Giustizia: Vietti (Csm); le carceri scoppiano, serve depenalizzazione e misure alternative Ansa, 28 novembre 2010 Dall’intervento di Michele Vietti (Vice Presidente Csm) al 30° Congresso dell’Anm: “Il nostro Paese ha costruito un impianto penale sostanzialmente ridondante di fattispecie incriminatorie e ricco di raffinate garanzie processuali, sol che si consideri lo spropositato numero di magistrati che si occupano di ogni singolo processo. È del tutto evidente che uno strumento così articolato e costoso non può servire ad affrontare le molte questioni bagatellari che soffocano il nostro sistema. Inoltre il carcere, con un sovraffollamento che ha raggiunto livelli non degni di un paese civile, non può essere l’unica risposta, anche per i costi economici che esso comporta. Oltre che depenalizzare è indispensabile dare rilevanza estintiva alle condotte riparatorie e pensare a pene alternative. Per quanto riguarda il versante civile, Vietti ritiene indispensabile pensare anche ad una tutela non giudiziale di alcuni diritti, forse alla eliminazione delle residue competenze monocratiche in primo grado, alla individuazione di procedure specifiche per determinate questioni seriali, a meccanismi conciliativi efficienti in linea con il decreto legislativo sulla mediazione, alla razionalizzazione ed alla bonifica di alcuni settori del contenzioso previdenziale. Inoltre, occorre puntare sulla specializzazione, che favorisce la prevedibilità delle decisioni e realizza economie di scala nei risultati”. Dall’intervento di Luca Palamara (Presidente Anm) al 30° Congresso dell’Anm: “La drammaticità della situazione è evidente. Oggi la popolazione carceraria è costituita da circa 69.000 detenuti, un terzo dei quali tossicodipendenti e più di un terzo stranieri. Mai, nella storia della Repubblica, ce ne sono stati tanti. La capienza dei 206 istituti italiani è di circa 44.000 posti letto. A ciò si aggiungono le pesanti carenze di organico degli agenti di polizia penitenziaria. La soluzione al continuo aumento del sovraffollamento non può essere solo la costruzione di nuovi stabilimenti in quanto il carcere deve essere la extrema ratio. È necessario introdurre pene alternative, non limitare l’affidamento in prova che pure ha dato buoni risultati, mitigare le restrizioni previste per i recidivi al godimento dei benefici penitenziari. Il carcere non può essere la risposta a ogni situazione di devianza marginale e la politica non può mostrarsi indifferente alle ragioni del disagio sociale e alle cause dei fenomeni collettivi complessi, quali ad esempio l’immigrazione e le tossicodipendenze, che hanno aumentato esponenzialmente in questi ultimi anni il tasso di carcerizzazione. Oggi prendiamo atto dell’approvazione in via definitiva, avvenuta il 17 novembre del 2010, del ddl 2313, c.d. “svuota carceri”, che - si calcola - dovrebbe porre circa 9.000 detenuti in detenzione domiciliare. Questo provvedimento sembra aprire la strada al criterio secondo il quale le pene brevi o il breve residuo finale possono essere espiati fuori del carcere nel senso auspicato dall’ANM di favorire il superamento della concezione pancarceraria della pena. Restano, tuttavia, dubbi e perplessità, anzitutto per la schizofrenia legislativa, evidenziata dalla contraddizione di un legislatore che, da un lato, criminalizza fatti di dubbia offensività (v. reato di immigrazione clandestina) e, dall’altro, sopraffatto dall’emergenza, si preoccupa di svuotare le carceri. In un secondo momento, occorrerà valutare i riflessi che i conseguenti adempimenti burocratico - amministrativi determineranno sulla già disagiata macchina della giustizia”. Giustizia: Sappe; dare maggiore autorevolezza alla figura del magistrato di sorveglianza Il Velino, 28 novembre 2010 “Se si desse più autorevolezza alla figura del giudice di sorveglianza molti problemi troverebbero una giusta risoluzione: a cominciare dallo sfollamento delle carceri”. Un principio che l’ex numero uno del Tribunale di Sorveglianza di Napoli Angelica Di Giovanni, ha sempre sostenuto mettendolo anche nero su bianco in alcune pubblicazioni. L’ultima, “Il Giudice della Pena”. 136 pagine in cui il problema viene sviscerato e analizzato nel suo insieme offrendo soluzioni adeguate. Le proposte del magistrato trovano sponda in Donato Capece segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. Il numero uno della prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri ha detto proprio alcuni giorni fa: “Ha ragione il Presidente della Camera Gianfranco Fini quando dice, che le istituzioni devono bandire gli spot propagandistici sulla sicurezza ma lavorare per politiche integrate. E l’esempio da lui fatto sulle questioni penitenziarie è calzante. Bisogna però che anche questi autorevoli intendimenti si concretizzino poi in fatti reali. In questo contesto - ha ricordato Capece - noi rinnoviamo l’auspicio di una svolta bipartisan di Governo e Parlamento per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, anche alla luce della sostanziale inefficacia degli effetti dell’indulto. Oggi il nostro Paese ha raggiunto un record di detenuti - oltre 69mila presenti, il più alto numero mai registratosi nella storia d’Italia! Si mettano allora da parte le polemiche per il bene dello Stato e dei suoi fedeli servitori, le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria. Pdl, Fli, Pd, Italia dei Valori, Udc concentrino sforzi comuni”. Al centro di un intervento legislativo, come spesso ribadito da Angelica Di Giovanni, la necessità di “ Allargare alla Magistratura di Sorveglianza la possibilità di confisca dei beni, perché c’è il grosso vantaggio che dinanzi al magistrato di sorveglianza il requisito di pericolosità sociale è già acclarato. Quindi la confisca diventa una misura più facile da applicare”. E ancora: “Affidare il controllo delle misure alternative alla Polizia Penitenziaria: da una parte solleverebbero Polizia e Carabinieri da quest’altra incombenza, dall’altra si tratterebbe di affidare a chi ha già nella sua formazione quella che è la cultura dell’esecuzione penale con annessi e connessi. Solo la pena espiata effettivamente ha carattere intimidatorio. Così s’interrompe il circolo vizioso della recidiva” ribadisce Angelica Di Giovanni. Ora che gli addetti ai lavori concordano, non resta che l’intesa politica. Lettere: al funerale… con il poliziotto di Stefano Anastasia (Difensore Civico dell’Associazione Antigone) Terra, 28 novembre 2010 Reggerà o no il governo, ce ne sarà un altro o elezioni, certo è che - nel frattempo - si galleggia: il Presidente della Repubblica ha chiesto di non esporre il Governo a una crisi prima che sia approvata la legge di stabilità e il Governo, la sua incerta maggioranza, singoli ministri cercano nel frattempo di piazzare tutte le bandierine che possano tornar buone nei saldi di fine stagione. Così la Camera, questa settimana, sta discutendo il ddl Gelmini sull’università, contraddicendosi platealmente: a ottobre ne aveva bloccato l’iter in mancanza di fondi per gli investimenti che vi si volevano fare; oggi la maggioranza cancella i suoi stessi emendamenti pur di approvare il ddl come possibile, senza un euro di spesa. Così il Senato, la scorsa settimana, nella disattenzione generale, ha approvato il fantomatico ddl “svuota carceri”, quello che avrebbe dovuto scarcerare i condannati a un anno dalla fine della pena e che, invece, riguarderà solo alcuni privilegiati che siano riusciti a scampare dalle preclusioni dei leghisti, ai quali questa idea che si debbano svuotare le carceri - dopo aver fatto tanto per riempirle - proprio non va giù. Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ci ha provato ha rendere più appetibile il ddl, annunciando in audizione che i potenziali beneficiari della nuova detenzione domiciliare potrebbero essere 7.992 (né uno di più, né uno di meno, a giudicare dalla puntualità della previsione), ritoccando stime più prudenti circolate a ridosso dell’estate. Ma sì, diamo pure credito al dott. Ionta: se va bene, ritorniamo a 60mila detenuti, 16 - 17mila più di quanti posti letto regolamentari vi siano in carcere. Meraviglia per chi riuscirà a uscirne, una bandierina di propaganda per governo che non sa più che fare sul sovraffollamento penitenziario. Questo pensavo fino a ieri, quando è arrivata la lettera di Claudio. Gli è morto il padre, il mese scorso. Ha chiesto, come la legge gli consente, di andare al suo funerale. Non gli è stato consentito: “si rigetta … tenuto conto delle esigenze di cautela imposte dallo stato di detenzione e dall’impegno richiesto al personale penitenziario per assicurarle”. Le esigenze di cautela sono quelle che sono; l’impegno del personale è necessario. E se non c’è il personale? Niente cautela? No, niente funerale. Ecco quindi l’illuminazione: non è vero che non serve a niente, il ddl serve a far andare i detenuti ai funerali dei prossimi congiunti. Come? Ma grazie alla prossima assunzione (con corsi di formazione accelerati) di 1800 poliziotti penitenziari: l’unica norma destinata a durare nel tempo del ddl “svuota carceri”. Lazio: nuovo "record" di detenuti; 6.434, sono 1.760 oltre la capienza delle carceri Agi, 28 novembre 2010 Continua a crescere, “in maniera inarrestabile”, il numero dei detenuti nelle carceri del Lazio: il 24 novembre, per la prima volta in assoluto, è stata sfondata quota 6.400 presenze, con 6.434 reclusi ospitati nelle 14 carceri regionali, 1.760 in più rispetto alla capienza regolamentare. A denunciarlo è il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, secondo cui “il trend della regione riflette quello nazionale dove i detenuti sono 69.313 e prima della fine dell’anno sfonderanno sicuramente quota 70mila”. Ma “il dato peculiare che rende la situazione particolarmente grave è un altro: secondo i calcoli nella regione la popolazione detenuta cresce, su base annua, a un ritmo quasi doppio rispetto alla media nazionale: 12% nel Lazio contro il 7% del resto d’Italia. Una situazione drammatica che - complici il freddo dell’inverno, il sovraffollamento e le precarie condizioni igieniche - potrebbe aggravarsi in maniera irreparabile già nelle prossime settimane”. Nel Lazio, dal febbraio 2010 ad oggi i detenuti sono aumentati di 552 unità. Quasi la metà dei detenuti, 3.081 persone, è in attesa di giudizio definitivo mentre i condannati definitivi sono 3.336. I detenuti stranieri sono 2.533. “Le situazioni più critiche - lamenta il Garante - si confermano a Latina (dove i detenuti dovrebbero essere 86 e sono invece 157), Viterbo (quasi 300 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare), Frosinone (quasi 200 in più), Rebibbia N.C. (oltre 400 in più) e Regina Coeli (quasi 400 in più). A Rebibbia Femminile le donne dovrebbero essere 274, sono invece 111 in più con tutti i problemi che questo comporta, anche nella gestione delle recluse madri con i figli da 0 a 3 anni al seguito”. Ancora “senza soluzione” i casi delle carceri di Rieti e di Velletri dove “nuove strutture con oltre 300 posti pronte per essere utilizzate sono chiuse per carenza di agenti. A Rieti, in particolare, il nuovo carcere da 306 posti ospita 107 reclusi in due sole sezioni aperte e sovraffollate. Stesso discorso per Velletri, dove un nuovo padiglione per oltre 200 detenuti da tempo ultimato è chiuso”. Sardegna: Consiglio regionale ad Alfano; no al “carcere duro” negli istituti sardi Agi, 28 novembre 2010 La presidente del Consiglio regionale della Sardegna, Claudia Lombardo, in una lettera al ministro della giustizia Angelino Alfano, chiede che una delegazione rappresentativa delle istituzioni interessate sia ricevuta per esporre le ragioni per le quali gli istituti di pena dell’isola non debbano ospitare detenuti sottoposti al 41 bis. “La decisione di trasferire il boss della camorra Antonio Iovine presso l’istituto di pena di Badu ‘e Carros sottoponendolo al regime di carcere duro - scrive la presidente - ha suscitato numerose prese di posizione critiche nella nostra Isola. La preoccupazione è che possano ripetersi infiltrazioni di attività criminali nel tessuto socioeconomico sardo connesse alla presenza di parenti e amici di mafiosi e camorristi”. “Nel passato la scelta dei penitenziari della Sardegna per la custodia di detenuti sottoposti al regime di carcere duro ha comportato contraccolpi negativi per l’immagine della nostra isola che si basa, in assenza di altre risorse primarie sulla dimensione turistica per sostenere la debole economia locale. Proprio per questa ragione in passato era stata presa la decisione dal Ministero della giustizia di eliminare dal nostro territorio gli istituti di pena idonei al regime dell’articolo 41 bis”. Nei giorni scorsi la commissione consiliare Diritti civili, nei giorni scorsi aveva espresso preoccupazione per le gravi conseguenze del trasferimento di detenuti sottoposti al regime di carcere duro in Sardegna. “Condividendo tale preoccupazione comune a tutto il popolo sardo”, la presidente Lombardo chiede di valutare l’opportunità di una diversa destinazione per la detenzione di Antonio Iovine e “per ottenere le opportune rassicurazioni sulla possibilità che in futuro gli istituti di pena della regione non possano essere individuati per il regime dell’articolo 41 bis”. Bologna: alla Dozza è sempre emergenza, di nuovo detenuti su materassi a terra Dire, 28 novembre 2010 “Siamo di nuovo ai materassi in terra” per far dormire i detenuti del carcere bolognese della Dozza. A riferirlo sono Donata Lenzi, Sandra Zampa e Rita Ghedini, parlamentari bolognesi del Pd, che questa mattina hanno effettuato una visita all’interno del penitenziario. “Non cambia niente, stessi numeri ormai da due anni - scrivono le tre democratiche in una nota - immutabile cifra della disperazione”. Alla Dozza oggi ci sono “1.158 detenuti su una capienza di 483 posti e verso una presenza tollerabile di 882 - si legge nella relazione diffusa dal Pd. Siamo di nuovo ai materassi in terra”. La presenza del personale invece, è “inversamente proporzionale” visto che la pianta organica prevede 567 unità di Polizia penitenziaria, continua la relazione, ma sono 520 quelle assegnate e “solo 385” quelle effettivamente in servizio. In questa “drammatica situazione il Governo riduce ad un quarto il fondo già esiguo del cinque per mille e taglia il fondo per il volontariato”, sottolineano Zampa, Ghedini e Lenzi. Occorrerebbe che si attivassero “anche i parlamentari del centrodestra - continua la nota - ma ci sembrano assai poco attratti dal tema giustizia così come lo si vive nel quotidiano delle carceri cittadine e molto più attenti, invece, alla ribalta mediatica del Salone della giustizia”, ideato da Filippo Berselli, parlamentare e coordinatore regionale del Pdl. Per quanto riguarda la Dozza, il ddl appena approvato sulla “detenzione domiciliare” potrebbe portare ad uno “sfollamento per circa 70 detenuti - continua la nota - ma occorrerà verificare la sussistenza delle condizioni soggettive ed oggettive per le persone potenzialmente rilasciabili”. Per farlo, però, “occorrono tempo e personale”, scrivono le tre parlamentari, ricordando che “già prima, come raccontato dalla vicedirettrice, esisteva la possibilità di dare accesso alle misure alternative alla detenzione, ma i problemi di organico e procedurali non hanno consentito di farlo”. Nonostante tutto ciò, continua la nota, “oggi alla Dozza c’era un gran fervore di attività: le volontarie di Avoc stavano attrezzando un salone (privo di riscaldamento) per la festa delle famiglie, in programma la prossima settimana, che permetterà a molti detenuti di pranzare ed intrattenersi soprattutto con i propri bambini”. Inoltre, è stata attrezzata l’aula che ospiterà il corso di formazione attivato dalla fondazione Aldini Valeriani e “finalizzato all’attivazione dell’officina meccanica, di cui sarà titolare una newco promossa da alcune imprese socie della fondazione, tra cui Bonfiglioli e Marchesini - spiegano Lenzi, Ghedini e Zampa - presso cui troveranno lavoro 12 detenuti”. Ma solo il 10% dei detenuti può lavorare in carcere e solo per tre ore al giorno, continua la nota. Tra le attività c’è la “smielatura” delle arnie, collocate un’area verde che “dovrà però lasciare spazio alla costruzione del nuovo padiglione da 200 posti - scrivono le parlamentari - un bel blocco di cemento destinato a rimanere vuoto, come il primo piano del carcere minorile del Pratello, se non si interviene massicciamente sulle dotazioni organiche”. Inoltre vanno avanti, “seppure con qualche difficoltà”, le attività di smaltimento elettrodomestici, tipografia, lettura, teatro e musica: “Insomma, un bel repertorio - conclude la nota - retto dallo sforzo del personale che, spesso, va oltre quanto dovuto per servizio e sostenuto da una rete di solidarietà territoriale”. Firenze: delegazione del Consiglio comunale ha incontrato il sottosegretario Caliendo Ansa, 28 novembre 2010 In arrivo fondi per interventi urgenti a Sollicciano. “Ne è valsa la pena. Un incontro soddisfacente in cui il sottosegretario alla giustizia Caliendo ha dimostrato interesse verso le problematiche del carcere di Solliciano, tanto che ha elencato una richiesta di risorse al Governo per le opere strutturali più urgenti ovvero 243mila euro per le docce nel reparto femminile, 300mila per l’allestimento di una seconda cucina e il locale vitto, 300mila per allargamento dei cortili per il passeggio”. È il commento del consigliere del Gruppo misto Stefano Di Puccio e degli altri componenti delle delegazione fiorentina del consiglio comunale Eros Cruccolini di SeL e il presidente della commissione sanità Maurizio Sguanci (Pd) che insieme al dottor Michele Mincucci in rappresentanza dell’assessore Stefania Saccardi e al garante dei detenuti Franco Corleone hanno incontrato ieri a Roma il sottosegretario di stato alla giustizia Giacomo Caliendo. “Caliendo - ha aggiunto Di Puccio - ha anche parlato di assunzioni di personale: circa 800 persone già idonee che hanno passato il concorso; si prevede anche e lo spostamento di 80 detenuti in altre carceri” “Tutte queste richieste - ha aggiunto Di Puccio - fanno parte di una piattaforma più ampia, presentata a suo tempo dal Corleone. Resta solo da vedere se e in che tempi saranno stanziati tali fondi. Caliendo non ha negato la possibilità di una visita al carcere di Sollicciano che la delegazione fiorentina ha fortemente richiesto e vorrebbe far coincidere la sua visita con il consiglio comunale che dovrebbe tenersi nel carcere come annunciato dal presidente del consiglio Giani entro” Per parte sua Di Puccio si è sentito particolarmente soddisfatto e “ripagato per il digiuno. La mia iniziativa che è passata del tutto inosservata da parte dei giornali, ha comunque dato qualche risultato; il mio rammarico non era certo per la mancata visibilità della mia persona, era semmai un sincero e doveroso richiamo all’attenzione verso i diritti di chi, ultimi fra gli ultimi, vengono si privati della libertà per l’espiazione della pena ma non devono essere privati della propria dignità personale”. Lecce: Sappe; carcere invivibile, per ogni recluso non più di 3 metri quadrati in cella di Andrea Gabellone Gazzetta del Sud, 28 novembre 2010 Secondo il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, 7 metri quadrati sono lo spazio minimo sostenibile per un detenuto in cella. Ad oggi, la Casa Circondariale di Borgo San Nicola può garantire ad ogni recluso non più di 3 metri quadrati. Federico Pilagatti, Segretario nazionale del Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - comunica, per l’ennesima volta in pochi mesi, che le condizioni di vivibilità nel carcere leccese sono ben al di sotto dell’essenziale. I diritti umani fondamentali sono, così, calpestati da un’incurante Amministrazione Penitenziaria che continua a sfondare i limiti del consentito, convertendo le celle in piccoli lager. I posti disponibili sarebbero, a norma di legge, circa 660; oggi siamo a quasi 1500 presenze. Lo sguardo è spesso rivolto altrove e c’è la tendenza a ignorare o dimenticare che, a casa nostra, si sta consumando una vera e propria tortura di massa. Le norme igienico - sanitarie sono un lontano miraggio: persone affette da patologie, anche gravi, che non ricevono i trattamenti adeguati, le temperature estive che superano i 50 gradi, i 9 metri quadrati di una cella con tre detenuti dentro, compreso il water ed il letto a castello a tre piani che costringe qualcuno a dormire con la fronte a 30 cm dal soffitto. A tutto questo si aggiunga una situazione insostenibile per gli operatori penitenziari: alcuni poliziotti lavorano da soli, senza alcun aiuto, in sezioni detentive lunghe 50 metri e con circa 70 detenuti. Il Sappe ha già fatto sapere che, a giorni, il personale inizierà uno sciopero della fame se non saranno presi dei provvedimenti al riguardo. Le autorità locali sono da tempo a conoscenza di questa drammatica realtà e sarebbe bene che intervenissero prima di contribuire, ancora una volta, ad infoltire la lista dei morti nelle carceri italiane. Roma: malasanità, burocrazia e ritardi dietro ennesimo decesso sospetto di un detenuto di Luca Lippera Il Messaggero, 28 novembre 2010 Forse una meningite, forse una leucemia fulminante, forse una diagnosi ritardata dalla burocrazia. Un altro detenuto, il nono dall’inizio dell’anno (includendo tre suicidi), è morto dopo essersi ammalato in un carcere del Lazio. Un dramma iniziato a Rebibbia Nuovo Complesso di cui non si è saputo nulla per oltre un mese e mezzo. Antonio Alibrandi, 32 anni, ex tossicodipendente, colpito da febbre altissima a metà di settembre, non si è più ripreso. Data del decesso il 5 ottobre al Policlinico “Umberto I”, dopo che il paziente era passato dal centro clinico della prigione e dal reparto carcerario dell’ospedale “Sandro Pertini”, lo stesso dove spirò Stefano Cucchi a sei giorni di distanza da un arresto per droga. L’ennesimo dramma viene denunciato da Angiolo Marroni, Garante dei Detenuti per il Lazio. Questa volta, in verità, non ci sono né inchieste né denunce. Almeno non per ora. “Ma la vicenda afferma Marroni è emblematica. La cosa certa è che, con i livelli di sovraffollamento attuali, le carceri non sono adeguate a garantire l’assistenza a persone in certe condizioni di salute. È possibile che nel caso di Alibrandi, conoscendo la burocratizzazione delle procedure, ci sia stata una incertezza diagnostica e che questa abbia contribuito a quello che è successo”. Alibrandi, originario della Calabria, era in carcere dall’ottobre del 2009. Doveva scontare una pena definitiva a due anni per rapina. A metà settembre i sintomi: febbre altissima, un possente mal di testa, malessere generale. L’uomo viene subito portato nel centro clinico del carcere sulla Tiburtina. I medici per quasi una settimana lo curano con gli antibiotici. Ma non c’è alcun miglioramento. Allora dispongono che venga trasferito al reparto detenuti dell’ospedale “Sandro Pertini”. Anche lì i sanitari, dopo un paio di giorni, si rendono conto che la situazione rischia di precipitare e chiedono che il paziente venga portato all’Umberto I. Il 5 ottobre l’uomo muore. Tra le prime cure e il decesso sono passati una ventina di giorni. Ma in questo caso, con tre strutture sanitarie coinvolte, sembra difficile ipotizzare che qualcuno abbia “abbandonato” Alibrandi. “Il nostro intento non è lanciare accuse aggiunge il Garante per i Detenuti ma far capire che il carcere è un ambiente in cui ci si ammala di più e in cui è difficile seguire i casi più complessi. Alibrandi era una persona sola. Praticamente non aveva parenti. Era lontano da casa. Chiedeva spesso capi di vestiario ai volontari della Caritas. Aveva domandato di entrare in una comunità terapeutica. Se una persona così viene colpita da una malattia seria, il sistema carcerario non è attrezzato per assisterlo a dovere”. Un terzo delle morti in cella è per suicidio Negli ultimi dieci anni nelle carceri italiane sono morti circa 1.700 detenuti. Molti tra loro erano gravemente malati, con una altissima percentuale di tossicodipendenti. Ma un terzo del totale, cosa che fa impressione, è rappresentato da suicidi. Quest’anno le persone che si sono uccise in cella in tutto il Paese (dati aggiornati al 20 novembre) sono già 60. Nel 2009 furono 72. Il numero è praticamente costante dal 2000 ed è difficile non vedervi, almeno come concausa, il sovraffollamento delle prigioni, il loro stato igienico, l’ubicazione in edifici ormai vecchi e superati. Ma il caso che da un anno tiene banco è quello di Stefano Cucchi, 32 anni, morto nel reparto carcerario dell’ospedale “Sandro Pertini” sei giorni dopo un arresto per droga. Il processo è nella fase dell’udienza preliminare e secondo la ricostruzione della Procura di Roma i medici ebbero una responsabilità fondamentale nel decesso. Cucchi, tossicodipendente, arrivò nel reparto dopo un probabile pestaggio che pesava meno di quaranta chili. I sanitari non lo sottoposero all’alimentazione forzata perché, a loro dire, le leggi in merito non erano applicabili al caso specifico. Morire di carcere, Morire di burocrazia. Roma: Colosimo (Pdl); morte detenuto di Rebibbia impone riflessione Il Velino, 28 novembre 2010 “Apprendendo oggi la notizia della morte di un detenuto di Rebibbia, esprimo la mia assoluta vicinanza e solidarietà alla sua famiglia”. Lo dichiara l’esponente Pdl Chiara Colosimo, consigliere regionale e presidente della Giovane Italia Lazio, che aggiunge “Sono molto legata a questa situazione, avendo personalmente visitato il carcere in questione, e ascoltato le testimonianze dei detenuti che mi hanno raccontato storie analoghe alla suddetta. Sono convinta che la situazione può degenerare da un momento all’altro, non possiamo più permettere che i problemi che riguardano le carceri del Lazio vengano messi in secondo piano, e quindi andrò fino in fondo a questa storia. Ritengo che il carcere sia sicuramente un luogo di detenzione e giusta punizione, ma proprio per questo non possiamo permettere che i diritti umani fondamentali non siano rispettati. Mi auguro - conclude - che si apra presto un ampio spiraglio di riflessione sulle condizioni sociali e umane delle carceri del Lazio, perché sono convinta che chi, come me, è contrario alla pena di morte, non può accettare che il carcere diventi un luogo di morte civile e fisica”. Pavia: indagini in corso dopo l’evasione di un ergastolano dal carcere di Torre del Gallo La Provincia Pavese, 28 novembre 2010 Nessun piano studiato a tavolino, ma un’occasione fornita da una scala appoggiata al muro di cinta e colta al volo. Questa quasi certezza non frena le indagini della Procura di Pavia, che sull’evasione dal carcere di Torre del Gallo dell’ergastolano Valerio Paladini, ha aperto un’inchiesta per accertare eventuali complicità o condotte colpose da parte degli agenti di custodia e dei vertici del carcere. L’inchiesta del magistrato Pietro Paolo Mazza per ora è a carico di ignoti. Al momento la Procura, diretta da Gustavo Cioppa, tende a escludere che il detenuto, killer della Sacra corona unita condannato all’ergastolo per due omicidi, abbia avuto appoggi nell’evasione. Lo dimostrerebbe il fatto che, dopo essersi calato dal muro di cinta alto dieci metri, all’altezza della sezione rivolta verso il Carrefour, dove sono in corso dei lavori, non c’era alcuna macchina ad aspettarlo. L’assenza di complici esterni ha messo fine alla fuga del detenuto: i carabinieri, la polizia e gli agenti di polizia penitenziaria lo hanno catturato dopo qualche ora. Si era nascosto nel sottotetto di una cascina al Cassinetto. La presunta mancanza di appoggi esterni, però, non elimina il dubbio che qualcosa non abbia funzionato nella sorveglianza. L’uomo, che era insieme ad altri quattro detenuti che stavano andando verso la palestra, era scortato dagli agenti di polizia penitenziaria. Il detenuto ha visto una scala appoggiata al muro, si è staccato dal gruppo e si è messo a correre per salirci sopra: in un attimo era dall’altra parte della recinzione, con gli agenti alle calcagna. Perché la scala si trovava in quella posizione? L’inchiesta dovrà fare luce anche su questo dettaglio. L’altro binario su cui si muove il magistrato riguarda l’accusa di evasione contestata al detenuto. Valerio Paladini, portato ieri mattina davanti al giudice Pietro Balduzzi, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il giudice ha convalidato l’arresto e fissato il processo al 27 gennaio. Ha anche ritenuto di non applicare alcuna misura, vista la pena che Paladini deve espiare. Il terzo fronte riguarda l’inchiesta interna avviata dal provveditore regionale agli istituti penitenziari Luigi Pagano. “È un atto dovuto, non tanto per accertare delle responsabilità, compito della magistratura, quanto per valutare che cosa non ha funzionato e porvi rimedio - dice Pagano - . Certo, è difficile andare a valutare tutte le situazioni di rischio”. Nel 2007, però, un’altra evasione, aveva già messo in luce alcune debolezze del carcere di Torre del Gallo. “La cattura dell’ergastolano comunque lascia tirare il fiato a chi è deputato alla vigilanza - dice il segretario regionale della Uil della polizia penitenziaria, Gian Luigi Madonia. L’operazione è stata compiuta nonostante la grave carenza d’organico e la mancanza di risorse economiche”. Pordenone: Lega contro nuovo carcere; troppi soldi da spendere per i detenuti stranieri Il Gazzettino, 28 novembre 2010 “Non è che siamo impazziti e non vogliamo il carcere chissà per quale ragione. Il problema, però, è che ci sono da spendere troppi soldi per realizzare un supercarcere che dovrà ospitare almeno il 70% di detenuti stranieri. Quei soldi, invece, possono essere utilizzati per i reali problemi dei nostri concittadini”. A parlare è Danilo Narduzzi che insieme al gruppo del Carroccio di Roveredo ha bloccato la costruzione della struttura. “Non si capisce per quale ragione - è andato avanti il segretario dei padani - la Regione avrebbe dovuto spendere con questi chiari di luna, 25 milioni di euro per contribuire a realizzare un supercarcere da 450 posti dove non saranno portati solo i detenuti della regione, ma arriveranno da tutta Italia e saranno in gran parte stranieri. Non è un compito che si deve assumere la Regione con soldi che invece devono essere utilizzati per soddisfare le necessità dei friulani e dei pordenonesi. Ci sono tanti problemi che si possono affrontare con una cifra del genere”. Ma non è tutto. Narduzzi punta il dita anche contro l’ingorgo che si verrebbe a creare in Comina. “C’è l’ospedale che deve essere realizzato in quel sito, c’è una zona artigianale e ci sono tante alte cose. Costruire anche il carcere avrebbe significato bloccare una zona fondamentale per la città e per il Comune di Roveredo. Bene ha fatto il presidente Tondo ad ascoltare le nostre richieste e a non mettere a bilancio i soldi. Ora punteremo sul sito di S. Vito. Noi vogliamo il carcere, ma dove costa meno”. Brindisi: quei posti da netturbino dateli agli ex detenuti… Senza Colonne, 28 novembre 2010 Quindici ex detenuti scrivono alla Monteco e chiedono di diventare netturbini. La nuova iniziativa dell’Associazione brindisina “Famiglie fratelli ristretti”, questa volta, contiene al suo interno anche una vera e propria provocazione. L’organismo nato (con la benedizione di Marco Pannella) che ha l’obiettivo di tutelare e aiutare gli ex detenuti oggi invierà una lettera alla Monteco e chiederà di assumere quindici persone iscritte all’associazione. All’azienda affidataria del servizio di raccolta dei rifiuti si chiede di interrompere l’abitudine di assumere temporaneamente personale proveniente dalla provincia di Lecce e di prendere in considerazione le proposte di quindici ex detenuti. Lo scopo dell’iniziativa la spiega il segretario dell’associazione Francesco Nardelli: “L’obiettivo principale della nostra associazione è il reinserimento sociale degli ex detenuti. Si tratta di soggetti particolarmente deboli e spesso emarginati per il loro passato che una volto compiuto il percorso dettato dalla legge hanno il diritto e la necessità di vedere aperte le porte della società per godere di opportunità di reintegrazione. E in questo discorso il lavoro occupa un posto di primo livello”. Una volta venuti a conoscenza della presenza tra gli operai brindisini della Monteco di personale selezionato nei Comuni del Leccese, Nardelli e il presidente dell’associazione Renato De Giorgi, hanno fatto due più due e hanno deciso di cavalcare il fenomeno. Nuoro: detenuto di 57 anni ritenta il suicidio in cella, salvato in extremis La Sicilia, 28 novembre 2010 Un lenzuolo passato attorno al collo per uccidersi. C’era quasi riuscito Diego “Dino” Calì, 57 anni, ad impiccarsi nella sua cella del carcere “Badu ‘e Carros” di Nuoro. Il commerciante sancataldese di onoranze funebri sei mesi fa ci aveva già provato a togliersi la vita, tentandoci un’altra volta giovedì pomeriggio. E anche stavolta, in extremis, è stato salvato da un poliziotto penitenziario durante la ronda nella sezione Eiv, il braccio ad elevato indice di vigilanza dove sono reclusi i detenuti accusati di mafia. Ed è proprio per associazione mafiosa che Calì, esattamente dal 28 febbraio scorso, si trova nella storica casa circondariale della Sardegna, che da pochi giorni peraltro “ospita” al carcere duro il boss dei casalesi Antonio Iovine. Dino Calì era paonazzo in viso quando l’agente di custodia l’ha visto penzolare. Così l’ha afferrato per le gambe e sollevato per impedire che soffocasse, mentre altri agenti di custodia gli hanno tolto il lenzuolo dal collo e rianimato. D’urgenza Calì è stato trasferito all’ospedale “San Francesco” di Nuoro, e ha trascorso la nottata in terapia intensiva nel reparto di Rianimazione. Il suo quadro clinico, però, è migliorato col passare delle ore e ieri mattina il sancataldese è stato dimesso ma d’ora in poi in carcere sarà sorvegliato a vista. Di recente Calì aveva manifestato i sintomi della depressione e in carcere ha perso molti chili. E sulla scorta di questi tentativi di suicidio i suoi legali, gli avvocati Antonio Impellizzeri e Giovanna Serra, presenteranno al Gip un’istanza di scarcerazione per gravi motivi di salute. Diego Calì è uno dei 12 coinvolti nell’inchiesta “Nuovo mandamento” le cui indagini nei giorni scorsi sono state chiuse. A lui in particolare, i carabinieri del Reparto operativo e i magistrati della Dda contestano di essere un associato alla mafia nonché il ruolo di mandante dell’omicidio di Salvatore Calì e del tentato omicidio di Stefano Mosca, titolari di agenzie di onoranze funebri a San Cataldo. Uccidendo i suoi concorrenti, secondo il teorema accusatorio, Dino Calì - che in città gestisce tre negozi di pompe funebri - voleva monopolizzare il settore del “caro estinto”. E per farlo, Calì si sarebbe appoggiato ad una emergente cosca mafiosa capeggiata dal sancataldese Cosimo Di Forte e dall’ex uomo d’onore di Sommatino, Gioacchino Mastrosimone che s’è poi pentito insieme al figlio Salvatore. Due mesi fa un altro indagato nella stessa inchiesta, Salvatore Lombardo di Marianopoli, ha tentato di impiccarsi al “Malaspina”. Ieri il Tribunale del Riesame ha incaricato il perito psichiatrico Vincenzo Navarra di stabilire se le condizioni di Lombardo (difeso dagli avvocati Vincenzo Vitello e Carmelo Terranova) siano compatibili o no col regime carcerario. Saluzzo (Cn): martedì il pittore Rodolfo Allasia incontra i detenuti Agi, 28 novembre 2010 L’artista martedì 30 novembre nella Casa di Reclusione esporrà i suoi capolavori e racconterà il proprio percorso artistico. La Casa di Reclusione di Saluzzo - conosciuta e rinomata per l’arte espressa tramite il Laboratorio Teatrale dei detenuti e le relative rappresentazioni, anche all’esterno dell’Istituto - è ora in cerca di nuove vie di comunicazione per offrire ai detenuti la possibilità di scoprire, ancora, nuovi sentimenti, punti di vista ed interpretazioni della realtà. E l’occasione viene data loro da Rodolfo Allasia, pittore della vicina Racconigi, che il prossimo 30 novembre 2010 alle 10, proprio nella Casa di Reclusione saluzzese, esporrà i suoi capolavori e racconterà il proprio percorso artistico in un intrigante incrocio tra la Storia dell’Arte ed il continuo trasformarsi della sua vita - leggibile attraverso l’evolversi della sua pittura. Rodolfo Allasia è nato a Racconigi nel 1948, è stato allievo, dal 1982, dell’illustre pittore Nino Pirlato, e dal 1992 ha frequentato lo studio del Grande Maestro Ottavio Mazzonis fino alla sua recente scomparsa. Dall’inizio della sua attività di pittore si è dedicato in particolare alla visione dell’uomo in chiave psicologica, ed ha affrontato temi quali il paesaggio e gli animali manifestando lo stupore di chi li vede per la prima volta, giunto da altri mondi in cui tutto ciò non esiste. Rodolfo espone le sue tele sin dal 1967, e la sua sincerità di linguaggio - ben riflessa dalla sua pittura - la sua delicata ironia nell’osservare se stesso e la realtà saranno sicuramente un ottimo spunto per i detenuti che potranno godere di questo inusuale incontro con l’arte. L’iniziativa ha ottenuto il patrocinio della Città di Saluzzo come segno costante di unione con il territorio. Roma: il 7 dicembre presentazione di “Stoffe di silenzio”, il recital per Aldo Bianzino Il Messaggero, 28 novembre 2010 L’associazione no - profit Alice in cerca di teatro, con Nessuno Tocchi Caino, A Buon Diritto, Ristretti Orizzonti e Articolo 21, nell’ambito del progetto “Parole oltre le sbarre”, presenta “Stoffe di silenzio” Per Aldo Bianzino, un Recital di e con Ugo De Vita che si ispira alla vicenda del ragazzo morto nel 2007 nel carcere di Perugia in circostanze oscure, due giorni dopo il suo arresto. L’opera si compone anche di un Video e di una Raccolta poetica. La presentazione si terrà martedì 7 dicembre, alle ore 12, a Roma presso la sede di Nessuno Tocchi Caino (via di Torre Argentina, 76 - 3°piano) e vedrà la partecipazione di Rudra Bianzino, figlio di Aldo, e dei rappresentanti delle associazioni che hanno promosso l’iniziativa. Dopo il successo riscosso da “In morte segreta - Conoscenza di Stefano” in memoria di Stefano Cucchi, il recital per Aldo Bianzino è il secondo spettacolo di una trilogia di Ugo De Vita dedicata ai diritti dei detenuti, alla quale hanno dato il proprio sostegno anche i Garanti dei detenuti del Lazio e di Firenze. “Stoffe di silenzio” (tempo unico della durata di 55 minuti) è un dialogo metafisico tra padre e figlio, con la figura materna testimone di un amore e di una lacerazione. Aldo Bianzino e la sua compagna Roberta erano stato fermati in seguito al ritrovamento di alcune piantine di marijuana nel giardino della loro tenuta, dove vivevano insieme al figlio Rudra, allora quattordicenne. L’inchiesta è stata archiviata una prima volta ma Rudra, rimasto orfano dopo lo scomparsa della madre, continua a chiedere verità e giustizia per suo padre. Il testo - come quello per Stefano Cucchi - non entra, però, nel merito della vicenda giudiziaria, ma si ferma e sofferma sui contorni della storia, per far emergere la personalità mite, schiva e generosa di Aldo. La musica scelta per “Stoffe di silenzio” è quella dei cantautori che si ascoltavano in casa Bianzino, le note che hanno accompagnato tante giornate di Aldo e Roberta. Il video (di 14 minuti) propone una breve intervista a Rudra, mostrando i luoghi in cui visse la famiglia Bianzino prima di quella tragica alba dell’ottobre 2007, senza retorica e cogliendo le prospettive di un ragazzo diciassettenne che in soli tre anni e ha perso i suoi affetti più cari. La raccolta poetica (32 pagine, Edizioni del Manto - Roma), sottolinea invece l’aspetto più intimo, la perdita, il lutto, l’abbandono, ma anche quello della violenza che attraversa questo nostro tempo. Una lettura della raccolta poetica si svolgerà presso la Sala stampa della Camera dei deputati, giovedì 16 dicembre alle ore 18.00. “Vi è un popolo rozzo, ignorante, ottuso non ha colore, non ha divisa, lo puoi trovare al parcheggio, allo stadio, al supermercato o al distributore di benzina, in caserma, in ufficio o a scuola, per niente vive e per niente uccide, povero chi gli si para davanti nell’attimo indicibile e ignominioso, meschino davvero chi si mescola a quella schiera...” (da Stoffe di silenzio). Francia: caso Franceschi; in arrivo a procura di Lucca foto scattate dopo morte Adnkronos, 28 novembre 2010 Un nuovo mistero avvolge la morte di Daniele Franceschi, il giovane italiano morto nel carcere di Grasse. Dopo la lettera di Carla Bruni, in cui la premiere dame francese assicura alla mamma di Franceschi, Cira Antignano, che sarà fatta verità sulla morte del figlio, spunta il giallo delle foto scattate sul corpo di Daniele subito dopo la sua morte. Secondo quanto riferisce all’Adnkronos l’avvocato della famiglia Franceschi, Aldo Lasagna, le foto, contenute nel dossier dell’inchiesta francese e in arrivo alla Procura di Lucca, conterrebbero “macchie ematiche misteriose”, che non escluderebbero, secondo il legale, “la compatibilità con tracce di violenza”. “Il fascicolo aperto contro ignoti dalla Procura di Lucca dovrebbe arricchirsi di ulteriori elementi, tra cui le foto del corpo di Daniele, scattate subito dopo la sua morte”, spiega l’avvocato Lasagna, che assiste Cira Antignano insieme all’avvocato Mariagrazia Menozzi. “Si tratta di foto agghiaccianti, inviate alla Procura di Lucca, che rivelano particolari inediti - sostiene il legale - Finora le hanno potute visionare solo la mamma di Daniele, gli inquirenti francesi e i legali italiani”. “Dall’analisi delle foto emerge un particolare inquietante: sul corpo di Daniele - spiega Lasagna - si vedono macchie ematiche misteriose, che secondo un medico legale francese da noi interpellato, non sono identificabili con le classiche tracce ipostatiche post mortem”. Secondo l’avvocato, “questi particolari hanno riaperto il giallo sulla morte di Daniele, perché non si potrebbe escludere che possano essere segni di tracce di violenza”. La mamma di Daniele, quando ha visto le foto, è rimasta agghiacciata. Cira Antignano - prosegue l’avvocato Lasagna - ha avanzato dei dubbi: appena ha visto quelle macchie sul corpo di Daniele si è ricordata della ferita al naso sul corpo del figlio, che aveva notato nell’unica occasione in cui le permisero di vedere il corpo di Daniele”. “Il medico legale francese da noi interpellato non ha saputo chiarire il mistero. Per il momento non abbiamo avuto alcuna risposta dall’autorità francese - sottolinea il legale - ma sappiamo che queste foto dovrebbero essere acquisite nel fascicolo che è stato aperto a Lucca”. Sul fronte francese, prosegue il legale, “attendiamo le prime risultanze dell’istruttoria penale. Il giudice istruttore, che aveva ascoltato la mamma di Daniele come persona offesa il 2 novembre scorso in Francia, dovrebbe finalmente iniziare gli interrogatori delle guardie penitenziarie e del dirigente del carcere. Attendiamo quindi i primi esiti delle testimonianze rese nell’interrogatorio a cui dovrebbero essere sottoposti”. Intanto la famiglia di Franceschi attende il rientro in Italia degli organi del ragazzo. Rientro che, secondo l’avvocato Lasagna, dovrebbe avvenire “nei prossimi giorni, tra fine novembre e inizio dicembre”. “Da indiscrezioni abbiamo appreso che le analisi tossicologiche effettuate dalle autorità inquirenti francesi confermerebbero che Daniele era stato sottoposto a trattamento antidolorifico - sottolinea l’avvocato - ed escludono che lui fosse tossicodipendente”. “Attendiamo che gli organi rientrino in Italia per completare le analisi istologiche e sottoporlo a una nuova ulteriore autopsia dei medici legali italiani, sperando che le autorità francesi - conclude il legale - ci consegnino gli organi in condizioni integre”. Francia: caso Franceschi; Carla Bruni scrive alla madre “sono commossa” Adnkronos, 28 novembre 2010 “Ho pienamente fiducia nella giustizia francese che risponderà alle sue attese e a quelle dell’autorità italiana. Sono in corso contatti in questa direzione”. Con una lettera - Carla Bruni ha risposto all’appello di Cira Antignano, la mamma di Daniele Franceschi, il giovane italiano morto lo scorso agosto nel carcere di Grasse in circostanze non ancora chiarite. “Cara signora Franceschi, ho letto la sua lettera con grande emozione”, ha scritto la premiere dame, “Molto commossa dalla sua testimonianza, ci tengo a esprimerle il mio profondo cordoglio e a dirle che le sono vicina nel suo dolore e nella sua pena per la tragica scomparsa di suo figlio Daniele. Avrei voluto esprimerle questo diversamente, non per iscritto. Purtroppo le ricerche per ottenere un suo contatto non sono riuscite, e questo mi rammarica. Mi creda, capisco le ragioni che motivano la sua iniziativa e i suoi sentimenti di fronte alla prova terribile che sta affrontando. Mi consenta”, conclude la consorte del presidente francese Nicolas Sarkozy, “cara signora, di rinnovarle la mia solidarietà e di augurarle di mantenere forza e coraggio in questi momenti particolarmente dolorosi”. La madre di Daniele: non protesterò a Parigi La lettera scritta da Carla Bruni alla famiglia di Daniele Franceschi, il viareggino morto nel carcere di Grasse in circostanze ancora da chiarire, dovrebbe fermare l’intenzione di parenti e amici del detenuto decisi a recarsi a Parigi per protestare contro il Governo francese, un’iniziativa progettata per i primi di dicembre. È quanto si apprende dalla madre di Franceschi, Cira Antignano, che ha commentato la missiva della premiere dame, recapitata ieri nello studio dell’avvocato Maria Grazia Menozzi. “Pensavamo di andare a protestare nella capitale francese, io e un gruppo di persone tra conoscenti, amici e parenti, per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su questa vicenda e sulle condizioni nelle carceri francesi”, ha detto Cira Antignano Franceschi. Avevamo preso contatto con un’associazione francese che si occupa di diritti umani - ha detto ancora. Ma, dopo che ieri i miei legali hanno ricevuto la lettera di Carla Bruni, credo opportuno sospendere tutto e rimandare questa intenzione a un altro momento, se ci saranno ancora problemi nell’accertare come è morto mio figlio”. Per la madre di Franceschi, comunque, è importante che Carla Bruni, cui mi ero rivolta, abbia scritto direttamente. Non si è sbilanciata molto ma il gesto è da apprezzare. Ho letto che esprime cordoglio e per questo la ringrazio. Ora - ha continuato la madre del detenuto - si può sperare che Carla Bruni ci dia una mano a cercare la verità. Mi piacerebbe, sarei molto contenta, se portasse avanti questa cosa per noi.