Giustizia: in Italia è urgente un nuovo modello di giustizia fondato sulla riparazione di Patrizia Patrizi (Ordinario Psicologia Giuridica all’Università di Sassari) La Nuova Sardegna, 8 novembre 2010 I modelli di giustizia, si sa, mutano nel tempo, adattandosi ai cambiamenti filosofici e teorici e, soprattutto, a quelli economici e politici. Ma anche nel lungo periodo la funzione punitiva è rimasta una costante nella storia della civiltà giuridica occidentale. Ciò che cambia sono i metodi utilizzati concretamente per “sorvegliare e punire”. Questi si adeguano al lento processo di umanizzazione delle pene che ha contrassegnato la civiltà occidentale e che ha visto il susseguirsi di cicli storici in cui hanno prevalso logiche sanzionatorie diverse: da una concezione strettamente retributiva, legata al principio della compensazione del male (il delitto) con un altro male (la pena), si è passati progressivamente alla concezione preventivo-rieducativa, con finalità di deterrenza e di reinserimento sociale, che è il modello dominante nel nostro paese e che trova il proprio fondamento nell’art. 27 della Costituzione. Il fallimento di questo modello è ormai acclarato, e la palese inefficienza della pena detentiva in termini di prevenzione generale e speciale è leggibile nei numeri del fenomeno della recidiva, nel sovraffollamento delle carceri, nel sempre più diffuso senso di insicurezza percepito dai cittadini, e soprattutto nel mancato appagamento del senso di giustizia derivante dall’applicazione dall’attuale modello, pur a fronte di un’afflittività sempre più marcata della condizione detentiva. Si pone quindi la necessità di pensare alla riposta sanzionatoria con modelli di giustizia nuovi, alternativi o integrativi a quelli in essere, e la giustizia riparativa è attualmente la modalità che sembra rispondere meglio alle molteplici esigenze dei moderni sistemi di giustizia. È un modello di giustizia che considera il reato prima di tutto come frattura di una relazione di convivenza civile e si prefigge di ristabilire la relazione interrotta con la riconciliazione vittima-reo e attraverso la riparazione del danno. Riparazione che deve essere intesa nella sua globalità, di danno non solo economico e materiale, ma anche morale e psicologico, che deve restituire il senso di sicurezza alla vittima e appagare il bisogno di sicurezza della società. La normativa europea e internazionale auspica da molti anni l’introduzione di forme di giustizia riparativa nelle legislazioni nazionali, sia quale strumento per una maggiore tutela dei diritti e degli interessi della vittima del reato, sia al fine di permettere agli autori di reato di assumere le proprie responsabilità, avviando in tal modo un percorso di re-integrazione sociale. Ma il recepimento delle sollecitazioni comunitarie si pone in maniera diversa a seconda degli ordinamenti giuridici dei vari paesi. In Italia, a differenza che nei paesi con ordinamenti a base common law, lo spazio della giustizia riparativa è ancora strettamente limitato a poche esperienze: il processo minorile, che ha aperto in maniera esplicita all’esperienza della riparazione con l’accesso alla mediazione penale, e la riforma del Giudice di pace, che ha previsto la possibilità di interventi di mediazione penale e soprattutto ha introdotto nuovi strumenti sanzionatori. In ambito di esecuzione penale per adulti, il modello di giustizia è ancora quello “trattamentale”, impostato sull’osservazione della personalità del reo e sulle attività risocializzanti. Ed è necessario ribadire che nello specifico contesto italiano l’ordinamento penale vigente non permette di applicare modelli di giustizia riparativa quale modalità alternativa: esso è possibile solo all’interno delle attuali modalità di giustizia penale. E sta qui la sfida del modello di giustizia riparativa, nel conciliare le esigenze di un ordinamento giuridico che vede l’inderogabile obbligatorietà dell’azione penale e la pena detentiva quale unica sanzione prevista, con i principi e gli strumenti della giustizia riparativa, intesa come quel procedimento nel quale la vittima e il reo ed eventuali membri della comunità lesi da un reato, partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte dall’illecito penale. Ancora, la sfida è quella di cercare di superare la logica del castigo, leggendo il crimine anche in termini relazionali, nel senso di un conflitto che provoca la frattura di aspettative sociali simbolicamente condivise. È una modalità di giustizia in cui il reato non dovrebbe essere considerato soltanto un illecito commesso contro la società, o come un comportamento che incrina l’ordine costituito, bensì come una condotta intrinsecamente dannosa e offensiva, che provoca alle vittime privazioni, sofferenze quando non addirittura la morte, e che richiede, da parte del reo, non solo la passiva espiazione di una pena, ma anche e soprattutto l’attivazione di forme di riparazione del danno provocato. È in tale prospettiva, e questo è il senso del mio intervento, che la Amministrazione penitenziaria già da diversi anni ha avviato una serie di iniziative finalizzate a sensibilizzare gli operatori penitenziari sulle possibili applicazioni di modalità di giustizia riparativa in ambito di esecuzione penale, e a stimolarne l’attuazione. Il carcere di S. Sebastiano notoriamente ha vissuto esperienze fra le più negative, ma è tempo di dargli atto della sua capacità di risollevarsi e di proporsi anche per il valore delle sue esperienze positive. Ora, pur con tutti i suoi limiti, ma con la risorsa dei suoi operatori e (dei suoi autori di reato), è pronto a rispondere alla sfida della giustizia riparativa. Giustizia: la lezione in carcere e la lezione “dal carcere”? di Piergiorgio Odifreddi (matematico e filosofo) La Repubblica, 8 novembre 2010 Fare lezione è uno scambio a doppio senso, tra “professori” e “studenti”, perché spesso i ruoli si invertono. La cosa è vera letteralmente: ad esempio, è un luogo comune dell’accademia (sicuramente scientifica, e forse anche umanistica) che solo insegnando si arriva a padroneggiare veramente un argomento. Ma è vera soprattutto metaforicamente, perché chi impartisce un insegnamento tecnico può (e dovrebbe) riceverne in cambio uno umano. È ciò che è successo a me due giorni fa, quando nell’ambito del Festival della Scienza di Genova sono andato al Carcere Marassi per un incontro con i detenuti. Anzitutto, mi sono trovato di fronte al problema di decidere cosa mai potevo raccontare loro, da scienziato in generale, e da matematico in particolare. In fondo, mi sono chiesto, che interesse potrebbe mai avere per il mondo della natura, chi è stato condannato a viverle lontano? O per il mondo delle astrazioni, chi è stato condannato a vivere recluso fra concretissime mura e dietro a concretissime sbarre? Pensandoci, mi sono accorto che in fondo, però, la scienza ha una lunga storia di esperienze col carcere. Per sua natura, infatti, il pensiero scientifico è “antisociale” e “rivoluzionario”. E poiché va contro le idee (pre)costituite, e tende a scardinare le visioni dominanti e i pregiudizi imperanti, finisce per generare una “reazione sociale” uguale e contraria. Già nel terzo secolo prima della nostra era, quando Aristarco propose la teoria eliocentrica che poneva il Sole al centro del mondo, al posto della Terra, fu accusato di empietà dagli Stoici per aver minato le fondamenta della religione e dell’astrologia. La stessa sorte toccò, duemila anni dopo, a Bruno e Galileo, quand’essi si ritrovarono a riproporre la stessa teoria di Aristarco, riformulata da Copernico, finendo l’uno al rogo sulla pubblica piazza, e l’altro agli arresti domiciliari a vita. Galileo impiegò gli anni della sua reclusione a scrivere il suo capolavoro scientifico, i Discorsi sopra due nuove scienze. E lo stesso fece Bertrand Russell, nei sei mesi di carcere che gli furono comminati nel 1918 per pacifismo, scrivendo il suo capolavoro divulgativo, l’Introduzione alla filosofia matematica. L’esempio della scienza e degli scienziati può essere doppiamente confortante per i detenuti. Da un lato, un po’ banalmente, i libri scritti da Galileo e Russell mostrano come si possa utilmente impiegare il tempo della detenzione. Cosa che molti detenuti ovviamente sanno e fanno già benissimo. E me l’hanno dimostrato simbolicamente, regalandomi un paio di magliette concepite nel corso di grafica tessile che alcuni di loro stanno seguendo in carcere, e raccontandomi delle loro esperienze di studio sia superiore che universitario. Dall’altro lato, le vicende di persecuzione scientifica mostrano, meno banalmente di quelle di persecuzione politica, che stare dentro o fuori dal carcere è solo una questione di rapporti di potere e di forza, che ha poco o nulla a che vedere non solo con l’etica e la giustizia, ma addirittura con la verità. Ad esempio, dopo la Rivoluzione Russa, coloro che non erano mai stati nelle carceri o al confino zaristi erano guardati con enorme sospetto dai bolscevichi. E coloro che erano stati nelle carceri o al confino sovietici, a partire dallo scienziato Sacharov, furono a loro volta guardati con grande rispetto dopo la caduta del comunismo. La questione dei rapporti di forza è sicuramente più chiara a chi sta dentro il carcere, che a chi sta fuori. Noi tutti tendiamo infatti a dimenticare che non solo le prigioni, ma anche i manicomi e gli ospedali, non sono sempre esistiti, e appartengono a una fase ben precisa e recente dello sviluppo sociale. Basta leggere, al proposito, “Sorvegliare e punire, Storia della follia nell’età classica” e “Nascita della clinica” di Michel Foucault. Lo sviluppo, però, non coincide necessariamente col progresso. E che a volte coincida con il regresso, lo dimostrano le cifre relative al carcere: in Italia due terzi dei detenuti sono dentro per motivi di droga, e due quinti (e al Nord due terzi) sono extracomunitari. Il che obbliga a pensare che il sistema vada immediatamente riformato alla breve, e rimpiazzato alla lunga con una politica sociale che renda il detenuto e la detenzione non più necessari. O, almeno, che faccia uscire dalle carceri molti di coloro che oggi stanno dentro, e magari ci faccia entrare molti di coloro che oggi stanno fuori. Giustizia: Osapp, parlamentari visitino le carceri anche a Natale Ansa, 8 novembre 2010 I politici trascorrano il giorno di Natale con i detenuti e con gli agenti di polizia penitenziaria, così come fecero il giorno di Ferragosto visitando le sovraffollate carceri italiane. È l’invito che l’Organizzazione sindacale di polizia penitenziaria (Osapp) rivolge a tutti quei parlamentari che lo vorranno, sensibili alla questione carceraria, e di qualunque schieramento siano. “Il periodo delle feste natalizie oramai alle porte - sottolinea il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci - è un momento delicato per 40 mila uomini e donne del Corpo di polizia penitenziaria, in servizio per lo più fuori sede, che si vedranno costretti a stare lontano dalle rispettive famiglie con l’obbligo di “festeggiare” in caserma, o peggio ancora, a stare nelle sezione assieme ai detenuti che nel frattempo sono arrivati a quota 69mila. La visita dei parlamentari significherebbe una ricognizione approfondita della difficilissima situazione in quello che si sta rivelando l’anno più duro. Almeno, per qualche volta - conclude Beneduci - si lasceranno a casa i festini, a beneficio dei cittadini che credono ancora nel nostro Paese. Giustizia: caso Cucchi; domani nuova udienza preliminare, parola alla difesa Dire, 8 novembre 2010 È prevista per domani la prossima udienza del processo per la morte di Stefano Cucchi, il 31enne romano deceduto nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini il 22 ottobre del 2009, pochi giorni dopo essere stato arrestato per possesso di sostanze stupefacenti. Domani saranno i legali degli imputati a intervenire davanti al giudice, e a quanto riferito da Diego Perugini, avvocato difensore di Nino Menichini, uno degli agenti penitenziari rinviati a giudizio, potrebbero anche fare “i nomi di chi ha davvero picchiato Stefano Cucchi. La nostra sarà una ricostruzione dei fatti integrale, completa. E al giudice diremo quello che è già negli atti, che a nostro avviso è già sufficiente per arrivare al proscioglimento. Tutto quello che è accaduto a Stefano è successo prima che arrivasse nelle celle del carcere”. Nel corso dell’udienza preliminare dello scorso 26 ottobre, i pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy hanno formalizzato al gup, Rosalba Liso, la richiesta di rinvio a giudizio per dodici persone e di due anni di reclusione per la tredicesima, che ha invece chiesto il rito abbreviato. Processo chiesto quindi per tre agenti penitenziari, sei medici e tre infermieri dell’ospedale Pertini, mentre a volersi avvalere del rito abbreviato è stato il funzionario del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, Claudio Marchiandi. I reati contestati vanno dall’abuso di autorità nei confronti di un arrestato, alle lesioni aggravate, dall’abbandono di persona incapace al favoreggiamento, all’omissione di referto. Se gli agenti di Polizia penitenziaria, tra le altre cose, sono accusati di lesioni aggravate e di abuso d’autorità, medici e infermieri, invece, avrebbero abbandonato Cucchi non adottando così “presidi terapeutici” e “assistenza”. In particolare, i pm hanno spiegato di aver parlato di lesioni, e non di omicidio preterintenzionale, per gli agenti penitenziari perché non è stato riscontrato legame tra le lesioni e la morte, mentre da parte dei medici e degli infermieri ci sarebbe stato un disinteresse. Giustizia: caso Cucchi; la macchina del fango investe il medico di Stefano di Cinzia Gubbini Il Manifesto, 8 novembre 2010 La macchina del fango, come l’ha chiamata Roberto Saviano in relazione a vicende ben più conosciute e complicate, è un meccanismo infernale di cui è difficile capire il funzionamento, ma che ormai sembra applicarsi con disinvoltura anche a vicende lontane dai palazzi della politica. Prendi la storia di Rolando Degli Angioli. Chi è costui? Nient’altro che un medico (ex, è stato cacciato) del carcere di Regina Coeli. Eppure le cronache sembrano proprio non poter fare a meno di occuparsi di lui. Il suo nome finisce ciclicamente per “fare notizia”, persino quando la notizia non c’è. In realtà Rolando Degli Angioli prima o poi notizia potrebbe farla sul serio: e cioè quando e se sarà sentito da un giudice in merito alla vicenda della morte di Stefano Cucchi. Degli Angioli è il medico che lo visitò al suo arrivo a Regina Coeli. Disse che quel ragazzo doveva uscire immediatamente dal carcere, perché stava male. Non fece nulla di eroico. Ma forse la sua testimonianza (come stava Stefano? Come si comportò durante quella visita? È vero che rifiutava ogni cura come dicono i medici che lo visitarono successivamente? Le sue lesioni erano evidenti?) potrebbe essere rilevante. Ma bisogna vedere se Degli Angioli arriverà a testimoniare. Perché su di lui, sulla sua persona, e dunque sulla sua credibilità si sta abbattendo un vero ciclone. Il medico è indagato con l’accusa di violenza privata e falso perché avrebbe inserito un catetere vescicale - forse per punizione -a Jacques.Monnet, l’uomo che nel 2008 fu arrestato per aver ridotto in fin di vita la figlioletta sbattendole la testa sui gradini dell’Altare della Patria. Monnet avrebbe riconosciuto Degli Angioli, dicendo che fu lui a praticargli con crudeltà quel trattamento non necessario. A medico ha sempre sostenuto di non essersi affatto occupato di Monnet, e che quel giorno era in servizio in un’altra ala del reparto sanitario. Magari Degli Angioli mente, e ha utilizzato, male, quel catetere. Ma di certo è il primo caso di un operatore del carcere sospeso dal suo posto di lavoro ad indagine in corso. A voler pensar male, Regina Coeli ha colto la palla al balzo per toglierselo dai piedi dopo i dissapori che la sua insistenza per ricoverare Stefano avevano creato all’interno del carcere. Sia come sia la notizia dell’iscrizione nel. registro degli indagati di Degli Angioli è nota da luglio, finì su tutti i giornali dopo essere stata pubblicata dal Messaggero. Che venerdì è tornato a informarci - in prima pagina - che Degli Angioli è indagato, parlando niente meno che di “tortura” e accostando questo episodio alle morti di Stefano Cucchi e Simone La Penna. Articoli sull’indagine a carico di Degli Angioli sono apparsi l’altro ieri anche su altri quotidiani, dopo che le agenzie - il giorno prima - avevano improvvisamente battuto la notizia con titoli come: “bimba malmenata da padre: indagato medico carcere, visitò anche Cucchi”. Si sa, si sa da cinque mesi. Qual è la novità? Dov’è la notizia? Il fatto che verrà chiesta una rogatoria internazionale per sentire Monnet? Accidenti, notizione da prima pagina. Tant’è che la rogatoria non è ancora partita, e Monnet verrà interrogato chissà quando. E tant’è che nessuno articolo titola sulla rogatoria, mentre tutti ci ricordano come Degli Angioli “il medico di Cucchi” sia indagato. Curioso anche il fatto che del dottore si fanno nome e cognome dalla prima volta in cui questa storia venne alla luce, ma - per dire - dell’infermiere indagato con lui no. Come mai? E chi è che “rintuzza” i giornalisti con notizie riciclate? Ci piacerebbe saperlo. Soprattutto ci piacerebbe sapere perché. Lettere: per le vere e finte emergenze carcere e solo carcere… di Riccardo Polidoro (Presidente Associazione “Il carcere possibile onlus”) Ristretti Orizzonti, 8 novembre 2010 Tra le misure varate dal Consiglio dei Ministri, nel c.d. “pacchetto sicurezza”. anche la possibilità di applicare le misure di prevenzione, come ad esempio il foglio di via per chi, violando le ordinanze dei sindaci, esercita la prostituzione in strada”. Ancora misure restrittive della libertà per fattispecie che andrebbero risolte in altro modo. Mentre gli Istituti di Pena sono al collasso e giorno dopo giorno aumentano le cifre relative al sovraffollamento e peggiorano le condizioni igienico-sanitarie in cui sono costretti a vivere i detenuti, il Governo continua a emettere provvedimenti che vedranno forze dell’ordine e amministrazione penitenziaria impegnate su un ulteriore impegnativo fronte: quello della prostituzione di strada. Il Ministro Carfagna dichiara: “Vieta la prostituzione in tutti i luoghi pubblici, per togliere linfa alle organizzazioni criminali che lucrano sul corpo delle donne, giovanissime e straniere”. Il corpo delle donne - quelle disperate, quelle appunto “di strada” - troverà così altre strade: il carcere o il foglio di via… Il corpo delle donne - quelle organizzate e ben attrezzate - continuerà a percorrere autostrade verso la celebrità ed il potere. Insomma, nulla di nuovo. Per le vere e finte emergenze carcere e solo carcere. Lombardia: dalla Cariplo 2 milioni per misure alternative e reinserimento dei detenuti Redattore Sociale, 8 novembre 2010 Nuovo bando rivolto alle organizzazioni non profit che operano nell’area del penale in Lombardia. Obiettivo: ridurre i tassi di recidiva. La regione ha il più alto numero di misure alternative: 3.866 misure gestite solo nel primo semestre 2010. Un milione di euro all’anno, per due anni, per favorire l’applicazione delle misure alternative alla detenzione e il reinserimento sociale dei detenuti delle carceri di Milano, Como e Brescia. Il nuovo bando di Fondazione Cariplo, presentato oggi a Milano, andrà a sostenere progetti sperimentali finalizzati a promuovere l’accesso alle misure alternative, incrementando il numero di detenuti che possono concretamente beneficiare di questa opportunità, prevista per legge, ma spesso irrealizzabile nella pratica per mancanza di progetti di accompagnamento, organizzazioni di supporto e fondi. Il bando è rivolto alle organizzazioni non profit che operano nell’area del penale e si articola in due fasi: la prima, di preselezione, con scadenza il 28 gennaio 2011, la seconda che si chiuderà il 15 aprile 2011. I progetti selezionati saranno operativi dal prossimo anno. “Con questo progetto facciamo un salto di qualità - commenta Giuseppe Guzzetti, presidente di Fondazione Cariplo. Un’evoluzione dal bando dell’inclusione sociale, rivolto a diversi target fragili, a questo strumento mirato e pensato ad hoc per il reinserimento delle persone coinvolte nel circuito penale”. Obiettivo dichiarato del progetto ridurre i tassi di recidiva. I detenuti che scontano totalmente la pena senza uscire mai dal carcere è molto più alta rispetto a chi usufruisce di misure alternative: si passa dal 68, 45% nel primo caso a 19% nel secondo caso. Un dato tanto più significativo se si pensa che la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponde a un risparmio per la collettività di circa 51 milioni di euro all’anno. La Lombardia è una delle regioni che registra i maggiori tassi di sovraffollamento. “Alla conta di questa mattina i detenuti presenti erano 9.355 a fronte di una capienza di 6mila posti - spiega Luigi Pagano, provveditore regionale alle carceri. Ma siamo anche la regione che ha anche il più alto numero di misure alternative: 3.866 misure gestite solo nel primo semestre 2010, pari al 18% del dato nazionale”. Per maggiori informazioni sul bando: www.fondazionecariplo.it. Sardegna: Cisl; nessuna risposta Provveditorato sui problemi del carcere di Mamone Agi, 8 novembre 2010 Nonostante le due richieste di incontro urgente presentate rispettivamente il 16 ed il 26 ottobre per discutere dei problemi della colonia penitenziaria di Mamone, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria non ha dato alcun cenno di risposta. La denuncia è del segretario regionale della CISL Federazione nazionale della sicurezza Giovanni Villa che aveva portato alle luce nelle scorse settimane la scoperta di una piccola distilleria all’interno delle celle, gli atti autolesionistici da parte di i detenuti ed alcune aggressioni agli agenti. “Oggi, scrive Villa, denunciamo ancora una volta che altri agenti sono andati in pensione senza che vi fosse un ricambio adeguato mentre i detenuti crescono di numero e non ci sono più soldi per fare lavorare i reclusi”. Mamome, a giudizio di Villa, è una colonia agricola solo sulla carta e sta prendendo sempre di più aspetti e modelli di gestione tipici di una casa circondariale. Una condizione che secondo il sindacalista aumenterebbe la tensione fra i detenuti costretti a trascorre molte ore in spazi ristretti con pochi agenti presenti che a stento riescono a garantire un minimo di sicurezza. Fermo: (Ap): detenuto 30enne in coma dopo un tentativo di suicidio Ansa, 8 novembre 2010 Il dramma si è consumato nel carcere di Fermo: l’attenta sorveglianza della polizia penitenziaria ha evitato il peggio. Ma l’uomo, un marocchino, lotta tra la vita e la morte all’ospedale Murri. Ha preso degli indumenti, li ha trasformati in una sorta di corda e poi si è impiccato nella sua cella. L’attenta sorveglianza della polizia penitenziaria, però, ha evitato momentaneamente il peggio. È il caso dire momentaneamente, perché la vittima del gesto estremo lotta ancora tra la vita e la morte in un letto dell’ospedale Murri. Il dramma si è consumato l’altro ieri pomeriggio nel carcere di Fermo e protagonista è stato un marocchino 30enne, che si trovava rinchiuso in una cella singola per scontare la pena scaturita da reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Ravenna: Morigi (Sel) in visita alla Casa circondariale; “uno spettacolo agghiacciante” Dire, 8 novembre 2010 Nel carcere di Ravenna, le celle sono così piccole che ci sono tre letti a castello uno sull’altro, e quando arriva l’ora del pranzo, un detenuto è costretto a mangiare col vassoio sul letto perché non c’è spazio per stare seduti in tre. “È uno spettacolo agghiacciante”, fa sapere la consigliera comunale di Sel, Valentina Morigi, che questa mattina ha visitato la casa circondariale di Ravenna assieme ai consiglieri regionali Gian Guido Naldi e Gabriella Meo, e a Giuseppe Campesi dell’associazione Antigone. Naldi, Meo e Campesi, che stanno visitando tutte le carceri della Regione, spiegano che il “problema del sovraffollamento” riguarda tutte le strutture, ma che a Ravenna ciò che colpisce sono le dimensioni delle celle, “davvero anguste, con pochissima luce a causa della fila di letti a castello che oscura la finestra”. Complessivamente, i detenuti del carcere di Ravenna sono 130, ma il carcere era stato progettato per ospitarne al massimo 60. Inoltre, Campesi fa sapere che, secondo i suoi calcoli, “nel carcere di Ravenna il numero di ore che i detenuti passano in cella è il più alto della Regione”. Ciascun detenuto trascorre circa 19 ore al giorno chiuso dentro: ci sono tre ore di passeggio nei cortili e un’ora di ‘socialità (cioè di visite a porte chiuse nelle stesse celle). Tutto questo dipende dal numero delle guardie, che sono in sotto organico: “Dovrebbero esserci 73 agenti, invece attualmente in servizio ce ne sono 54 - precisa Campesi - al primo piano c’è un agente per 40 detenuti. Al secondo e terzo piano, invece, ce ne sono due (ma uno solo di notte) per 80 detenuti”. Dei 130 detenuti, 64 sono giudicabili e 51 condannati definitivamente, 61 sono stranieri e “otto sono dentro solo per il reato di clandestinità”, osserva Morigi, mentre 70 hanno commesso reati legati alla tossicodipendenza. A proposito dell’episodio di circa un mese fa, quando un detenuto sì è tolto la vita impiccandosi nella sua cella, Campesi osserva che un altro problema del carcere di Ravenna è la “mancanza di un protocollo d’ingresso (tra l’altro previsto da una circolare ministeriale), cioè di una procedura d’accoglienza mirata “all’osservazione psicologica e sanitaria: serve per prevenire le malattie infettive e per evitare i suicidi”. Ma nella casa circondariale della città bizantina non ci sono spazi per organizzare l’accoglienza, così un detenuto che arriva viene soltanto visitato dal medico, se è giorno, se è notte invece viene visitato il giorno seguente. “Con la nuova direzione c’è stata un’inversione di tendenza, ma c’è ancora tanto da migliorare”, dice la consigliera. “Le celle sono state ritinteggiate e grazie alle donazioni dei volontari intercettati dalla direzione, come Ikea, sono state fatte delle buone cose”, riferisce. Ma la vera “nota dolente di Ravenna - concordano Naldi, Morigi e Campesi - è la formazione: ci sono tre educatori, ma non c’è neanche un corso che rilasci una qualifica”. Su questo, afferma Morigi, “la Provincia può giocare un ruolo fondamentale. Deve tornare a impegnarsi per l’istituzione di corsi professionalizzanti, perché il carcere non è un mondo a parte”. E se mai dovesse essere realizzata una nuova casa circondariale, come più volte il sindaco di Ravenna, Fabrizio Matteucci, ha auspicato, la consigliera di Sel la immagina “nel centro della città, integrata con la comunità”. Sardegna: dopo sciopero della fame detenuto tunisino ottiene il rimpatrio Agi, 8 novembre 2010 Ha lasciato il centro clinico del carcere di Buoncammino di Cagliari ed è potuto tornare in patria, per riabbracciare moglie e figli, il tunisino che nei giorni scorso aveva ripreso lo sciopero della fame per ottenere l’autorizzazione a rientrare in Tunisia dalle autorità diplomatiche del suo Paese. Lo riferisce l’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, cui Jalel El Asghaa si era rivolto per ottenere sostegno alla sua richiesta di lasciapassare, indispensabile per l’attuazione del decreto di espulsione emesso dal magistrato di sorveglianza quale pena alternativa alla detenzione. Gli agenti dell’Ufficio stranieri della questura di Cagliari l’hanno alla frontiera dove è stato imbarcato su un aereo diretto a Tunisi. “La scarcerazione e la telefonata di Jalel confermano”, afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione, “la positiva conclusione di una vicenda che rischiava di avere risvolti drammatici e di creare un incidente diplomatico. Oltre al riconoscimento del diritto ad una persona di tornare a casa dai suoi figli, è stata data esecuzione al decreto di espulsione dal territorio dello Stato italiano emesso il 14 maggio scorso”. Bollate (Mi): il detenuto aggredito e la “cura” di gruppo per chi non l’ha difeso di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 8 novembre 2010 Stavano per cavargli gli occhi in carcere. Per punirlo di essere, a loro avviso, “l’occhio” del carcere su di loro. Così nell’infermeria del penitenziario di Bollate si sono messi in quattro contro uno per picchiarlo e strappargli gli occhi con le mani: se non ci sono riusciti fino in fondo, è stato solo perché un detenuto si è messo in mezzo. E il carcere dove è successo, forse il più “aperto” che ci sia a forme sperimentali di convivenza in cella che richiedono però la responsabilità dei prigionieri, ha reagito non dandola vinta ai violenti, raggiunti da un ordine di custodia cautelare e trasferiti in altri penitenziari più “duri”, ma trasformando la quasi tragedia in una ulteriore occasione per responsabilizzare ancor di più gli altri detenuti che per paura o indifferenza erano rimasti inerti e silenziosi di fronte al pestaggio: l’aggredito è stato infatti rimesso nello stesso reparto, il suo salvatore pure, e nella medesima sezione sono stati mantenuti (dopo una sorta di autoanalisi dell’accaduto) anche i detenuti che non erano intervenuti. Gli aggressori, due più attivi e gli altri due a fare il palo, quasi tutti con condanne per rapina e droga, uno con fine pena al 2021, hanno agito dopo pranzo nell’infermeria. Con una caffettiera hanno cominciato a colpire alla testa il compagno che, secondo l’assetto di Bollate, era stato eletto rappresentante del reparto ma che era tacciato d’essersi “allargato” un po’ troppo, finendo (secondo la spiccia e travisata vulgata carceraria) per fare “la spia” di quanto vedeva in sezione. Per questo, con agghiacciante tentativo di simbologia criminale, gli aggressori lo stavano accecando a mani nude quando un altro detenuto è intervenuto e si è frapposto ai due maggiori picchiatori. Appena in tempo, visto che la vittima ha comunque riportato serie lesioni che per qualche tempo ne hanno ridotto i margini di visione. È stata la direzione del carcere a denunciare subito all’autorità giudiziaria l’aggressione avvenuta all’inizio di settembre. Bollate è un penitenziario nel quale è molto sperimentato un regime di detenzione che lascia le porte delle celle aperte dalle 8 del mattino alle 8 di sera, dunque con la possibilità per i detenuti di circolare nel proprio reparto e di rapportarsi agli educatori e alla direzione attraverso un proprio rappresentante di reparto. n sistema, che favorisce anche il clima delle attività rieducative per le quali il carcere diretto da Lucia Castellano è ormai uno dei punti di riferimento in Italia, per funzionare ha però bisogno di una pre-condizione assimilata dai detenuti: le porte “aperte” non possono ammettere omertà che minino una convivenza pacifica, la gestione delle dinamiche interne deve essere trasparente, e la sicurezza non può che basarsi sull’auto responsabilità dei detenuti. In questo sistema l’infermeria è però un reparto ancora “giovane”, sia perché qui l’esperimento è iniziato da meno tempo sia perché la composizione dei suoi detenuti è per definizione meno stabile e più problematica. Dopo la denuncia, l’ordine di custodia cautelare per gli aggressori firmato dal gip Vincenzo Tutinelli su richiesta del pm Giuseppe D’Amico, il loro immediato trasferimento in altri penitenziari e la chiusura per un mese del reparto, la piccola comunità di Bollate si è messa a nudo. Son venute a galla certe logiche tipiche degli ambienti carcerari, come quelle dei detenuti spettatori del pestaggio all’insegna del “erano fatti loro” o del “che c’entriamo noi?”. Ma alla fine di questa discussione interna, il carcere ha deciso di scommettere ancora su se stesso e sulla propria maggior “apertura”. E, per farlo, la direzione ha dato il segnale più forte che potesse: ha rimesso il detenuto picchiato nel medesimo reparto, vi ha ricollocato anche il prigioniero che l’aveva salvato, e ha lasciato che con loro imparassero a convivere di nuovo tutti gli altri detenuti che erano rimasti a guardare il pestaggio senza intervenire. Chiavari (Ge): Sappe; in carcere pochi agenti, attività ricreative interne a rischio Secolo XIX, 8 novembre 2010 La nota positiva è che al carcere di via al Gasometro arriverà una guardia in più. L’aspetto negativo è che per raggiungere l’organico sufficiente occorrerebbe un innesto di personale in divisa ben più sostanzioso. La notizia arriva dal Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, la sigla più rappresentativa della categoria) per voce del segretario generale aggiunto Roberto Martinelli. “Nelle ultime settimane il carcere di Chiavari ha goduto di una ampia visibilità mediatica con l’attivazione del giardino degli incontri tra i “detenuti papà” ed i figli o l’inaugurazione della biblioteca multimediale - spiega Martinelli. Ma la realtà è che le attività che vengono svolte all’interno del carcere di Chiavari risultano superiori alle possibilità strutturali e alle reali risorse umane, considerato l’esiguo numero di agenti di polizia penitenziaria presenti, che pure svolgono servizio con encomiabile professionalità e spirito di servizio”. Secondo il piano di mobilità del personale di polizia, elaborato dall’amministrazione centrale, nelle prossime settimane due agenti in servizio invia al Gasometro saranno trasferiti ad altre sedi, e contestualmente ne arriveranno tre, con il conseguente aumento di una unità al numero di uomini in divisa al carcere chiavarese. “La pesante carenza di poliziotti si ripercuote sulle condizioni di lavoro e sulla sicurezza della struttura carceraria, per cui è necessario porre in essere ogni sforzo per incrementare il reparto di polizia del carcere - conclude il segretario del Sappe. Il rischio è che la carenza di personale renda impossibile lo svolgimento delle attività ricreative, come l’utilizzo della biblioteca e dell’area verde”. Attualmente posti letto nel carcere di Chiavari sono 78, ma al 30 settembre scorso la struttura contava 102 detenuti, così suddivisi: 45 in attesa di giudizio, 57 definitivi, 45 stranieri. Gli agenti di polizia in forza al carcere sono 46 (a cui si aggiungerà l’unità in arrivo) rispetto ai 60 previsti dall’organico. Questo rende i turni di lavoro molto pesanti e abbassa il livello di sicurezza della struttura. L’auspicio del sindacato della Penitenziaria è che nuovo personale possa arrivare dal concorso pubblico appena bandito per 600 nuovi agenti di polizia. Cosenza: detenuto per 8 mesi e poi assolto, imprenditore chiede mezzo milione di danni di Giovanni Pastore Gazzetta del Sud, 8 novembre 2010 Sette anni dopo, di quella tela intessuta annodando pazientemente i fili delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia alle intercettazioni ambientali e telefoniche non resta più nulla. Dell’inchiesta “Lupi”, che la Dda di Catanzaro istruì nella primavera del 2003, sul presunto dialogo tra ‘ndrangheta e pallone, sopravvive solo la rabbia di chi ha patito ingiustamente il carcere e che oggi chiede il risarcimento allo Stato. È il caso dell’ex presidente dello storico Cosenza calcio, Paolo Fabiano Pagliuso, che il 26 novembre, davanti ai giudici della Corte d’appello di Catanzaro, formalizzerà in aula la sua richiesta, attraverso il suo legale, l’avvocato Luigi Gullo. La somma pretesa a titolo di riparazione del danno subito per l’ingiusta detenzione è la massima prevista dalla nostra normativa: mezzo milione di euro. L’ex patron è stato definitivamente assolto nel maxiprocesso “Lupi”. Un verdetto favorevole che aveva incassato già a conclusione del primo grado di giudizio, dopo aver sofferto otto mesi di dolorosa e umiliante detenzione. Il processo s’era concluso il 7 ottobre del 2006 con la sentenza del Tribunale cittadino che aveva escluso ogni responsabilità penale da parte degli imputati, stabilendo che non ci sarebbe stato alcun genere di accordo, né tantomeno interessi comuni, tra il calcio locale e la ‘ndrangheta. Teorema che costituiva l’ossatura delle accuse messe in piedi nell’inchiesta sfociata nei clamorosi arresti di marzo 2003. La Dda sosteneva che durante le crisi societarie, elementi dei clan cittadini avessero mediato nei rapporti tra i dirigenti sportivi, oltre a controllare i parcheggi, le porte d’ingresso e i locali di ristorazione dello stadio San Vito. Le altre ipotesi delittuose facevano riferimento a ipotetiche truffe ai danni della Figc e della Covisoc per ottenere il nullaosta fiscale necessario per la partecipazione della squadra a tre campionati. La magistratura antimafia sosteneva, pure, che l’ex patron del Cosenza calcio, e per un periodo di tempo breve anche della Spal, avesse fatto intimidire il giornalista sportivo Giuseppe Milicchio, servendosi di presunti esponenti della criminalità organizzata locale. Pagliuso poi, sempre secondo la Dda, avrebbe usufruito dei favori di uomini dei clan nel rapporto con Settimio Lorè, ex vicepresidente, per indurlo a rivendere le quote societarie che aveva in precedenza acquisito. Le ipotetiche “pressioni” subite dall’imprenditore sarebbero state videoregistrate dai carabinieri attraverso una microtelecamera installata in casa del fratello della supposta vittima. Una valanga di accuse che gli imputati avevano sempre tenacemente respinto, proclamando sin dai primi momenti dopo il blitz la propria innocenza. Estraneità che è stata ampiamente riconosciuta nei vari gradi di giudizio. E Paolo Fabiano Pagliuso, adesso, attende che gli venga risarcito il danno. Una pretesa naturalmente simbolica dal momento che nessuno potrà effettivamente restituire a Pagliuso quello che gli è stato tolto in quei mesi di carcerazione. Amarezze e traversie sopportate per contestazioni che non sono state riscontrate alla prova del dibattimento. E come se non bastasse, il terremoto giudiziario scatenato dall’inchiesta antimafia segnò la sostanziale fine delle ambizioni del Cosenza calcio che al termine di quella maledetta annata calcistica sparì dalla geografia del calcio professionistico dopo una lunga militanza in serie B. Opera (Mi): progetto Libera-mente dietro le sbarre, per “fuggire” dal carcere leggendo di Riccardo Renzi Corriere della Sera, 8 novembre 2010 C’è una misteriosa figura femminile, che si presenta vogliosa nelle sere d’estate e inizia con leggeri baci e poi va oltre fino a lasciare i segni sul corpo. Ma finirà spiaccicata sul muro. Non è la donna sognata, si scopre alla fine, ma semplicemente una zanzara. “Tanto verranno ancora le sue amiche, l’estate è lunga da passare”, conclude l’ironico racconto di S. M., “ospite” nel carcere di massima sicurezza di Opera, Milano. Per N. C. invece il carcere è uno “stile di vita”, come una vacanza “all inclusive” molto esclusiva, che favorisce la meditazione, grazie anche alla leggerezza del cibo, e dalla quale è difficile staccarsi. Tanto che molti ritornano. Come nel classico Hotel California, “un posto tanto bello, che si sa quando si entra ma non quando si esce”. Si può ridere in galera? Si può parlare di umorismo dietro le sbarre? Una ricca rappresentanza dei 1.300 detenuti di Opera, tutti maschi, ha dimostrato che si può. In un incontro - spettacolo dedicato al tema dell’umorismo, destinato ai detenuti soprattutto, ma anche a molti ospiti esterni, i “residenti” hanno letto i loro racconti, più ironici che umoristici, hanno mostrato i risultati della loro ricerca sulle parole (anche una rivisitazione creativa del “Si fossi foco” di Cecco Angiolieri) e sulla definizione dei vari tipi di umorismo, citando Pirandello, Freud, Oscar Wilde e Kundera. Per finire con alcuni sketch in stile clownerie e con l’incontro, molto atteso naturalmente, con i professionisti del comico, il trio Aldo Giovanni e Giacomo. Divertimento, certo. Ma qualcosa in più, almeno nell’intenzione degli organizzatori: una terapia per chi vive in condizioni difficili, condotta in piccoli gruppi e poi in incontri di massa. Da 15 anni, nel carcere di Opera, esiste un laboratorio di scrittura creativa, seguito assiduamente da gruppi di una quindicina di detenuti. Non ha obbiettivi didattici o educativi: “La scrittura serve come scoperta di sé e come strumento di comunicazione e condivisione tra le persone detenute - dice Silvana Ceruti, pedagogista per il Comune di Milano e la Regione Lombardia, che da sempre è la responsabile del laboratorio. Si usa soltanto uno strumento: la parola. E non c’è alcun fine “pratico”: i detenuti non ne traggono alcun vantaggio. Non avrebbero nemmeno l’obbiettivo di pubblicare qualcosa. Eppure in questi anni è successo, con grande soddisfazione: il laboratorio ha prodotto quattro antologie di poesie, un saggio, calendari e cartoline con poesie. Come premio a ogni “produzione” un pranzo speciale”. Da circa due anni è poi sorto un gruppo dedicato alla lettura, dal nome esplicativo e programmatico: “Libera-mente”. Anche in questo caso l’obbiettivo non è soltanto quello di promuovere la lettura. “Il libro può essere uno strumento terapeutico - afferma Barbara Rossi, psicologa e psicoterapeuta, promotrice del progetto - non soltanto per quello che dà in termini di contenuto e per il fatto che permette alla mente di spaziare oltre, in questo caso oltre le mura della prigione, ma anche perché diventa occasione di dialogo, di scambio di esperienza, con gli altri “lettori”, anche con mogli e figli fuori dal carcere”. “Spesso si sente dire: a che mi serve leggere? - dice Aniello Pappacena, ex-ospite del carcere di Opera, oggi attivo sostenitore, dall’esterno, del progetto Libera-mente -. Si tende ad associare la lettura allo studio, al lavoro, come se fosse un obbligo. Libera-mente fa invece scoprire il puro piacere di leggere. E chi si sente inaridito prova la sensazione di rifiorire: la lettura è l’acqua per le pianticelle dell’anima”. Sentito tutto questo, viene da pensare: leggere, scrivere, certo in carcere c’è tanto tempo a disposizione... “Ma non è così - dice Pappacena -. In carcere è molto difficile trovare uno spazio dove concentrarsi su un libro, soprattutto se non si è abituati a leggere. Io mi chiudevo due ore al giorno in bagno. Altra difficoltà è scegliere i libri. I detenuti non hanno accesso diretto alla biblioteca, possono richiedere i volumi consultando un catalogo, una specie di elenco del telefono di titoli. Difficile capire quali libri potrebbero piacere. Il gruppo di lettura serve anche a questo: consigliare i testi, a seconda dei temi che via via vengono sviluppati e che si concludono con l’evento teatrale. Si parla di umorismo: ecco Libro, facci ridere di Zannoner, Tre uomini in barca di Jerome, Il bar sotto il mare di Benni, I reni di Mick Jagger di Fortunato, Il conto dell’ultima cena di Moni Ovadia. Presto diventano i “best seller” della prigione”. Quello che i detenuti conoscono bene sono le battute del vecchio sketch che Aldo, Giovanni e Giacomo mettono in scena nell’auditorio del carcere. Tanto che spesso li interrompono, anticipandoli. Finché Giovanni, fingendosi arrabbiato, grida a un detenuto: “Se non la smetti ti faccio sbattere in galera!”. E tutti ridono. “Solo l’ironia - ha citato poco prima un detenuto - ha il potere di cogliere la profonda connessione tra comico e tragico”. Qui sembra proprio che sia così. Napoli: l’Associazione “Uomo nuovo” e i percorsi recupero sociale dei detenuti Ana, 8 novembre 2010 Percorsi di recupero attraverso una concezione alternativa del gioco del calcio e la nascita di una squadra, la A.S.Uomo Nuovo-Napoli, iscritta al torneo di terza categoria ed affidata all’ex calciatore Carmine Di Napoli. E ancora, l’apertura di centri, già attivi nei quartieri di Barra e Scampia, di mediazione sociale, sportelli di “Avvocati del Popolo” ed infine distribuzione di generi alimentari alle famiglie dei detenuti ed agli indigenti. Sono alcune delle attività messe in campo dal Movimento ‘Uomo Nuovò e presentate oggi nel corso del seminario su “Carcere- Società, Legalità, Giustizia”. Vi hanno preso parte l’avvocato Roberto Olivieri, presidente nord Italia del movimento Uomo Nuovo, il professor Alessandro Bertirotti, docente di antropologia della mente all’Università di Firenze, l’avvocato Valerio De Martino della Camera Penale di Napoli, l’ex terrorista nero Mario Tuti, attualmente operatore di comunità, Antonia Santoro, responsabile dipartimento femminile movimento Uomo Nuovo, Ugo Maria Tassinari, politologo e scrittore e Nicola Trisciuoglio, segretario nazionale del movimento Uomo Nuovo. “Il concetto di pena è sbagliato, inutile. Bisognerebbe, invece, parlare di rieducazione e redenzione in quanto molti miei ex colleghi, una volta uscire dal carcere, non sono riusciti a crearsi rapporti sociali o a costruirsi una vita normale”, ha detto l’ex primula nera, Mario Tuti. “Fino a qualche anno fa - ha ripreso l’ex protagonista della lotta armata degli anni di piombo ed oggi operatore di comunità - sulle cartelle dei detenuti all’ergastolo era scritto fine pena mai, oggi, invece c’è il numero 9999 proprio a far capire che non c’è speranza. Io, oggi sono detenuto in regime di semi libertà e posso senza dubbio affermare che la vita può cambiare basta solo volerlo. Rieducare è meglio che tenere migliaia di persone peggio delle bestie come spesso accade nelle carceri italiane. Le leggi devono cambiare ma i politici e la società debbono volerlo realmente devono volerlo veramente. Non bisogna ghettizzare nessuno. Per chi sta in carcere, specialmente per periodi lunghi, il tempo sembra fermarsi al momento dell’ingresso e per questo una volta fuori non ci si riesce ad integrare”. Nel corso del convegno è stato analizzato l’impatto devastante del carcere sull’uomo, sono state ascoltate le testimonianze dirette di chi il carcere lo ha vissuto e lo vive e si è dibattuto sul passaggio dall’utopia dell’abolizione alla proposta concreta di mutare il regime detentivo di espiazione della pena con un modello di condanna a fare del bene secondo quello di “redenzione e ricostruzione” proposto da “Uomo Nuovo”. Modena: un incontro sulle esperienze di teatro e carcere in Emilia-Romagna di Chiara Tassi www.volontariamo.com, 8 novembre 2010 Si è svolta sabato 6 novembre presso la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia la tavola rotonda sul tema “Esperienze di Teatro e Carcere in Emilia Romagna”, nell’ambito di “Margini in azione”, iniziativa sul teatro nel sociale organizzata dal Teatro dei Venti di Modena con il Sostegno della Regione Emilia Romagna, assessorato alle Politiche Culturali. Presenti in sala istituzioni penitenziarie e non, guardie, educatori, attori e registi teatrali che hanno condiviso, in una mattinata ricca di spunti, esperienze e percorsi di chi ogni giorno ha a che fare con la vita del carcere e i detenuti. Si è ovviamente parlato di teatro, e di quanto l’esperienza teatrale possa giovare non solo ai detenuti che la sperimentano in prima persona, ma anche alla società, come ha sottolineato lo stesso direttore della Casa di Reclusione, il dott. Gianluca Candiano “Esperienze come quella del teatro carcere hanno anche un ritorno come investimento in sicurezza, in quanto creano, all’interno della carceri dove ultimamente si vive un clima piuttosto teso, distensione sia nei detenuti che nelle guardie: impegnare le persone in progetti validi sia sul versante del lavoro sia su quello culturale è gettare le premesse per pensare ad uomini “nuovi” da restituire alla società. Non sempre ci si riesce, ma anche per piccoli numeri è già una conquista”. Il teatro, quindi, visto si come esperienza artistica, ma anche e soprattutto come esperienza formativa, per i detenuti ma anche per la società. “Il teatro in carcere non è da percepire come uno strumento di celebrazione della cultura teatrale, quindi dei testi e degli autori, che è l’idea che abbiamo abitualmente del teatro - ha detto Horacio Czertok, resista del Teatro Nucleo di Ferrara- Nella situazione ristretta del carcere il teatro si carica di nuovi significati: in un luogo proprio come quello del carcere - che è già di per se un teatro fatto di ruoli precisi, di spazi ristretti, di uniformi che diventano costumi - i detenuti da sorvegliati e osservati diventano osservatori, restituiscono qualcosa. In carcere, dove il detenuto non ha parola, con il teatro ha la possibilità di raccontarsi all’altro, all’esterno, alle guardie, alla società, creando in questo modo una comunicazione che è la base stessa del teatro”. L’esperienza teatrale viene quindi vista e vissuta come vincolo di integrazione, di superamento delle barriere anche culturali, come atto sociale in cui proprio la società ha un ruolo fondamentale. “L’importanza del teatro in carcere è per lo più sottovalutata perché spesso questa non è visibile all’esterno delle mura - ha detto il dott. Vittorio Iervese, sociologo e ricercatore dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Le poche esperienze di teatro che dal carcere sono state portate sul territorio, invece, hanno dimostrato che queste sono spunto di riflessioni ed emozioni totalmente nuove per la società. Ciò è dovuto al fatto che c’è un “rimosso” nella società che non vuole considerare che dietro la solita vita sociale ci sia anche una devianza che non è appannaggio solo di persone che hanno sbagliato, ma che è un potenziale di tutti i cittadini. Il teatro in carcere non fa nient’altro che trovare un linguaggio e dei canali per manifestare queste energie e queste storie di vita che vengono dimenticate e che per il teatro diventano fortemente narrative, ma che per i singoli detenuti diventano anche un’occasione e un orizzonte di affrancamento”. Il connubio tra teatro e carcere sembra quindi portare benefici non solo ai detenuti che in prima persona sperimentano i laboratori nel periodo di detenzione, ma anche alla società civile che sceglie, andando a vedere gli spettacoli, di mettersi in gioco e aprirsi all’integrazione. Ma come sempre c’è un “ma”: la spinosa questione dei tagli ai finanziamenti per quei progetti che, come ha sottolineato Greta Barbolini, presidente Arci provinciale e partner di Teatro dei Venti nel progetto teatro-carcere a Castelfranco “stanno tra il sociale e il culturale: in questi campi si lavora tanto ma c’è poco riconoscimento, e questo si ripercuote poi nella difficoltà di reperire risorse che permettano una progettualità continuativa”. Nel 2010 il Fondo regionale per le politiche sociali ha destinato alle attività da svolgere all’interno delle carceri 345mila euro da spalmare su tutta la regione, ma l’anno prossimo rimane un’incognita, e con un Governo che sta tagliando in ogni dove, la paura che anche per questo capitolo di spesa i fondi diminuiscano è reale. Da qui, quindi, l’importanza di fare rete che ha portato alla nascita, nel 2009, del progetto “Teatro carcere in Emilia Romagna”, un coordinamento tra i soggetti che si occupano di teatro-carcere a cui partecipano anche Università e enti teatrali regionali, nato con l’obiettivo di dare una presenza stabile della pratica teatrale all’interno delle carceri, ma anche incentivare le iniziative e i programmi di recupero tesi al reinserimento sociale dei cittadini in esecuzione di pena. Un primo evento è già in programma: “Stanze di teatro in carcere. 2011” una rassegna di teatro itinerante che toccherà Modena, Bologna e Ferrara. Nella nostra città l’appuntamento è in programma per marzo 2011 in occasione della rassegna a cura di Teatro dei Venti dal titolo “Margini in azione - Seconda Parte”. Milano: la Conferenza evangelica organizza incontro sull’assistenza spirituale in carcere www.volontariamo.com, 8 novembre 2010 Parte dalla Conferenza evangelica Lombardia una significativa proposta di coordinamento tra le varie realtà - ministri, chiese, missioni, diaconie - che si occupano di assistenza spirituale nelle carceri. “Sempre più spesso - segnala il presidente Coel, Riccardo Tocco - abbiamo verificato che nelle case di reclusione della Lombardia vi è la contemporanea presenza di ministri di culto evangelici ed altri operatori, oltre che di associazioni”; a questo si aggiunge il crescente interesse per i bisogni spirituali dei reclusi, manifestati da numerose chiese e privati, alla ricerca delle procedure per ottenere le autorizzazioni alla cappellanìa carceraria. Si constata però, allo stesso tempo, l’assenza di un’azione omogenea e razionale tra le varie realtà evangeliche impegnate nel settore, che portano da un lato alla sovrapposizione delle presenze, dall’altro all’assenza di assistenza spirituale, culti e corsi biblici in numerose carceri della Regione. Proprio considerando la sensibilità sempre più diffusa sul tema, la Conferenza evangelica Lombardia organizza per lunedì 15 novembre alle 20 un’assemblea regionale sul tema, primo passo verso la creazione “di una rete dell’assistenza spirituale - si legge nel comunicato Coel - e degli interventi della realtà cristiana evangelica nelle carceri”. L’incontro si terrà a Milano, presso la sede della chiesa evangelica “Semplicemente Amore” (via Fleming, 8). Per informazioni e adesioni: tel. 347/0132278; e-mail: riccardo.tocco@poste.it Pavia: nove detenuti-attori nel laboratorio teatrale dell’Associazione Calypso La Provincia Pavese, 8 novembre 2010 Divagazioni sull’Iliade in scena al carcere di Torre del Gallo ieri mattina: a mettersi in gioco nove carcerati, che dopo sei mesi di laboratorio teatrale con Calypso, l’associazione di teatro per il sociale, hanno scatenato gli applausi di “colleghi” e famiglie. I figli, alla fine, si sono arrampicati sul palco per un lungo abbraccio. Era la conclusione di un progetto dell’Apolf. “La spingula è una variante del gioco della pagliuzza più corta, indica la fortuna. Lo spettacolo si interroga sul destino, sulle scelte”, spiegano gli educatori di Calypso. Che da maggio a ottobre hanno portato un po’ di mondo esterno ai detenuti, sfidandoli a riflettere sui testi. Alla fine la scelta è caduta sull’Iliade: un mondo classico interpretato in maniera attuale, profumata di accenti diversi. E così Antonio si è trovato nei panni di Astianatte e Patroclo, il migliore amico di Achille, Glauco Daniele in quelli di Calcante, Enzo, in abito grigio, ha impersonato il destino mentre Ivan ha portato sul palco la sua versione di Ulisse. Marco era Ettore, Mario Agamennone, Michele Achille con il codino e l’altro Michele è stato un Diomede perfetto. Senza dimenticare Pino (Elena, Andromaca), e Rocco (Paride). “Stare in cella 20 ore al giorno non porta ad alcun reinserimento - spiega Enzo -. Sul palco abbiamo ritrovato la dignità e da numeri di matricola siamo tornate persone”. “Non sapevamo nulla di teatro, e provavamo vergogna - spuiega Antonio - ma poi è stato bello imparare, fare, socializzare con il mondo esterno grazie agli insegnanti”. Il sindaco Cattaneo ha proposto al direttore del carcere Iolanda Vitale di ospitare alcuni detenuti e famiglie al Fraschini. Iraq: carcere segreto gestito dai militari britannici nella regione di Bassora di Francesca Marretta Liberazione, 8 novembre 2010 In un carcere segreto di Bassora c’è stata una Abu Ghraib Made in Britain. Da venerdì, per tre giorni di udienze, le prove raccolte da un team di avvocati (Public interest lawyers) che rappresenta oltre 200 iracheni, sono al vaglio dell’Alta Corte di Londra. Testimonianze di torture e abusi utilizzati dai militari britannici del Joint forces interrogation team, in Iraq, addestrati a mettere in pratica brutali tecniche d’interrogatorio. Le stesse che hanno portato alla morte, per tortura, nel 2003, di Baha Mousa, receptionist d’albergo. Su questo e altri casi singoli il massimo che il governo britannico ha finora concesso sono inchieste affidate all’Iraq Historic Allegations Team (Ihat), organizzazione composta da ex militari e ex esponenti delle forze di sicurezza. Cosa che solleva qualche dubbio sull’imparzialità di giudizio. Un’indagine pubblica, sarebbe ben altra cosa. Ed è quello a cui mira il team del Public interest lawyers. Un’inchiesta adeguata dovrebbe risalire alle responsabilità politiche. Sulle accuse circolate nelle scorse ore, supportate da documentazione video, il ministro delle Difesa britannico Liam Fox ha reagito dicendo che si tratta solo di denunce, “tutte da provare”. La linea del titolare della Difesa di Londra insiste su responsabilità eventuali attribuibili alla cattiva condotta di “poche mele marce”. Il materiale circolato in tribunale nelle scorse ore, relativo a fatti avvenuti tra il 2003 al 2008, presenta una versione diversa. Mostra l’impiego di tecniche d’interrogatorio piuttosto lontane dai dettami della Convenzione di Ginevra. Impiegate in maniera sistematica. Non frutto dell’iniziativa personale delle “mele marce” di cui parla Fox, ma orchestrate dall’alto. I militari di Sua Maestà, non facevano altro che applicare quanto appreso in addestramento. Roba “da manuale”. Non per modo di dire. Un file di PowerPoint, sul trainig dell’interrogatorio dell’iracheno di turno, risalente al 2005 suggerisce: “Denudateli e teneteli nudi se non seguono i vostri ordini”. Nel 2008 il manuale è aggiornato. Il detenuto nudo, riconfermata tecnica valida da seguire. L’umiliazione, prima di tutto. La deprivazione sensoriale, è poi definita “legittima” se supportata da “valide ragioni operative”. Per estorcere informazioni, i militari britannici erano addestrati a somministrare al detenuto di turno, tecniche di tortura, come: privazione del sonno, di cibo, minacce di ogni tipo, comprese quelle a sfondo sessuale. Anche da parte di donne soldato. Tecniche volte ad indurre nell’interrogato sentimenti di paura, ansia, sfinimento. I detenuti erano costretti a restare inginocchiati fino a trenta ore di fila, sottoposti a scosse elettriche e confinati in celle di un solo metro quadrato. Di fronte al polverone che si sta sollevando, il ministro delle Forze armate, Nick Harvey, Liberaldemocratico, ha dichiarato che un’inchiesta pubblica non è da escludere se dovessero emergere seri abusi sistematici. Ma si riferisce alle indagini dello stesso ministero della Difesa. Il team degli avvocati che ha preso in carico le istanze degli iracheni, ribadisce, a proposito, il concetto della mancanza di sufficienti garanzie di fronte a militari che investigano sulla condotta di militari. Altra ragione del ministero della Difesa britannico per giustificare il “no” a un’inchiesta pubblica è che “sarebbe troppo costosa” oltre che “non necessaria” e “inappropriata”. Tra le testimonianze presentate all’Alta Corte contro i militari britannici c’è quella di Ali Zaki Mousa. Nel 2006, anno in cui afferma di essere stato torturato a Bassora, faceva il tassista. Sostiene che anche la sua famiglia sia stata oggetto di violenze. A differenza dell’omonimo Baha Mousa, Ali Zaki non è morto sotto tortura e quello che è successo lo può raccontare. Mousa è stato rilasciato dopo dodici mesi di detenzione. La sola, vaga, accusa nei suoi confronti è stata avere collegamenti con gli insorti. Porta scritte sul corpo le accuse che rivolge ai soldati britannici. I segni delle percosse e le torture sono visibili nella regione genitale, all’altezza dei reni e su tutta la schiena. In conseguenza delle sofferenze durante la detenzione. non potrà avere altri figli. Certo, come dice Fox, resta tutto da provare. Cuba: 13 dissidenti ancora in carcere a scadenza termini dell’accordo con la Chiesa Il Velino, 8 novembre 2010 Allo scadere dei termini dell’accordo tra governo cubano e Chiesa cattolica 13 dei 52 dissidenti in attesa di liberazione permangono ancora in carcere. Lo denunciano le Damas de blanco, associazione che riunisce i familiari dei prigionieri politici, accusando le autorità di L’Avana di ingannare il popolo cubano, la Chiesa, il governo spagnolo che ha offerto la propria mediazione e accolto gli scarcerati e la comunità internazionale. Il 7 luglio scorso il governo di Raul Castro si era impegnato a liberare i 52 dissidenti del “Gruppo dei 75” che erano ancora in carcere “in un periodo di tre o quattro mesi”. In realtà mentre 13 di loro restano imprigionati, le autorità cubane hanno concesso la libertà a sette altri detenuti, non inseriti nell’accordo ma che hanno accettato di lasciare il Paese diretti in Spagna. A questi se ne devono aggiungere altri sette, sempre al di fuori dei 52 previsti, che lasceranno le loro celle nei prossimi giorni diretti verso Madrid. I 13 dissidenti che rimangono in carcere invece si sono rifiutati di lasciare il Paese e di accettare di tornare in libertà con una sorta di licenza. Le Damas de blanco denunciano che, a parte questo gruppo, rimangono in cella almeno altri 33 prigionieri politici “pacifici” e “molti altri che non sono stati ancora definiti tali”.