il Tribunale di Potenza a riesaminare il caso, cercando anche di capire quali effetti può avere l’allontanamento radicale dei bulli dalla scuola. Giustizia: Sappe; agenti stanchi dell’immobilismo della politica, martedì protesta al Dap Adnkronos, 14 ottobre 2010 “In pochi giorni, nelle carceri italiane si sono registrati episodi semplicemente inquietanti”. È quanto sottolinea Donato Capece, segretario del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, ricordando “i due detenuti suicidi a Pistoia e Ravenna, le due evasioni a Saliceta San Giuliano e a Padova, i numerosi tentativi di suicidio di detenuti sventati con prontezza e professionalità dagli agenti penitenziari a Cuneo, Vicenza, Reggio Calabria”. Per il Sappe, “nonostante i quotidiani sforzi e sacrifici delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria, sotto organico di 6.500 unità, nel mantenere ordine e sicurezza nelle oltre 200 carceri italiane in cui sono ammassate 68.536 detenuti; nonostante le 250 aggressioni a nostri agenti peraltro costretti obbligatoriamente a numerose ore di lavoro straordinario non pagato o a servizi di missione per trasportare detenuti in tutta Italia anch’essi non pagati, nessuno fa nulla. L’immobilismo asfissiante e l’apatia dei vertici del Dap e del mondo della politica ai nostri problemi quotidiani è sconcertante”. Per questo motivo, martedì prossimo centinaia di aderenti al Sappe manifesteranno a Roma davanti alla sede del Dipartimento amministrazione penitenziaria, come preannuncia Capece, sottolineando che “i poliziotti penitenziari sono stanchi: stanchi di essere stati e di essere presi in giro sulle più volte annunciate duemila assunzioni di nuovi Agenti dei quali non si ha alcuna traccia; stanchi dall’assenza di provvedimenti concreti del mondo della politica; stanchi di non essere pagati per lavoro straordinario e per i servizi di missione”. Giustizia: il detenuto-lavoratore ha diritto agli aumenti stabiliti dai rinnovi contrattuali La Nuova Sardegna, 14 ottobre 2010 Il detenuto che lavora in carcere ha diritto agli aumenti stabiliti dai rinnovi contrattuali, l’amministrazione penitenziaria deve pagargli i due terzi del salario dovuto in base alla sua mansione. Per la prima volta in Italia questo diritto è stato riconosciuto a un detenuto di Uras, uscito di prigione a giugno. Tornato in libertà dopo diciassette anni di carcere, si è rivolto all’associazione Casa dei Diritti perché il suo salario, guadagnato col lavoro di falegname svolto in carcere, dal 1993 non era stato mai adeguata al contratto nazionale di lavoro. Gli avvocati Pierandrea Setzu e Renato Chiesa hanno ricorso al tribunale del lavoro, che ha riconosciuto all’ex detenuto il diritto agli aumenti: qualche giorno fa il ministero della giustizia ha proposto un accordo di transazione destinato a coprire gli anni dal 2002 al 2007. L’uomo ha accettato e incasserà di conseguenza dodicimila euro, vale a dire la differenza tra quanto percepito in prigione e i due terzi del salario stabilito dal contratto nazionale, più quanto gli spettava per i periodi di malattia e le indennità previdenziali e contributive. Per gli ultimi tre anni di lavoro in carcere i legali proporranno un nuovo ricorso al giudice. L’avvocato Setzu ha spiegato che le mercedi - è questo il termine tecnico per indicare la retribuzione del detenuto lavorante - dei carcerati dovrebbero essere adeguate ogni anno secondo gli indici del consumo e le modifiche dei contratti collettivi nazionali di lavoro di ogni categoria. Il compito è affidato a una commissione ministeriale che però dal 1993 non ha mai operato. Eppure - è la tesi sostenuta dagli avvocati Setzu e Chiesa - l’articolo 36 della Costituzione “si pone in netto contrasto con l’illegittima prassi dell’amministrazione penitenziaria, stabilendo che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. La Costituzione “riconosce e tutela un diritto che riguarda tutti i lavoratori, senza operare discriminazioni nei confronti di quelli detenuti”. Non solo: l’articolo 22 dell’ordinamento penitenziario riconosce al detenuto lavoratore “una retribuzione che gli consenta un tenore di vita decoroso, non inferiore ai due terzi della retribuzione stabilita per gli altri lavoratori della stessa categoria dal contratto nazionale in vigore al tempo della avvenuta prestazione lavorativa”. Ed è su questo punto che i due legali hanno legato la citazione in giudizio del ministero della giustizia: “Ad ogni modifica del contratto di categoria dev’essere adeguato il trattamento retributivo dei detenuti lavoratori alle dipendenze del ministero”. Giustizia: Socialismo Diritti Riforme; esposti a procure su tagli a sanità penitenziaria Agi, 14 ottobre 2010 “L’opportunità di un’inchiesta per accertare le responsabilità ed eventuali ipotesi di reato nella situazione della sanità penitenziaria che, con il trascorrere dei giorni, diventa sempre più critica è stata posta all’attenzione dei procuratori della Repubblica di Cagliari, Sassari e Nuoro dall’associazione Socialismo Diritti Riforme”. Lo afferma la presidente Maria Grazia Caligaris che ha firmato gli esposti. “Le conseguenze del braccio di ferro tra la Regione ed il Ministero della Giustizia - sottolinea la Presidente di Sdr - si aggravano in attesa di una soluzione che consenta di reperire i 500 mila euro necessari ad eliminare fino al 31 dicembre i tagli imposti dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. L’associazione, che con i volontari effettua colloqui in carcere ed è impegnata per il rispetto dei diritti civili dei cittadini detenuti registra profondo malessere, preoccupazione e proteste da parte dei ristretti e dei loro familiari”. “Lunedì - prosegue Caligaris - un episodio doloroso è avvenuto nel carcere di Badu e Carros. Un detenuto si è sentito male ed è deceduto nonostante il trasferimento con l’ambulanza del 118 all’ospedale civile San Francesco dove peraltro è funzionante un reparto protetto per i ristretti. Sulla vicenda, di cui non si conoscono i particolari, sono in corso accertamenti dell’autorità giudiziaria che ha disposto l’autopsia. L’uomo, 40 anni, siciliano, ha avvertito un forte dolore al petto dopo l’ora d’aria”. “L’assenza della guardia medica, notturna e diurna, in molti istituti e nelle colonie penali di Isili, Mamone, Is Arenas e la distanza dagli ospedali di riferimento, insieme alla chiusura dei Centri Clinici di Buoncammino a Cagliari e di San Sebastiano a Sassari ed alla sospensione delle visite specialistiche, compromettono - conclude la presidente di “Socialismo Diritti Riforme” - il diritto alla salute sancito dalla Costituzione per tutti i cittadini compresi coloro che hanno perso la libertà. È indispensabile quindi erogare con un provvedimento d’urgenza i 500mila euro necessari. Regione e Governo devono considerare l’emergenza sanità nelle carceri isolane come una calamità che richiede uno stanziamento immediato in attesa della copertura finanziaria come è avvenuto per altri gravi situazioni di calamità nel territorio nazionale”. Nei giorni scorsi l’associazione Sdr aveva anche rivolto un appello al Presidente della Repubblica. Lettere: dal carcere di Messina scrive all’On. Bernardini; la nostra salute qui è a rischio www.clandestinoweb.it, 14 ottobre 2010 La lettera che segue, è stata recapitata dal Garante per i detenuti della Regione Sicilia, Sen. Salvo Fleres, all’Onorevole Rita Bernardini il 13 Ottobre 2010. A scrivere è un detenuto del carcere Gazzi di Messina che si firma “Felipe”. Clandestinoweb, attraverso la rubrica “La voce dietro le sbarre”in collaborazione con l’Onorevole Bernardini pubblica integralmente quanto scritto da Felipe. L’oggetto della lettera è lo stato di emergenza sanitaria che si presenta all’interno della casa circondariale di Messina. “Egregia on. Bernardini Rita, chi vi scrive è un detenuto del carcere di Gazzi che tra l’altro ho avuto il piacere di conoscerla quando ero al cos detto ma non di fatto “reparto sosta”. Come prima cosa le chiedo di accettare le mie scuse per non firmare con il mio giusto nome e cognome questo mio scritto, le ragioni sono perché non vorrei che l’amministrazione carceraria prendesse dei provvedimenti sulla mia persona! Perché per quanto può essere ingiusto la nostra posta viene aperta o addirittura non recapitata. Preferirei essere chiamato con un nome di fantasia “Felipe”. All’epoca della sua visita in questo istituto durante il nostro colloquio le esponevo alcuni fatti gravosi che dovevamo subire: fra cui il sovraffollamento delle celle di cui se si ricorda dovevamo convivere in 13 in una cella che ne doveva ospitare soltanto 4 persone, oltre le persone, dovevamo convivere con i topi per non parlare delle condizioni sgradevoli igienico sanitari, inoltre dovevamo convivere con persone con gravi patologie. Oggi le scrivo per fargli presente che la maggior parte di noi dopo nove mesi e più abbiamo avuto la possibilità si salire al “reparto camerotti”. Devo dire che siamo passati dalla stalle alle stelle, qui abbiamo un bagno dignitoso, un reparto a prima vista pulito e la possibilità di frequentare alcuni corsi messi a disposizione da questo istituto. Ma per quanto riguarda la capienza dei detenuti in una cella devo dire che è peggiorata perché in un cubicolo di due persone ne siamo sei. Lascio immaginare a lei come si può vivere dignitosamente in sei metri quadri. Il vero motivo che mi preoccupa e mi angoscia e devo dire che non sono l’unico detenuto ad essere preoccupato ma siamo seriamente preoccupati tutti i detenuti di ogni reparto. Il motivo di questa nostra preoccupazione è dovuto al fatto che questi bravi dottori che operano all’interno dell’istituto e un ringraziamento va al direttore di questo carcere per averci dato la possibilità di convivere con persone affette da malattie gravi come l’aids, e cosa molto più grave, con malati di tubercolosi. Le faccio presente che malgrado le nostre giuste preoccupazioni e la nostra disponibilità nel farci fare le analisi del sangue ci viene negato questo nostro diritto assicurandoci solo con fandonie che non c’è nulla di preoccupante. A suo dire basta un colpo d’occhio alle visite mediche per capire se qualcuno ha contratto qualche malattia. Per intanto non capisco perché il detenuto R.G. presumibilmente affetto da tubercolosi sia stato trasferito e isolato al reparto del centro clinico? E i 5 compagni di stanza vengono muniti di mascherina, e viene vietato a loro qualsiasi attività comune, tipo l’aria la fanno da soli, i colloqui non li possono fare, ecc. ecc. Per tanto noi tutti percepiamo la presenza di qualcosa di grave preoccupandoci per la nostra salute e quella dei nostri famigliari che ci vengono a trovare! Per tanto vi chiedo nuovamente di poter avviare un’indagine su tutta questa storia prima che la situazione possa seriamente degenerare con conseguenze molto più gravi e disastrose per tutti noi e i nostri famigliari. Concludo con il dirvi che se l’amministrazione carceraria non prenderà subito provvedimenti noi detenuti saremo costretti a manifestare una rivolta! Preciso che non si può scherzare con le nostre vite e quelle delle nostre famiglie. Fiducioso in un vostro intervento ringrazio anticipatamente”. L’Onorevole Bernardini aveva già constatato uno stato di emergenza nel carcere Gazzi di Messina durante la visita ispettiva dello scorso 17 luglio. Successivamente, il 26 luglio, ha presentato un interrogazione scritta indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Giustizia e al Ministro della Salute. Ad oggi, ancora nessuna risposta. Tutto tace, e i detenuti della casa circondariale di Messina, nonostante un trasferimento di reparto, continuano a vivere in uno stato assolutamente inaccettabile sotto ogni punto di vista. Lettere: trasferito a Padova per essere curato, da mesi attendo un intervento chirurgico Il Mattino di Padova, 14 ottobre 2010 Sono un ragazzo rumeno e attualmente mi trovo detenuto nella Casa di reclusione di Padova. Sono stato trasferito in questo istituto dal carcere di Tolmezzo, appositamente per poter essere ricoverato presso le strutture ospedaliere della città, dove dovrei essere sottoposto ad un importante intervento chirurgico. Dopo aver letto recentemente l’articolo sul “Il Mattino di Padova” riguardante un compagno detenuto a cui è stato diagnosticato un tumore, anch’io ho pensato di rivolgermi al vostro giornale e denunciare la mia situazione. Purtroppo sono mesi che attendo l’intervento chirurgico e nonostante le mie continue insistenze non riesco ad ottenere quello che ritengo un mio diritto alla salute. Non so di chi sia la responsabilità di questa situazione, ma proprio per questo voglio far conoscere questo mio problema alla collettività. Emil Ochianà Mircea Lazio: il Garante; allarme per influenza stagionale con questo livello di sovraffollamento Ansa, 14 ottobre 2010 “Con i gravi livelli di sovraffollamento, che non accennano ad attenuarsi, corriamo il serio rischio che la prima ondata dell’influenza stagionale possa avere effetti drammatici nelle carceri italiane”. È questo l’appello lanciato dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni alla vigilia dell’avvio della campagna di vaccinazione antinfluenzale 2010/2011. “In questi giorni - ha detto il Garante - Asl, presidi territoriali e istituzioni locali sono state mobilitate per informare la cittadinanza, e in particolare le categorie più a rischio, dell’imminente avvio della campagna di vaccinazione contro l’influenza stagionale. Spero vivamente di sbagliarmi, ma fra le priorità nessuno parla del carcere”. Dall’ufficio del Garante fanno notare che la situazione del sistema carcerario italiano - con i suoni oltre 200 istituti e 68.000 reclusi - racchiude una serie di criticità che dovrebbero farlo ritenere una priorità anche per una operazione di apparente routine come la vaccinazione per l’influenza di stagione: sovraffollamento, scarse condizioni igieniche e una popolazione carceraria che va dai minorenni agli ultra ottantenni, con il 35% di stranieri e una percentuale simile di tossicodipendenti. Come denunciato dal Garante, negli istituti si registra un indice di salute medio - grave (con 6 persone su 10 malate), una diffusione elevata di tubercolosi, epatiti B e C, diabete e hiv, di problemi cardiocircolatori e polmonari, una alta frequenza di reclusi con fragilità mentale e un numero elevato di decessi che, nel 2010, è arrivato a quota 135, di cui 54 suicidi. I reclusi - cui vanno aggiunti migliaia di agenti di polizia penitenziaria e di operatori dell’area educativa - vivono 24 ore al giorno in ambienti non salubri e sovraffollati, che non rispondono alle norme su ventilazione e servizi igienici, con una oggettiva impossibilità di minimizzare i contatti con le persone ammalate. Solo nelle 14 carceri del Lazio i detenuti reclusi sono oltre 6.300, quasi 1.600 in più rispetto alla capienza regolamentare. “Ho chiesto ai miei collaboratori di verificare presso i direttori degli Istituti e presso le Asl se siano stati approntati piani specifici di vaccinazione antinfluenzale nelle carceri - ha concluso Marroni - Con le condizioni odierne, lo ripeto, si corre davvero il rischio che la diffusione dell’influenza possa avere conseguenze imprevedibili nelle carceri”. Pistoia: è morto stanotte in ospedale il detenuto 35enne che si era impiccato ieri La Nazione, 14 ottobre 2010 Non ce l’ha fatta il detenuto che ieri era stato salvato in extremis dagli agenti del Santa Caterina di Pistoia. Il carcerato aveva tentato il suicidio con un lenzuolo all’interno della propria cella, legandolo alla terza branda, la più in alto, mentre i compagni non erano con lui. L’uomo era stato arrestato l’estate scorsa per rapina. Ieri gli agenti del penitenziario pistoiese avevano tentato di salvarlo, chiamando i soccorsi. Nonostante la corsa in ospedale però già in serata era stata decretata dai medici la morte cerebrale. Nella notte poi l’uomo è spirato. I familiari del suicida hanno scritto una lettera chiedendo che il nome dell’uomo non venga rivelato e smentendo che fosse in cura per problemi psichici. L’avvocato: scontava la sua pena con sofferenza, ma il suicidio è incomprensibile La sua famiglia vive momenti di grande dolore e ci chiede di rettificare, tramite lo studio dell’avvocato Elisabetta Vinattieri di Pistoia, che difendeva il giovane nella sua vicenda giudiziaria, la circostanza riportata ieri, e cioè che il giovane soffrisse di problemi psichiatrici. Circostanza non vera, non aveva problemi di tipo psichiatrico, e per la quale ci scusiamo con la famiglia. “Un ragazzo sfortunato - ci ha detto poi l’avvocato Vinattieri, da noi interpellata - ma come tanti ce ne sono. Stava prendendo coscienza di quanto era avvenuto, aveva capito di aver sbagliato e voleva anche chiedere scusa, con una lettera, al farmacista. Era un ragazzo fondamentalmente buono. Stava vivendo il carcere come una consapevole espiazione, anche se con grande dolore personale. Per la sua famiglia, e anche per me, il suo gesto è stato del tutto inatteso, improvviso. Il fratello gli aveva fatto visita sabato mattina e non aveva colto alcun segnale di disagio. Non riusciamo a capire il perché del suo tragico gesto”. La morte del giovane riaccende intanto il dibattito intorno alla situazione del carcere della città. Dall’inizio dell’anno ci sono stati almeno due tentativi di suicidio. Santa Caterina in Brana è uno degli istituti di pena toscani con la più alta densità di detenuti rispetto alla capienza: secondo gli ultimi dati ufficiali della Direzione e divulgati dal Comune di Pistoia i carcerati variano mediamente da 140 a 150, con punte di 157, a fronte di una capacità di accoglienza di 79 unità. La soglia di tolleranza, pari a 90 persone, è ogni giorno abbondantemente superata. In celle di sei metri arrivano a vivere fino a quattro persone, molte delle quali affette da gravi problemi di salute e con tossicodipendenza. Una serie di questioni che adesso torna alla discussione del Consiglio comunale con un’interpellanza di alcuni consiglieri del Pd. “Il Comune ha competenze limitatissime in materia, ma può fare comunque qualcosa?”, ci si chiede. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, si ricorda citando la Costituzione dall’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Gravissime, come più volte denunciato dai sindacati, le carenze di organico della polizia penitenziaria. “Di fronte all’ennesima tragedia - dichiara la segretaria della Camera del lavoro Gessica Beneforti - anche le istituzioni locali si devono impegnare per mettere a punto una risposta immediata all’emergenza carceraria che a Pistoia ha raggiunto livelli non più tollerabili. Chiediamo pertanto l’istituzione urgente di un tavolo di confronto per fare ogni sforzo per la soluzione dei problemi”. “L’intero sistema carcerario sta correndo ormai verso il baratro”, si commenta dalla Uil-Pa penitenziari. Pistoia: quella terza branda nelle celle “singole” è indice di condizioni di vita inumane Il Tirreno, 14 ottobre 2010 “Come sindacato ci risulta che per l’ennesima volta la terza branda è stata fatale, in quanto ha costituito l’appiglio per compiere questo terribile gesto. Terza branda che più volte abbiamo segnalato sia come pericolosità che come sintomo di una condizione di vita inumana”. Riccardo Palombo, delegato della Cgil-Funzione pubblica per la polizia penitenziaria di Pistoia, punta il dito contro la grave situazione di sovraffollamento della casa circondariale di Santa Caterina. Sovraffollamento di cui la terza branda, quella che si trova a due metri e mezzo di altezza, a contatto con il soffitto delle celle, rappresenta un simbolo: un appiglio a cui legare un lenzuolo, un disagio in più che spesso può concorrere a spingere verso il suicidio. “Certo, il sovraffollamento è un problema generalizzato nei penitenziari italiani, ma sono i suoi effetti che variano da penitenziario a penitenziario” spiega Palombo. Come a dire: se per Firenze 50 detenuti in più non sono nulla, per Pistoia sono un’emergenza. “Spesso c’è chi in cella è costretto, come accade anche in questi giorni, a dormire per terra o sui tavolini”. A ciò si aggiunge il problema della carenza di personale: a Pistoia è sotto organico di oltre il 40%. “E questo determina il lavorare al di sotto dei livelli minimi di sicurezza. Con agenti che coprono da due a quattro posti di servizio contemporaneamente”. La Cgil è consapevole che il rispetto della capienza tabellare sarebbe un sogno. “Di tanto in tanto, il provveditorato regionale dispone il trasferimento di 10-20 detenuti - spiega Palombo - ma dopo dieci giorni siamo al punto di partenza. Una soluzione? Il suggerimento che come sindacato diamo è che ogni volta che si arriva a quota cento non vengano accolti altri detenuti. Noi non possiamo far altro che proporre, dovrebbero essere le autorità competenti, di concerto tra loro, a far sì che questa regola fosse messa in atto. In futuro, sicuramente, intraprenderemo delle iniziative coinvolgendo le istituzioni locali, affinché ognuno si assuma le proprie responsabilità, affinché tutto non debba sempre e comunque ricadere sulla polizia penitenziaria, anche per quanto riguarda gli aspetti di rilevanza penale”. Costruita nel 1920 è suddivisa in quattro sezioni La realizzazione della Casa circondariale di Santa Caterina in Brana risale agli anni Venti. I passeggi, uno per sezione, sono scoperti. In caso di maltempo viene utilizzata la palestra. Non c’è un campo sportivo, né stanze per la socialità. Tuttavia l’Istituto è dotato di una palestra, di un laboratorio e di una sala utilizzata come biblioteca ed aula scolastica. Le sezioni detentive sono in tutto 4, compresa la semilibertà. La sezione maggiore, per detenuti comuni, con 3-4 posti doccia per piano e gabinetti con water (diviso con muro e porta): al piano terra, 19 celle di 7,40 metri quadrati; al primo piano, 3 celle da 18 metri quadrati con 2 letti a castello a tre livelli e 5 celle da 28 metri con tre letti a castello a tre livelli. La sezione per collaboratori, ha, al piano terreno, una cella da 3 detenuti e 3 celle singole; al primo piano, 2 celle da 3 ed una piccola. La sezione transito-isolamento ha 4 celle singole per isolamento giudiziario, sanitario e disciplinare; all’occorrenza però le celle sono occupate da più persone (massimo 3). La sezione semilibertà ha un camerone di circa 44 metri. Firenze: gli Enti locali contro la gestione dell’Ipm; solo punizione e niente rieducazione Redattore Sociale, 14 ottobre 2010 Esplode la polemica sul carcere Meucci. Coniglio: “Personale penitenziario senza motivazioni”. Di Giorgi: “I detenuti hanno soltanto 15 anni ma non possono uscire neanche per una mostra”. A Firenze scoppia la polemica sul carcere minorile Meucci. Le istituzioni locali, provincia e comune in primis, accusano la direzione dell’istituto. “Mancano gli operatori sociali e il personale penitenziario non è motivato” incalza l’assessore provinciale al sociale Antonella Coniglio; “Manca l’istruzione di base e i ragazzi non escono mai dal carcere: mai una mostra, uno spettacolo, un evento” aggiunge l’assessore comunale all’istruzione Rosa Maria Di Giorgi. Sono circa 20 gli under 18 detenuti nell’istituto minorile di via degli Orti Oricellari, la maggior parte dei quali di origine straniera, tutti reclusi per piccoli reati. “Tutto è inquadrato in termini di sicurezza, non sociale ma militare - dice l’assessore Coniglio - È necessario rimotivare il personale civile e penitenziario che quotidianamente lavora con i giovani detenuti. Aldilà della carenza di risorse economiche, scarseggiano le risorse umane in un settore dove c’è sempre più bisogno di interrogarsi su quello che sarà lo scenario futuro”. Per l’assessore comunale Di Giorgi, l’impegno dell’amministrazione comunale non è corrisposto da un’altrettanta responsabilità della direzione carceraria: “Se non fosse per il recente impegno del comune, al Meucci non sarebbe garantita neppure l’istruzione di base - spiega Di Giorgi - Per noi il carcere minorile è una scuola e, come tale, deve far parte del sistema formativo della città, con la quale i giovani detenuti hanno il diritto di interagire”. Di Giorgi invita la direzione carceraria a predisporre piani per permettere ai detenuti di uscire con regolarità dall’istituto. “Dovete inventarvi qualcosa che permetta ai ragazzi di vivere la città. Hanno soltanto 15 anni e non possono neppure uscire per una mostra, un concerto, uno spettacolo, una partita allo stadio. Il comune mette a disposizione operatori sociali in grado di accompagnarli fuori, ma serve il consenso e la collaborazione dell’amministrazione penitenziaria”. Padova: sul muro di cinta non ci sono agenti né impianti d’allarme, detenuto evade Il Gazzettino, 14 ottobre 2010 Evasione in stile film americano dalla Casa circondariale di via Due Palazzi. Protagonista un tunisino di trent’anni, Riadh Kouka, in carcere da appena otto giorni per reati legati al mondo degli stupefacenti. Ieri mattina nell’orario riservato alle visite, ha ricevuto i propri genitori. Gli inquirenti stanno ora cercando di capire se siano proprio loro i basisti dell’evasione. Poi è cominciata l’ora d’aria. Ed è scattato il piano di fuga. Dalla sua cella il maghrebino ha preso due lenzuola e le ha legate una all’altra. Poi ha nascosto tutto il necessario nei pantaloni e si è avvicinato ad una rete metallica. L’ha scavalcata con estrema facilità senza che nessuno si accorgesse dei suoi propositi di fuga. A quel punto la parte più difficile dell’impresa. Tra lui e la “libertà”, un muro altro tre metri che costeggia il “camminamento”. Ha tirato fuori dai pantaloni il doppio lenzuolo, ha creato una sorta di cappio artigianale e l’ha lanciato verso un riflettore della luce. Aiutandosi con la corda artigianale si è arrampicato e in pochi secondi era fuori dal Due Palazzi. L’allarme è scattato pochi secondi dopo l’evasione, ma al momento le ricerche hanno dato esito negativo. Diverse le possibili vie di fuga. La più semplice e allo stesso tempo la più rischiosa è quella dell’autostrada. A duecento metri dalla struttura penitenziaria passa infatti la A4. Non è escluso che il fuggitivo avesse un complice pronto a caricarlo per favorirgli la fuga. Meglio ancora, potrebbe essere stato nascosto in un rimorchio di un camion per evitare possibili posti di blocco della polizia. Tra le altre possibili vie di fuga anche quella attraverso i campi che circondano il carcere. Dalle 12.30 in poi, quindi pochi minuti dopo la fuga, è scattato il piano d’emergenza. La città e l’immediata periferia, sono state letteralmente blindate dalle forze dell’ordine. Polizia, carabinieri, guardia di finanza e polizia locale, anche mediante elicotteri, hanno perlustrato tutte le vie di fuga, fermato centinaia di auto. In stazione tutti gli extracomunitari presenti sono stati ascoltati per capire se il fuggitivo avesse chiesto appoggio a loro per la fuga. Il primo sopralluogo in carcere è stato effettuato dagli agenti della Squadra mobile, con il supporto della Scientifica che ha ricostruito nei dettagli l’accaduto e interrogato i presenti. Sia i detenuti che le guardie penitenziarie di turno. L’indagine è curata dagli agenti della Squadra mobile. Un centinaio le pattuglie sul territorio. Con la segnaletica di Riadh Kouka in bella mostra per l’eventuale identificazione. Un ricercato che difficilmente può passare inosservato. Capelli lunghi e riccioli, una corporatura magra e il volto scavato. Alto circa un metro e settanta. Gli inquirenti non escludono che abbia già lasciato la città, ma le ricerche sono proseguite per tutta la notte. Gli agenti: siamo pochi, sicurezza ai minimi livelli Era detenuto nella Casa Circondariale di via Due Palazzi in attesa di giudizio. Da ieri mattina però del 30enne tunisino arrestato il 5 ottobre scorso perché sorpreso alla stazione ferroviaria con mezzo chilo di eroina si sono perse le tracce. L’extracomunitario, clandestino, è infatti evaso alle poco prima delle 11 dopo avere parlato, durante il colloquio, con i suoi familiari. Il detenuto, alto un metro e 82 centimetri e del peso di 54 chili, approfittando della sua prestanza fisica e dell’ora d’aria, ha scavalcato la prima rete di recinzione poi, servendosi di alcune lenzuola, è riuscito a issarsi sul muro perimetrale del carcere lanciandosi fuori. Immediata è scattata la caccia all’uomo momentaneamente, però, con esito negativo: del tunisino non c’è traccia. “Per quanto ci riguarda - dice Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa-Penitenziari - non possiamo che ribadire quanto già più volte denunciato: ovvero che il deficit dell’organico di polizia penitenziaria costringe gli operatori a prestare servizio in condizioni ben al di sotto dei livelli minimi di sicurezza”. Quindi il sindacalista Uil aggiunge: “Questo significa, come purtroppo è dimostrato dalle 13 evasioni avvenute quest’anno, che chiunque voglia, e quando vorrà, potrà evadere dalle nostre prigioni-groviera, a prescindere dalle capacità e dall’impegno del personale”. E la stessa preoccupazione del sindacalista Uil è espressa anche dai suoi colleghi della Cgil, Alessandro Chiaregato e Salvatore Livorno. “Con l’evasione, in pieno giorno, dalla Casa Circondariale, ormai si è superato ogni limite - ribadiscono i due esponenti della Cgil - Adesso pretendiamo delle risposte precise. Perché è sempre antipatico dire “lo avevamo detto”, soprattutto quando si tratta di certi argomenti, però da tempo denunciamo l’insostenibile situazione delle carceri di Padova”. Che secondo Salvatore Livorno e Alessandro Chiaregato “sono strutture al collasso, dove i detenuti sono ammassati e gli operatori del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria costretti a lavorare in condizioni indecenti”. “Dopo questa evasione, avvenuta alla luce del sole - proseguono i due sindacalisti - occorrono misure urgenti se vogliamo evitare il ripetersi di fatti così gravi”. Tanto da sollecitare, urgentemente, non solo un incontro con il sindaco Zanonato e il prefetto Sodano, ma anche l’intervento del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, tra l’altro in visita nella nostra città proprio oggi. “Al ministro Maroni - concludono Livorno e Chiaregato - chiediamo, in qualità di rappresentante del Governo, l’assunzione di provvedimenti concreti, rifuggendo dal rischio, sempre presente in temi come questo, di cadere nella demagogia o nella facile e scontata propaganda politica”. Intanto, prima dell’estate, era stata anche la Camera penale di Padova a preoccuparsi della situazione delle carceri cittadini depositando un esposto in Procura in cui si chiedeva di monitorare la situazione, soprattutto dal punto di vista igienico-sanitario dato il sovraffollamento nelle celle. Casellati: sul muro non c’è alcun allarme, ha avuto vita facile L’ha definita una fuga ottocentesca. Perché quella di utilizzare le lenzuola per scappare dalla galera è una modalità antica. Ma anche lei, che pur conosce dettagliatamente le difficoltà in cui si dibatte il Due Palazzi a causa del sovraffollamento, non pensava proprio che un detenuto potesse scappare con tanta facilità. Elisabetta Casellati, sottosegretario alla Giustizia, nei mesi scorsi si era adoperata per far arrivare a Padova uno stanziamento di 2 milioni di euro per completare la palazzina adiacente la Casa circondariale. “I lavori stanno andando avanti - sottolinea - ma il problema principale è che il numero delle presenze è elevatissimo, tanto che è stato dichiarato per questo motivo lo stato di emergenza. Non è facile il compito della direttrice, Antonella Reale, che deve organizzare il turnover all’interno della Casa circondariale”. Elisabetta Casellati ricostruisce così quanto è accaduto. “Lo straniero che poi è evaso stava passeggiando distanziato dagli altri per motivi sanitari. Aveva le lenzuola nascoste sotto i vestiti. Non so cosa sia successo, ma è riuscito ad eludere il controllo dell’agente di custodia, forse approfittando di un attimo di distrazione di quest’ultimo, o del fatto che la guardia si è fidata. Purtroppo i poliziotti penitenziari sono pochi e non possono tenere tutto sotto controllo, anche se chi è preposto a tale compito deve farlo con responsabilità. Certo, il detenuto ha avuto vita facile per vari motivi. Innanzitutto è molto agile, perché pesa 59 chili ed è alto 1,82. Inoltre, c’è da considerare che probabilmente sapeva che sul muro che circonda il carcere non c’è né un impianto d’allarme, né un dispositivo antiscavalcamento”. Nuoro: otto agenti del carcere di Mamone a processo con l’accusa di peculato e violenze La Nuova Sardegna, 14 ottobre 2010 Ieri mattina, dopo una storia infinite di udienze, rinvii e un tourbillon di giudici, si è di fatto riaperto con l’audizione di un testimone, il processo che vede otto agenti di polizia penitenziaria del carcere di Mamone, imputati per peculato e per le presunte violenze commesse nei confronti di un gruppo di ex detenuti extracomunitari della colonia penale. Gli imputati sono: Bachisio Pira, Efisio Torrazzi, Antonio Sanna, Salvatore Pala, Piero Sulas, Marco Pitzalis, Giovanni Mazzone e Natalino Ghisu. I fatti risalgono al 2002: secondo l’accusa, tra gli episodi che vengono contestati agli otto imputati vi sarebbe anche quello legato ad alcuni detenuti di fede musulmana. Stando alla ricostruzione di parte, questi ultimi erano stati costretti a baciare la statua della Madonna. Gli otto agenti di polizia penitenziaria, attraverso i loro avvocati, hanno sempre respinto con forza tutte le accusa. Ieri mattina, in udienza, davanti al tribunale collegiale presieduto da Antonio Luigi Demuro, è stato sentito come testimone l’allora comandante del nucleo operativo dei carabinieri della compagnia di Bitti, il maresciallo Marco Franchi. “Avevo raccolto due denunce per minacce che aveva presentato l’educatore del carcere di Mamone, Carmelo Salone - ha raccontato il sottufficiale dell’Arma ai giudici nuoresi - così con i miei uomini compimmo alcune indagini che però portarono a un nulla di fatto. E indagando su questi abbiamo scoperto un altro filone di indagini”. Il filone in questione sarebbe proprio quello che poi ha portato al rinvio a giudizio degli otto agenti di polizia penitenziaria. Ma su questo filone, il testimone non è stato sentito perché non ha seguito direttamente quelle indagini. Viterbo: detenuto si laurea, ha discusso una tesi per la facoltà di Scienze politiche Viterbo News, 14 ottobre 2010 Laurea a Mammagialla. Presso la sala del teatro della casa circondariale di Viterbo si è brillantemente laureato un detenuto che sta scontando la pena dell’ergastolo e che è ristretto ormai da quasi 20 anni nel carcere della nostra città. Il “nuovo” dottore in Scienze politiche ha discusso una tesi indubbiamente interessante dal titolo “Dal vecchio mondo al nuovo continente: interconnessioni e complementarità nella storia della Mafia”, al termine di un percorso accademico inserito nel corso di laurea di Scienze delle comunicazioni. Erano presenti i familiari, i volontari delle varie associazioni che operano all’interno del carcere, alcuni educatori e il cappellano dell’istituto; tutti hanno assistito con vero interesse alla discussione della tesi tra il candidato e la commissione d’esame composta da cinque professori, i quali sono intervenuti con la toga tradizionale per aggiungere valore ad un momento di grande importanza nel contesto penitenziario. Lo studio infatti rappresenta un percorso privilegiato per il riscatto della dignità dell’uomo e costituisce sicuramente una delle migliori opportunità per il reinserimento sociale previsto dalla nostra Costituzione: tutti i presenti possono testimoniare di aver assistito a un esempio autentico di ricomposizione di quel conflitto sociale che si genera normalmente tra reo e società, a testimonianza del fatto che cambiare si può. Al termine della discussione, il preside della Facoltà di Scienze Politiche, constatato anche il brillante curriculum accademico del candidato, ha declamato la formula di rito conferendo la laurea con 110 con lode. I volontari presenti, che tra le molteplici iniziative svolgono anche una intensa attività di tutoraggio universitario e seguono al momento altri dieci studenti iscritti a varie facoltà, hanno voluto donare al nuovo dottore una targa ricordo con la seguente incisione: “l’amore per la cultura e l’impegno nel lavoro riscattano l’uomo di buona volontà e lo rendono libero per sempre”. Al termine della sessione, tutti i presenti hanno potuto partecipare ad un ricco rinfresco offerto dalla famiglia e che si è potuto svolgere solo grazie all’assistenza amichevole degli agenti di polizia penitenziaria e degli educatori dell’istituto. Un’ultima curiosità: il nuovo dottore aveva già conseguito una prima laurea qualche anno fa in Economia e Commercio e chi opera in carcere sa che non è affatto vero che sia facile studiare in quell’ambiente. Cuneo: detenuto marocchino di 32 anni si dà fuoco in cella, salvato dai poliziotti Apcom, 14 ottobre 2010 Ieri nel carcere di Cuneo un detenuto marocchino di 32 anni ristretto alla prima sezione, con fine pena 2016, si è dato fuoco nella sua cella usando una bomboletta a gas di quelle in dotazione ai carcerati per la cottura del cibo. Lo denuncia l’Osapp, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Grazie all’intervento degli agenti, che hanno spento le fiamme e chiamato il 118, l’uomo non ha perso la vita. Al momento si trova ricoverato al reparto grandi ustionati del Cto di Torino. Ha riportato ustioni sul 20% del corpo, è in coma farmacologico e la prognosi è riservata. “La situazione di sovraffollamento nelle carceri italiane - dichiara Leo Beneduci, segretario regionale dell’Osapp - è diventa insostenibile a causa dei tagli di risorse gli istituti penitenziari sono allo stremo. L’episodio di Cuneo è solamente l’ultimo di una lunga serie: nel carcere piemontese, per fare un esempio, sono ristrette 291 detenuti, ma la capienza è di 234 e i poliziotti in servizio sono 216 a fronte di 262 unità previste”. “Un altro fatto inquietante - conclude Beneduci - è che per il nuovo padiglione del carcere che verrà aperto nel gennaio del 2011 non è ancora stato previsto un aumento di organico”. Reggio Calabria; detenuto romeno di 43 anni tenta il suicidio, salvato dagli agenti Ansa, 14 ottobre 2010 L’intervento della polizia penitenziaria ha sventato il suicidio di un detenuto del carcere di Reggio Calabria. Lo rende noto l’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. Il fatto è accaduto stamani verso le 9.30. Un detenuto di nazionalità romena di 43 anni, ha riferito il vice segretario generale dell’Osapp, Domenico Nicotra, ha tentato di impiccarsi con un cappio rudimentale nei locali adibiti al passeggio. Quando sono intervenuti gli agenti, l’uomo ha brandito una lametta con la chiara intenzione di tagliarsi la gola se qualcuno si fosse avvicinato. “L’ispettore Maurizio Policaro - ha riferito Nicotra - ha iniziato un’opera di persuasione. È bastato un attimo di distrazione del detenuto per consentire agli assistenti Antonino Megale e Salvatore Lo Presti di liberare il detenuto dal cappio e scongiurare il peggio”. “I fatti di cronaca riferiti ai decessi di detenuti negli istituti penitenziaria italiani - ha concluso Nicotra - sono arrivati a quota 54 ed il 55/mo è stato solo rimandato grazie al tempestivo intervento della polizia penitenziaria reggina che continua a soffrire ogni giorno di più il sovraffollamento carcerario e l’assenza di provvedimenti che possano reintegrare i reparti”. Modena: detenuto 50enne evade dalla Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano 9Colonne, 14 ottobre 2010 Ieri mattina un internato siciliano, Giuseppe Scaletta, 50enne, recluso nella Casa di Lavoro di Saliceta San Giuliano è evaso durante le operazioni di scarico dei rifiuti cui era preposto. Si tratta della seconda evasione di quest’anno verificatasi a Saliceta S.G.: lo rende noto Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari. All’uomo, infatti, era stato notificato il rifiuto della sorella ad ospitarlo in casa al termine della misura di sicurezza. “Era pertanto prevedibile una reazione di fronte alla prospettiva di non poter lasciare la struttura detentiva - spiega Sarno - Nonostante ciò si è lasciato l’internato a mansioni lavorative che lo portavano ad operare all’esterno del carcere”. Immigrazione: Cagliari; dopo la rivolta di lunedì, ieri il Cpa è stato svuotato L’Unione Sarda, 14 ottobre 2010 Il Centro di primo soccorso ed accoglienza di Elmas da ieri è vuoto. O quasi. Ottantadue immigrati, tutti algerini e tunisini, sono stati imbarcati in alcuni aerei e trasferiti nei Centri di identificazione ed espulsione di Gradisca d’Isonzo, nel Goriziano, Bari, Brindisi, Bologna e Torino da dove verranno rimpatriati. Tutti via, compresi dieci degli undici autori della rivolta di lunedì a causa della quale l’aeroporto Mameli è stato bloccato per oltre tre ore. Un trasferimento-lampo che ha fatto gridare allo scandalo i legali che dovevano difenderli al processo per direttissima in programma tra domani e sabato (è stato diviso in tre tronconi). “Non è stato garantito il diritto alla difesa”, ha denunciato l’avvocato Emanuele Pizzoccheri. Martedì sera uno dei protagonisti della rivolta, un tunisino, ha tentato di fuggire. Accompagnato al San Giovanni di Dio in sedia a rotelle per la cura delle ferite riportate durante il tentativo di fuga, doveva essere dimesso nel tardo pomeriggio e consegnato ai responsabili della cooperativa che gestisce il Centro che, scortati dalla polizia, l’avrebbero dovuto riportare a Elmas in attesa dell’imbarco. Ma evidentemente tanto zoppo non era se, approfittando della distrazione del medico di guardia, si è allontanato. Una volante della polizia l’ha bloccato in via Santa Gilla e l’ha riaccompagnato a Elmas. Dove si trova tuttora assieme a un altro uomo, padre di alcuni degli undici minorenni trasferiti in una comunità gestita dalle suore nel centro della città assieme alla madre. Su suggerimento del tribunale dei minori, la prefettura ha deciso di non separare la famiglia. Non è escluso che gli venga concesso l’asilo politico. Tra oggi e domani anche gli ultimi due ospiti dell’ex Caserma avieri saranno trasferiti. Venerdì ci sarà un sopralluogo del prefetto Giovanni Balsamo che verificherà i danni conseguenti alla rivolta. Poi il centro sarà ristrutturato e riaperto nei prossimi mesi “con controlli rafforzati”, come comunicato martedì dal ministero dell’Interno Roberto Maroni. Sul processo ai fuggiaschi, tuttavia, si addensa qualche nube. Ieri i difensori degli undici immigrati, gli avvocati Emanuele Pizzoccheri, Gabriella Casula, Roberta Balia, Maria Cristina Ximenes, hanno annunciato che ne chiederanno la nullità. “Ieri pomeriggio siamo andati al Centro di Elmas per parlare almeno una volta con i nostri clienti e concordare una linea difensiva”, riferisce Pizzoccheri, che parla anche a nome dei colleghi. “Ma abbiamo scoperto che dentro ne è rimasto solo uno e gli altri sono stati trasferiti. Dunque non potranno partecipare al processo e dire la loro e non ci hanno nemmeno potuto firmare una procura speciale per autorizzare l’eventuale richiesta di rito alternativo che comporterebbe una riduzione della pena. Per questo”, conclude Pizzoccheri, “crediamo che non ci siano le condizioni per celebrare un processo regolare. In sintesi non possono godere dei diritti civili come gli altri cittadini, criminali compresi”. Esattamente ciò che pensa Roberto Loddo dell’Associazione “5 Novembre”, che chiede l’immediata chiusura del Centro di Elmas “e di tutte le prigioni per stranieri perché i diritti e le regole dentro questi centri cessano di esistere”. Dura anche la presa di posizione dell’Arci Sardegna, che denuncia, a proposito di diritti, anche le difficoltà ad entrare nel Centro “perché la sospensione del diritto, e della vita umana, non è spettacolo da offrire al pubblico”. L’Arci chiede “una mobilitazione unitaria di tutte le forze democratiche, per rivedere le scelte di un Governo irresponsabile e sottrarre la Sardegna alle politiche della reclusione”. Francia: madre di Daniele Franceschi malmenata, arrestata e poi rilasciata dalla polizia di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 14 ottobre 2010 Cira Antignano era andata al carcere di Grasse a prendere il corpo del figlio. Malmenata dalle guardie. Daniele Franceschi era morto in circostanze poco chiare lo scorso 25 agosto. Il C-130 della 46° Aerobrigata di Pisa è atterrato alle 11,15 sulla pista principale di San Giusto, l’aeroporto militare di Pisa. Cira Antignano, 61 anni, è scesa e ha aspettato dolente, ma fiera, la bara del figlio Daniele, morto il 25 agosto, in una cella del carcere francese di Grasse nell’entroterra di Cannes. Ad attenderla anche il sindaco di Viareggio, Luca Lunardini. Non è sofferente solo nell’anima, la signora Cira. Mercoledì, davanti al carcere di Grasse, durante una colluttazione avuta con alcuni gendarmi che le volevano strappare un cartello di protesta (“Me lo avete ucciso due volte”), ha riportato lesioni a tre costole. “Mi hanno picchiata solo perché chiedevo giustizia”, racconta. “Un gendarme mi ha spinto a terra, un altro mi ha presa a calci. Poi mi hanno portato in galera, come una delinquente. Meno male che è intervenuto il console italiano a Nizza e allora mi hanno rilasciato dopo tre ore”. Insieme alla signora Cira anche la cognata Maria Grazia, anche lei arrestata e poi rilasciata. Il feretro di Daniele Franceschi, arrestato in Francia per una storia di carte di credito irregolari, è stato trasferito all’ospedale Versilia di Lido di Camaiore dove è stato sottoposto a un primo accertamento autoptico. “Poi ci sarà l’autopsia vera e propria”, spiega l’avvocato della famiglia Aldo Lasagna, “la seconda dopo quella francese, autorizzata dalla procura di Lucca. Speriamo che sia possibile effettuare l’esame autoptico e speriamo che le autorità francesi abbiamo mantenuto la promessa di mantenere il corpo nelle condizioni idonee, altrimenti sarebbe tutto inutile”. La famiglia di Daniele è convinta che la morte del giovane non sia da attribuire a “cause naturali” come sostengono le autorità francesi. “L’hanno lasciato morire solo come un cane in una cella di un carcere straniero”, ricorda mamma Cira, “e a me, che sono la madre, me l’hanno detto dopo due giorni”. La donna ricorda gli ultimi giorni drammatici della morte del figlio. “Dal carcere Daniele mi aveva scritto alcune lettere terribili”, racconta la donna. “Aveva paura, mi raccontava che odiavano gli italiani, si sentiva minacciato. ‘Mamma ci trattano peggio delle bestiè, mi aveva scritto. E un mese fa, subito dopo l’arresto, era stato colpito dalla febbre, forse un virus. Febbre a 41, ma nessuno lo aveva curato o aiutato. Lo accusavano di non voler lavorare, con lui ce l’avevano guardie e gli altri detenuti, ma nessuno l’ha aiutato”. Daniele è morto il 25 agosto. Nel certificato di morte, firmato dal medico del carcere alle 17,30 si parla genericamente di arresto cardiaco. Secondo il racconto dei familiari, Daniele, un verniciatore e carpentiere, separato, padre di una bambino di 9 anni, aveva accusato forti dolori al petto alle 13,30. Aveva chiesto aiuto alle guardie che lo avevano accompagnato in infermeria, ma dopo un elettrocardiogramma lo avevano chiuso nuovamente nella sua cella da solo. Una decisione ritenuta quanto meno azzardata. “Se il ragazzo aveva accusato un malore e c’era il sospetto di problemi cardiaci”, denuncia l’avvocato Lasagna, “doveva essere ricoverato in infermeria o quanto meno chiuso in una cella con altri detenuti che avrebbero potuto aiutarlo e, in caso di malore, dare l’allarme”. Granaiola (Pd): Schifani m'ha impedito di parlarne Coda polemica in Parlamento per il caso dell'italiano morto in carcere in Francia. La senatrice Manuela Granaiola (Pd) accusa il presidente del Senato, Renato Schifani, di averle impedito di sollevare il caso in Aula. "Questa mattina, il presidente Schifani - accusa in una nota - mi ha impedito di svolgere il mio intervento a fine seduta, come concordato e come è prassi. è una decisione grave", accusa Granaiola, che spiega di riferirsi al caso di Daniele Franceschi, "un nostro connazionale morto in un carcere francese dove era detenuto in attesa di processo con l'accusa di aver falsificato una carta di credito. Avrei voluto chiedere al presidente Schifani se mi fosse stato consentito, di domandare alla Farnesina di fare chiarezza su una vicenda nel corso della quale si è recato oltraggio a un nostro connazionale morto tragicamente e alla sua famiglia". "Oggi finalmente arriverà in Italia la sua salma martoriata non solo dall'autopsia ma anche dalla non osservanza delle procedure di conservazione del corpo da parte delle autorità francesi. A tutto questo - prosegue la senatrice del Pd - s'aggiunge la vergogna della polizia francese che, nella giornata di ieri, ha arrestato e gettato a terra la madre del giovane nel corso di una sua violenta ma legittima protesta contro le autorità che addirittura le impedivano di dare l'ultimo saluto al figlio morto".