Giustizia: 69.000 detenuti, ogni giorno un nuovo record storico delle presenze Adnkronos, 4 novembre 2010 Nei 207 istituti di pena italiani, al 31 ottobre erano presenti 68.795 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 44.962. Questi i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, elaborati dal Centro studi di Ristretti Orizzonti. Sul totale dei reclusi, quasi un terzo, 25.364, è costituito da stranieri. Dei detenuti stranieri il 21.4 % proviene dal Marocco, il 13.7 % dalla Romania, seguiti dai tunisini, il 12.8 %, e dagli albanesi, l’11.2 %. Le donne sul totale dei reclusi sono 3.013, e su queste 1.279 sono straniere, per la maggior parte romene, 277, e nigeriane, 224. Sono quasi 36.904 invece i condannati definitivi nelle carceri italiane, mentre gli imputati reclusi raggiungono quota 29.986, di cui 15.111 persone sono in attesa del primo giudizio. Sempre sul totale degli imputati poi, circa 8.130 sono appellanti, mentre 5.047 hanno già fatto ricorso. La situazione del sovraffollamento delle carceri è sostanzialmente la stessa, secondo i dati elaborati dal Centro studi di Ristretti Orizzonti, in tutte le regioni italiane. Fra queste spiccano comunque la Lombardia, con 9.354 detenuti presenti contro una capienza prevista di 5.652, il Veneto, con 3.325 detenuti, contro i 1.965 previsti dal regolamento delle carceri, il Piemonte, con 5.340 detenuti contro i 3.445 previsti, la Sicilia, con 8.094 detenuti contro una capienza regolamentare di 5.393 persone e la Calabria, con 3.207 detenuti contro i 1.871 previsti. Nelle carceri lombarde, inoltre, i detenuti stranieri sono circa la metà delle persone presenti, con 4.108 stranieri per un totale di 9.354 detenuti. Stessa cosa anche per le carceri piemontesi, in cui gli stranieri sono 2.663 sul totale dei 5.340 detenuti presenti, e gli istituti penitenziari del Veneto, con 1.930 stranieri rispetto al totale dei detenuti che è di 3.325. Giustizia: rendiamo retroattiva la legge su risarcimento per ingiusta detenzione e errore giudiziario Liberazione, 4 novembre 2010 Se una legge deve essere retroattiva questa deve essere quella inerente la riparazione per ingiusta detenzione, legge introdotta in Italia con il nuovo codice di procedura penale nell’ottobre 1989. Prima di quella data, le tante persone detenute e poi assolte non hanno potuto beneficiare di nessuna riparazione, proprio perché la norma è compresa tra gli istituti applicabili solo per i procedimenti ancora in corso all’entrata in vigore del codice di procedura penale e non anche per quelli già conclusi. Molte vittime dell’errore giudiziario, contemplato dall’art. 314 del codice di procedura penale, sono rimaste quindi prive della giusta riparazione e ciò è accaduto in aperta violazione degli articoli 2 e 24 della Costituzione, nonché delle norme della citata Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Esistono tanti cittadini che hanno subito l’umiliazione del carcere, talvolta per anni e l’annichilimento del diritto inviolabile della libertà personale, consacrato dall’articolo 13 della Costituzione, ma non hanno ottenuto nessuna giusta riparazione e nemmeno quella somma di denaro che certo si direbbe meglio “conforto” che non “riparazione”. E tutto ciò perché la loro completa assoluzione si è potuta ottenere solo in un momento precedente, talvolta di pochi giorni o di poche settimane soltanto, a quella dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. È questa una situazione che offende la dignità del Paese e che contrasta con la concezione di salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo che la Repubblica ha posto a fondamento del suo ordinamento costituzionale. È una situazione deplorevole e ingiusta che non può consentire a nessuno di dire: “È ormai troppo tardi”. Esistono depositate alla Camera ma non ancora calendarizzate in commissione giustizia due proposte di legge, che vanno nella direzione di introdurre la retroattività nella riparazione per ingiusta detenzione una la n. 3158 prima firmataria l’On. Rita Bernardini (radicali - Pd) e l’altra n. 1865 firmatario l’On. Pier Luigi Mantini (Udc). Facciamo in modo che questi disegni di legge vengano discussi e approvati. Giovanni Russo Spena, Luigi Manconi, Associazione Antigone, Paolo Ferrero, Rita Bemardini, Sandro Favi, Elettra Deiana, Katia Bellillo, Antonio Distasi, Annamaria Rivera, Claudio Grassi, Italo Di Sabato, Andrea Ricci, Loris Campetti, Stefano Azzarà, Linda Santilli, Eleonora Martini, Vittorio Agnoletto, Marcello Pesarmi, Giulio Petrilli, Paolo Sospiro, Gabriele Sospiro, Paolo Cacciaci, Imma Barbarossa, Sergio Sinigaglia, Roberto Mancini, Giuliano Pisapia, Orazio Sturniolo, Silvana Pisa, Francesco Manna, Roberto Musacchio, Luigi Vmci, Alberto Bugio. Per adesioni contattare Marcello Pesarini 3391347335 o inviare mail marcello.pesarini@virgilio.it. Giustizia: maledetto il sistema che incarcera un vecchietto di ottantasette anni di Renato Farina Tempi, 4 novembre 2010 C’è la gabbia che ha la forma di un cortiletto. L’onorevole qui presente Diavolo della Tasmania infila la faccia nell’acciaio e vede uomini passeggiare con l’andatura nervosa di chi ha bisogno di respirare e cerca aria. Una strana creatura uscita da un zolfatara di Pirandello invece cammina lenta, zoppica, incespica. Che ci fa lì quel vecchietto che si appoggia al bastone? Non è possibile, sembra un centenario, la barba lunga, il volto grinzoso. Un tossicodipendente sdentato lo accompagna verso l’inferriata alla chiamata della “superiora”. Il vecchio ha la lacrima che gli scende come una goccia da un occhio azzurro, l’altro è asciutto. Domenica 24 ottobre, ore 13 e 30, casa circondariale, insomma carcere, di Siracusa. Perché? Perché parlarne oggi, proprio oggi, con tutte le nubi gravanti sul panorama politico? Perché desidero per me e per voi l’ora d’aria come i detenuti, uscire per un piccolo frammento di tempo dall’irrealtà rappresentata sui giornali, dove protagonista non è la politica della realtà, ma la po litica per la politica, il teatro delle ombre. E andare nel posto dove si è ammazzato il 53esimo detenuto (impiccagione) in Italia dall’inizio dell’anno. Del resto, dando una notizia sulle celle, ne comunico implicitamente una sulle urne. Che infatti un deputato scriva di dignità del detenuto e di pena invocando sia umana (sottolineo: pena, che nessuno vuole eliminare) è - ironia amara - la prova che non siamo nell’imminenza del voto. Sono preoccupazioni viste come la peste dagli strateghi di campagna elettorale: tolgono consensi alla lista. Come se una galera così dia sicurezza ai cittadini: è vero il contrario. Come ha detto Silvio Berlusconi il 29 settembre rilanciando il suo governo alla Camera, nei programmi da realizzare da qui al 2013 “procederemo nei tempi stabiliti anche all’attuazione del piano carceri che consenta l’applicazione integrale dell’articolo 27 della Costituzione quanto a umanità della pena e alla rieducazione”. Per questo urge sia approvata la legge firmata da deputati di entrambi gli schieramenti (Intergruppo per la Sussidiarietà, prime firme Alessia Mosca e io) in materia di agevolazioni per le imprese e le cooperative sociali che favoriscono l’inserimento lavorativo dei detenuti. Essa è incardinata, bisognerebbe votarla, invece di occuparsi di teatrini. L’eccellente ministro Alfano è d’accordo. Vedremo di trovare i fondi, pochi milioni di euro per il bene comune e per qualcosa che somigli a civiltà. Ma chi è quel vecchietto? Uno che, se vale l’articolo 27 della Costituzione, non deve essere lì. È un signore di 87 anni, imprigionato per una pena di 2 anni e 9 mesi, messa in esecuzione pochi giorni prima. Si è rivolto alla brava direttrice e ha chiesto: “Può farmi avere la coppola per la notte? Ho freddo alla testa”. “Non si può, la coppola no, ma un berretto di lana glielo faccio avere”. Ecco le celle. In una sono in dodici, in un territorio blindato di circa trenta metri quadrati. Se fosse un circo, gli animalisti li avrebbero liberati. Ma sono uomini, forse cattivi, di certo da punire. Ma forse sarebbe da punire chi li tiene come galline in una stia. Vicino a quella casa circondariale c’è il carcere di massima sicurezza di Brucoli, ad Augusta. Lì si sta vivendo un esperimento che dovrebbe far scuola. In certe sezioni i detenuti hanno firmato un solenne impegno. Niente alcol, salvo il minimo per i pasti, nessun litigio: e le celle restano aperte. Il Diavolo di Tasmania si è fatto consegnare il testo di questa promessa stabilita tra uomini, chi li custodisce in detenzione e chi questa detenzione subisce. Funziona, una buona notizia minima da questa geenna italiana. Giustizia: il Garante dei diritti dei detenuti serve solo se indipendente e autonomo Comunicato stampa, 4 novembre 2010 Il momento storico che la realtà carceraria sta attraversando si caratterizza in termini di assoluta emergenza, con i numeri del sovraffollamento che rendono illegali le condizioni di detenzione, apparendo di tutta evidenza che costringere alla coabitazione in pochissimi metri quadrati più persone per 20 ore al giorno, talvolta costringendo a dormire sopra ad un materasso buttato per terra, configura un trattamento inumano, degradante e contrario al senso di umanità. Anche alla luce della tragica situazione delle carceri del Paese è necessario perseguire l’obiettivo dell’istituzione di un Garante nazionale dei diritti dei detenuti che possa contribuire a dare attuazione al dettato costituzionale della finalità rieducativa della pena e a rendere sempre più trasparenti gli istituti penitenziari del nostro Paese. Tra i tratti salienti dell’organismo di vigilanza e monitoraggio, il potere di accedere in maniera incondizionata ai luoghi di privazione della libertà personale, i requisiti della collegialità e dell’indipendenza, con una designazione di tipo parlamentare. Il Coordinamento dei Garanti territoriali da tempo rimarca che non è più differibile da parte dell’Italia l’esecuzione della risoluzione Onu 48/134 del 1993, per l’istituzione di una figura nazionale di garanzia e controllo sui luoghi di privazione della libertà personale, rispetto alla quale diversi sono i progetti di legge depositati, anche nella scorsa legislatura. Va inoltre ricordato che il Protocollo facoltativo del 2002 alla Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984, sottoscritto, ma purtroppo non ratificato dall’Italia, prevede che entro un anno dalla ratifica il paese firmatario debba dotarsi di un organismo indipendente di controllo e ispezione sui luoghi di detenzione. All’articolo 1 il Protocollo si prefigge di istituire un sistema di visite periodiche, effettuate da organismi indipendenti internazionali e nazionali, nei luoghi in cui si trovano persone private della libertà, allo scopo di prevenire la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. L’articolo 3 prevede che ogni Stato Parte istituisca, designi o gestisca, a livello nazionale, uno o più organi di visita incaricati di prevenire la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. L’istituzione di un Garante nazionale, oltre all’assolvimento di obblighi di carattere internazionale, sarebbe il naturale coronamento del percorso intrapreso in via di sperimentazione a livello territoriale con i garanti locali. Il Coordinamento nazionale dei Garanti territoriali, che ha provveduto ad approfondire l’analisi delle varie proposte di legge condensandole in un unico disegno di legge, ha predisposto il proprio testo nell’ambito del quale, fra i tratti salienti dell’organismo di vigilanza e monitoraggio munito del potere di accedere in maniera incondizionata ai luoghi di privazione della libertà personale, emergono i requisiti della terzietà e dell’indipendenza, essendo prevista una designazione di tipo parlamentare, con la previsione di un continuo raccordo con i Garanti territoriali presenti nelle realtà locali. I Garanti hanno chiesto con forza al Parlamento di considerare una priorità l’introduzione di un organo di garanzia e di controllo a tutela delle persone ristrette con una competenza territoriale su scala nazionale, che costituirebbe un primo importante segnale di una volontà politica e di governo finalmente attenta al rispetto della dignità e dei diritti inviolabili delle persone. La designazione a livello nazionale può eliminare i problemi che ormai da qualche tempo si stanno verificando in sede di nomina dei garanti territoriali, rispetto ai quali si tende ad erodere lo spazio di autonomia e terzietà che i vari statuti e regolamenti hanno individuato. Se il Garante non riesce ad avere sufficienti connotati di indipendenza dall’amministrazione penitenziaria ( ma anche da qualunque altra ) e anche dalla politica ( come può avvenire quando è il Sindaco o il Presidente della provincia e non gli organi elettivi dell’ente territoriale) non può essere svolgere quella funzione di vigilanza c he caratterizza l’istituto. Per questo il Coordinamento dei Garanti non può condividere la nomina di un ispettore di polizia penitenziaria in aspettativa a Garante del Comune di Roma, a prescindere dalla competenza e professionalità dello stesso, ancora organico a quella amministrazione penitenziaria che è spesso controparte oggettiva delle persone detenute. Il Coordinamento esprime preoccupazione per i tentativi di “ normalizzazione “ del ruolo dei Garanti , o attraverso la attribuzione dei compiti dello stesso al difensore civico, o attraverso la riduzione degli spazi di autonomia o addirittura nominando quale controllore chi è parte dell’ente controllato. La valenza straordinaria dell’istituzione della figura dei Garanti sta nella assenza di vincoli gerarchici e nella posizione di responsabile libertà che li deve accompagnare. Se mancano questi requisiti è meglio non procedere a nomine che potrebbero essere addirittura controproducenti e minare il rapporto fiduciario con le persone detenute. Avv. Desi Bruno Portavoce del coordinamento dei Garanti territoriali Giustizia: incompatibile Lo Cascio di Stefano Anastasia Terra, 4 novembre 2010 Scrivo come persona informata dei fatti, essendo stato - con Antigone - tra i promotori delle prime proposte per l’istituzione di un garante dei detenuti e io stesso, tra il 2003 e il 2006, quando la figura del Garante muoveva i suoi primi passi nel Comune di Roma, direttore dell’ufficio che ne avrebbe dovuto sostenere l’attività. Come persona informata dei fatti posso testimoniare che l’ispettore Vincenzo Lo Cascio è incompatibile con l’incarico di Garante delle persone private della libertà nel Comune di Roma affidatogli dal Sindaco Alemanno. Non me ne vogliano il segretario della sua organizzazione sindacale, orgoglioso del riconoscimento, il mio amico Beppe Lumia che ne canta le lodi e lo stesso Lo Cascio, che ho incontrato solo una volta in vita mia e per il quale non ho alcuna riserva mentale: il problema non è personale, né nella sua esperienza professionale (è il leader de La Destra Storace che dice che è come mettere Dracula a capo dell’Avis), ma nella sua appartenenza ai ranghi dell’Amministrazione penitenziaria. So che è difficile fare un discorso di questo genere in Italia, di questi tempi, ma il problema è istituzionale. Non a caso la delibera istitutiva esplicita una incompatibilità per chiunque eserciti una funzione pubblica nel campo della giustizia e della sicurezza pubblica. Mi si potrà rispondere che Lo Cascio non eserciterà alcuna funzione pubblica durante il mandato, essendosi messo in aspettativa, ma resta il fatto che alla scadenza del mandato rientrerà nei ranghi dell’Amministrazione penitenziaria, alle dipendenze funzionali di un dirigente o al fianco di un collega al quale avrebbe dovuto contestare qualcosa nella sua attività di Garante dei detenuti: avrà avuto il coraggio di farlo, di tener fede al suo mandato istituzionale? Il solo sospetto che così possa non essere rende Lo Cascio un interlocutore infido per chi, viceversa, vi si dovrebbe affidare. Per molto meno, Antigone ha aspettato che Patrizio Gonnella fosse fuori dall’Amministrazione penitenziaria da sette anni e certo di non rientrarci più per affidargli la presidenza di una libera associazione di privati cittadini e oggi sì, dopo tre anni che non ne è più dipendente, potrebbe essere nominato Garante nazionale dei detenuti, come gli augura Rita Bernardini. Ricordo le motivazioni con cui un vecchio amico si congedò dalla magistratura al termine del mandato parlamentare: non è sufficiente sentirsi indipendenti nello svolgimento di un’attività istituzionalmente terza, è essenziale che anche le parti ti riconoscano come tale. Delle due l’una, caro ispettore, si dimetta irrevocabilmente dall’Amministrazione penitenziaria o rinunci all’incarico che il Sindaco di Roma le ha affidato incautamente. Giustizia: emergenza carceri, l’unica cura è il ripristino della legalità di Andrea Granata (Segretario dell’Associazione Radicali Marche) www.giustiziagiusta.info, 4 novembre 2010 L’ennesima morte in carcere, la terza dall’inizio dell’anno nel carcere anconetano di Montacuto, con ogni probabilità avvenuta in seguito alla massiccia assunzione di psicofarmaci come i due suicidi che l’avevano preceduta, riaccende i riflettori sulla questione psicofarmaci in carcere e più in generale della sanità penitenziaria. Esiste, come più volte evidenziato dai Radicali, un problema psicofarmaci nelle carceri italiane, dato da somministrazioni a fini non terapeutici ma di “sedazione istituzionale”. Il sovraffollamento delle carceri è questione drammatica e reale, ma rischia di essere la foglia di fico dietro la quale chi ha competenze e responsabilità sulla sanità penitenziaria continua a celarsi. Il problema delle carceri italiane non può essere risolto attraverso forme di medicalizzazione dei detenuti e meno che mai con questo tipo di offerta sanitaria fatta di farmaci, spesso, prescritti nel dispregio dell’appropriatezza terapeutica. Le morti in carcere non sono altro che l’epifenomeno del processo di necrosi imposto alla giustizia italiana che sempre più appare scollata da principi di legalità. Legalità che vorrebbe la pena detentiva riabilitativa, non afflittiva e mai contraria al senso d’umanità, che imporrebbe per la polizia penitenziaria condizioni lavorative ben diverse dalla realtà, tali, se solo prospettate all’ultimo iscritto Fiom, da far urlare allo sciopero generale, che, in conclusione, vorrebbe che ai medici nelle carceri fosse consentito ed imposto di perseguire la salute dei pazienti, abbandonando la pratica assai diversa dalla sedazione della pena. Giustizia: Vitali (Pdl); Convenzione dei Diritti dell’Uomo, Italia condannata per situazione carceri Il Velino, 4 novembre 2010 “La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ancora oggi, è di straordinaria attualità. Argomenti come il diritto alla vita, il divieto della tortura, della schiavitù e del lavoro forzato rappresentano pilastri indelebili della civiltà europea”. Lo ha detto Luigi Vitali (Pdl), presidente della delegazione dei parlamentari italiani al Consiglio d’Europa, aprendo i lavori del convegno organizzato oggi a palazzo Barberini su “Storia e attualità della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nel 60esimo anniversario della firma”. “Non bisogna mai abbassare la guardia sulla verifica del rispetto di quanto stabilito nella Convenzione. Io posso dire che all’interno del Consiglio d’Europa si vigila molto sul rispetto dei diritti fondamentali contenuti nella Convenzione”. “Anche il nostro Paese ha conosciuto qualche sentenza di condanna a proposito di trattamenti inumani per lo stato in cui versano le nostre carceri che non garantiscono spazi minimi ai detenuti. È necessario, però, distinguere la violazione dei dettati europei per cosciente volontà o per incapacità di adeguarsi, da quella per impossibilità temporanea. È il caso dell’Italia - prosegue Vitali - che, in assenza di una politica di interventi strutturali e coordinati datata nel tempo, oggi patisce la più grave emergenza carceraria della sua storia a cui il Governo sta ponendo rimedio grazie al varo del Piano carceri”. Giustizia: Osapp; faremo sondaggio tra tutti gli operatori del Dap per giudicare l’operato di Ionta Il Velino, 4 novembre 2010 “Stiamo lavorando a una serie di grandi iniziative che vedranno il loro culmine a fine anno. A un progetto in particolare, tra gli altri, che coinvolge tutti i 40mila uomini e donne della Polizia penitenziaria in servizio e che sicuramente susciterà grande trambusto ai piani alti di via Arenula”. Lo annuncia in una nota Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziaria. “All’indomani dell’iniziativa e del referendum già annunciato dalla nostra organizzazione sindacale - prosegue Beneduci - siamo sempre più convinti che sia arrivato il momento di far capire all’opinione pubblica come venga percepita la questione Ionta all’interno del sistema carcerario attuale. Questo lo possiamo fare solo attraverso il contributo e l’aiuto dei nostri colleghi. Proprio come si fa a scuola quando si giudicano gli alunni - spiega - qui gli agenti mettono i voti al loro capo. Abbiamo cioè intenzione di promuovere un sondaggio tra tutti gli operatori del settore per comprendere meglio, attraverso il parere degli ultimi, chi veramente sia colui che ci ha diretto in questi due anni e mezzo e come venga percepito dai suoi”. “In fondo - dice Beneduci - anche i poliziotti sono da considerarsi parte integrante della popolazione italiana: lui promuove un sondaggio per verificare la sensazione degli italiani riguardo la Polizia e l’amministrazione penitenziaria, e noi facciamo altrettanto. Legata all’iniziativa - annuncia ancora Beneduci - ce ne sono altre che vogliamo mettere in campo a salvaguardia della categoria. Subiamo umiliazioni da anni e un’assoluta mancanza di tutela da parte dei nostri vertici non ci tutela affatto quando i media ci appellano con frasi e termini vecchi, e talvolta offensivi. Se il maleodore del pesce, di regola, proviene dalla testa - conclude il segretario - c’è ragione di immaginare che il capo del Dap non abbia amministrato nel migliore dei modi in questi anni, ovvero che venga percepito tra le principali cause de disservizi e dei disagi che affliggono i poliziotti penitenziari, almeno per non avere fatto che altro che la proposta di un paino di edilizia penitenziaria sul quale tuttora manifestiamo motivati dubbi di opportunità e di adeguatezza”. Lettere: la morte di Graziano… di Federico (detenuto a Rebibbia) www.innocentievasioni.net, 4 novembre 2010 È con estremo rammarico che ho letto la notizia della scomparsa di Graziano Scialpi, morto di tumore il 17 ottobre. Il mio rammarico è estremo non perché lo conoscessi personalmente ma perché conosco la sofferenza di una malattia che non finisce mai di finire, e il modo in cui viene affrontata in un carcere, nel mio caso sovraffollato e sotto organico (scrivo da Rebibbia). Un tumore avanza lentamente e con le cure adeguate può rallentare fin quasi a fermarsi, ma la Asl 16 è riuscita ad essere molto più lenta del tumore, in tutto: nel prendere atto dei suoi sintomi, nel diagnosticarli, nel curarlo, ricoverando Graziano in ospedale, d’urgenza stavolta. Non è riuscito a salvarsi perché era troppo tardi, come al solito; sembra terribile dire “come al solito” in una Repubblica democratica, illuminata da una Costituzione che mette la salute, la salute di tutti, tra i diritti fondamentali, da (e da far) rispettare. Diventa meno terribile se si pensa all’enorme complessità della Sanità in carcere, al farraginoso passaggio di competenze dalla Medicina Penitenziaria alle Asl locali, passaggio inizio a novembre 2008 e non ancora completato, e che degli enormi vantaggi che doveva portare non ha rivelato nulla, se non detenuti morti in più; perché di questo stiamo parlando: l’essere detenuto comporta una maggiore percentuale di mortalità o di possibilità di contrarre malattie rispetto alla vita normale, e questo non viene menzionato da nessuno, tantomeno dalla sentenza che, per onestà, dovrebbe riportare la dicitura “Da questo momento la sua aspettativa di vita sarà molto variabile”. Io non posso calarmi nel dolore della famiglia di Graziano, ma ho visto molti sconosciuti morire per negligenza o superficialità, ho visto ragazzi diventare sieropositivi per l’igiene approssimativa degli strumenti usati negli interventi di routine. Tutto quello che si può nascondere si nasconde: immigrati, barboni, tossicodipendenti senza famiglia, chi farà le denunce per quei morti? La frase “Faremo tutti gli accertamenti per far luce sul caso e se verranno evidenziati comportamenti scorretti non esiteremo ad intervenire!” vuol dire tutto e niente; ho sentito la stessa frase per la morte di Stefano Cucchi, con estremo rammarico. Lettere: mio padre, detenuto in 41-bis, per l’ennesima volta è in grave pericolo di Anna Stranieri www.innocentievasioni.net, 4 novembre 2010 Ricevo questa lettera da mio padre Vincenzo Stranieri. Il mio papà è in 41 bis nel carcere dell’Aquila dove stanno facendo di tutto per farlo internare nel reparto di psichiatria per la seconda volta perché scomodo, persona che dentro il carcere sta dando fastidio. Questa lettera per me è una richiesta di aiuto alla quale non posso rimanere indifferente: una persona, Mio padre, mi sta dicendo che vogliono uccidere psicologicamente e moralmente. Siamo complici anche noi se non facciamo nulla. Ho bisogno del vostro aiuto. Ho bisogno dell’aiuto di avvocati e/o magistrati che fermino questo abuso di potere del carcere verso un detenuto. Ho bisognò dell’aiuto di associazioni. Diffondiamo in fretta, chi può darmi una mano o ha un’idea mi contatti immediatamente, qui su facebook o sul 388.8864550. Immediatamente! Non voglio leggere tra una settimana o un mese che Vincenzo Stranieri è stato trovato morto per “malore” dentro la sua cella. Vi prego. Mi ha scritto questo mio padre: “Ciao tesoro di papà, qui dopo il colloquio le cose non vanno bene mandami subito l’avvocato o i Radicali, io inizio a rifiutare vitto e passeggio e tutto mi chiamo l’incompatibilità con questo carcere mi devono spostare, che devo morire qui! Ma prima che si prendano la pelle devo lottare con i denti poi vediamo se mi ammazzano non sono il loro oggetto”. Veneto: mancano i giudici, a rischio i processi anche per gli imputati detenuti di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 4 novembre 2010 “Se continua così, e non verranno rimpiazzati tutti i giudici che mancano, rischiamo di non poter più garantire i processi neppure ai detenuti. Con il rischio che si possano aprire le porte del carcere a pericolosi criminali!”. A lanciare l’allarme sul grave stato della giustizia nel Veneto è la presidente della Corte d’Appello di Venezia, Manuela Romei Pasetti, sempre più preoccupata della situazione in cui si trovano gli uffici giudiziari di secondo grado a causa della sempre più pesante carenza di giudici. “Ho chiesto un’audizione urgente al Consiglio superiore della magistratura - spiega la presidente. È necessario che vengano coperti al più presto i posti vacanti, altrimenti la Corte d’Appello è destinata alla paralisi!”. Su sette presidenti di sezione, ne sono presenti soltanto 4, mentre su un organico complessivo di 33 giudici ne mancano all’appello ben 8, e altri 2 sono assenti dal servizio per diversi motivi. “Dati ancor più sconfortanti se si considera che l’attuale organico è fortemente carente a fronte di carichi di lavoro che non hanno eguale in altre parti d’Italia - denuncia la dottoressa Pasetti - Ho già evidenziato ripetutamente la situazione al ministero della Giustizia per una revisione delle piante organiche, ma invano”. Sul fronte penale incombe una “montagna” di 10.700 procedimenti pendenti e il numero di fascicoli è in continuo aumento: le sentenze di primo grado, infatti, vengono impugnate da tutti (o quasi) confidando nell’imminente paralisi e nella conseguente probabile prescrizione dei reati. Per far fronte all’emergenza la Corte utilizza magistrati in applicazione da altri uffici, con il risultato di sguarnire i Tribunali: “Soltanto grazie alle applicazioni attualmente riusciamo a celebrare i processi con imputati detenuti”. Preoccupante la situazione anche sul fronte civile, dove le “pendenze” sono 14 mila (e altre 3 mila in materia di lavoro). “Negli ultimi due anni siamo riusciti, con notevole sforzo, a ridurre i tempi d’attesa e ora le udienze vengono rinviate al 2014 invece che al 2017, come accadeva in precedenza - dichiara la presidente della Corte - Ma con tutte queste carenze di giudici rischiamo che venga vanificato tutto il gran lavoro fatto. Al Csm chiedo di provvedere al più presto alla copertura dei posti in Corte d’Appello!”. La drammatica situazione sul fronte dei giudici si assomma all’ormai cronica carenza di personale amministrativo, che ha costretto la Corte a ridurre gli orari di apertura al pubblico delle cancellerie: “È una situazione sconfortante - commenta la dottoressa Pasetti. La fattiva collaborazione dell’avvocatura e l’avvio del processo telematico non sono sufficienti a risolvere la gravissima situazione”. Lombardia: bando di Fondazione Cariplo; 1 milione di euro per misure alternative al carcere Vita, 4 novembre 2010 Meno detenuti in carcere più risorse per le misure alternative. È questo il tema dell’incontro in programma lunedì 8 novembre a Milano (ore 11, Sala Tiepolo, Fondazione Cariplo via Manin, 23) durante il quale sarà presentato un nuovo bando. Fondazione Cariplo con Regione Lombardia e Amministrazione Penitenziaria lancia una nuova iniziativa a favore delle organizzazioni non profit che operano nell’area del penale e per le persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria in tre contesti pilota: Milano, Brescia e Como. Il bando avrà due fasi e un budget da 1 milione di euro. Obiettivo: dare un’occasione concreta di inclusione sociale. Alla presentazione nella sede di Fondazione Cariplo interverranno: Giuseppe Guzzetti, presidente Fondazione Cariplo; Davide Invernizzi, direttore Area Servizi alla Persona di Fondazione Cariplo, che farà una presentazione sintetica del bando; Giulio Boscagli, assessore alla Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà Sociale di Regione Lombardia; Luigi Pagano, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia; e Livia Pomodoro, presidente del Tribunale di Milano. Umbria: proposta di legge per ridurre i compensi a Garante dei detenuti e Difensore civico Adnkronos, 4 novembre 2010 Le norme regionali sui garanti dei detenuti e dell’infanzia e sul difensore civico verranno modificate per ridurre i compensi, rivedere le incompatibilità e riorganizzare l’ufficio del Garante per i detenuti, in un’ottica di razionalizzazione della disciplina dei tre organi di garanzia e di contenimento complessivo della spesa pubblica. La riforma è contenuta nella proposta di legge di Oliviero Dottorini e Massimo Monni (presidente e vicepresidente della I Commissione) che l’organismo consiliare ha approvato oggi con 4 voti a favore e 2 “astensioni tecniche” del Pdl. Con l’approvazione della norma in Aula, verrà ridotto il trattamento economico del Garante dei detenuti (la cui indennità mensile sarà pari al 20 per cento dell’indennità mensile lorda spettante ai consiglieri regionali) e del Difensore civico (35 per cento dell’indennità mensile lorda spettante ai consiglieri). Al Garante per l’infanzia e l’adolescenza spetterà il 10 per cento dell’indennità mensile lorda di un consigliere regionale. Bologna: Pd; situazione della Dozza è allarmante, il Governo intervenga subito Dire, 4 novembre 2010 Il Pd chiede un “intervento risolutivo” immediato del Governo sulla situazione del carcere bolognese della Dozza, sposando l’allarme sollevato nei giorni scorsi dai sindacati della Polizia penitenziaria. A sollecitare Palazzo Chigi sono le deputate del Pd Sandra Zampa, Rita Ghedini e Donata Lenzi che in una nota lanciano chiedono anche un coinvolgimento del presidente della commissione giustizia del Senato, Filippo Berselli. “La grave situazione in cui si trova il carcere della Dozza e le allarmanti dichiarazioni di ieri da parte dei sindacati richiedono un intervento tempestivo del Governo, come già più volte il Pd ha chiesto”. Palazzo Chigi deve “affrontare il problema subito - chiedono le deputate - non è ammissibile attendere immobili che le cronache riportino nuovi casi di suicidi o di violenze entro le mura del carcere cittadino” proseguono facendo riferimento al caso del detenuto sloveno di 28 anni che si è tolto la vita venerdì mattina nelle docce. Berselli, chiedono ancora Zampa, Lenzi e Ghedini, “si faccia parte attiva presso il Governo perché siano predisposti interventi risolutivi immediati”. Intanto, il gruppo di Sel - Verdi in Regione Emilia - Romagna fa proprio l’allarme lanciato dai sindacati degli agenti sul carcere minorile del Pratello. In una nota, i consiglieri regionali Gianguido Naldi e Gabriella Meo parlano di “collasso della situazione penitenziaria”, anche a livello nazionale, e chiedono “un forte impegno da parte di tutte le forze politiche”. Naldi e Meo si dicono d’accordo con “le ragioni della manifestazione nazionale Cgil Fp - Polizia Penitenziaria, che vuole denunciare il taglio delle risorse e le limitazioni alla libertà d’espressione dei lavoratori delle strutture di sicurezza”. La preoccupazione di Sel - Verdi è relativa sia al sovraccarico di lavoro a cui sono sottoposti gli agenti penitenziari, sia al rischio che le iniziative di protesta della Polizia penitenziaria possano mettere a rischio le attività trattamentali per i minori del Pratello, in particolare le recite teatrali di fine novembre. “Non si può chiedere al personale di sospendere ferie e permessi, non si possono chiedere straordinari eccessivi - scrivono infatti Naldi e Meo - e insieme a questo non si possono eliminare le attività che possono dare ai detenuti, soprattutto così giovani, la possibilità di affrontare il periodo di pena e reinserirsi in società senza diventare recidivi”. Dal gruppo Sel - Verdi, che sta portando avanti una serie di visite nelle diverse carceri della regione, chiede perciò “un forte impegno da parte di tutte le forze politiche”. Una volta preso atto del “collasso della situazione penitenziaria - mandano a dire Naldi e Meo - occorre pensare a nuovi progetti perché ogni detenuto possa scontare la propria pena senza che gli vengano sospese le possibilità di reinserimento nella società a causa di carenze strutturali e i lavoratori del settore penitenziario possano svolgere i propri compiti in sicurezza e senza rinunciare ai propri diritti”. Bologna: detenuti anti-writer nelle scuole, corso di formazione parte a dicembre Ansa, 4 novembre 2010 Tre mesi circa per imparare a ripulire correttamente i muri da scritte e graffiti, e altrettanti per cancellare quelli lasciati in tre scuole superiori del centro di Bologna. È il tempo del corso di formazione di 300 ore per otto detenuti condannati in via definitiva della Dozza di Bologna, al via da dicembre e fino a giugno. Il progetto anti - degrado, che si chiama “Graffi o graffiti? Percorsi di legalità”, nasce dalla collaborazione tra Provincia di Bologna, tribunale di sorveglianza, carcere di Bologna insieme all’Istituto professionale lavoratori edili (Iple) e al Consorzio europeo per la formazione e addestramento dei lavoratori (Cefal). Il corso ha l’avvallò della Direzione generale per i beni culturali e paesaggistici dell’Emilia - Romagna, anche perché la rimozione dei graffiti sarà fatta nel rispetto delle linee guida contro il vandalismo grafico del ministero per i beni culturali. “Sono linee perfezionabili e modificabili in certi aspetti, ma che devono essere applicate obbligatoriamente in centro”, ha sottolineato Carla Di Francesco, numero uno della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici. A sancire il progetto è stata la firma di un protocollo ad hoc da parte delle varie istituzioni coinvolte. Il protocollo potrà essere esteso ad altri. Le scuole - cantiere saranno scelte in base a necessità ed emergenze, e i detenuti in base ai presupposti giuridici per i permessi e al loro percorso in carcere. Quelli arruolati saranno otto sui circa 400 detenuti definitivi che sono alla Dozza (su circa 1.120 in tutto), e riceveranno un’indennità di frequenza di 3,10 euro all’ora. Il corso costerà complessivamente circa 45 mila euro provenienti dal Fondo sociale europeo, senza alcun aggravio per la Provincia perché verranno usati i soldi già stanziati per progetti di inclusione sociale (circa 270 mila euro tra 2009 - 2010). “La nostra partecipazione non è una risposta contro il fai - da - te nella ripulitura dei graffiti - ha chiarito Di Francesco - ma solo la continuazione della nostra convinzione che gli interventi si devono fare purché appropriati. Insomma ciascuno fa il proprio mestiere e non ci si può improvvisare operai o restauratori”. Teramo: Sinappe; il personale si riduce sempre più e il carcere diventa sovraffollato Corriere Adriatico, 4 novembre 2010 Che fine ha fatto il tanto acclamato piano carceri? E l’annunciata detenzione domiciliare? È quanto si chiede Giampiero Cordoni, segretario regionale del Sinappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, che torna a parlare della situazione del carcere di Castrogno. Una situazione sempre più al limite del sostenibile, con agenti penitenziari che diminuiscono a causa dei numerosi tagli, a fronte di un aumento sconsiderato di detenuti. “Per l’ennesimo anno consecutivo - scrive Cordoni in una nota - abbiamo assistito a quanto effimero sia l’interesse della politica e della cosiddetta società civile. Ancora una volta, a luglio e agosto, abbiamo letto e sentito una quantità incredibile di dichiarazioni di intenti che sono rimasti tali. Fisiologicamente, come tutti gli anni passati, questo asfissiante interesse è cessato ai primi giorni di settembre. Oggi, nella vita di Castrogno, nulla è cambiato”. “La polizia penitenziaria - spiega - continua a impoverirsi nei numeri, a convivere con le difficoltà di tagli di investimenti e con una gestione locale fallimentare. Per quanto riguarda, invece, i detenuti, continua il sovraffollamento nelle sezioni comuni - sex offender e tossicodipendenti. Continua il disinteresse per ogni forma di reinserimento o addirittura per una semplice proiezione di un film o di qualsiasi altra forma di spettacolo. Il vero segnale di attenzione della politica ai problemi del carcere, lo abbiamo vissuto il 15 agosto con la visita del Ministro Rotondi con relativa suocera. Nemmeno Castrogno fosse stato uno zoo con animali rari in gabbia”. Gorizia: Radicali; non vogliamo un carcere più grande, ma cambiare le leggi che lo riempiono Messaggero Veneto, 4 novembre 2010 “Recentemente il direttore Macrì ha reso pubblica l’unica soluzione che intravede per migliorare le condizioni inaccettabili del carcere di Gorizia. La soluzione è: costruire un carcere nuovo e grande. Come Radicali riteniamo questa soluzione poco originale, ma soprattutto inutile perché non ci sono soldi per una spesa del genere”: è quanto afferma Pietro Pipi, dell’associazione radicale goriziana. “E il sovra affollamento, si badi bene, non è il problema, bensì la conseguenza di una legislazione proibizionista che - a suo dire - riempie le carceri di drogati e lascia a spasso i narcotrafficanti. Il dottor Macri si rivolge al Comune per ottenere spazi e concessioni edilizie mentre per l’associazione radicale, con gli stessi soldi richiesti, il Comune, l’Ass e tutte le istituzioni dovrebbero garantire assistenti sociali, educatori, psicologi, mediatori culturali, pene alternative socialmente utili e assistenza sanitaria”. “La massima di Voltaire “se vuoi conoscere un Paese visitane le carceri” vale anche a Gorizia per cui, se vogliamo capire come è messa la città in termini di civiltà bisogna visitare via Barzellini e decidere cosa fare per proporre rimedi radicali e non illusorie soluzioni inefficaci. Un carcere più grande - conclude Pipi - non serve al recupero di chi ha sbagliato ma soltanto a creare nuovi ghetti”. Reggio Calabria: manca personale, cerimonia 4 novembre senza Polizia penitenziaria Agi, 4 novembre 2010 “In questa importante giornata di celebrazioni nazionali dobbiamo esprimere tutto il nostro disappunto per la mancata partecipazione della polizia penitenziaria, a Reggio Calabria, nella giornata dedicata alle Forze Armate e all’Unità Nazionale. Quest’anno, davanti al monumento ai caduti, sul lungomare di Reggio Calabria, diversamente dagli altri anni, mancava lo schieramento della polizia penitenziaria”. È quanto dichiarano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario regionale della Calabria. “La direzione dell’istituto reggino, - spiegano - per carenza di uomini, in quanto impegnati anche nelle traduzioni in Tribunale per le udienze, non ha potuto mandare una rappresentanza del Corpo. La stessa direzione aveva chiesto ai competenti uffici del provveditorato regionale di inviare del personale, ma sembra non abbia ottenuto nessuna risposta positiva. La mancata partecipazione della polizia penitenziaria ad una celebrazione così importante - hanno proseguito Durante e Bellocci - lede sicuramente l’immagine del Corpo. L’episodio è ancora più grave se si considera che è anche frutto del disinteresse di uffici superiori che avrebbero il compito ed il dovere, attraverso il cerimoniale, di garantire la partecipazione di una rappresentanza del Corpo di polizia penitenziaria ad eventi così importanti. Alla cerimonia era invece presente l’Anppe (Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria) che con una delegazione di dieci persone ha partecipato alla celebrazione della giornata dedicata alle Forze Armate e all’Unità Nazionale. Ciò, però, non diminuisce le responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria. La casa circondariale di Reggio Calabria - spiegano i dirigenti del Sappe - ha una carenza di uomini di circa 50 unità. Mancano anche le donne da impiegare nella sezione femminile. A tal proposito, su richiesta del Sappe, il Dipartimento emanerà a breve un interpello nazionale per l’invio di personale femminile nell’istituto reggino”. Milano: serata con Aldo Giovanni e Giacomo nel carcere di Opera di Elisabetta Paseggini La Repubblica, 4 novembre 2010 Che ci fanno Aldo, Giovanni e Giacomo dietro le sbarre, nel carcere di Opera, alle porte di Milano? Finzione e realtà. Nella finzione, il trio comico più famoso d’Italia è arrivato qui nelle scene del film “La banda dei babbi di Natale”, la pellicola di Paolo Veronese che arriverà nelle sale a Natale. Nella realtà, invece, i tre sono venuti davvero in questo istituto di detenzione per un’operazione molto particolare. Per la precisione, ad assistere allo spettacolo “Lettura e Umorismo”, tratto dal laboratorio “Leggere libera - mente”, gruppo di scrittura creativa sull’umorismo che ha lo scopo di mettere in scena un vero spettacolo comico. Questo laboratorio si basa sui principi della biblioterapia, termine coniato dallo psichiatra William Menninger che sta a significare “cura attraverso la lettura”. Ma procediamo con calma. La casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano, è la maggiore delle 225 carceri italiane (e d’Europa) con 1.400 detenuti, di cui 1.300 con condanne definitive. Qui risiedono ex boss mafiosi e serial killer dai nomi celebri. Il primo impatto è straniante: accompagnati dagli agenti di custodia, entriamo nella sala del teatro e l’unica cosa che ci distingue dai carcerati è un cartellino al collo con la scritta “ospiti”. Poi succede una cosa strana: improvvisamente, veniamo travolti da un applauso fragoroso. Il battimani è per Aldo, Giovanni e Giacomo, seduti in prima fila. Il trio comico, si è prestato generosamente per incoraggiare e sostenere il progetto. Non solo: i tre regalano anche un’interpretazione dello schetch “viaggio a Pizzo Calabro”, tratto da “Tel chi el telun” spettacolo del 1999, ancor’oggi attualissimo e graffiante. Poi inizia lo show dei detenuti. Siamo seduti nel teatro - cinema. Strano a dirsi ma non si prova nessun brivido restando accanto a loro. Tutti sembrano ragazzi riuniti per uno spettacolo di fine anno scolastico. E, in effetti, un po’ è così. Da oltre 15 anni, infatti, un gruppo ristretto di detenuti si incontra settimanalmente per confrontarsi su libri, condividere racconti, poesie e per discutere sui benefici della lettura, sotto la guida della Dr.ssa Barbara Rossi, psicologa e psicoterapeuta. Trascorriamo due ore molto interessanti e si fanno anche molte risate. Dopo lo spettacolo scambiamo qualche battuta con Aldo e Giovanni. Perché avete scelto di essere qui? “Siamo intervenuti a Opera perché contattati dal gruppo che lavora su lettura e umorismo. Oltre all’operazione molto interessante, eravamo curiosi di conoscere l’ambiente teatrale carcerario perché il nostro prossimo film ci vedrà, se pur temporaneamente, dietro le sbarre” Ci hanno detto che avete fatto una mezza promessa ai detenuti: presentare qui in anteprima il vostro nuovo film... “È vero. Ci impegneremo per organizzare l’operazione. Ci vogliono molti permessi, controlli... Se ci riusciremo ne saremmo veramente felici!” Libri: “Di giustizia e non di vendetta”, di Livio Ferrari (Edizioni Gruppo Abele) www.gruppoabele.org, 4 novembre 2010 Esce oggi per le Edizioni Gruppo Abele “Di giustizia e non di vendetta” di Livio Ferrari, fondatore e direttore del Centro francescano di ascolto di Rovigo. Un’analisi della condizione delle carceri italiane viste da chi si spende da anni per i diritti delle persone detenute. Le storie, i dubbi e le proposte affinché la detenzione torni ad essere uno strumento di rieducazione e non di punizione. Abbiamo intervistato l’autore. Il tuo libro nasce dall’esperienza personale di volontariato nelle carceri italiane e dal tuo impegno per i diritti dei detenuti. Eppure proprio sul mondo del volontariato in carcere sollevi una serie di obiezioni... Il volontariato in carcere oggi troppo spesso limita ad una funzione “missionaria” la propria presenza al fianco del detenuto. Ne accoglie i tormenti e le difficoltà, e spesso provvede anche alle sue esigenze materiali, come gli indumenti, supplendo a un servizio che dovrebbe assicurare lo Stato. Ma proprio così finisce, suo malgrado, per diventare un “sedativo” delle tensioni e delle violenze del carcere, per “narcotizzare” il sentimento di ribellione che tutti dovremmo provare per le condizioni disumane in cui versano i detenuti in Italia: centocinquanta morti da inizio anno, oltre cinquanta suicidi. Quando nel 1998 fondammo la “Conferenza nazionale volontariato e giustizia” lo facemmo con l’obiettivo di avere un ruolo politico e sindacale sul tema del carcere e della giustizia in Italia, e furono firmati due importanti protocolli con il Ministero della Giustizia sui temi della detenzione minorile e delle misure alternative. Successivamente, però, la voce delle associazioni di volontariato si è fatta sentire sempre meno, proprio oggi che è più necessario denunciare. Nelle carceri italiane, sovraffollate, le celle si riempiono di persone povere e fragili - in gran parte immigrate e tossicodipendenti - che spesso scontano pene per reati di lieve entità. Come si è arrivati a questo punto? La globalizzazione, con il suo consumismo e le sue disuguaglianze economiche e sociali lascia fatalmente indietro le persone più fragili. Chi sta ai margini diventa invisibile, o reso tale dalla reclusione. È la logica coltivata da una politica più attenta al penale che al sociale. Lo dimostrano, tra le altre cose, le tante ordinanze che si accaniscono sulle persone più fragili col pretesto del “decoro” delle città. Poi certo ci sono leggi che contribuiscono a riempire il carcere di persone che vivono ai margini, come la Bossi - Fini e il “pacchetto sicurezza” per le persone migranti e la Fini - Giovanardi per le persone tossicodipendenti. Tutto questo, unito alla scarsa applicazione delle misure alternative al carcere, ci ha portato alla situazione attuale. Il carcere in Italia è sempre più inteso come una punizione per chi ha commesso un reato anziché un luogo di riabilitazione, come prevede la Costituzione. Come invertire la tendenza? Un primo nodo da affrontare è quello dei “giovani - adulti” in carcere. L’attuale ordinamento penitenziario prevede sezioni speciali per i giovani dai 18 ai 23 - 25 anni, affinché il loro percorso detentivo sia finalizzato alla formazione e alla possibilità, finita la pena, di una vita diversa. Queste sezioni però non ci sono, e dove esistono si riducono a mere divisioni di spazi fisici, mentre sarebbero necessari progetti specifici, integrati con il dipartimento di giustizia minorile. L’altro nodo è quello delle misure alternative al carcere, che spesso vengono concesse solo a chi ha disponibilità economiche per difendersi con maggiore efficacia in sede processuale. Un fronte ulteriore su cui impegnarsi è quello dei detenuti extracomunitari: quando irregolarmente presenti sul territorio, al termine della pena vengono allontanati, vanificando l’obiettivo di rieducazione e reinserimento sociale previsto dalla nostra Costituzione. Per consentire a queste persone di costruire un percorso di integrazione, sarebbe necessario garantire, dopo la pena, un permesso di soggiorno temporaneo: solo così permettiamo all’ex - detenuto di ricominciare una nuova vita nel Paese in cui nel frattempo ha instaurato dei rapporti e messo radici. Libri: “Giustizia. La parola ai magistrati. Pena e carcere”, di Carlo Renoldi www.agoravox.it, 4 novembre 2010 Il ritrovato vigore del governo con il caso Ruby, spinge a continuare l’esame dei vari saggi di cui si compone “Giustizia. La parola ai magistrati”, coordinato da Livio Pepino, ex Presidente di Magistratura Democratica, in modo da essere al meglio pronti quando la riforma della Giustizia vedrà la luce e sarà oggetto delle decisioni del Parlamento. Quest’oggi il vostro cronista vi parlerà del capitolo “Pena e carcere” di Carlo Renoldi, appartenente per l’appunto alla Magistratura di Sorveglianza. Non aspettatevi un testo barboso e difficile da digerire: il dottor Renoldi ha una facilità di scrittura incredibile e non gli manca certo l’attitudine ad approfondire l’argomento, facendo dei paragoni illuminanti fra quello che è avvenuto nel nostro Paese e quello che, contemporaneamente, è avvenuto altrove. Anche questo, un testo da proporre senza indugio nelle nostre scuole - sempre che qualcuno abbia veramente a cuore la cultura civica dei nostri ragazzi. Di pene si occupa il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Questo, però, non è il punto di partenza del dottor Renoldi, bensì un punto di transito a partire dalle comunità arcaiche, dove regola religiosa e regola giuridica si sovrapponevano, così da far coincidere peccato e reato alle novità della cultura illuminista, quella che vide anche il nostro Cesare Beccaria scrivere Dei delitti e delle pene e ancora, passando attraverso le esperienze della work houses inglesi e il modello disciplinare dello Stato liberale ottocentesco, che ritroviamo nell’Italia dello Statuto Albertino sino allo Stato sociale di diritto, grande scommessa della nostra Carta costituzionale ed alla sua attuazione. Il punto fondamentale delle previsioni di quest’ultima è la rieducazione del condannato, che ha portato la legge n. 354 del 1975, detta legge penitenziaria, a basare proprio sul trattamento rieducativo del detenuto l’edificio carcerario. Accanto alla detenzione, troviamo le misure alternative e, precisamente l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento in casi particolari, la detenzione domiciliare e la semilibertà. Il loro obiettivo è sempre quello del reinserimento sociale del condannato ed i numeri riportati dal dottor Renoldi danno loro ragione in maniera eclatante: dal 1998 al 2005, secondo uno studio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, i soggetti sottoposti all’affidamento sociale sono tornati a commettere reati nella percentuale del 19 %, mentre la percentuale per i detenuti sottoposti a carcerazione la media è stata del 68,45 %. Purtroppo la farraginosa normativa esistente ha più volte compresso la possibilità di applicazione delle misure alternative nelle sue periodiche oscillazioni verso misure demagogiche, volte esclusivamente a rassicurare l’opinione pubblica, timorosa dell’attività criminale, senza costrutto alcuno e con il risultato di ottenere un sovraffollamento delle carceri tale da aver fatto venir meno, per la reclusione in esse, il divieto costituzionale di trattamenti contrari al senso di umanità. Oggi si assiste ad un vero e proprio stillicidio di morti violente in carcere, sovente per suicidio. Quale pena per il prossimo futuro, si chiede nella conclusione l’autore. La riposta è: una pena come strumento rivolto al recupero sociale all’interno di un disegno complessivo che assicuri al diritto una funzione promozionale e inclusiva. Il vostro cronista si permette di aggiungere che, a suo avviso, nell’attesa di una organica risistemazione anche strutturale del sistema penitenziale del nostro Paese, misure immediate dovrebbero essere adottate per evitare l’attuale affollamento delle carceri: solo in un secondo momento sarà possibile ragionare su una riforma organica del sistema. Cosa pensa di tutto questo il legislatore della riforma della Giustizia prossima ventura siamo in tanti in attesa di saperlo. Libri: “La frontiera addosso”, di Luca Rastello (Edizioni Laterza) La Stampa, 4 novembre 2010 Ci sono guerre a bassa intensità che si combattono alla periferia dei Paesi in cui la guerra, come sognava Moravia, è stata da tempo trasformata in un tabù. Come definire altrimenti il conflitto quotidiano tra le orde di disperati all’arrembaggio del sogno occidentale e l’Europa blindatissima per difendere la sua sostenibilità? Se lo chiede il giornalista Luca Rastello che nel saggio “La frontiera addosso”, appena pubblicato da Laterza, calcola il numero delle vittime certe cadute nell’estremo assedio al Vecchio Continente, almeno 16 mila negli ultimi dieci anni, oltre quattro al giorno: un bilancio da trincea. “Si tratta di persone che non hanno mai raggiunto terra e di cui non sappiamo nulla, immigrati in cerca di lavoro ma anche potenziali richiedenti asilo” spiega Rastello. Pur ricostruendo storia e storiografìa degli ultimi sbarchi sulla sponda più fortunata del Mediterraneo, dalle Canarie alla Grecia, il libro si concentra sui rifugiati, coloro che in base alla Convenzione di Ginevra del 1951 necessiterebbero più di altri della protezione internazionale perché fuggono da persecuzioni o carneficine vere e proprie. Sono loro, sostiene l’autore, “a mettere in evidenza le contraddizioni giuridiche di una legge che blocca alla frontiera europea un diritto fondamentale”. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite Unhcr alla fine del 2008 l’Italia ospitava circa 47 mila rifugiati, uno ogni 1300 abitanti. Tanti? Pochi? Ma soprattutto: come si quantifica il bisogno? La ventitreenne nigeriana Happy pensava che fosse sufficiente raccontare la sua storia e mostrare la cicatrice sul volto triste. Nata a Kano da una famiglia cristiana, Happy arriva nel nostro Paese nel 2003 attraverso l’Algeria dopo essere scampata agli scontri con i musulmani in cui hanno perso la vita il padre, pastore della chiesa locale, e la madre. La Commissione territoriale italiana incaricata di esaminare il suo caso le domanda se in patria avrebbe modo di mantenersi e lei, contando di guadagnare punti, fa cenno di no con la testa. Risposta sbagliata: scivolando sul lavoro, Happy si qualifica come “migrante economico” e in una manciata di minuti la sua richiesta di protezione viene scartata. Eppure la discriminazione religiosa basterebbe eccome, tanto che la dichiarata conversione al cattolicesimo di Ruby, la cubista marocchina al centro del nuovo scandalo del premier Berlusconi, suona ai maligni come un’abile candidatura al permesso di soggiorno umanitario. “La Convenzione di Ginevra parla di persecuzione individuale ma un uomo che scappa dal terremoto in cui ha perso tutto è un migrante economico o un potenziale rifugiato? Difficile spiegarlo a degli estranei in un colloquio lampo da cui dipende la tua vita” insiste Rastelli. Quando lo scorso luglio 250 eritrei finirono nella prigione di Braq, nel deserto libico, dopo essere stati respinti dalle nostre coste e consegnati a Gheddafi, in virtù degli accordi bilaterali per contrastare l’immigrazione clandestina, intervenne addirittura l’Onu: profughi da un Paese ignaro di pace, i 250 avrebbero avuto pieno diritto all’asilo se solo fossero sbarcati in Sicilia. Il trucco è non lasciare che mettano piede a terra. A vigilare sulla fortezza Europa ci pensa la Frontex, l’agenzia di Bruxelles incaricata di presidiare le frontiere attraverso reparti speciali e Intelligence. Basta fare un giro sul confine di Ceuta, l’avamposto spagnolo in territorio marocchino, per capire che Gaza non è l’unica prigione occidentale a cielo aperto. Dal punto di vista militare la tattica è ineccepibile: nei primi tre mesi del 2010 gli sbarchi sono stati 150 contro i 5200 del 2009 e i tanti che ancora entrano regolarmente sfruttando il visto turistico devono comunque ingegnarsi a rimediare un invito. Ma la strategia? Le migrazioni non si fermeranno, ammoniscono gli esperti. “La frontiera addosso” sembra allora un duplice destino: quello di chi attraversandola per disperazione “non se la toglie più di dosso” e il nostro, quello degli assediati, condannati specularmente alla precarietà dei poveracci da cui ci difendiamo come i protagonisti del film No Man‘s Land. Cinema: “È tuo il mio ultimo respiro?”, un documentario contro la pena di morte Il Messaggero, 4 novembre 2010 Comprendere i fatti che hanno condotto al movimento globale in favore dell’abolizione della pena di morte e, attraverso interviste, dati e anche immagini forti, far riflettere sull’uso della pena capitale, quale forma di punizione ritenuta da molti paesi del mondo giusta. È questo l’obiettivo del documentario “È tuo il mio ultimo respiro?”, realizzato dal regista Claudio Serughetti, in collaborazione con l’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Il film, della durata di 74 minuti, è stato presentato all’Auditorium Parco della Musica. “Iniziative come queste - ha detto il presidente della provincia di Roma, Nicola Zingaretti - sono importanti. Non dobbiamo pensare che una singola persona non possa fare niente contro la pena di morte, le cose cambiano se sono le persone a volerlo”. Il sottosegretario alla cultura Francesco Giro, sì è definito un “eretico: parlare della lotta alla pena di morte non è mai conformismo politico perché la storia l’ha sempre giustificata e io sono lieto di distinguermi da valori così obsoleti”. Francia: caso Franceschi; giudice dispone ricerca diario e nuovi interrogatori Ansa, 4 novembre 2010 Il giudice istruttore francese Sandrine Andrè, che segue il caso di Daniele Franceschi, il viareggino morto il 25 agosto scorso a 36 anni nel carcere di Grasse, ha impartito alla polizia giudiziaria istruzioni per cercare il diario e altri scritti dell’uomo. Lo riferiscono gli avvocati della famiglia Franceschi, Maria Grazia Menozzi e Aldo Lasagna, aggiungendo che lo stesso giudice ha incaricato la polizia di interrogare dirigenti e personale di custodia più membri dello staff sanitario del carcere, cioè medici e infermieri intervenuti quando Daniele Franceschi si sentì male e poi morì. Gli avvocati ne hanno parlato dopo l’interrogatorio in cui stamani il giudice Andrè ha sentito la madre del detenuto, Cira Antignano, ascoltata come persona offesa. Il giudice istruttore di Grasse deve stabilire le cause della morte di Franceschi e decidere se incriminare o no gli eventuali, presunti responsabili del suo decesso. Daniele Franceschi era in carcere perché accusato di aver usato una carta di credito falsa. “Il giudice Sandrine Andrè ha chiesto alla madre che impressioni aveva avuto sulla condizione del figlio in carcere e se sapeva che cosa contenesse il diario, se vi fossero contenute confidenze personali o ancora altro - hanno detto i legali - A questo proposito il magistrato ha detto di aver ordinato nuove ed immediate ricerche, anche da farsi nella cella e nel carcere, per rintracciare il diario ed altri effetti personali”. Sempre dall’interrogatorio è emerso che sono stati posti sotto sequestro strumenti sanitari usati durante il soccorso al detenuto. Tra questi - riportano sempre i legali - un defibrillatore, che addirittura sarebbe andato in tilt nella circostanza del soccorso e che uno degli infermieri peraltro non avrebbe utilizzato in modo idoneo. Cira Antignano è stata sentita due ore. La donna era accompagnata da quattro avvocati, i due italiani e altri due francesi, i quali hanno chiesto che fosse verbalizzata la sua richiesta affinché le autorità transalpine conservino adeguatamente gli organi prelevati dal corpo del detenuto. Ciò, è stato spiegato, in modo da consentire al medico legale incaricato dalla famiglia di svolgere al meglio l’autopsia. Iran: Emma Bonino; la vita di Sakineh resta in pericolo, non fermiamo la protesta” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 4 novembre 2010 In un mondo globale non c’è nessuno che possa chiudere i “confini”: anche regimi autoritari, come quello iraniano, devono tener conto della pressione e delle proteste internazionali. Occorre non mollare la presa. Non solo perché la vita di Sakineh è ancora in pericolo, ma anche perché non bisogna dimenticare le migliaia di “Sakineh” che rischiano la pena capitale nel mondo. Per loro, per Sakinek come per Tareq Aziz, la via da battere, la battaglia da portare avanti con la massima determinazione è quella dell’estensione della moratoria sulla pena di morte”. A sostenerlo è Emma Bonino, vice presidente del Senato e leader radicale. La condanna a morte di Sakineh Mohammadi Ashtiani non è stata eseguita. Le pressioni internazionali hanno dunque sortito effetto? “Direi di sì. E questo è una indicazione importante che va oltre il caso specifico: significa che in un mondo globale è possibile influenzare anche i regimi più chiusi, autoritari. Le nostre azioni possono incidere. La mobilitazione deve proseguire perché la vita di Sakineh è ancora in pericolo...”. Cosa dovrebbero fare le grandi democrazie per supportare questa pressione? “Partiamo da ciò che non dovrebbero fare. Non dovrebbero offrire pretesti alle dittature...”. A cosa si riferisce in particolare? “Penso al discorso di Ahmadinejad all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quando, rivolto agli Stati Uniti, ha affermato che non poteva dare lezioni chi aveva condannato a morte ed eseguito la pena una minorata mentale, Teresa Lewis. Certo, Ahmadinejad ha usato strumentalmente questa tragica vicenda, ma è indubbio che questo vulnus esiste e riconoscerlo ci porta ad una considerazione generale...”. Quale? “Rilanciare con forza la battaglia di civiltà per la moratoria totale della pena di morte. Ogni caso ha una sua storia, ciò vale per Sakineh come per Tareq Aziz, ma è altrettanto vero che essi ci rimandano ad una questione più generale che come tale va affrontata, anche in nome e per conto delle migliaia di “Sakineh” o di “Aziz” condannati nel mondo alla pena capitale. Sappiamo bene che la strada della moratoria è difficile, piena di ostacoli, ma è quella giusta. C’è da lavorare e tanto perché siano sempre di più i Paesi che dichiarino la moratoria, perché la loro adesione alla moratoria può condizionarne altri. Infine, penso che per questa battaglia di civiltà potrebbe dare un grande contributo il Segretario generale delle Nazioni Unite...”. Quale sarebbe questo contributo? “La nomina di un inviato speciale, di alto rango, per la promozione della moratoria sulla pena di morte”. Vorrei tornare sull’Iran. il modo per contrastare il regime di Teheran - afferma la scrittrice iraniana Azar Natisi - sarebbe quello di impedire ad Ahmadinejad di parlare nei consessi internazionali, legare le sanzioni ai diritti umani più che al nucleare e continuare ad essere vicini agli iraniani… “Sono assolutamente d’accordo a focalizzare l’attenzione della comunità internazionale sui diritti umani e civili più ancora che sul nucleare, come peraltro ci chiede da tempo, inascoltata, Shirin Ebadi. Non credo invece che sia praticabile la strada dell’impedire ad Ahmadinejad di parlare in consessi internazionali. Non credo che sia possibile al capo di uno Stato di parlare, a meno che non si decida di espellere quello Stato dalle Nazioni Unite. Quanti Stati dovrebbero essere espulsi? Fonderemo allora la “Comunità delle democrazie”, cosa alquanto affascinante ma di scarsa praticabilità...”. Continuare ad essere vicini agli iraniani, chiede Azar Nafisi... “È una richiesta che va accolta e praticata con continuità e determinazione. Come sta cercando di fare “Non c’è pace senza giustizia”. È importante rafforzare gli scambi culturali, tra Università, anche su temi che non superino la “linea rossa”, non lasciando le relazioni solo fra Stati o potentati economici, allargandole invece alla società civile. Un dialogo dal basso che può portare a concrete aperture”.