Giustizia: dalle carceri fatti e cifre di un’emergenza colpevolmente ignorata di Valter Vecellio Notizie Radicali, 29 novembre 2010 Non ne parla più nessuno. A dire il vero, anche qualche settimana fa non è che la questione fosse particolarmente “sentita”. Ora, comunque, è completamente sparita, in altro si concentra l’attenzione. Intanto nelle carceri si continua a morire e a marcire. Le notizie che arrivano sono le “solite”, e come al “solito” vengono valutate: non essendo divertenti, non sono neppure interessanti; e dunque non si pubblicano. Ma le notizie ci sono, eccome. Il Lazio, per esempio: si registra un nuovo “record” di detenuti, sono ben 6.434; vale a dire 1.760 oltre la capienza delle carceri. Un flusso che sembra crescere in maniera inarrestabile: il 24 novembre, per la prima volta in assoluto, è stata sfondata quota 6.400 presenze. Il dato peculiare che rende la situazione particolarmente grave è che secondo i calcoli nella regione la popolazione detenuta cresce, su base annua, a un ritmo quasi doppio rispetto alla media nazionale: 12 per cento nel Lazio contro il 7 per cento del resto d’Italia. Quasi la metà dei detenuti, 3.081 persone, è in attesa di giudizio definitivo mentre i condannati definitivi sono 3.336. I detenuti stranieri sono 2.533. Le situazioni più critiche a Latina (dove i detenuti dovrebbero essere 86 e sono invece 157), Viterbo (quasi 300 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare), Frosinone (quasi 200 in più), Rebibbia N.C. (oltre 400 in più) e Regina Coeli (quasi 400 in più). A Rebibbia Femminile le donne dovrebbero essere 274, sono invece 111 in più con tutti i problemi che questo comporta, anche nella gestione delle recluse madri con i figli da 0 a 3 anni al seguito”. Ancora “senza soluzione” i casi delle carceri di Rieti e di Velletri dove “nuove strutture con oltre 300 posti pronte per essere utilizzate sono chiuse per carenza di agenti. A Rieti, in particolare, il nuovo carcere da 306 posti ospita 107 reclusi in due sole sezioni aperte e sovraffollate. Stesso discorso per Velletri, dove un nuovo padiglione per oltre 200 detenuti da tempo ultimato è chiuso. Andiamo ora a Bologna. “Siamo di nuovo ai materassi in terra” per far dormire i detenuti del carcere bolognese della Dozza. Lo riferiscono tre parlamentari bolognesi del Pd, Donata Lenzi, Sandra Zampa e Rita Ghedini, che hanno effettuato una visita all’interno del penitenziario: “Non cambia niente, stessi numeri ormai da due anni, immutabile cifra della disperazione”, sostengono. Alla Dozza ci sono 1.158 detenuti su una capienza di 483 posti e verso una presenza tollerabile di 882, si legge nella relazione diffusa dal Pd: “Siamo di nuovo ai materassi in terra”. La presenza del personale invece, è “inversamente proporzionale” visto che la pianta organica prevede 567 unità di Polizia penitenziaria, continua la relazione, ma sono 520 quelle assegnate e “solo 385” quelle effettivamente in servizio. A Lecce, ora, il cui carcere viene definito invivibile: per ogni recluso non più di 3 metri quadrati in cella. Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura sostiene che sette metri quadrati sono lo spazio minimo sostenibile per un detenuto in cella. Nella Casa Circondariale di Borgo San Nicola a ogni recluso non se ne garantiscono più di tre. I posti disponibili sarebbero, a norma di legge, circa 660; le “presenze” sono quasi 1500. È azzardato parlare di una vera e propria tortura di massa? Le norme igienico - sanitarie sono un miraggio: persone affette da patologie, anche gravi, non ricevono i trattamenti adeguati, le temperature estive che superano i 50 gradi, i nove metri quadrati di una cella con tre detenuti dentro, compreso il water ed il letto a castello a tre piani che costringe qualcuno a dormire con la fronte a 30 cm. dal soffitto. A tutto questo si va aggiunta una situazione insostenibile per gli operatori penitenziari: alcuni poliziotti lavorano da soli, senza alcun aiuto, in sezioni detentive lunghe 50 metri e con circa 70 detenuti. Non va meglio a Pescara: il carcere di San Donato scoppia, 199 detenuti a fronte di una capienza di 105. Un sovraffollamento di quasi il 100 per cento, con 199 detenuti a fronte di una capienza di 105 detenuti nel reparto giudiziario. Il nuovo campanello d’allarme sul carcere di San Donato che scoppia arriva dalla segreteria regionale della Uil Pa penitenziari. “Da un lato”, si legge in un comunicato, “la grande attenzione per la popolazione detentiva che diversamente da altri istituti è estremamente tranquilla, pur essendo nel solo reparto aperto (quello giudiziario) un sovraffollamento di quasi il 100 per cento. Dall’altro la scarsa attenzione per il personale di polizia giudiziaria, trascurato e costretto a operare sempre in emergenza. Non è possibile lavorare in questa situazione e assicurare il minimo dei diritti, riposi, congedi, permessi sindacali, con l’inevitabile ripercussione sulla sicurezza dell’istituto e gravando sullo stato del personale in servizio”. A Lamezia Terme, infine: in una cella rinchiuse nove persone, di notte un solo agente sorveglia tutto il carcere. Nove persone rinchiuse in una sola cella per 20 ore al giorno. Tutti affollati su tre letti a castello, intorno a un tavolino in un corridoio stretto, e con un bagnetto. Vita da carcerati, non c’è dubbio. Ma dietro le sbarre del carcere di Lametta Terme diventa ancora più difficile. Ci sono 90 detenuti e 20 agenti penitenziari attivi nei corridoi, altri 10 negli uffici amministrativi. Ma il carcere potrebbe ospitare massimo 50 persone, e dovrebbe essere dotato di un agente per ognuno di loro. Il carcere lametino è interessato da tempo da un notevole sovraffollamento se si considera che la capienza regolamentare è di 30 posti e quella tollerabile di 50, mentre i detenuti oscillano dagli 80 ai 90, determinando una percentuale di sovraffollamento tra le più alte d’Italia. C’è un solo sovrintendente in servizio per turno perché tanti agenti sono distaccati altrove, e diversi non si trovano al lavoro per motivi di salute, e presto potrebbero andare in prepensionamento. Personale ridotto significa anche che c’è un solo agente donna e quando c’è l’accesso al carcere dei familiari dei detenuti bisogna fare ricorso a dipendenti di supporto che arriva da altre sedi. Manca anche un educatore, ogni tanto ne arriva uno che deve far fronte alle richieste di 90 detenuti. La situazione obbliga il personale ad effettuare gravose ed estenuanti turnazioni di lavoro, senza che possano essere assicurate adeguate condizioni di sicurezza nella struttura penitenziaria. Un solo agente per notte non basta a fare i dovuti controlli nella struttura. Giustizia: suicidi e aggressioni; nelle carceri un fine settimana particolarmente funesto e violento Comunicato Uil-Pa, 29 novembre 2010 Domenica, nel penitenziario di Carinola, un detenuto ex collaboratore di giustizia, Rocco D’Angelo, 53 anni, originario di Frattamaggiore (Napoli), si è tolto la vita impiccandosi con la fettuccia della tuta da jogging che indossava. Sabato scorso all’Opg di Aversa tre agenti penitenziari sono stati aggrediti e feriti da un internato particolarmente esagitato. Ne dà notizia Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari: “Le modalità del suicidio di Carinola fanno ragionevolmente pensare che fosse un gesto premeditato, tant’è che lo stesso ha lasciato due lettere indirizzate alla moglie ed a proprio difensore. Il detenuto si trovava a Carinola per ragioni di giustizia ma era effettivo al carcere di Mammagialla a Viterbo”. Sarno poi aggiorna la macabra conta dei suicidi in carcere e rilancia l’allarme sulla violenza negli istituti di pena: “Nel 2010 sono 61 i suicidi in cella. Senza dimenticare i circa 970 tentati suicidi. Metà dei quali non portati a termine per il tempestivo e determinante intervento della polizia penitenziaria. È un dato allarmante e indicativo di come l’afflittività della pena ampli la sfera del disagio al punto da determinare scelte irreversibili come il suicidio. Ma la violenza in carcere trova riscontro anche nei circa 5500 atti di autolesionismo, nei circa 950 episodi di aggressione verso altri (detenuti o personale). Particolarmente rilevante è il bilancio dei poliziotti penitenziari feriti che dal 1 gennaio 2010 ad oggi fanno registrare la stratosferica cifra di 239, limitandoci solo a coloro che hanno riportato lesioni giudicate guaribili oltre i cinque giorni. Questi numeri - denuncia Sarno - sono la cifra esatta della violenza in carcere. Quella violenza che inopinatamente si vuole continuare a nascondere con la censura delle informazioni. Quella violenza che è una aggravio aggiunto alla già penalizzanti condizioni di lavoro per i poliziotti penitenziari e tutti gli operatori penitenziari. D’altro canto da tempo sosteniamo come il sistema penitenziario non sia più nelle condizioni di garantire il proprio mandato costituzionale di rieducare per risocializzare, che resta solo nelle menti di chi non conosce la vera situazione dell’universo carcerario italiano”. Ancora una volta la Uil Pa Penitenziari richiama al’attenzione dei vertici dipartimentali sull’allarmante situazione degli organici della polizia penitenziaria in Campania: “Mentre la camorra viene efficacemente contrastata dal lavoro delle forze dell’ordine e dalla magistratura supportate dal Ministero dell’Interno, altrettanto non possiamo dire per il Ministero della Giustizia. A Santa Maria Capua Vetere e a Carinola, dove sono detenuti esponenti di spicco della criminalità organizzata sottoposti al regime di Alta Sicurezza o di 41-bis, gli organici di polizia penitenziaria sono costantemente ridimensionati ed assottigliati dalle quiescenze non surrogate da nuovo personale. Analoga situazione all’Opg di Aversa, connettore nazionale degli internati esagitati. Per non parlare delle dotazioni logistiche: mezzi inadeguati, vetusti e pericolosi come dimostra il recente incidente sulla Napoli - Bari, laddove un mezzo della polizia penitenziaria con i freni in avaria ha rischiato di causare una ecatombe. Vogliamo auspicare - conclude il segretario generale della Uil Penitenziari - che nella reclamata azione di contrasto al crimine organizzato si trovino anche le risposte per le criticità degli istituti penitenziari. È troppo facile rivendicare in tv il ruolo ed i meriti, che pur ci sono, del sistema penitenziario salvo non garantire ad esso le risorse, i mezzi ed i fondi necessari”. Giustizia: fermare il boia negli Usa? è possibile, con un boicottaggio di Italia e Ue di Luca Liverani Avvenire, 29 novembre 2010 L’Italia e l’Europa non riforniscano più i boia texani degli ingredienti per l’iniezione letale. Parte con una campagna contro la produzione in Italia del sodium thiopental, uno dei tre farmaci alla base del cocktail usato negli Stati Uniti per le esecuzioni, la IX edizione della Giornata internazionale delle “Città per la vita, città contro la pena di morte”, promossa il 30 novembre in tutto il mondo dalla Comunità di Sant’Egidio. La data - che ricorda l’abolizione della pena capitale nel 1786 nel Granducato di Toscana, primo stato abolizionista d’Europa - coinvolge quest’anno oltre 1.300 città (500 in Italia, 64 sono capitali) in 85 Paesi di ogni continente. Tra le tante iniziative, domani, all’Auditorium Antonianum di Roma, l’incontro “Voci dal braccio della morte”, a cui partecipano Mario Marazziti, Andrea Camilleri, Neri Marcorè e Derrick Jamison, un ex condannato a morte innocente. Poi, in serata, il raduno al Colosseo. La più grande mobilitazione internazionale contro la pena capitale - attraverso iniziative e testimonianze - cresce di anno in anno. Così come il rifiuto verso l’omicidio di Stato nell’opinione pubblica mondiale: il voto dell’ 11 novembre sulla risoluzione Onu per una moratoria delle esecuzioni ha registrato ancora una volta un numero crescente di voti favorevoli: 107 i sì, 38 no e 36 astensioni. “Il 30 novembre la Comunità di Sant’Egidio chiederà al governo italiano di istituire un tavolo con la filiale italiana di Hospira, l’azienda farmaceutica francese che produce il sodium thiopental”, spiega il portavoce della Comunità, Mario Marazziti. “Vogliamo aiutare questa azienda i - taliana a trovare il modo per non consegnare la sostanza - dice il portavoce di Sant’Egidio - quando viene appurato con certezza che verrà impiegata perle esecuzioni. Con la tracciabilità di può fare. Dobbiamo porre fine a questa corresponsabilità italiana ed europea”. Marazziti spiega che in Francia che Sanofi-Aventis e Abbot producono i farmaci che Texas e altri Stati americani usano per le esecuzioni. Per l’iniezione letale servono tre sostanze: il sodium thiopental viene inoculato per primo e causa incoscienza, poi arriva il pancuronium bromide che ferma la respirazione. Il colpo letale arriva col cloruro di potassio che causa l’arresto cardiaco. “Stiamo attivando la Coalizione mondiale contro la pena di morte - dice Marazziti - per rendere non più legale l’esportazione di queste sostanze”. La strada per mettere fuori dalla storia la pena di morte è ancora lunga e in salita. Ma ogni giorno si fanno passi importanti. “La Comunità ha avuto un ruolo diretto per portare altri due Paesi tra chi ha votato la Risoluzione Onu, Mongolia e Maldive. Abbiamo contatti in corso anche con la Guinea e altri Paesi africani. Al voto finale in assemblea plenaria, a metà dicembre, potrebbero aumentare le astensioni. La scorsa votazione gli “irriducibili” erano 46, ora sono 38”. È una tendenza costante. Anche nei due Paesi simbolo, il gigante comunista dell’Est e la grande democrazia dell’Ovest. “Negli ultimi tre anni in Cina le esecuzioni sono diminuite del 10 per cento calcolando i dati ufficiali. Merito degli interventi della Corte suprema, che ha ridotto i reati puniti con la pena di morte e i poteri alle Corti locali. Ma i numeri delle esecuzioni sono in realtà incerti e la riduzione potrebbe sfiorare il 30 per cento”. Calo costante anche negli Stati Uniti: “È più di un decennio - dice Marazziti - che in California scendono le esecuzioni, con una o nessuna l’anno. Quasi 700 persone sono nel braccio della morte. Tutto ciò crea un ingolfamento nella macchina della giustizia con i ricorsi alla Corte suprema. I due parlamentari californiani eletti nel Mid Term si sono pubblicamente dichiarati a - bolizionisti. È probabile che uno di loro sia il prossimo governatore”. Dello Stato più popoloso degli States, che da solo, è la settima economia del mondo. Sono tanti i segnali positivi. “Penso alla sospensione della condanna di Asia Bibi. O al rifiuto del presidente iracheno Talabani di firmare l’esecuzione di Tareq Aziz”. Forse allora non è un sogno immaginare la pena di morte nella cantina della storia: “La schiavitù non era considerata un elemento indispensabile dell’economia?”. Giustizia: Adolfo Ceretti, il criminologo che non va in televisione La Stampa, 29 novembre 2010 Aldo Grasso può stare tranquillo: non ho mai accettato un invito in tv e non lo accetterò mai”, dice Adolfo Ceretti. Università Milano-Bicocca. Tra i relatori al convegno su “Processo e informazione”, organizzato dalla facoltà di Giurisprudenza dove Ceretti, 55 anni, insegna Criminologia, c’è anche Aldo Grasso, editorialista e critico televisivo del “Corriere della Sera” che, in pochi mesi, ha dedicato 2 articoli al curaro alle discutibili performance nei salotti tv di “criminologi showman”, personaggi di spicco nel cast della tv del crimine, un genere in escalation di audience e di violazioni delle norme processuali (vedi: diffusione del video con le riprese del sopralluogo nel garage degù inquirenti con Michele Misseri, indagato per l’omicidio di Sarah Scazzi). Da Novi Ligure ad Avetrana; da Francesco Bruno a Massimo Picozzi, alla vistosa dottoressa Bruzzone. Antefatto. Conquistato dal rigoroso lavoro di Ceretti e Lorenzo Natali, autori del saggio “Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali”, un’approfondita ricerca - condotta anche attraverso colloqui con detenuti per delitti gravissimi - sulle radici di gesti efferati (“Un’azione violenta è sempre l’esito di un lungo percorso”, spiega Ceretti), Aldo Grasso aveva ironizzato: “Mi spiacerebbe vedere un giorno Ceretti & Natali condurre un programma, vestiti di nero...”. Sorride Ceretti: “Non deluderò Grasso! Del resto, sto seguendo casi pazzeschi già passati in giudizio ma nessuno, a cominciare dai magistrati, ne parla”. Segretario della Società italiana di criminologia, tra i massimi esperti di mediazione penale, Adolfo Ceretti, si è spesso occupato di delitti tristemente celebri. Su incarico del gip, con il prof Gustavo Pietropolli Charmet e Alessandra Simonetto, ha firmato la perizia su Erika e Omar, i due ragazzini della strage di Novi Ligure. “Un lavoro in profondità; 40 ore di colloquio con ciascuno. Sfido a trovare nostre interviste; peccato che, poi a “Matrix”, conduttore Alessio Vinci, hanno dato brani della perizia a Erika, all’epoca minorenne: era in mano solo agli 11 periti e i giudici non l’avevano neppure vista”. Fughe di atti, perizie in diretta tv, spettatori giudici. “Tutto ciò non ha nulla a che fare con la giustizia. Certi talk - show fanno del male e - permetta lo sfogo - mi fanno star male. Prendiamo il caso di Cogne. Non so se la Franzoni fosse colpevole però conosco colleghi serissimi che l’hanno “periziata” e mi hanno detto tutti i loro dubbi. Sull’omicidio di Sarah Scazzi è stato detto tutto e il contrario di tutto; ciascuno dei protagonisti sostanzialmente è stato già giudicato. Sappiamo che occorre un contesto protetto per aiutare il reo a scrivere la sua trama, a raccontarsi; e, quindi, a cominciare a riflettere su ciò che ha commesso. La riflessività è il primo passo di un percorso critico. Se è vero che Sabrina chiede cosa dicono di lei in tv significa che non sta parlando con se stessa p con i giudici ma con l’immagine che di lei proiettano le tv”. Non più verità processuali e peritali ma televisive. Diagnosi del prof Ceretti: “Questa televisione è perversa. Non tiene conto delle pronunce giudiziarie e legalizza la sua trasgressione”. Un circolo vizioso, sempre più dissennato. Stigmatizza Ceretti: “Siamo alla “revolving door”. Criminologi ed esperti di vario genere che vanno, avanti - indietro, dalle aule giudiziarie agli studi televisivi come se ci fosse una porta girevole”. Comportamenti che, alla Società di criminologia, presieduta dal professor Roberto Catanesi, suscitano un crescente disagio. “Gli studiosi seri come l’ottimo Catanesi o Ugo Fornari, il più bravo psichiatra forense, non vanno mai in tv”, sottolinea Adolfo Ceretti. E annuncia: “Stiamo lavorando a una dichiarazione ufficiale della Società. Anche se non possiamo proibire niente la nostra posizione sarà netta. Ai media piena disponibilità quando si tratta d’intervenire su questioni e patologie - esempio: la pedofilia - e reati connessi. Ma, prima della sentenza definitiva, niente giudizi sui singoli casi”. Lettere: essere bambini e crescere in un carcere di Andrea Boraschi (sociologo) L’Unità, 29 novembre 2010 Negli istituti di pena italiani vivono oggi, con le loro madri, 57 bambini sotto i 3 anni. Alcuni di loro hanno accesso, per poche ore al giorno, ad asili nido e strutture alternative al carcere; altri trascorrono la loro intera giornata dietro le sbarre, in ambienti spesso malsani, privi di quasi tutto ciò che ciascuno di noi prevede come diritto fondamentale - e non come opzione voluttuaria - per un minore di quella età. Invero esiste una legge, la 40 del 2001, prima firmataria Anna Finocchiaro, che prevedeva una serie di misure alternative alla detenzione per le madri recluse. Tuttavia questa norma si è rivelata inapplicabile in numerosi casi: per le detenute recidive, per quelle in custodia cautelare e per quante hanno pene lunghe da scontare. Ancor più, essa è stata largamente disattesa dai giudici; e si dimostra sovente inefficace per quelle madri (spesso straniere) che non hanno un’abitazione dove scontare gli arresti domiciliari. La “reclusione” di bambini sotto i 3 anni è conseguenza penosa di una legislazione che vuole evitare una barbarie, ovvero la separazione tra madre e prole nel primo periodo di vita. La situazione che si determina, tuttavia (quei 57 bimbi oggi in carcere, i molti altri “detenuti” in passato e gli altri ancora che, nei prossimi anni, avranno il carcere come prima casa) richiede soluzioni urgenti, radicali. A tal riguardo sono stati elaborati, negli anni, diversi disegni di legge. Le soluzioni individuate tendono da un lato a rafforzare il ricorso alle misure alternative; dall’altro prevedono la costruzione o l’approntamento di strutture specifiche, nuove case famiglia, dove le detenute possano crescere i figli in regimi di vigilanza attenuata; e, più in generale, una serie di norme aggiuntive a tutela della crescita dei minori. Un lungo lavoro di sintesi, in questa legislatura, ha portato alla redazione di un testo unico in materia. Non ne discuterò qui pregi e difetti ma ne richiamo l’importanza, pensando che la sua traduzione in legge contribuirebbe certo a migliorare la situazione. L’inizio della discussione di quel testo era stato calendarizzato dal Pd per il 29 novembre, domani, alla Camera nello spazio riservato alle opposizioni. Non si terrà, invece, perché i democratici hanno ritirato il testo per avanzare la mozione di sfiducia al ministro Bondi. Comprensibile? Forse. Doveroso? Non direi. Di certo, per alcuni aspetti, fisiologico, se è vero che ogni crisi politica finisce per mutilare lavori assembleari talvolta preziosi, talaltra irrinunciabili. Ho l’impressione - assai amara - che le macerie di Pompei macchieranno anche la dignità delle istituzioni dinanzi a 57 piccolissimi innocenti. E che sui criteri che inducono a una scelta simile si potrebbe aprire in confronto davvero non banale. Lettere: quando la libertà non è uguale per tutti di Roberto Cafiso (Dirigente del servizio di psicologia Asl 8 Siracusa) La Sicilia, 29 novembre 2010 Era già successo con Angelo Izzo, il mostro del Circeo. Condannato all’ergastolo, dopo parecchi anni di detenzione aveva ottenuto gli arresti lavorativi a Campobasso. Proprio in questa sede, dove Izzo si trovava detenuto prima del suo trasferimento al Pagliarelli di Palermo, il giudice di sorveglianza Mastropaolo si era opposto al beneficio poi invece concesso dai colleghi del capoluogo siciliano. Ottenuta la semilibertà Izzo ucciderà ancora. Carmela Linciano e la figlia quattordicenne Valentina Maiorano le sue nuove vittime. Un nuovo ergastolo, ma la Corte di giustizia europea per questa scarcerazione fatale ha condannato l’Italia per negligenza. Izzo non andava messo in libertà. Di recente il caso di Emiliana Femiano, 25 anni. Il suo ex partner, Luciano Faccetti, condannato ad 8 anni per aver già tentato di uccidere la donna, era stato posto agli arresti domiciliari. Da qui ha contattato Emiliana e stavolta non ha fallito. Decine di fendenti vibrati con un coltellaccio l’hanno straziata. Nuova confessione e carcere. Vi sono comportamenti inspiegabili da parte dell’autorità giudiziaria. Soggetti condannati per stalking che continuano impunemente a minacciare le loro vittime che denunziano i fatti ma inutilmente. Sino all’aggressione e talvolta all’omicidio. È ciò che fa recriminare alla gente la certezza della pena per reati così gravi ed a rischio di recidiva. Tre i fattori più comuni che ostacolano quest’esigenza di auto protezione sociale. Il non approfondimento dei casi sotto il profilo psicopatologico, la quantità di processi a carico del singolo magistrato, il sovraffollamento delle carceri. Quest’ultimo problema può talvolta spingere i Tribunali di sorveglianza a decongestionare celle stracolme, non pesando sufficientemente la pericolosità dei detenuti a cui verranno concessi arresti domiciliari e misure alternative. Le stesse tempistiche e le procedure burocratiche talvolta rallentano ed intralciano valutazioni obiettive, arrivando sino alla scadenza dei termini che poi spalancheranno le porte degli istituti di pena a soggetti per nulla pronti ad inserirsi nella società e non sempre per loro responsabilità. Se il carcere, per cento motivi persino giustificabili, è soltanto un contenitore di individui in attesa di un ravvedimento, che può prevedere a volte esperienze anche originali (laboratori, teatro, arte,e tutto ciò in grado di ridare dignità e stimolare una creatività sana) e nient’altro, allora la sua funzione non rassicura la collettività. L’omicida seriale, lo stesso stalker e molti responsabili di crimini reiterati contro la persona , sono per lo più dei disturbati psichici. Frequentemente sono portatori di un disturbo di personalità che certo non può essere trattato unicamente con qualche sedativo ed un regolatore dell’umore. Questa prassi serve più a mantenere controllabile uno stracolmo stabilimento penitenziario, che a curare chi è malato. Costui persevererà in un’ideazione disturbata che il tempo può solo mitigare, ma relativamente. Si tenga presente poi che i portatori di un disturbo di personalità sono abilissimi nel fingere, simulando ravvedimento e comportamenti adeguati durante la detenzione. Da qui le istanze dei legali degli interessati, la valutazione carente pur in buona fede del personale carcerario e l’approssimazione con la quale i giudici sono costretti a decidere per l’enorme gravame sulle loro spalle. Gli psicopatici andrebbero trattati in carcere, sottoposti cure obbligatorie, dopo un’appropriata valutazione psicodiagnostica e ad un’osservazione clinica scrupolosa di mesi e poi inseriti in programmi di psicoterapia individuale o di gruppo sul cui esito dovrebbe poi basarsi il pronunciamento del magistrato in ordine ai benefici di affidamento o di semilibertà. Prassi di questo tipo farebbero diminuire le recidive o comunque le misure alternative concesse superficialmente. È da ciò che deriva il danno sociale e quello individuale del reo che si avvierà verso scenari di irrecuperabilità e cronicità. Una vita sprecata senza vere chance per raddrizzarla almeno un po’. Sardegna: Zuncheddu (Rossomori); pattumiera dei peggiori elementi della criminalità organizzata Agenpar, 29 novembre 2010 “Con l’arrivo a Badu ‘e Carros del boss camorrista Antonio Iovine si conferma l’idea della Sardegna come pattumiera per i peggiori elementi della criminalità organizzata”. Ad affermarlo è l’on. Claudia Zuncheddu, consigliere regionale dei Rossomori, che stamane ha illustrato in conferenza stampa l’attività svolta a favore della cosiddetta “territorialità della pena”. “Si tratta di una battaglia per il rispetto dei diritti del popolo sardo”, ha aggiunto l’on. Zuncheddu, “visto che esiste una legge, la n.354/75, ed un Protocollo d’intesa tra Regione e Ministero della Giustizia, per favorire il rientro in istituti penitenziari isolani dei detenuti sardi in attesa di giudizio o che scontano le pene nelle carceri d’oltremare”. Il tema è stato oggetto di interrogazioni e mozioni, ma finora non si è giunti a risultati concreti. “Il prossimo passo sarà compiuto dal collega Luciano Uras”, ha proseguito l’esponente dei Rossomori, “che porterà il tema nella Commissione d’Inchiesta sull’applicazione delle leggi regionali. Ma, più in generale, invitiamo tutte le forze politiche e chiunque abbia a cuore i diritti dei sardi ad unirsi a noi in questa mobilitazione”. La consigliera regionale del centrosinistra ha posto l’accento anche su un altro argomento correlato, giudicato di grande importanza. “Si pensi”, ha affermato, “al rischio di contaminazione della società sarda da parte della criminalità organizzata di stampo mafioso e camorristico, in un tessuto socio - economico già fortemente mortificato dalla crisi, se divenisse realtà il piano per la spedizione in Sardegna di 400 detenuti in regime di 41 bis”. Una sfida anche culturale, secondo l’on. Zuncheddu, “perché ad essere rivisitato dovrebbe essere tutto il sistema carcerario nel suo insieme. Invece di costruire nuove carceri, il problema del sovraffollamento delle strutture e della gravi difficoltà in cui sono costretti a vivere i detenuti si potrebbe risolvere con le strutture alternative e con la depenalizzazione di alcuni reati minori. Più case famiglie, insomma, e meno prigioni”, ha concluso l’esponente dei Rossomori. Carinola (Ce): detenuto di 53 anni si impicca in cella, è il 61° suicidio in carcere del 2010 Agi, 29 novembre 2010 Un detenuto a Carinola, penitenziario nel casertano, ex collaboratore di giustizia, Rocco D’Angelo, 53enne nato a Frattamaggiore, nel napoletano, si è tolto la vita impiccandosi con la fettuccia della tuta da jogging che indossava. “Le modalità del suicidio - spiega il segretario dell’Uilpa Eugenio Sarno - fanno pensare che fosse un gesto premeditato, tant’è che D’Angelo ha lasciato due lettere indirizzate alla moglie ed a proprio difensore. Il detenuto si trovava a Carinola per ragioni di giustizia, ma era effettivo al carcere di Mammagialla a Viterbo”. In questo anno, sinora, sono 61 i suicidi in cella e circa 970 i tentati suicidi, “età dei quali non portati a termine per il tempestivo e determinante intervento della polizia penitenziaria”, sottolinea Sarno. Firenze: il Garante dei detenuti; l’incontro con Caliendo positivo su problematiche Solliciano Agenparl, 29 novembre 2010 “Ne è valsa la pena. Un incontro soddisfacente in cui il sottosegretario alla giustizia Caliendo ha dimostrato interesse verso le problematiche del carcere di Sollicciano, tanto che ha elencato una richiesta di risorse al Governo per le opere strutturali più urgenti ovvero 243mila euro per le docce nel reparto femminile, 300mila per l’allestimento di una seconda cucina e il locale vitto, 300mila per allargamento dei cortili per il passeggio”. È il commento del consigliere del Gruppo misto Stefano Di Puccio e degli altri componenti delle delegazione fiorentina del consiglio comunale Eros Cruccolini di SeL e il presidente della commissione sanità Maurizio Sguanci (Pd) che insieme al dottor Michele Mincucci in rappresentanza dell’assessore Stefania Saccardi e al garante dei detenuti Franco Corleone hanno incontrato ieri a Roma il sottosegretario di stato alla giustizia Giacomo Caliendo. “Caliendo - ha aggiunto Di Puccio - ha anche parlato di assunzioni di personale: circa 800 persone già idonee che hanno passato il concorso; si prevede anche e lo spostamento di 80 detenuti in altre carceri” “Tutte queste richieste - ha aggiunto Di Puccio - fanno parte di una piattaforma più ampia, presentata a suo tempo dal Corleone. Resta solo da vedere se e in che tempi saranno stanziati tali fondi. Caliendo non ha negato la possibilità di una visita al carcere di Sollicciano che la delegazione fiorentina ha fortemente richiesto e vorrebbe far coincidere la sua visita con il consiglio comunale che dovrebbe tenersi nel carcere come annunciato dal presidente del consiglio Giani” Per parte sua Di Puccio si è sentito particolarmente soddisfatto e “ripagato per il digiuno. La mia iniziativa che è passata del tutto inosservata da parte dei giornali, ha comunque dato qualche risultato; il mio rammarico non era certo per la mancata visibilità della mia persona, era semmai un sincero e doveroso richiamo all’attenzione verso i diritti di chi, ultimi fra gli ultimi, vengono si privati della libertà per l’espiazione della pena ma non devono essere privati della propria dignità personale”. Oggi digiuna Eros Cruccolini, Consigliere Comunale Pawel Anrzej Gajewski, Pastore Chiesa Valdese, digiunerà il 30 novembre; Barbara Ventra, Chiesa Valdese, digiunerà il 1° dicembre; Renzo Magosso, giornalista, digiunerà il 2 dicembre; Davide Roberto Papini, Chiesa Valdese, digiunerà il 3 dicembre. Roma: rimasta senza fondi chiude la biblioteca creata dell’Associazione Papillon Rebibbia Liberazione, 29 novembre 2010 La cultura non serve. Sono lontani i tempi in cui Mark Twain diceva che per ogni nuova biblioteca aperta ci sarebbe stato un carcere da chiudere. Al contrario oggi si progettano nuove carceri e contemporaneamente si chiudono le biblioteche, come quella del casale Ponte di Nona, periferia estrema della Capitale, creata dall’associazione culturale di detenuti ed ex detenuti Papillon Rebibbia che venerdì 19 novembre ha dovuto chiudere i battenti. Un patrimonio di 7.200 titoli inseriti nel polo universitario della Sapienza, tutti catalogati ma ormai non più consultabili e fruibili dai cittadini di ogni parte d’Italia a causa dell’assenza di fondi e delle autorizzazioni che consentirebbero l’autofinanziamento della struttura. Risultato di un disinteresse antico che dalla giunta Veltroni, passando per quella Marrazzo arriva all’attuale sindaco Alemanno. Trieste: mio marito, nato rom e allevato per rubare, in carcere sta cercando di riscattarsi di Maddalena Rebecca Il Piccolo, 29 novembre 2010 “Grazie a loro io e i bambini, pur nella nostra sofferenza, abbiamo un sorriso in più”. Usa parole semplici ma efficaci Debora, giovane mamma triestina costretta a tirar su da sola tre figli piccoli, per esprimere la sua riconoscenza al direttore e alla polizia penitenziaria del Coroneo. Un ambiente che, suo malgrado, Debora conosce bene. Il marito Ibrahim, nomade di etnia rom con una lunga storia di furti e truffe alle spalle, sta scontando il proprio debito con la giustizia in una cella e ci rimarrà almeno per i prossimi quattro anni. Eppure, nonostante il dolore per la lontananza e l’amarezza per gli sbagli del marito, Debora è quasi felice di saperlo in carcere. “Perché lì - spiega - è trattato come una persona e non come un numero. E soprattutto perché, grazie alla straordinaria umanità del personale, sta facendo un percorso di crescita che “fuori”, anche a causa del contesto in cui è nato e cresciuto, gli sarebbe negato”. In carcere Ibrahim ha l’opportunità di lavorare (“guadagna 500 euro al mese, che si aggiungono al mio stipendio di addetta alle pulizie e contribuiscono in maniera importante al sostentamento della nostra famiglia”), e lo stimolo a studiare, tanto che a breve dovrebbe riuscire a conseguire la licenza media. Apparentemente piccole cose, che però diventano grandi risultati se provieni, e appartieni, all’ambiente degli “zingari”. “In quell’ambiente io sono stata catapultata otto anni fa, quando ho conosciuto mio marito - continua Debora - . E se prima mi faceva paura, ora mi fa solo tristezza. È un mondo in cui, se non rubi e non obbedisci ai capi, non vali niente e vieni escluso dal branco. Un mondo che ti segna come un marchio e dal quale, nonostante i tuoi sforzi, non riesci ad uscire. Ibrahim è il primo a essere disgustato da quell’ambiente. Per tante volte ha provato ad allontanarsene ma puntualmente ne è stato risucchiato, finendo per buttare nella spazzatura 15 anni della sua vita. Nonostante tutto però - prosegue - io rifarei ogni cosa pur di stare con lui. Perché mio marito, che da bambino veniva legato alla sedia dalla madre e picchiato a sangue se non andava a rubare, oggi è comunque un uomo meraviglioso e un bravissimo papà (la coppia ha due bambini, a cui si aggiungono una figlia avuta da Debora dall’ex marito e altri tre frutto di un precedente matrimonio di Ibrahim che vivono con la madre, ndr ). E, grazie al carcere, può diventare una persona migliore perché, per tanti aspetti, viene trattato con più rispetto a quello che avrebbe fuori. Ecco perché sento il bisogno di ringraziare il direttore e il comandante della polizia penitenziaria. Una grazie autentico, che viene dal cuore”. “Messaggi come questi dimostrano che i nostri sforzi per far sì che i detenuti trovino nel sistema carcerario una soluzione anziché un problema, pagano - commenta Enrico Sbriglia - Se riusciamo a far sì che una persona ricostruisca la propria vita nel rispetto della legalità, abbiamo fatto la miglior sicurezza. Questa è la filosofia del sistema e la si persegue proprio attraverso il lavoro, la scuola e l’impegno straordinario del nostro personale”. Milano: colletta alimentare nelle carceri, un esempio di straordinaria solidarietà di Chiara Rizzo Vita, 29 novembre 2010 La XIV edizione della Giornata nazionale della colletta alimentare ha visto anche la partecipazione dei detenuti. 283 kg di alimenti raccolti nel carcere di San Vittore, 305 a Monza, 1294 a Opera. I detenuti hanno pagato gli alimenti di tasca loro e sono stati capaci di un così grande slancio di solidarietà perché si sono riconosciuti bisognosi Una “prima volta” per la colletta alimentare: alla XIV giornata nazionale per la raccolta di cibi non deperibili da donare ai più poveri, stavolta hanno partecipato anche dei protagonisti insoliti. In Lombardia, infatti, hanno raccolto gli alimenti anche i detenuti di alcune carceri, quelle milanesi di San Vittore e Opera e quelli di Monza. L’iniziativa, proposta dai volontari dell’associazione Incontro e Presenza, ha trovato un larghissimo consenso tra i carcerati, che hanno acquistato gli alimenti tramite il “sopravvitto” (pagando cioè di tasca propria). Per il carcere di San Vittore sono stati raccolti così 283 chili di alimenti; a Monza 305 chili, ad Opera addirittura 1294 chili. Particolarmente significativi questi dati, se incrociati con quelli del numero di detenuti presenti. A Monza, per esempio, è stata donata quasi la stessa quantità di alimenti del carcere di San Vittore, ma se nel primo caso i detenuti sono 850 circa, nel secondo si sfiorano i 1.450. Di questi ultimi, poi, la maggior parte versa in situazioni di grave indigenza personale (la più ampia “fetta” di cibo raccolto a San Vittore proviene dal VI raggio, noto per essere il più povero). “L’adesione è stata completamente spontanea” racconta a Tempi Massimo Parisi, direttore della casa circondariale di Monza: “Ho accettato di lasciare spazio a quest’iniziativa, perché dimostra che lo stigma di essere un peso per la società, che spesso i detenuti si portano addosso, non corrisponde alla realtà. Mi ha colpito molto anzi la sensibilità che emerge dentro gli istituti penitenziari. Coinvolgere i detenuti come soggetti “attivi” della solidarietà è importante: li abbiamo visti come persone che capiscono e sanno sostenere le difficoltà degli altri, pur versando essi stessi in gravi difficoltà. Non era la prima volta che vedo i detenuti aderire ad iniziative di solidarietà, e quello che mi ha reso felice è che mi sono limitato solo ad annunciare la raccolta una sola volta. Nessuna insistenza è stata necessaria”. Un’occasione che provoca: perché molto spesso il carcere è concepito dagli stessi direttori come un luogo da mantenere “isolato” per garantire maggiore sicurezza. “È vero, il carcere nasce come mondo fortemente autoreferenziale - ammette Parisi - , ed è pur vero che ci sono direttori che mantengono un atteggiamento di paura, rispetto all’apporto delle associazioni di volontari. Ma è una paura che oggi tende a diminuire, per fortuna. Il punto a mio avviso è che questo avviene quando le proposte delle associazioni sono chiare. E questa lo è stata, con il messaggio che il detenuto può essere autore di gesti di solidarietà. È significativo che la raccolta di alimenti dentro il carcere sia avvenuta in contemporanea a quello che succedeva nel territorio esterno. C’è stata una sinergia totale tra detenuti e società. Quello che mi è piaciuto di più, inoltre, è che anche dalle carceri è stato veicolato un messaggio alla società esterna. Qualcosa a cui spesso non si pensa: dentro il carcere il senso di solidarietà è molto forte”. Immigrazione: relazione Dia; un quarto dei reati di mafia è commesso da stranieri di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2010 Se il diavolo si nasconde nei dettagli, l’associazione mafiosa si cela ormai sempre più dietro gli stranieri: su quattro che commettono reato, uno non è italiano. A certificarlo è la Direzione investigativa antimafia (Dia) nella relazione del primo semestre 2010. Per la precisione il 23% dei delitti associativi - a delinquere e/o di tipo mafioso e/o finalizzato al traffico della droga - è infatti compiuto da extracomunitari (17%) e comunitari (6%). La regione dove si consuma la maggior parte dei reati è la Lombardia che, alla pari del resto del Nord, appare come la “terra promessa”. Tra i soggetti comunitari la percentuale dei rumeni è del 72% ed è proprio su questa etnia che si sono accesi i riflettori della Dia. “La tipologia dei reati posti in essere dai cittadini romeni - si legge infatti nella relazione - ha confermato la tendenza allo sviluppo degli originari piccoli gruppi in vere e proprie strutture criminali, molto spesso dedite, in concorso con altri soggetti albanesi o italiani, allo sfruttamento della prostituzione, alle frodi informatiche, al traffico di stupefacenti e ai reati contro il patrimonio”. In Lombardia, nel primo semestre 2010 è stato consumato il 26% dei reati associativi che coinvolgono i rumeni e, a seguire, il Piemonte, l’Umbria e i Lazio (tutti con 15%) e il Veneto (9%). “I metodi usati per ottenere i notevoli proventi derivanti dal traffico della prostituzione - continua il rapporto della Dia - sono improntati a costanti forme di violenta intimidazione e di costrizione, tanto da costituire molto spesso situazioni di vera e propria riduzione in schiavitù di ragazze giovani, anche minorenni, portate in Italia con prospettive di lavoro ingannevoli, ma con l’unico intento di realizzare il loro sfruttamento come prostitute”. Il richiamo agli albanesi non è casuale. Quest’etnia si divide con quella rumena il primato dei reati associativi di tipo mafioso o legati al traffico di droga, con o senza la collaborazione degli italiani. I gruppi di albanesi, affermala Dia, attraverso soggetti stabilmente residenti in Italia o in possesso di regolare permesso di soggiorno, hanno il compito di “movimentare grandi quantità di stupefacenti, grazie a una rete in grado di rifornire i sodali in tutta Italia; articolare su vaste aree territoriali, anche internazionali, la gestione delle altre attività illecite, come lo sfruttamento della prostituzione e, infine, di interfacciarsi con altri gruppi criminali”. Gli albanesi, ancor più dei rumeni, sono in grado di costituire, a partire dal narcotraffico, veri e propri network multietnici, nei quali vanno a braccetto, oltre che con gli italiani, con nordafricani, sudamericani e “chiunque possa fornire il proprio apporto al sistema criminale o ad una singola progettualità criminale”. Spesso il concorso associativo interetnico ha una durata limitata, essendo collegato alla continua ricerca di nuove fonti di denaro illecito. E qual è la meta preferita degli albanesi per i reati di tipo associativo? Ancora la Lombardia (24% dei delitti), preceduta però di un soffio dalla Toscana (25%) e seguita dall’Umbria (21%). La Lombardia, in particolare, è un luogo strategico per arrivo, stoccaggio e smistamento della droga. In particolare l’eroina, attraverso la Puglia o i Balcani e la cocaina, proveniente da Spagna, Olanda e Belgio, che costituiscono, grazie alla presenza di una considerevole rete di connazionali oltrefrontiera, una filiera naturale. Non finisce qui, perché la Dia sottolinea che la Lombardia è il luogo ideale per la sperimentazione di sodalizi criminali multietnici. Insomma, un laboratorio criminale a tempo determinato, come se non bastasse la ‘ndrangheta che detta legge nei traffici illeciti. Per continuità territoriale con la Lombardia, continua la Direzione investigativa antimafia, è il Triveneto l’area ideale per i traffici degli albanesi ma lo stesso ragionamento vale per i rumeni. Kazakistan: storia di Flavio, condannato a sei anni di carcere duro per un etto di fumo di Federico Ferrero L’Unità, 29 novembre 2010 Il prossimo trasferimento sarà nel durissimo carcere di Semey, senza possibilità di comunicare con il mondo esterno. È stato condannato a sei anni: il suo compagno di cella, per un omicidio ne ha presi quattro. Flavio Sidagni, una laurea in economia e l’anima del giramondo, ha compiuto 55 anni e lavora da una vita per l’Eni: prima l’Egitto, poi Angola, Olanda, infine il Kazakistan. Da dieci anni è responsabile finanza e controllo di Agip Kco, società sussidiaria del colosso italiano per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas nell’area caspica e di Kpo, Karachaganak Petroleum operating, consorzio affaristico tra i giganti Bg, Eni, Chevron e Lukoil. La sua vita, tutto sommato una vita normale da funzionario con incarichi all’estero, finisce il 20 aprile 2010. Qualcuno, nella serata di un giorno come gli altri, bussa alla porta del residence in cui tutti i dipendenti Eni soggiornano, ad Atyrau. Sidagni vive lì con la moglie, Irina, e il figlio di sei anni. Ha già ospiti in casa, ma quello non è un amico in più: è la polizia. Che entra senza un mandato, perquisisce l’appartamento, trova 120 grammi di hascisc e se lo porta via ammanettato. “Senza poter parlare con un avvocato, senza sapere che poteva rifiutare la perquisizione, senza il tempo di capire cosa stesse succedendo”, racconta Paolo Gorlani, marito di Simona, la cugina di Sidagni. Sono loro, dall’Italia, a occuparsi della sorte di Flavio, sconosciuta fino a pochi giorni fa anche alla madre ottantenne. “Il fatto è che abbiamo preferito, in un primo tempo, utilizzare solo i canali ufficiali, niente stampa: solo l’ambasciata, la Farnesina e l’avvocato sul posto, che però è un legale statunitense non penalista. Poi abbiamo deciso di spargere la voce il più possibile, perché ci siamo accorti che Flavio stava per sprofondare in una fossa senza possibilità di uscita”. Già. Sidagni è stato condannato, in primo e in secondo grado, a sei anni di reclusione. Regime duro. Due corti di giustizia hanno ritenuto di accogliere l’impianto accusatorio del pubblico ministero che aveva chiesto il massimo della pena, ridotto quasi della metà in sentenza grazie alla concessione delle attenuanti generiche e in considerazione della sua fedina penale immacolata. “Pensare - continua Gorlani - che nella prima fase del procedimento era stato accusato di traffico internazionale, di spaccio e di induzione al consumo di stupefacenti. Era chiaro a tutti che l’accusa fosse ridicola: Flavio è un manager, ha un ottimo stipendio, per nessun motivo al mondo si sarebbe messo a vendere droga. Eppure è stato giudicato colpevole di spaccio: in mancanza di altre prove hanno ipotizzato che le ‘cannè fossero una sorta di pagamento, una remissione debitoria anomala”. Non è un novello Josef K., Sidagni, ma poco ci manca. Ha provato a spiegare in aula che le sostanze trovate erano per esclusivo uso personale, circostanza che i suoi ospiti hanno confermato. Una grave ingenuità, non certo la condotta di un mercante di droga. Qualcuno parla di vendette trasversali delle autorità kazake in lite con l’Eni, ma senza prove. Centocinquanta tra colleghi italiani e kazaki hanno raccolto le firme in suo favore, l’azienda gli è stata vicino e non lo ha licenziato, per ora il suo rapporto di lavoro è solo sospeso. Niente da fare, però. Da aprile in poi, Sidagni non ha più visto la luce del sole. Ora è rinchiuso nel carcere comune di Atyrau, dove uno dei degli otto compagni di camerata sconta una pena di quattro anni senza isolamento. Per omicidio. “Fino a poche settimane fa - racconta Gorlani - divideva la cella con due tossicodipendenti, che riuscivano a farsi arrivare le dosi e si bucavano sotto le unghie dei piedi, o nell’inguine. Era terrorizzato: avessero mai perquisito lo stanzino, chissà di cosa lo avrebbero accusato. È disperato e sa che, prima del pronunciamento ultimo della corte Suprema tra qualche mese, verrà trasferito nel carcere di massima sicurezza di Semey. Un posto terribile, lontano da tutto, praticamente inaccessibile. Addio telefono e contatti col mondo, moglie compresa. Ci ha detto che se lo manderanno là, non sopravvivrà”. Per ora Sidagni si arrangia: grazie al denaro, quasi un passepartout in un Paese acerbo come il Kazakistan dell’onnipotente Nursultan Nazarbayev. Riesce anche a comunicare con l’esterno via telefono, un cellulare rimediato alla meglio. Ma lo hanno già malmenato in più di un’occasione, detenuti e secondini. E recentemente solo l’intervento di emissari dell’Eni gli ha permesso di recuperare i farmaci per l’ipertensione che gli erano stati sottratti, mentre le cure per una patologia neoplastica al collo, benché benigna, quelle non sono mai iniziate: era in procinto di tornare in patria per l’intervento ma la nube prodotta dall’eruzione del vulcano islandese Eyjafjal-Lajokull fece sospendere i voli. Pochi giorni dopo, l’arresto. La sua ultima speranza è una riga sull’agenda del ministro degli Esteri Franco Frattini, in missione per conto dell’Italia il 2 dicembre al vertice dell’Osce in programma ad Astana. E la lettera che l’avvocato milanese Carlo Delle Piane sta preparando per chiedere alla Farnesina di prendere una posizione ufficiale. Poi, se non si muoverà niente, potrebbe anche finire i suoi giorni come un cane. Proprio come Josef K. Svizzera: referendum decide la revoca automatica del permesso di soggiorno ai condannati Corriere della Sera, 29 novembre 2010 A un anno dal referendum che vietò la costruzione di minareti la Svizzera torna sotto i riflettori internazionali e nel mirino delle organizzazioni per i diritti umani. Con una nuova consultazione il 52,9 per cento dei votanti (contro il 47,1) ha approvato la proposta dell’Unione democratica di centro (Udc), il partito della destra populista: espulsione automatica per stranieri colpevoli di reati gravi come stupro, traffico di droga, tratta di esseri umani, fino alla truffa alla mutua. Il governo aveva presentato invano una contro - proposta che opponeva all’automatismo una valutazione delle espulsioni caso per caso. “È la vittoria della democrazia diretta e del popolo sovrano che non vuole delegare ai politici decisioni fondamentali - dice al Corriere Oskar Freysinger dellUdc, tra i più attivi promotori delle ultime due consultazioni. Il 60-70 per cento dei carcerati non ha cittadinanza svizzera, e non parliamo di piccoli delinquenti ma soprattutto di membri di organizzazioni criminali come la mafia albanese”. Dal - Htalia immediati i commenti di Mario Borghezio della Lega, che parla di “esempio di civiltà giuridica”, e dell’assessore veneto al Bilancio Roberto Ciambetti, “voto indicativo di uno stato d’animo diffuso anche nel nostro Paese”. Per Amnesty International si chiude “una giornata nera per i diritti dell’uomo”. Su una popolazione di circa 7 milioni e mezzo di persone, il 23 per cento è straniero. Quello dell’integrazione è un tema sensibile e cavalcato con forza dalla destra nel piccolo Paese nel cuore dell’Europa che non fa parte della Ue e solo nel 2005 ha detto sì, ancora tramite referendum, all’ingresso nell’area Schengen di libera circolazione. “L’Ode fa campagna su questo argomento da anni - commenta Georg Lutz dell’Università di Losanna - opponendosi a qualsiasi cosa rappresenti “l’altro”, l’Onu, l’Europa, ora lo straniero. Quando una parte dice di difendere gli autentici valori nazionali innesca uno scontro culturale”. Ieri si votava anche sulla proposta socialista di introdurre aliquote minime per le imposte sui redditi elevati in tutti i Cantoni: bocciata. Stati Uniti: rivelazioni di Wikileaks; i detenuti di Guantanamo usati come merce di scambio Ansa, 29 novembre 2010 Un detenuto in cambio di un incontro con il presidente Obama. È lo scambio che sarebbe avvenuto, secondo i documenti di Wikileaks, tra gli Usa e la Slovenia, quando gli Stati Uniti si trovarono di fronte alla necessità di chiudere il penitenziario. Le carte pubblicate da Julian Assange rivelano come i presunti terroristi furono utilizzati come merce di scambio con alleati minori del governo americano. Un fatto che si ripeté più volte. Al Belgio, stando ai documenti di Wikileaks, sarebbero stati offerti alcuni detenuti. Una “donazione” presentata come generosa e conveniente, dal momento che avrebbe consentito al piccolo Stato europeo di accrescere il suo peso nel vecchio continente. All’isola di Kiribati, inoltre, sarebbero stati promessi incentivi milionari a patto che avesse accettato di imbarcare un gruppi di prigionieri di Guantanamo. Perù: detenuto uccide moglie in visita, cadavere nascosto in cella per tre mesi Ansa, 29 novembre 2010 La moglie era andata a trovarlo in carcere, in Perù. E lui, Jackson Sanford Staing, un detenuto olandese, l’ha uccisa e ha tenuto il cadavere nascosto in cella, per tre mesi. Per tutto questo tempo, nessuno se n’è accorto. L’uomo, come ha raccontato il responsabile del carcere Wilson Hernandez, ha strangolato la moglie, Leslie Paredes, peruviana, al culmine di una violenta discussione, ha scavato una fossa per terra e vi ha nascosto il cadavere. Secondo i primi accertamenti, non risulta nei registri infatti l’orario di uscita della Paredes dalla prigione. Dopo aver ucciso la moglie il detenuto ha scavato una fossa per terra e ha nascosto il cadavere. Secondo il capo dell’Inpe, la responsabilità dell’accaduto è della polizia peruviana che controlla il penitenziario con 8.072 detenuti. Sulla vicenda è stata aperta un’inchiesta.