Giustizia: intervista a Luciano Eusebi; non è con il carcere che si riducono i reati di Ilaria Sesana Avvenire, 2 novembre 2010 Eusebi: una pena eseguita in libertà riabilita E rispetto alla detenzione costa un quinto. “Il carcere deve essere l’extrema ratio. Una soluzione da adottare nei casi in cui c’è il pericolo della ripetizione di reati gravi o se c’è un legame con le organizzazioni criminali. Anche perché far leva sul carcere incide poco sui tassi di criminalità e non produce reinserimento sociale”. Superare la centralità della detenzione “ma non solo per umanitarismo”, precisa Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nell’università Cattolica di Milano, che ha affrontato questi temi nel documento dell’associazione Scienza&Vita, dove si sollecita a “introdurre pene non detentive e avviare procedure riparative”. “Il carcere, inoltre, ha costi molto alti e la società dà per scontato che debbano essere tollerati. Pochi però sanno che una pena eseguita in libertà costa circa un quinto rispetto a una pena detentiva “. Ma per raggiungere questo scopo è necessario investire su una prevenzione che “sia vera e non solo di facciata”: neutralizzando i fattori che favoriscono le scelte criminose (come i paradisi bancari o l’infedeltà fiscale), incidendo sugli interessi economici alla base delle condotte criminali (con la confisca dei profitti illeciti), spiegando che la prevenzione non dipende dal timore, bensì dalla capacità di tenere elevata l’autorevolezza delle norme (e nulla la rafforza maggiormente dell’avvenuto recupero del trasgressore). “Però promettere la costruzione di tre nuove carceri porta consenso elettorale, al contrario impegnarsi nell’assunzione di 100 educatori che lavorino nell’esecuzione della pena - puntualizza Eusebi - viene visto come uno spreco. Occorre superare questa visione o non si va da nessuna parte”. Perché non è sufficiente costruire nuove prigioni per affrontare l’emergenza-carcere? Perché la dilatazione dei posti non risponde a esigenze preventive, ma continua a presentare all’opinione pubblica un modello inefficiente e che colpisce soprattutto fasce di condannati che vengono da gravi condizioni di emarginazione: mentre il diritto penale resta di fatto pletorico, proprio perché incentrato sulla sola pena detentiva, nell’ambito dei reati economici. Occorre fare un passo in più. Quale? Lavorare sulla prevenzione reale. Oltre a quanto s’è detto, occorrono servizi sociali che sappiano intercettare situazioni di disagio esistenziale le quali, talvolta, sfociano in omicidi efferati ma assai poco contrastabili con la minaccia della pena. Professore, se il carcere deve rappresentare l’extrema ratio, quali possono essere le alternative alla detenzione? Da un lato sanzioni di tipo monetario commisurate alla capacità economica, sanzioni interdittive, ma anche la generalizzazione della responsabilità per reato degli enti giuridici. Dall’altro lato percorsi riabilitativi seriamente seguiti e tutto il filone, oggi poco attuato, della giustizia riparativa: che rimette al centro il rapporto infranto con la società e la vittima. Cosa intende con giustizia riparativa? Pensiamo a un istituto diffuso in vari paesi: l’imputato, entro una certa fase delle indagini, può fare una proposta riparativa al giudice, non coincidente col risarcimento del danno. Se il giudice la considera adeguata il processo si chiude ottenendo così risultati importanti: l’autore del reato ha riconosciuto la propria responsabilità, la vittima è soddisfatta e l’autorevolezza della norma è stata ristabilita in tempi brevi. In Italia è già possibile ricorrere a strumenti simili? È senza dubbio positiva l’esperienza della “messa alla prova” in ambito minorile, che può durare fino a tre anni e, se superata, consente l’estinzione del reato. Nel medesimo ambito è di grande interesse l’apertura alla “mediazione penale”: il giudice invita l’imputato e la parte offesa a presentarsi a un ufficio di mediazione; i mediatori, poi, preparano imputato e vittima all’incontro. In questo modo torna possibile rielaborare i fatti secondo verità, rimettere al centro la persona offesa, costruire un percorso ripartivo, del quale il giudice potrà tenere conto. La mediazione penale, quindi, chiama in causa anche le vittime dei reati? Chi ha subito un reato non chiede, nel profondo, ritorsione. Chiede, da un lato, la verità e il riconoscimento che quanto accaduto è stato un’ingiustizia, dall’altro che ciò serva affinché non si ripeta in futuro. Se la giustizia si riduce a una bilancia che riproduce negli anni della pena la negatività del reato, la vittima resta sola nel suo dolore, senza aver avuto modo di rielaborarlo. Abbiamo bisogno di modalità sanzionatorie che cerchino di gettare un ponte sopra la frattura che quel reato ha prodotto e che nessuna pena potrà mai colmare. Giustizia: Graziano è morto di dolore e di mancata assistenza di Ilaria Sesana Avvenire, 2 novembre 2010 Detenuto a Padova, aveva chiesto una risonanza a causa di un forte mal di schiena (sarà diagnosticato un tumore al polmone). Il padre: non gli concessero neppure una visita. Graziano Scialpi, 48 anni, è morto per un tumore al polmone lo scorso 14 ottobre. Una storia apparentemente come tante, se non fosse che Graziano era detenuto al Due Palazzi di Padova e che, per troppi mesi, gli sono state negate le cure e la possibilità di sottoporsi a un esame medico. “Dallo scorso novembre mio figlio chiedeva di fare una risonanza magnetica per capire la natura del fortissimo mal di schiena racconta il padre, Vittorio Scialpi - ma nessuno gli ha mai permesso di fare una visita. Lo hanno tenuto dentro finché una notte lo hanno trovato paralizzato”. La risonanza magnetica viene prescritta solo nel marzo 2010 ma Graziano viene accompagnato in ospedale il giorno sbagliato e l’appuntamento salta. Il ricovero arriva il 24 agosto quando non riesce più a muovere le gambe. Ci sono voluti dieci mesi per convincere i medici che non stava fingendo e un mese dopo il ricovero, la morte. “Non sappiamo se sia giusto dire che è “morto di malattia”“ è il commento di Ristretti Orizzonti, rivista del penitenziario di Padova, con cui Scialpi collaborava. “Perché ha sofferto tanto? Era davvero inevitabile? Perché il ricovero solo quando il male lo costringeva a notti insonni con la paura di diventare matto dal dolore?”. Il concetto di simulazione “è inaccettabile”, taglia corto Fabio Gui, segretario generale del Forum salute penitenziaria. “In carcere la maggior parte dei malati soffre veramente. Le strutture penitenziarie hanno una domanda di salute molto alta, anche perché ospitano prevalentemente persone disagiate”. Lavorare in questo contesto è difficile, ma “in questa situazione - conclude Gui - le sentinelle devono stare particolarmente all’erta”. Strumentazioni obsolete, sovraffollamento e lunghi tempi d’attesa rappresentano un’eredità pesante per la riforma della sanità penitenziaria, sottolinea Gui. Con il Dpcm del 1° aprile 2008, infatti, la responsabilità della salute dei detenuti è stata trasferita dal ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale. L’obiettivo: garantire ai detenuti parità di trattamento e assistenza sanitaria con chi si trova in libertà. Fulcro della riforma, la prevenzione attraverso il monitoraggio delle condizioni di salute dei reclusi. “Con la riforma si mette al centro il concetto di salute, non quello di sicurezza - conclude Gui. Un processo faticoso, che può richiedere anni. Proprio per questo oggi è importante incoraggiare e sostenere la riforma”. Giustizia: altre tre morti sospette a Regina Coeli, in prigione troppe vittime invisibili di Luigi Carletti La Repubblica, 2 novembre 2010 Marko, Paolo e Mija, le famiglie accusano: erano stranieri, decessi archiviati. Pregiudicati, tossici, malviventi di mezza tacca originari della ex Jugoslavia. Il compagno di cella di Hadzovic: “Era malconcio, mi dissero che era caduto dalle scale”. Nelle prigioni italiane muoiono ogni anno 150 detenuti. Un terzo per “cause oscure”. Ma l’elenco delle morti sospette è destinato a salire. Nel conteggio complessivo mancano gli “invisibili”. Gli “invisibili” sono quei detenuti stranieri il cui decesso si riassume in un certificato e in una sommaria ricostruzione dei fatti destinata alla burocrazia. Quei morti vengono inghiottiti dal buco nero dell’indifferenza. A Regina Coeli, il carcere romano già al centro di inchieste per i casi Cucchi e La Penna, gli “invisibili” finiti nel nulla sono tre. Due sono morti in cella, un terzo nel carcere di Augusta (Siracusa), ma la famiglia da tempo aveva chiesto un intervento alla procura di Roma per indagare sui ripetuti maltrattamenti che il giovane avrebbe subito ben prima del suo trasferimento in Sicilia. Marko Hadzovic, Paolo Iovanovic, Mija Diordevic. Cittadini originari della ex-Jugoslavia, abituati a sopravvivere ai margini. Pregiudicati, tossici, malviventi di mezza tacca. Tre “clienti” abituali delle prigioni italiane. Erano considerati scarti della società. Adesso sono morti e nessuno, a parte le famiglie e qualche amico, si impegna per sapere come. E perché. E se ci sono responsabilità nel comportamento di chi, in funzione del proprio ruolo, e nel rispetto delle leggi, avrebbe dovuto sorvegliarli ma anche proteggerli. Eppure i loro casi, proprio perché opachi e facili da archiviare, sembrano gettare nuove ombre sul nostro sistema carcerario, e nel caso specifico su Regina Coeli. Sembrano dire che le vicende ben più note di Stefano Cucchi e di Simone La Penna non sono eventi eccezionali. Questo sembrano dire le storie degli “invisibili”. Storie delle quali nessuno finora ha mai parlato ma che Repubblica è in grado di ricostruire. Marko Hadzovic, 32 anni, è morto in prigione ad Augusta (Siracusa) il primo marzo scorso. Vi era arrivato da Regina Coeli passando per Viterbo e Rossano Calabro. Un tour carcerario non usuale per un piccolo rapinatore che doveva scontare pene cumulative per nove anni. Era stato arrestato a Roma perché insieme al suo complice minorenne, armati di taglierino, aggredivano le donne sole in macchina, le picchiavano e le derubavano. Un reato odioso il cui effetto sulla generale sensazione di insicurezza era devastante. Quando Hadzovic fu arrestato, il tam-tam carcerario diffuse la voce che tra le vittime dei suoi colpi vi fosse stata anche la congiunta di un uomo delle forze dell’ordine. Questo, all’interno dell’istituto di pena, avrebbe aggravato - e non poco - la sua situazione. Alex H., ladro di rame, era a Regina Coeli nello stesso periodo. Racconta a Repubblica: “Ho incontrato Marko Hadzovic nel settimo braccio. Gli facevano portare il vitto. Non si doveva parlare con lui, era considerato peggio di un “infame”. Mi sembrò un po’ malconcio. Per noi stranieri è sempre più dura che per gli altri. Con qualcuno esagerano proprio. Di Marko mi dissero che era caduto dalle scale”. La famiglia di Hadzovic, attraverso i suoi legali, si era rivolta al Garante dei detenuti e cercò di interessare la magistratura. “E’ stato legato, bastonato, gettato per terra” scriverà in una memoria. Queste, e molte altre accuse, non trovarono però uno sbocco d’indagine. Nel frattempo Hadzovic venne trasferito nelle altre carceri. Ad Augusta il primo marzo scorso è morto. La procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta per omicidio. Paolo Jovanovic viene fermato dai carabinieri il 17 marzo del 2007 e portato a Regina Coeli. Ha 27 anni. È accusato di ricettazione, è un tossicodipendente frequentemente in crisi. Uscirà dal carcere il 22, ormai privo di vita. Nei cinque giorni di detenzione è stato curato con il metadone per astinenza da eroina. Lo psichiatra consiglia la sorveglianza in cella di isolamento con prescrizione di psicofarmaci. La sera del 22 marzo, intorno alle 20,30, il personale carcerario va da Jovanovic per somministrargli la terapia. Secondo quanto dichiarato nei documenti ufficiali, lui non risponde e nessuno lo sveglia. Alle 22,50 il personale procede alla conta numerica dei detenuti. Jovanovic continua a non rispondere. Non può, perché sta morendo. Si tenta un soccorso estremo con rianimazione e defibrillazione. Gli amici di Jovanovic, che sul caso hanno costruito un dossier, ritengono che l’intervento fu tardivo e inutile. “A quel punto era già morto”, dicono. Il detenuto viene trasportato in ospedale e lì risulterà essere deceduto alle 23,46. Nel dossier, che sostiene la necessità di un’indagine, sono elencate le numerose perplessità legate ai farmaci utilizzati e alle modalità di detenzione. Mija Diordevic viene arrestato nel 2008. Ha quarant’anni. È un pluripregiudicato, un soggetto difficile che fa uso di droga. In cella viene “gestito” con il valium. Secondo la famiglia, Mija si sente male di stomaco, il valium lo ha talmente stordito che non riesce a respirare. Muore in cella soffocato dal vomito. Nessuno ne parla. È un altro “invisibile” da archiviare al più presto. La procura apre un fascicolo per gli accertamenti di rito. Il risultato a cui si approda è che non si ravvisa alcun reato. La famiglia, difesa dall’avvocato Luca Santini, dà il via a una causa civile contro il ministero della Giustizia e l’Asl. La tesi è che ci sia stata negligenza e che il cittadino-recluso Mija Diordevic sia stato abbandonato a se stesso. Giustizia: Palombarini (Md); una proposta per un provvedimento urgente di amnistia Ansa, 2 novembre 2010 Serve una “proposta forte per un provvedimento urgente di amnistia”: è il procuratore generale aggiunto della Cassazione Giovanni Palombarini, a chiedere a Magistratura democratica, la corrente di cui egli stesso è uno degli esponenti di punta, di farsi portavoce di questa esigenza, viste le condizioni di sovraffollamento delle carceri. E di aprire subito a questo scopo un dibattito sulle ragioni del sempre maggior ricorso al carcere come risposta ai problemi sociali. Una discussione in cui, secondo Palombarini, vanno coinvolti vari soggetti, non solo della società civile,ma anche la Cgil e il leader di Sel Nichi Vendola. Giustizia: Osapp; una giornata per ricordare ogni anno le “morti nelle carceri” Ansa, 2 novembre 2010 L’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria, propone l’istituzione in Italia, nel mese di novembre dedicato ai defunti, di una giornata per ricordare ogni anno le “morti nelle carceri”. Dall’inizio dell’anno in Italia - ricorda il vicesegretario generale nazionale dell’Osapp, Domenico Mastrulli, responsabile nazionale della Politica di Governo del sindacato di Polizia - sono 58 i detenuti suicidi nelle 216 strutture penitenziarie italiane: 47 impiccati, 10 asfissiati col gas e un detenuto che si è sgozzato. Negli ultimi 10 anni i morti in carcere - sottolinea Mastrulli - sono stati 1.714, di cui 599 per suicidio. Vogliamo istituire la Giornata delle morti in carcere per ricordare - afferma Mastrulli - le tante vite spezzate, vite spezzate per ragioni essenzialmente legate al collasso del sistema penitenziario soffocato dal sovraffollamento e dal disagio. Complessivamente nelle carceri italiane sono rinchiuse 69.000 persone a fronte di una capienza regolamentare di 43.000. La regione Puglia dall’inizio dell’anno ad oggi - ricorda Mastrulli - registra uno dei più raccapriccianti primati: quello del crescente numero di suicidi (otto) e tentativi di suicidio (circa una settantina) avvenuti nelle 12 strutture penitenziarie pugliesi oggi affollate da quasi 4.700 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 2.300 detenuti. Giustizia: il numero dei reati tornato ai livelli del 2005, dopo l’indulto ci fu un aumento di Francesco Daveri (Docente di Politica economica - Università di Parma) www.lavoce.info, 2 novembre 2010 Sul sito del ministero degli Interni si legge che il numero dei delitti denunciati dalle forze dell’ordine all’autorità giudiziaria per mille abitanti per il 2009 è pari a 42,8 ogni mille abitanti, per un totale di delitti denunciati nel 2009 superiore a due milioni e mezzo. Vuol dire che nel 2009 il tasso di criminalità è ritornato a essere simile a quello del 2005. Tra il 2005 e il 2009, al tasso di criminalità ne sono però successe di cotte e di crude. Il dato si è impennato nel 2006-07, raggiungendo il massimo di 49,4 delitti per centomila abitanti, per poi diminuire del 7.5 per cento nel 2008 e di un altro 5 per cento nel 2009. Simili fluttuazioni si osservano anche nei dati degli anni precedenti. I dati degli ultimi cinque anni ci pongono dunque due domande: che cosa ha fatto esplodere la criminalità nel 2006-07? E che cosa l’ha ridotta altrettanto rapidamente nel 2008-09? A margine di un Consiglio dei ministri tenutosi a fine gennaio 2010 a Reggio Calabria dopo la rivolta dei disperati di Rosarno, il presidente del Consiglio Berlusconi ha proposto la sua interpretazione. Ha, infatti, sostenuto che “la diminuzione degli extra-comunitari significa anche meno forze che vanno a ingrossare le schiere dei criminali”. Secondo il premier cioè l’afflusso incontrollato di immigrati degli ultimi anni ha accresciuto il numero dei criminali e quindi questo avrebbe aumentato i tassi di criminalità. Il corollario di questa tesi esposto in più occasioni anche dal ministro dell’Interno Roberto Maroni è che la riduzione dei tassi di criminalità del 2008-09 è da attribuire alla stretta sull’immigrazione, soprattutto di quella clandestina conseguente all’adozione del pacchetto sicurezza del 2008 e alla sua conversione in legge del 2009. “ però possibile che l’ondata crescente di criminalità del 2006-07 e quella calante del 2008-09 abbia almeno un’altra causa che nulla o poco ha a che vedere con l’immigrazione, ma piuttosto solo ed esclusivamente con la politica. “la decisione del governo Prodi del 2006-08 di garantire l’indulto ai carcerati con condanne fino a tre anni. Si trattò di una decisione fortemente voluta, promossa e tenacemente difesa dall’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, e dal sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, con il consenso della sinistra radicale e trangugiata come un amaro boccone dall’anima giustizialista e da molti elettori del centrosinistra. La legge peraltro fu, per una volta, approvata con un ampio consenso parlamentare che includeva anche Forza Italia e l’Udc, ma non la Lega Nord. Il risultato della legge fu quello di far uscire dal carcere più di 22mila persone. Per effetto dell’indulto, il numero dei detenuti per 100mila abitanti scese da 102 nel 2005 a 66 nel 2006, per poi risalire nel 2007 a 82 e nel 2008 a 97, cioè quasi al livello di partenza. Il ministro Mastella difese energicamente l’indulto, per esempio alla festa nazionale del corpo di polizia penitenziaria del settembre 2007: “L’indulto ha conquistato il primo posto nella classifica del malcontento italiano, determinando una faziosa, ingiusta equazione, secondo la quale esso avrebbe significato maggiore criminalità e maggiore delinquenza”. La sua linea di difesa fu che, a un anno dal provvedimento, la percentuale di recidivi nelle carceri era addirittura scesa dal 44 al 42 per cento, aggiungendo in gergo: “e solo il 22 per cento degli indultati è tornato in carcere, la metà del tasso di recidività medio tra tutti i reclusi”. Roberto Perotti ridicolizzò sul Sole 24 Ore le argomentazioni del ministro osservando che confrontare dopo pochi mesi la recidività nel compiere reati di individui appena usciti dal carcere con quella dell’intera popolazione carceraria nell’arco della sua vita era un esercizio poco utile. Al raddoppio nel numero delle rapine in banca lamentato da Perotti nel suo articolo come prova del danno sociale causato dall’indulto, il sottosegretario Manconi rispose sull’Unità con quella che a lui sembrava una domanda retorica: “Possiamo assumere le rapine in banca a esclusivo e comunque dominante indicatore della situazione criminale in Italia? Forse no. Anche perché giocando spericolatamente con i numeri si potrebbe dire che dopo l’indulto - e quindi grazie all’indulto? - il numero di infanticidi in Italia è crollato”. In ogni caso, i dati sui delitti denunciati sono ora disponibili e chiariscono che Perotti aveva ragione. Non furono solo le rapine a raddoppiare, ma anche la frequenza degli altri reati aumentò in misura consistente. Gli omicidi aumentarono da 601 del 2005 a 630 nel 2007 (+5 per cento), per crollare a 579 nel 2009. Il numero dei furti salì da 1.503.711 del 2005 a 1.636.594 del 2007 (+9 per cento) per scendere a 1.307.444 nel 2009. D’impatto il numero complessivo dei reati è aumentato con l’indulto. Lettere: dei diritti e delle pene… di Michela Murgia www.michelamurgia.com, 2 novembre 2010 Mentre i sedicenti telegiornali del servizio pubblico, sempre solerti sulle notizie che contano, ci illustravano i dettagli della drammatica fuga della mascotte della Lazio dallo stadio olimpico, a Bologna un altro detenuto si è suicidato in carcere senza che nessuno desse la notizia, al di fuori della nuda comunicazione di cronaca su qualche quotidiano. Lo si comprende, in fondo è solo un carcerato, per di più sloveno. Ma è anche il cinquantasettesimo morto suicida dall’inizio dell’anno. Cinquantasette persone morte per mano propria fanno sei suicidi al mese, un numero pari a nove volte la media nazionale tra la popolazione libera: come è possibile che ciascuna di queste morti sia trattata come un evento a sé, senza relazione con gli altri suicidi né con le condizioni di vivibilità delle prigioni di Stato? I morti in carcere sembrano morti di serie B, come sono cittadini di serie B i detenuti: della vita e della fine che fanno non frega niente a nessuno. Anche se non circola più la leggenda da bar sui carcerati ipernutriti e nullafacenti a spese del contribuente, troppi sono ancora convinti che in carcere il disagio dovuto alla negazione della dignità faccia parte della pena, come se la privazione delle libertà individuali non fosse di per sé già sufficiente. Il fatto è che per capire quanto male si stia nelle galere italiane bisogna entrarci. Io non faccio testo perché, benché ci sia stata due volte negli ultimi 15 mesi, sono sicura di aver guardato la faccia più pulita che un istituto penitenziario possa mostrare a una persona libera. A Badu e Carros, cioè l’eccellenza di una struttura detentiva cosiddetta ad alto indice di vigilanza (un tempo li chiamavano supercarceri), il rapporto di sicurezza tra il numero degli agenti e quello dei detenuti fa sì che il livello di affollamento sia relativo rispetto alla folle media nazionale delle altre carceri, che ospitano venticinquemila persone in più della capienza legale, quella calcolata sugli spazi umanamente vivibili. Eppure anche solo questo mi è bastato per non volerci tornare volontariamente. La permanenza in carcere va molto oltre la pura restrizione della libertà di uscire, e spesso confina con la tortura di spazi angusti, di condizioni di vita rese difficili da degrado e violenza senza controllo, dai diritti considerati aleatori o ridotti ai minimi termini dall’arbitrio interno. L’invenzione leghista dell’aggravante della clandestinità ha fatto aumentare di molto la densità da formicaio che era stata appena alleggerita dall’indulto, misura estrema che, come previsto, si è rivelata del tutto inutile in assenza di altre politiche, ma molto utile ai poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovaldi, che non si sono fatti dentro neanche un giorno. Il risultato di queste scelte scellerate è che ora basta finire dentro per reati minimi e - a meno che non si sia compagne di bunga bunga del presidente del Consiglio - si rischia il destino di un altro morto di carcere, Stefano Cucchi, massacrato di botte e lasciato morire di fame, o quello di uno qualunque dei 57 detenuti che hanno preferito ammazzarsi per mano propria pur di non stare vivi là dentro. Queste cose accadono non solo perché la vita nelle carceri è disagiata oltre ogni immaginazione a causa delle strutture inadeguate, ma soprattutto perché il livello di guardia è incredibilmente basso: gli agenti penitenziari sono 6500 in meno di quanti dovrebbero essere (dati Ugl) e i detenuti sono lasciati a sé stessi o nelle mani di personale di vigilanza sottoposto a carichi fortissimi di stress. Nell’anno in corso più di 200 agenti sono stati aggrediti dai detenuti, ma nessuno di loro fortunatamente è morto. Hanno perso la vita invece 120 carcerati per cause varie o ancora da chiarire, suicidi compresi. Nessun Porta a Porta ha invitato il ministro dell’Interno a parlare di queste cifre, né mi risulta che Pomeriggio Cinque, tra una puntata del porno noir di Avetrana e l’altra, abbia fatto servizi speciali sulle condizioni disumane in cui vengono abbandonate le persone che stanno scontando una pena. Tutti considerano normale che subire una condanna implichi perdere, oltre alla libertà, anche i diritti più elementari. Quanti Stefano Cucchi devono morire perché la gente cominci a chiedersi se questo è ancora uno stato di diritto? Quanti suicidi, prima che qualcuno dica che c’è una relazione con le condizioni di detenzione? Quanti morti, prima che cominciamo a capire che il diritto a essere trattati da esseri umani non finisce dopo il cancello elettrificato? Lettere: le condizioni carcerarie in Italia… di Carmelo Musumeci (Detenuto a Spoleto) www.imgpress.it, 2 novembre 2010 La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha recentemente condannato l’Italia per trattamenti disumani e degradanti a cui sono sottoposti i detenuti nel nostro Paese. Tutti quelli che pensano che il carcere sia un male necessario, specialmente questo tipo di prigione che c’è in Italia, sono come coloro che pensavano che era il sole che girava intorno alla terra. Il carcere, in qualsiasi parte del mondo, non dà risposte, il carcere è una non risposta. Non si dovrebbe andare in carcere, ma se ci si va, non si dovrebbe trovare un luogo disumano e fuorilegge, come nelle patrie galere italiane. Un luogo dove le persone vengono rinchiuse come in un canile e spesso abbandonate a se stesse. La pena, in qualsiasi parte del mondo, non dovrebbe produrre vendetta, ma perseguire il fine di riparare e riconciliare. Solo un carcere aperto e rispettoso della legalità potrebbe restituire alla società cittadini migliori. Invece le prigioni in Italia, settimo paese più industriale e avanzato nel mondo, produce solo sofferenza, ingiustizia e nuovi detenuti. Ed è il posto dei poveri, dei tossicodipendenti, degli extracomunitari e degli avanzi della società. Inoltre, per i detenuti sottoposti al regime di tortura del 41 bis, è anche il luogo dove gli esseri umani trascorrono anni e anni della loro vita senza vivere. I prigionieri sottoposti a questo regime rimangono chiusi in cella nell’inattività, nella noia, nella mancanza di qualsiasi contatto con il mondo esterno, ventidue ore su ventiquattro. I detenuti sottoposti al “carcere duro” non possono abbracciare e toccare i propri familiari, alcuni anche da diciotto anni. Vivono in un sostanziale isolamento e con una barriera di plastica nelle loro finestre per impedire loro di vedere il cielo, le stelle e la luna. Il carcere nel nostro paese produce morte ed è altissimo il numero dei detenuti che per non soffrire più, o perché amano troppo la vita, se la tolgono, più di 50 dall’inizio di quest’anno. E poi solo in Italia, non in Europa e non nel resto del mondo, esiste una pena che non finisce mai: “La Pena di Morte Viva”, l’ergastolo ostativo a qualsiasi beneficio, se al tuo posto non metti un altro in galera Niente è più crudele di una pena che non finirà mai, perché questo tipo di ergastolo uccide una persona in maniera disumana. L’ergastolano italiano ostativo ha solo la possibilità di soffrire, invecchiare e morire. E non avere più futuro è molto peggio di non avere vita, perché nessuno può vivere senza avere la speranza di libertà. Non può una persona essere colpevole per sempre. È inumano che una persona continui a essere punita per un reato che ha commesso venti/trenta anni prima I sogni nei carceri muoiono. E spesso muoiono prima i prigionieri che riescono ancora a sognare, perché è l’unico modo che hanno per realizzare i loro sogni. Modena: carcere sovraffollato e invivibile, non è degno di una società civile La Gazzetta di Modena, 2 novembre 2010 Nel carcere Sant’Anna di Modena sono ospitate quasi 500 persone di cui 23 nella sezione femminile. Oltre il doppio della capienza tollerabile. In gran parte sono stranieri, poi tossicodipendenti, gente senza fissa dimora. Molti giovani. In crescita le pene di breve durata per piccoli reati. Molto simile la situazione negli istituti di Saliceta San Giuliano e Castelfranco. Il gruppo Carcere e Città di Modena trova crescenti difficoltà nella propria attività di volontariato nell’organizzare i colloqui con i detenuti, nel programmare attività ricreative, sportive e culturali. Sono praticamente sospese le possibilità di far incontrare il detenuto con i figli o il coniuge, gli accompagnamenti in permesso. A causa del sovraffollamento e la carenza di personale tutto il personale disponibile è utilizzato solo per la custodia. Il carcere diventa così un luogo sempre più chiuso e invivibile. Sono rari i programmi di reinserimento nella società civile e così le misure alternative alla detenzione. Anche perché i magistrati di sorveglianza si trovano di fronte a cittadini sempre più sospettosi perché disinformati delle reali situazioni di dolore e di disperazione dei detenuti. Ma anche dei reali vantaggi che queste misure possono offrire sia per il recupero dei detenuti che per la sicurezza stessa della città. La tragica situazione dei carcerati è sottolineata dai suicidi. Quest’anno ci sono stati in Italia già sessanta suicidi e vari tentativi di suicidio, 20 volte maggiore rispetto alla popolazione fuori. A Bologna in Piazza Re Enzo è stata allestita una “copia” di cella carceraria. All’iniziativa ha partecipato anche il gruppo Carcere e Città di Modena fondato da Paola Cigarini presidente della Conferenza regionale volontariato. I numerosi cittadini che hanno visitato la cella hanno potuto costatare direttamente quanto sia difficile vivere in tre o quattro, di culture e lingue diverse, 22 ore su 24, all’interno di una cameretta tre per due, dove la porta è chiusa e lo spazio vitale è ridotto al minimo. Le tensioni aumentano, ogni cosa può diventare occasione di litigio. Una donna di 36 anni nel carcere Sant’Anna scrive: “Mi sveglio al mattino col pensiero di come sarò trattata, ormai mi sto trasformando, la mia cella è sempre più una gabbia da cani. Troppo odio scorre nei corridoi, entra in noi cambiando tutto, la nostra bontà l’educazione ricevuta, i valori. Tutto questo lascia un tremendo dolore interno”. Vito Zincani procuratore della Repubblica di Modena dopo aver visitato il carcere concludeva: “Il carcere Sant’Anna è una sorta di discarica sociale dove vengono relegate quelle problematiche che non trovano spazio nella società” (Gazzetta di Modena 20 agosto). Modena civile e democratica deve finalmente prendere consapevolezza di questa comunità della città e farsene carico. Pistoia: allarme dal volontariato; una situazione esplosiva nel carcere di S. Caterina Il Tirreno, 2 novembre 2010 L’ultimo caso, il 12 ottobre scorso. Un detenuto si è suicidato impiccandosi con le lenzuola al letto della propria cella nel carcere Santa Caterina di Pistoia. L’uomo era in galera dall’estate scorsa per aver commesso una rapina. Un gesto estremo che torna a evidenziare la preoccupante situazione del sovraffollamento: nella casa circondariale di via dei Macelli sono reclusi circa 150 detenuti, a fronte di una capienza di 79 persone. Adriano Mancini ha 67 anni. Da 25 fa volontariato all’associazione “Il Delfino”, onlus pistoiese che si occupa dell’assistenza ai detenuti del Santa Caterina e alle loro famiglie. Tratta tutti i carcerati del penitenziario come fossero suoi figli: offrendogli assistenza psicologica e materiale, e mettendo a disposizione un letto nel quale dormire per passare qualche ora di permesso premio. “E pensare che è cominciato tutto per caso”. Mancini viene contattato circa 25 anni fa dal cappellano del carcere di Pistoia: “Cercava qualcuno che potesse aiutare un detenuto a conseguire il diploma di maturità - racconta - E siccome ho insegnato per una vita all’Istituto d’arte, gli sembravo la persona giusta. È così che ho iniziato a prestare volontariato al Santa Caterina. E da allora ne ho viste di tutti i colori”. Mancini e gli altri 15-17 volontari del Delfino offrono ai detenuti un sostegno pratico e morale: “Tutte le settimane facciamo dei colloqui con i carcerati che ne fanno domanda - spiega - Per aiutarli a superare i momenti di crisi, la frustrazione, l’ansia. Ci confidano le loro difficoltà, quanto sia dura la vita in cella. Ma soprattutto chiedono notizie della famiglia. Ci chiedono di riallacciare per loro rapporti che, a causa della detenzione, si sono interrotti bruscamente”. E l’aiuto morale si trasforma quasi sempre in aiuto economico: “Madri e figli pagano spesso un conto molto più salato di quello del detenuto - afferma Mancini - Si trovano soli, a doversela cavare con le proprie forze, per colpe che non hanno commesso. Per questo cerchiamo per quanto possibile di aiutarli economicamente: facciamo piccoli versamenti sui conti correnti dei detenuti, cifre piccole per consentirgli di effettuare le telefonate o acquistare una carta prepagata, oppure per comprare i francobolli. Ma non possiamo fare più di tanto: il nostro unico sostentamento economico arriva dall’otto per mille”. Poi, una volta a settimana, in occasione del colloquio, i volontari portano anche pacchi pieni di indumenti. Tutto è sistemato e imbustato in base al tipo e alla taglia in un grande armadio: “Se hanno bisogno di ciabatte, pigiami, magliette, biancheria intima, glieli portiamo - racconta Mancini - Tutto vestiario comprato ex novo. Non possiamo accettare niente che sia stato già utilizzato: questo anche per garantire una maggiore sicurezza”. Nella stessa stanza, di fronte all’armadio con il vestiario, ce n’è uno altrettanto grande pieno di generi alimentari per le famiglie: pasta, zucchero, sale, biscotti. Il frigorifero tra i due armadi invece è pieno di formaggio. Nell’ufficio dell’associazione, appeso al muro, c’è una tarsia enorme, un paesaggio con alberi e animali: “Bello vero? - interviene Mancini - L’ha fatto un detenuto. Tramite i nostri volontari, infatti, riuscivamo anche a organizzare dei laboratori di tarsia in carcere, una specie di “bottega rinascimentale”. Purtroppo, per la mancanza di personale penitenziario, non è più possibile tenere i laboratori. I detenuti adesso sono circa 150. Il personale penitenziario che presta servizio invece è di circa 40 unità. È un peccato: per i detenuti è d’aiuto sapere di poter contare su un’attività che gli permette di svagarsi e occupare il tempo e la mente in maniera diversa”. Adesso che il laboratorio non c’è più, ai detenuti non rimane che l’ora di socializzazione: “Gli viene concesso, un’ora al giorno, di poter andare in un’altra cella, ad esempio per giocare a carte - spiega Mancini - La situazione è esplosiva: celle pensate per ospitare sei detenuti ne ospitano nove. Contando che la superficie calpestabile di una cella è di circa 6,6 metri quadrati, al detenuto resta meno di 1 metro quadro di spazio. E in quello spazio ci passa 20 ore al giorno”. Per non parlare delle condizioni fatiscenti della struttura: “L’aula scolastica dove tengono le lezioni di alfabetizzazione e lingue è in realtà un corridoio ricoperto di guano di piccione - racconta Mancini - E quando piove e non possono fare l’ora d’aria concessa due volte al giorno in cortile, la fanno in palestra, dove lo spazio è ancora più angusto”. Tra i 150 detenuti attualmente al Santa Caterina, Mancini racconta un caso in particolare: “Un uomo sta subendo un trattamento di chemioterapia - racconta - Il personale lo cura in un ambulatorio accanto alla cella e quando il trattamento è finito torna lì. Con l’assistente sociale abbiamo cercato di trovargli una struttura dove potesse curarsi in maniera più adeguata. Ma non gli viene permesso”. Ad aiutare l’associazione Il Delfino nell’opera di volontariato all’interno del Santa Caterina c’è anche la cooperativa “In Cammino”, che si occupa in particolare del reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti che possono accedere alle misure alternative. “La pena deve tendere alla rieducazione del condannato, lo dice la Costituzione - afferma Antonio Sammartino - Il nostro compito è stringere accordi con le aziende del territorio e per cercare di attivare degli stage formativi per i detenuti all’interno dell’azienda stessa. A Pistoia c’è grande sensibilità, soprattutto da parte delle piccole imprese artigiane. E i dati ci danno ragione: c’è un’alta percentuale di detenuti che poi vengono assunti a tempo indeterminato”. Miniappartamenti per i permessi premio L’associazione Il Delfino ha a disposizione anche due miniappartamenti ricavati nei locali dell’attiguo convento dei Cappuccini. Sono stati pensati per ospitare i detenuti in permesso premio e le loro famiglie in visita. Gli appartamenti sono indipendenti, con ingressi separati e dotati di tutti i confort: bagno, cucina, camera da letto e un piccolo salotto con televisore. La misura del permesso premio è stata introdotta nel 1986 con la Legge Gozzini. Il giudice di sorveglianza può autorizzare il condannato a lasciare il carcere per un tempo non superiore ai 45 giorni: “Una volta che il giudice ha dato il suo nulla osta, noi consegniamo le chiavi dell’appartamento direttamente al detenuto - spiega Adriano Mancini - Non abbiamo mai avuto problemi. Gli appartamenti vengono sempre lasciati in ottime condizioni. Chi li utilizza si sente molto responsabilizzato”. Tra i progetti dell’associazione c’è quello di riuscire a costruire sette-otto nuovi appartamenti. “Sarebbe la realizzazione di un sogno - spiega Mancini - Abbiamo già presentato un progetto per costruire questi appartamenti, sempre sfruttando locali ormai inutilizzati del convento. Come detto, non abbiamo disponibilità economica, non siamo in grado di poter accendere un mutuo. Speriamo quindi che la Fondazione Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia riesca a finanziare completamente il progetto. Ho letto proprio in questi giorni sui giornali che hanno chiuso il bilancio con un avanzo di 20 milioni di euro...”. Sassari: il “San Sebastiano” è un simbolo in negativo delle nostre carceri La Nuova Sardegna, 2 novembre 2010 Lo scarso numero di professionisti specializzati, a fronte delle esigenze delle persone detenute, denuncia una situazione di cui la nostra società civile non può non prendere atto, in una prospettiva che sia, però, di effettivo cambiamento: per la finalità rieducativa della pena, affermata dalla nostra Costituzione; per una visione etica di relazioni sociali, seppure tra le sbarre, che possano davvero definirsi civili. Ma lo spaccato del carcere di Sassari amplifica una situazione che non è esclusiva di San Sebastiano. Il sovraffollamento in particolare, come ha segnalato Luigi Manconi nell’articolo di domenica scorsa, è un grave problema dei penitenziari italiani e ad esso corrispondono, di fatto, minori opportunità di instaurare relazioni significative e anche ridotte possibilità di sostegno e trattamento, considerata la nota carenza numerica del personale a ciò preposto. Il sovraffollamento è anche una delle variabili più frequentemente associate al rischio di suicidio fra la popolazione detenuta e allo stress degli operatori fino al burnout: allarme e impotenza. Questa è la patologia della reclusione: un’evidente incongruenza fra le finalità attese della pena (sicurezza sociale, riabilitazione del condannato, prevenzione della recidiva) e il principale strumento utilizzato a questo scopo (la detenzione). Le mura del carcere rappresentano una grave frattura interna al sistema sociale e San Sebastiano ne è un’eccellente fotografia: così centrale nella città, così precluso a ogni forma di socialità. Le conseguenze non riguardano solo la persona detenuta, ma l’intera collettività. Paradossalmente, la detenzione - con il tempo, lo spazio, le forme di rapporto che essa impone, vieta o consente - produce una sovra-rappresentazione delle immagini di sé socialmente disapprovate con il rischio che vengano sotto-stimate immagini e ruoli sociali positivi. Con il rischio che l’uscita dal carcere sia solo fisica perché gli ex detenuti, con quel loro marchio di “delinquenti”, non godono mai di pari opportunità di integrazione. E allora, insieme alla chiusura di San Sebastiano si rende necessario e urgente accelerare quel processo di innovazione del sistema sanzionatorio che consenta di superare la detenzione come unica risposta pensabile/possibile e di discriminare fra condizioni che rendono “necessario” il carcere e condizioni che più opportunamente richiederebbero interventi di natura sociale. Quello del crimine è un problema complesso e altrettanto complessa è la questione della sua gestione. Si deve uscire dall’isolamento del carcere. La delega alla giustizia e al penitenziario rappresenta una forma di disimpegno collettivo che non restituisce maggiore senso di sicurezza e, contemporaneamente, crea condizioni di esclusione. Le disposizioni comunitarie e internazionali elaborate negli ultimi decenni si muovono esattamente in questa direzione, evidenziando la migliore efficacia dei trattamenti non detentivi e di interventi che, senza disconoscere la responsabilità dell’autore di reato, coinvolgano la collettività nella gestione di un problema che è di tutti. Questo è possibile a partire dall’attenzione alle vittime (oggi scarsamente tutelate dal nostro sistema penale), anche attraverso programmi di riparazione che sia concreta, nei confronti della persona offesa del reato, e simbolica verso la società (ne è un esempio il lavoro in favore della comunità). Ma affinché l’autore di reato possa avviare una revisione critica dei suoi comportamenti lesivi dei diritti altrui, perché possa concretamente adoperarsi per la vittima e per la collettività, è necessario che venga messo nelle condizioni di sperimentare direttamente una socialità che può essere diversa, pacifica e sicura per tutti. Questo è quello che viene chiamato modello di “giustizia riparativa”, non necessariamente un’alternativa al modello attuale ma una sua integrazione fondata su responsabilità e partecipazione. Cagliari: arrivati documenti detenuto tunisino in sciopero fame per chiedere rimpatrio L’Unione Sarda, 2 novembre 2010 Sarà rimpatriato nei prossimi giorni Jalel El Asgaa, il detenuto tunisino, di 30 anni, ricoverato nel centro clinico del carcere di Buoncammino, che da oltre tre settimane porta avanti lo sciopero della fame per ottenere il lasciapassare per il rientro nel suo paese. Ieri mattina il consolato romano della Tunisia ha inviato via fax alla Questura di Cagliari il documento che accerta l’identità del tunisino. In sostanza con il lasciapassare gli agenti dell’Ufficio stranieri possono attuare il decreto di espulsione emesso il 13 maggio di quest’anno dal magistrato. Il detenuto tunisino, vista anche la decisone del giudice, da tempo aveva chiesto di poter essere estradato nel suo Paese. Tutte le istanze, per motivi inspiegabili, erano cadute nel vuoto. Una vicenda paradossale quella di Jalel El Asgaa: la storia di tutti i giorni racconta di extracomunitari illegali che vengono respinti. Questo caso va controcorrente: lo straniero vuole tornare nel suo Paese, ma le autorità italiane per molti mesi glielo negano. Jalel El Asgaa era finito nei guai per vicende legate al mondo della droga. Arrestato a Modena era stato successivamente trasferito alla colonia penale di Is Arenas, dove avrebbe dovuto scontare la pena sino al 12 agosto 2011. Problemi familiari lo inducono a chiedere, e ottenere, l’espulsione dall’Italia. Jalel El Asgaa tiene duro sino a settembre, poi inizia la protesta per la mancata estradizione. La Questura sostiene di non avere documenti validi per attuare il provvedimento del giudice, il detenuto afferma che negli effetti personali consegnati alla polizia penitenziaria ci sono una carta d’identità in arabo e la patente. Non mangia e non beve. Le sue condizioni si fanno critiche e viene trasferito nel centro clinico di Buoncammino. Viene visitato anche da un rappresentante consolare che dice di aver ricevuto la richiesta per il lasciapassare da pochi giorni. Rimane da capire quale sarà la procedura della Questura per il suo rientro in Tunisia. Genova: in carcere un “piano dell’offerta formativa” per corsi di scuole superiori Il Secolo XIX, 2 novembre 2010 Un vero e proprio “piano dell’offerta formativa” in carcere per consolidare e sviluppare corsi di scuole superiori, percorsi di formazione professionale con voucher e borse lavoro, orientamento e servizi dei centri per l’impiego a sostegno del reinserimento sociale e occupazionale delle persone detenute o con misure di pena alternative. Lo attuerà il nuovo protocollo d’intesa tra la Provincia, la Direzione regionale del Miur e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Il primo impegno della rete “è migliorare e armonizzare l’offerta di istruzione e formazione - dice Milò Bertolotto - per dare concrete prospettive di futuro al reinserimento delle persone detenute, anche nello spirito dell’articolo 34 della Costituzione che riconosce il senso e il valore dell’istruzione come diritto di ogni persona”. Un gruppo di lavoro congiunto elaborerà il “piano dell’offerta formativa” per le Case circondariali e, tenendo conto delle risorse disponibili e delle azioni per potenziarle e ottimizzarle, definirà indirizzi e principi uniformi per garantire qualità e continuità ai corsi. L’orientamento professionale dei servizi della Provincia, d’intesa con quelli dell’Amministrazione penitenziaria, nel 2009 ha svolto 214 colloqui a Genova e 32 a Chiavari e sempre nel 2009 il servizio di mediazione al lavoro dell’ente ha inserito 9 persone a Genova e 5 nel Tigullio. L’orientamento ha favorito anche la realizzazione di specifici corsi professionali, con voucher individuali: “Nella Casa circondariale di Pontedecimo - dice l’assessora Bertolotto - tra maggio e agosto 2009 vi hanno partecipato 10 donne nel settore della coloritura edilizia e 10 uomini nel restauro di mobili, mentre nella Casa circondariale di Marassi, dal dicembre 2009 è stato avviato un corso di falegnameria, tuttora attivo, al quale partecipano con grande impegno 10 persone detenute, con prospettive di reale inserimento lavorativo per alcune di loro”. Il Miur e i servizi per la pubblica istruzione della Provincia collaboreranno inoltre per consolidare i corsi già esistenti di scuole superiori e per attivarne di nuovi e promuovere attività extracurricolari. Il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria si impegnerà nell’intesa a rendere possibili i corsi scolastici nelle tre Case circondariali, favorendo l’inserimento dei detenuti nelle attività di istruzione anche attraverso la loro assegnazione agli istituti penitenziari per poterli frequentare. Spoleto (Pg): “Ottobre Piovono Libri”; le carceri “formino” e non “deformino” Ansa, 2 novembre 2010 Il Comune di Monteleone di Spoleto e l’Associazione Archeo Ambiente Onlus nell’ambito della rassegna “Ottobre Piovono libri” hanno affrontato il delicato problema delle carceri. Un appello perché strutture sociali come le carceri “formino” e non “deformino” personalità in alcuni casi già devianti, è stato lanciato dai curatori del libro “La mia vita dentro” (Infinito edizioni), Francesco De Filippo e Roberto Ormanni, parlando anche a nome del “Brubaker italiano”, Luigi Morsello, che ha diretto una ventina di carceri in Italia, autore del libro. Il volume, giunto alla seconda edizione, è stato presentato a Monteleone di Spoleto nell’ambito della rassegna nazionale di cultura “Piovono libri”. “È vero che la situazione sociale e carceraria in Italia in questo momento è molto difficile - ha sottolineato De Filippo - ma la risposta delle autorità non può essere soltanto di natura repressiva. Soprattutto quando le strutture penitenziarie sono sovraffollate e il tasso di vivibilità al loro interno è molto basso. Le carceri devono mirare al recupero, a formare, invece ho l’impressione che si esce peggiori, deformati, dopo un’esperienza del genere”. Roberto Ormanni ha ricordato che “nei 206 penitenziari italiani dove sono rinchiusi quasi settantamila detenuti”. “La situazione all’interno - ha aggiunto - è molto difficile, anche se non a livello dei paesi del Maghreb, della Turchia o dell’America Centrale e Latina. Però - ha ammonito - molto dipende dall’attaccamento al lavoro dei funzionari e dei responsabili: Luigi Morsello si è sempre impegnato proprio nella direzione del recupero, dell’impegno dei reclusi, anche a costo di pagare di persona”. Nel corso dell’incontro, che si è svolto al ristorante Bernabò, l’assessore alla Cultura Marisa Angelini, che ha organizzato la rassegna, ha ricordato la figura di Ivano Volpi, il ventinovenne di Norcia con disagio psicologico, morto nel carcere di Spoleto il 20 gennaio scorso. Nuoro: ecco le “farfalle”, libri per bambini fatti a mano dai detenuti di Badu ‘e Carros Agi, 2 novembre 2010 Le “farfalle”, libri fatti a mano che racchiudono le favole per bambini scritte dai detenuti dell’alta sicurezza della casa circondariale di Badu ‘e Carros saranno a Cagliari giovedì nei locali di Piazza Repubblica Libri. Promossa dall’associazione Socialismo Diritti Riforme, presieduta da Maria Grazia Caligaris, l’iniziativa servirà a far conoscere e valorizzare il progetto del Centro Territoriale Permanente di Nuoro, coordinato dall’insegnante di alfabetizzazione e approfondimento culturale del carcere Pasquina Ledda. Ideati da Alessandro Bozza, 49 anni, ergastolano, i lavori sono stati realizzati con il contributo dei detenuti Calogero Lo Bue e Antonino Alcamo. “È stata scelta una veste, quella delle farfalle - ha spiegato Pasquina Ledda - per la passione con cui Bozza curava nella sua cella queste forme, così fortemente simboliche, utilizzando del cartoncino colorato e un paio di forbicine per bambini. I quindici “scolari” del corso di approfondimento culturale hanno poi accettato di provare a immaginare di raccontare fiabe ai loro figlioletti, nipotini, ai bambini conosciuti o solo pensati. All’inizio sembrava impossibile, poi invece l’impegno è diventato passione e ciascun detenuto ha dato il proprio contributo attingendo dalla propria memoria filastrocche, rielaborando favole, inventando storie, raccontandosi”. “I libri-farfalla - sottolinea Caligaris - sono un messaggio di speranza e un segno tangibile di positiva creatività. Accoglierli a Cagliari significa presentare ai cittadini il risultato di un progetto in cui si sono incontrate differenti professionalità e istituzioni. Alla sensibilità degli insegnanti del Ctp della scuola media “M. Maccioni” di Nuoro, hanno fatto eco quella della direzione dell’istituto penitenziario,quella degli educatori e degli agenti di polizia penitenziaria. Un circuito virtuoso che, pur nelle condizioni di difficoltà in cui si trovano le strutture detentive in questo periodo, ha consentito al progetto di andare avanti. La gratificazione ha avuto un risvolto straordinario sulle singole personalità dei detenuti favorendo un clima collaborativo in ogni ambito e la solidarietà”. A Cagliari verranno proposti al pubblico un centinaio di “farfalle” che potranno essere acquistate nella libreria di piazza Repubblica, grazie alla disponibilità del titolare Patrizio Zurru, anche nei giorni successivi alla presentazione. Il ricavato della vendita sarà utilizzato per sostenere le attività culturali dei detenuti di Badu ‘e Carros. Alla presentazione dei libri, oltre a Pasquina Ledda, interverrà la direttrice della casa circondariale di Nuoro Patrizia Incollu. Monza: regalate libri al carcere, il riscatto sociale parte dalla cultura Il Giorno, 2 novembre 2010 L’assessore Sassoli: “Vogliamo creare una biblioteca nella sezione femminile” e così si è rivolto ai privati, ma anche e soprattutto alle scuole del territorio. L’ala maschile del carcere conta già 400mila volumi. “Chiunque abbia dei libri che non utilizza più e di cui potrebbe fare a meno, li regali al carcere”. Perché in fondo “il riscatto sociale di una persona parte anche dalla cultura”. L’assessore alle Politiche giovanili oltre che presidente di Brianza Biblioteche, Martina Sassoli, lancia un appello per realizzare un suo piccolo sogno: “Il mio obiettivo è di realizzare anche nella sezione femminile della casa circondariale uno spazio biblioteca”. Già nel detentivo maschile è stato concretizzato un progetto che ha portato alla creazione di un vero e proprio sistema bibliotecario inserito all’interno di quello brianzolo esterno con un patrimonio di oltre 400mila volumi, e al coinvolgimento di 90 detenuti - di cui 10 della sezione Alta Sicurezza - in un corso di biblioteconomia. Ma “manca ancora un ultimo tassello”, precisa l’assessore. E si rivolge non soltanto ai privati ma anche, e soprattutto, alle scuole del territorio “perché magari hanno dei libri che non vengono più sfruttati o addirittura hanno delle doppie copie”. “Un progetto - le parole del direttore della casa circondariale, Massimo Parisi - che trova il nostro pieno sostegno”. Del resto la collaborazione fra il carcere e il territorio, “qui a Monza è un esempio”, ha confermato Luigi Pagano, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria. C’era anche lui, in via Sanquirico al recente convegno, voluto dalla Provincia di Monza, per fare il punto proprio sul rapporto fra carcere e istituzioni. “La Brianza - ha continuato Pagano - investe nel carcere, per fare in modo che la detenzione non sia solo un inutile passare del tempo”. E questo “nonostante ci sia una oggettiva insufficienza di risorse economiche e umane - per quanto riguarda gli agenti di polizia penitenziaria - a fronte di una popolazione che conta 850 detenuti in un carcere progettato per ospitarne circa la metà - riconosce il provveditore regionale -. Qui, invece, si riesce a riempire di contenuti una scatola che rischierebbe di rimanere vuota”. È importante, insomma, che il territorio vada oltre le sbarre. Lo dimostrano gli sportelli sociale e anagrafe che il Comune ha aperto all’interno del carcere, lo confermano i volontari, i progetti scolastici, le attività lavorative e i corsi di formazione rivolti ai detenuti. E proprio ai detenuti si rivolge il presidente della Provincia Dario Allevi: “Nelle prossime settimane porteremo in Consiglio la delibera - già passata in Giunta, per individuare il garante dei diritti dei detenuti di Monza”. Tolmezzo: il comico Paolo Rossi oggi tra i detenuti del carcere carnico Il Gazzettino, 2 novembre 2010 Sarà l’attore e comico Paolo Rossi oggi l’ospite d’eccezione della Casa circondariale di Tolmezzo. Rossi, in regione domenica per l’apertura della Stagione del Teatro Contatto a Udine e ieri sera al Pasolini di Cervignano, in entrambi i casi con lo spettacolo “Il mistero buffo di Dario Fo”, sarà protagonista dalle 11 all’interno del Carcere tolmezzino di un nuovo evento di socializzazione curato dal Css, Teatro stabile di innovazione del FVG, ente che da oltre 20 anni porta avanti con diversi artisti un’azione culturale di animazione, solidarietà e sperimentazione nei territori del disagio. Avviato per la prima volta nel 1986 all’interno della Casa Circondariale di Udine ad integrazione delle attività già programmate dalla direzione e dagli operatori dell’istituto, il progetto del Css, grazie anche ai finanziamenti regionali, ha iniziato dopo sei anni la sperimentazione regionale coinvolgendo via via altre cooperative della regione, ed estendendosi così, dal 1993, anche al carcere di Tolmezzo. Soprattutto in questi ultimi anni, il Css ha potuto garantire una presenza costante e continuativa di artisti, esperti e operatori all’interno delle carceri, dove sono state svolte attività laboratoriali in diversi ambiti creativi, continuando a proporre, in parallelo, spettacoli teatrali, concerti e lezioni-concerto per la popolazione detenuta. Tra coloro che hanno condiviso l’esperienza del Css all’interno delle case circondariali, artisti di teatro e del mondo della musica come Fabrizio De Andrè, Alessandro Bergonzoni, Claudio Bisio, David Riondino ed ora anche il monfalconese Paolo Rossi. Droghe: Serpelloni; il Piano nazionale è documento strategico, 26 milioni per i progetti Redattore Sociale, 2 novembre 2010 Il capo del Dipartimento nazionale delle Politiche antidroga sul Piano varato dal Consiglio dei ministri: “Nessuna concertazione forzata con le regioni, solo linee generali. Ma ognuna ora ci dica cosa vuole fare e quali fondi mette a disposizione” “Un Piano innovativo, diviso in 4 parti. Una struttura che abbiamo fortemente voluto”. Così Giovanni Serpelloni, capo del Dipartimento nazionale delle Politiche antidroga, illustra il Piano di azione nazionale contro le droghe varato venerdì dal Consiglio dei ministri. Vogliamo vedere, nel dettaglio, questi quattro punti? Innanzitutto si tratta di un Piano che presenta indicazioni strategiche, derivate da analisi e concertazioni durate un anno. In secondo luogo, il Piano dovrà essere declinato dalle regioni secondo le proprie responsabilità. Non viene cercata una concertazione forzata. Noi diciamo: le linee tecniche generali sono queste, adesso decidete voi. Ma poi le regioni devono farci conoscere le loro linee di azione, perché ad oggi non tutte hanno un Piano… E devono anche dire quali fondi di investimento vengono impegnati. Oltre a questo, il Piano risulta corredato da un cd con le linee di indirizzo tecnico-scientifiche, in particolare su prevenzione e riabilitazione. Infine, c’è un poderoso piano-progetti, finanziato con 26 milioni di euro. Progetti di network su scala nazionale, che noi andremo a sostenere. Basta linee dei sogni, puntiamo sulla concretezza. Regioni da responsabilizzare e sollecitare, dunque. Partendo dal confronto in conferenza unificata? Sì, il Piano va in Conferenza unificata. Ma voglio sottolineare che lo offriremo a ogni singola regione. Il Dipartimento farà a ciascun ente regionale una proposta concreta. E questo perché i problemi della Calabria sono diversi da quelli vissuti in Lombardia o Valle D’Aosta. Non ci serve tanto l’atto formale della Conferenza, quanto piuttosto un confronto nel concreto con ogni realtà territoriale. Nel Piano, un’enfasi particolare viene dedicata alla parte su prevenzione, riabilitazione e reinserimento. Carcere e sanzioni sembrano rimanere sullo sfondo… È sicuramente l’area principale. Su quella puntiamo, come dimostrano gli 8,5 milioni di euro con cui abbiamo finanziato il progetto “Reli” in Sardegna, per il reinserimento socio-lavorativo degli ex tossicodipendenti (in base a un accordo di collaborazione tra l’assessorato regionale della Sanità ed il Dipartimento nazionale delle Politiche antidroga, ndr). È l’investimento più forte in materia degli ultimi 50 anni. E vogliamo dare a questa area del Piano molta enfasi perché vogliamo uscire dal concetto di dipendenza, dal fatto che Sert e comunità alla lunga possono cronicizzate le situazioni. E sul carcere? In questo ambito abbiamo quasi definito delle politiche di indirizzo per cercare di far sfruttare al massimo l’art. 94, quello che prevede le misure alternative alla detenzione. Al momento solo il 20-25% dei tossicodipendenti in carcere usufruisce di queste misure: meno della metà di chi potrebbe giovarne. La volontà è quella di far funzionare meglio il meccanismo. Oltre a ciò, facciamo in modo che chi deve andare in carcere possa scegliere, già in fase di udienza preliminare, se usufruire del recupero in comunità o del percorso terapeutico ambulatoriale. Ovviamente con monitoraggi. Nel Piano si parla dell’importanza della prevenzione e della diagnosi precoce e di una sorta di “tabù” che impedisce l’attivazione di normali procedure… Guardi, il problema è sempre quello: i giovani arrivano ai servizi dopo 6-8 anni di uso delle sostanze. In questo caso si sviluppa una vera e propria malattia e si compromettono le possibilità di guarigione. Non è possibile che non si possa essere una diagnosi precoce per questo tipo di problematiche. Stiamo parlando di tossicodipendenza! Le prime cause di morte e di invalidità nella fascia di età tra i 14 e i 18 anni sono da imputare all’uso di sostanze stupefacenti e agli incidenti alcol e droga correlati. Sono sicuro che se al primo posto ci fosse stata una malattia, mettiamo la leucemia, tutti avrebbero voluto fare un test. Per altre patologie screening preventivi vengono attuati quasi costantemente. Allora una politica intelligente in questo campo potrebbe aiutare. E non si tratta di una caccia alle streghe… In questo senso si parla anche della necessità di supportare e rinforzare il ruolo della famiglia e della scuola… Sì, e il controllo non può compromettere il rapporto tra genitori e figli. Dico di più: la maggior parte dei figli, quando i genitori mostrano una sana preoccupazione, si sentono più accuditi. La scuola però, in questo momento, sembra alle prese con altri problemi… La scuola può fare molto, attraverso la sinergia con gli stessi genitori, E questo al di là dei problemi dei professori… Devo dire in proposito che abbiamo lanciato un progetto in cui gruppi di genitori volontari all’interno delle scuole, che mettono a disposizione i locali, fanno orientamento e informazione verso famiglie che hanno problemi di questa natura. Si tratta di iniziative pratiche e concrete, che sono poi quelle che la gente chiede. Siamo già a circa 50 unità operative sul territorio nazionale. Droghe: Lancet; l’alcol è la droga più dannosa, più nociva di eroina e crack Avvenire, 2 novembre 2010 L’alcol è la droga più dannosa, più nociva di eroina e crack, se vengono presi in considerazione i danni alla salute per chi ne abusa e quelli indotti che ricadono sugli altri. Lo rivela lo studio condotto da David Nutt, l’ex consigliere del governo britannico per la lotta alla droga, pubblicato sulla rivista “Lancet”. Da qui la richiesta al governo inglese di interventi coraggiosi e aggressivi sul fronte della sanità pubblica, partendo dalla riclassificazione degli stupefacenti e dalla necessità di promuovere una campagna complessiva contro l’alcolismo e sugli effetti “passivi” della piaga. “Troppe aree del Paese sono vittima di vandalismi, vomitaticcio, risse” legati al consumo eccessivo di alcolici, si legge nel documento di tre organizzazioni, tra cui “Open All Hours?”, gruppo che si batte per regolamentare gli orari dei pub. Ma la ricerca va oltre: se le droghe fossero classificate per il danno che producono, sostengono Nutt e i colleghi dell’Independent scientific Committee on drugs, gli alcolici, venduti liberamente in Gran Bretagna a differenza di droghe come ecstasy o marijuana, dovrebbero rientrare nella categoria A con l’eroina e il crack: su una scala di nocività da 1 a 100, l’alcol è a quota 72, l’eroina a 55 e il crack a 54. Gli alcolici sono tre volte più dannosi di cocaina (27) e tabacco (26), si legge sulla rivista scientifica britannica, mentre i danni dell’ecstasy (9) sono appena un ottavo al pari degli steroidi e prima dell’Lsd (7) e dei funghi allucinogeni (5). Nutt era stato licenziato lo scorso anno dall’allora ministro dell’Interno, Alan Johnson, per aver contestato l’opposizione del governo alla riclassificazione degli stupefacenti. Il professore voleva che la marijuana restasse droga di categoria C mentre l’ecstasy venisse scalata dalla classe A sulla base di un giudizio di minor pericolosità. Secondo recenti stime dell’Oms i rischi legati all’alcol causano 2,5 milioni di morti all’anno per malattie cardiache o epatiche, incidenti stradali, suicidio e cancro, pari al 3,8% di tutti i decessi. Iran: Comitato contro esecuzioni; Sakineh sarà giustiziata domani Apcom, 2 novembre 2010 L’esecuzione di Sakineh Mohammad Ashtiani potrebbe essere imminente. È quanto denuncia il Comitato internazionale contro le esecuzioni, secondo cui Teheran avrebbe autorizzato le autorità penitenziarie di Tabriz a eseguire la condanna a morte. “Le probabilità di un’imminente esecuzione di Sakineh sono ora molto alte”, ha dichiarato il Comitato. Sul sito, si legge che “è stato riferito che sarà giustiziata già questo mercoledì, 3 novembre”. Sakineh, 43 anni, è rinchiusa da cinque anni nel braccio della morte della prigione di Tabriz, nella zona nord-occidentale dell’Iran. Nel 2006 le sono state inflitte 99 frustate per una “relazione illecita” con due uomini, poi è stata condannata a morte per adulterio. Il caso ha suscitato le dure rimostranze della comunità internazionale e una martellante campagna della stampa straniera, tanto che le autorità iraniane hanno deciso, lo scorso luglio, di commutare la lapidazione in impiccagione. Francia: morte di Daniele Franceschi; il ministro Frattini attacca le autorità francesi Il Tirreno, 2 novembre 2010 In quel carcere “sono successe cose gravi su cui non abbiamo ancora risposte definitive”. È il ministro degli esteri, Franco Frattini, a parlare così intervenendo con una telefonata alla trasmissione televisiva “Domenica Cinque” che ha ospitato in studio Cira Antignano, madre di Daniele Franceschi, morto nel carcere di Grasse nell’agosto scorso. “Se ci sono state irregolarità ha detto ancora Frattini - chi deve pagare, paghi”. Perché è “inimmaginabile che in un Paese come la Francia succedano queste cose”. Il ministro ha inoltre assicurato “noi non ci fermeremo qui”. Auspicando che la giustizia francese - che ha aperto un’indagine sulla vicenda dopo le risposte insufficienti fornite dai responsabili del carcere - “sia all’altezza di questo caso”, anche per dare “risposte alla madre” del giovane. Il ministro degli esteri è tornato sulla questione della restituzione della salma alla famiglia e ai medici che hanno eseguito l’autopsia in Italia, successiva a quella in Francia dove sono rimasti tutti gli organi del giovane viareggino. “Contro tutte le promesse fatte - ha ribadito - il corpo che è stato restituito all’Italia era in condizioni pietose. Non era stato conservato alle temperature che avevamo richiesto” per poter poi effettuare l’autopsia in Italia. Ma non solo: “Non sono stati restituiti alla famiglia - è la denuncia del ministro degli esteri - i vestiti ed il diario” di Daniele. Insomma, ha concluso Frattini, sul caso Franceschi “vogliamo tutta la verità e che sia fatta piena luce”. In Francia, intanto, l’associazione “Ban Public” che si occupa delle condizioni delle carceri e dei detenuti, ha fatto propria la battaglia per la verità sul caso Franceschi. Ed ha segnalato ai quotidiani d’Oltralpe la lettera che Cira Antignano ha scritto a Carla Bruni, moglie del presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy. Lettera al momento rimasta senza risposta. Secondo i dati raccolti dall’associazione, in Francia dal primo gennaio di quest’anno sono stati 101 i detenuti che hanno perso la vita in carcere, per suicidio o morte sospetta. Per il 13 novembre (vedi box) è previsto a Viareggio un presidio con assemblea pubblica sul caso di Daniele Franceschi. Gran Bretagna: per la prima volta dopo 140 anni diritto di voto ai detenuti Apcom, 2 novembre 2010 Il governo britannico ha in programma una legge che consentirebbe dopo oltre 140 anni ai detenuti il diritto di voto. Le norme attuali infatti prevedono la revoca del diritto di voto a tutte le persone con condanne superiori ai quattro anni e, dice il Telegraph, negli ultimi mesi i legali del governo hanno cercato a lungo di trovare una soluzione che evitasse il voto dei condannati, cosa per altro chiesta espressamente dal Consiglio europeo per i diritti dell’uomo. Per evitare un contenzioso legale che potrebbe costare diversi milioni di euro di risarcimenti, dunque il governo sarebbe ora orientato a ‘cederè e a cambiare la sua posizione, sino ad ora radicalmente contraria a concedere il diritto di voto ai condannati. Fonti governative dicono che il premier Cameron è “esasperato” e “furioso” per la cosa pur avendola dovuta accettare proprio per evitare seri rischi economici. “Era l’ultima cosa che volevamo fare - dice una fonte governativa - ma non potevano continuare a rinviare una decisione in questo senso. altrimenti avremmo corso il rischio di far pagare il tutto ai contribuenti” e la fonte chiaramente si riferisce a una possibile azione legale da parte delle associazioni per i diritti dell’uomo e dell’Unione Europea. Grecia: leader di “Lotta Rivoluzionaria” in ospedale dopo 22 giorni di sciopero fame Ansa, 2 novembre 2010 I due leader della principale organizzazione armata greca “Lotta Rivoluzionaria” (Ea), Nikos Maziotis e Costas Gournas, in attesa di processo, sono stati ricoverati in un ospedale di Atene dopo 22 giorni di sciopero della fame, secondo quanto rendono noto fonti del movimento anarchico. Gournas aveva cominciato lo sciopero il 9 ottobre scorso per chiedere il trasferimento dal carcere di Trikala a quello ateniese di Korydallos, dove si trovano Maziotis ed altri detenuti di Ea. Trasferito temporaneamente ad Atene Gournas chiede di rimanervi per potersi incontrare più facilmente con la compagna Maria Beracha e il figlioletto di 2 anni. Per solidarietà si sono uniti allo sciopero della fame anche altri detenuti, fra cui Maziotis, che insieme alla sua compagna Pola Roupa e a Gournas al momento dell’arresto nell’aprile scorso si dichiararono membri di Ea. Successivamente i tre si sono rifiutati di rispondere al giudice affermando che “i rivoluzionari non si difendono davanti ai criminali di stato”. Altri tre arrestati con la stessa accusa negano l’appartenenza a EA, responsabile di numerosi attentati. Secondo quanto reso noto dalle fonti anarchiche, nei giorni scorsi anche la compagna di Gournas, Maria Beracha è stata convocata per oggi davanti al giudice nel quadro dell’inchiesta su Ea. In tale occasione è stata indetta una manifestazione di protesta.