Giustizia: legge svuota - carceri? a conti fatti, riguarderà meno di cinquemila detenuti di Patrizio Gonnella www.linkontro.info, 26 novembre 2010 Sono poche migliaia i detenuti che potenzialmente potrebbero usufruire del nuovo beneficio di legge consistente nella opportunità di scontare l’ultimo anno di pena detentiva “presso il proprio domicilio o presso altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza”. Certamente ben meno delle settemila unità ipotizzate dal ministero della Giustizia in prossimità della approvazione della legge avvenuta la scorsa settimana con il voto favorevole della maggioranza e l’astensione dell’opposizione (i radicali non hanno partecipato al voto). La legge aveva l’obiettivo di ridurre i tassi di sovraffollamento penitenziario. Vi è al momento un surplus di venticinquemila detenuti rispetto ai posti letto regolamentari a disposizione. Il testo originario della legge, che era stato presentato dal Governo la scorsa primavera, è stato rimaneggiato durante i lavori d’Aula. È stato infatti cancellato l’automatismo nella concessione del provvedimento di detenzione domiciliare a favore di coloro i quali devono scontare meno di un anno di carcere. Nel testo finale si affida alla magistratura di sorveglianza una discrezionalità decisionale, così come avviene d’altronde per tutte le restanti misure alternative. Si tratta quindi semplicemente di una chance in più che i detenuti hanno di ottenere una scarcerazione anticipata. Una misura nuova che però, a differenza delle altre presenti nell’Ordinamento Penitenziario, è a termine. Scade il 31 dicembre 2013. È quindi una misura alternativa non stabile. I numeri non alti dei potenziali fruitori sono determinati dalle esclusioni dalla applicazione della legge per i seguenti soggetti: i condannati per taluno dei delitti indicati dall’articolo 4 - bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (mafia, sequestro, traffico di droga); i delinquenti abituali, professionali o per tendenza; i detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare. Ad oggi sono 11.601 i detenuti che hanno una pena residua da espiare inferiore a un anno. Non è facile quantificare i detenuti che rientrano nelle tre esclusioni sopra menzionate. Si può ragionevolmente sostenere che siano intorno a un quinto del totale ossia circa duemila. Il legislatore, come detto, però non si è limitato a prevedere delle esclusioni oggettive. Ha introdotto anche una incisiva esclusione soggettiva. Infatti i magistrati di sorveglianza non potranno concedere la misura “quando vi è la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga ovvero sussistano specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti ovvero quando non sussista l’idoneità e l’effettività del domicilio anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato”. Sono 5.048 gli stranieri che devono scontare una pena residua inferiore all’anno. Di questi circa cinquemila, più o meno i 9/10 sono irregolari e quindi privi di domicilio. Ciò significa che, pur ottimisticamente ritenendo che un migliaio di essi abbiano una casa di accoglienza che li possa ospitare, ne resterebbero esclusi circa quattromila. Sommando quindi esclusioni oggettive e soggettive sarebbero solo cinquemila i detenuti che potenzialmente potrebbero andare a casa grazie alla nuova legge. Non è detto, però, che ci andranno a casa, perché per ognuno di essi la scarcerazione dipenderà da una valutazione del giudice di sorveglianza il quale in primo luogo dovrà tenere conto di una relazione del direttore del carcere sulla buona condotta tenuta dal detenuto in prigione e poi dovrà indagare circa l’idoneità del domicilio, la pericolosità criminale, i rischi possibili di fuga. Sono questi gli stessi limiti che negli ultimi anni ridotto al lumicino la concessione delle altre misure alternative. La legge, però, incide positivamente sui flussi di ingresso prevedendo la possibilità di concessione, in sede di processo, della sospensione della pena per chi deve scontare meno di un anno di galera. Un effetto di contenimento sul sovraffollamento che potrebbe essere a sua volta vanificato da altre due norme presenti nella stessa legge che si muovono in opposta direzione: 1) la previsione di una apposita circostanza aggravante nel caso in cui un reato sia commesso durante l’esecuzione della misura alternativa; 2) l’aumento della entità della sanzione carceraria per chi incorre nel delitto di evasione. Infine nel testo finale della legge viene autorizzata l’assunzione di duemila agenti e assistenti del Corpo di polizia penitenziaria. Dubbia è la copertura finanziaria. Nulla è previsto in merito alla assunzione delle altre figure civili (educatori, assistenti sociali, medici, direttori) che operano nelle carceri in condizioni di grande fatica. Totale detenuti con meno di un anno di pena da scontare: 11.601 Detenuti italiani con meno di un anno di pena da scontare: 6.553 Detenuti stranieri con meno di un anno di pena da scontare: 5.048 Potenziali beneficiari della legge sulla detenzione domiciliare: meno di 5.000 Giustizia: legge svuota-carceri, un provvedimento con molte ombre di Davide Falcioni www.inviatospeciale.com, 26 novembre 2010 È stato definitivamente approvato in Senato il decreto legge che consentirà, entro la fine dell’anno, di riportare le carceri italiane in condizioni di minor sovraffollamento. Il provvedimento sarà tuttavia valido solo fino al 2013: entro quell’anno è prevista infatti la costruzione di nuovi istituti di pena. Il “decreto svuota carceri” prevederà l’applicazione della detenzione domiciliare nei confronti dei reati meno gravi, mentre saranno esclusi i detenuti sottoposti a regime di sorveglianza particolare, i “delinquenti abituali, professionali o per tendenza”, i soggetti per i quali esiste la concreta possibilità di sottrarsi alla detenzione domiciliare mediante la fuga, quelli per i quali sussistono specifiche e motivate ragioni che possano commettere ulteriori delitti, nonché quelli che non dimostrano di possedere un domicilio adeguato alle esigenze della detenzione domiciliare. Il ministero della Giustizia ha reso noto che dovrebbero beneficiare del decreto circa settemila detenuti entro la fine dell’anno. Un numero considerevole, ma purtroppo non sufficiente a riportare alla normalità la situazione delle carceri italiane. Si stima, infatti, che il sovraffollamento riguardi almeno ventimila persone. I numeri del rapporto Antigone (associazione che si occupa dei diritti dei detenuti) sul fenomeno sono agghiaccianti: i detenuti presenti nei 206 istituti di pena sparsi sul territorio italiano sono 68.527 a fronte dei 44.612 posti letto regolamentari. Il 43,7 per cento dei detenuti è imputato mentre 15.233 sono quelli in attesa di giudizio (record assoluto in Europa); 28.154 sono i detenuti che hanno commesso violazioni della legge sulle droghe, 11.601 quelli che devono scontare una pena inferiore a un anno, 5.726 i detenuti italiani imputati o condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso, 1.437 gli ergastolani italiani e “solo” 54 quelli stranieri. Ed è proprio alla luce di questi dati che si contano già più di 1.300 richieste di ricorso alla Corte Europea per i diritti umani contro le condizioni di vita inumane. Ma proprio secondo l’associazione Antigone (con A buon diritto e sindacato Uil), il decreto “svuota carceri” rappresenta solo uno specchietto per le allodole: “per tre ordini di motivi - precisa l’associazione - in rapporto a modalità, tempi e destinatari. Al di là dell’attenzione mostrata rispetto alla necessità di assumere altro personale di polizia penitenziaria, non andrà a creare alcuna deflazione per le presenze a causa delle numerose restrizioni e individuazioni soggettive che limitano di molto la platea dei destinatari, si è parlato di 7 mila unità, ma, e mi confortano i dati degli addetti ai lavori, i beneficiari saranno solo 1.500.” Il provvedimento, dunque, rischia di non risolvere neppure parzialmente il problema delle carceri italiane. E, in ogni caso, non sarebbe sufficiente: il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione recita che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tuttavia secondo uno studio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dal 1998 al 2005 i soggetti sottoposti all’affidamento sociale sono tornati a commettere reati nella percentuale del 19%, mentre la percentuale per i detenuti sottoposti a carcerazione la media è stata del 68,45 per cento. Queste carceri dunque, così affollate e carenti di diritti, non realizzano affatto la rieducazione del condannato prevista dalla Carta Costituzionale. Sono molto più efficaci, secondo la ricerca, le misure alternative, che potranno essere attuate solo se verranno depenalizzati reati di minore importanza. Giustizia: Ionta (Dap); perché legge svuota-carceri funzioni serve coinvolgimento del volontariato Redattore Sociale, 26 novembre 2010 Il capo dell’amministrazione penitenziaria al convegno del Seac: “La norma approvata la scorsa settimana si rivolge a una platea di 7 - 8 mila detenuti e non deve creare disparità tra chi abbia un domicilio dove scontare la pena e chi non ce l’ha”. “La norma approvata la scorsa settimana si rivolge a una platea di 7-8 mila detenuti e oltre all’amministrazione e alla magistratura serve il coinvolgimento degli enti locali e del volontariato”, ha affermato Franco Ionta, capo dell’amministrazione penitenziaria durante il 43° convegno nazionale del Seac, Coordinamento enti e associazioni del volontariato penitenziario. “La misura che entrerà in vigore nel 2013 non deve creare disparità tra chi abbia un domicilio dove scontare la pena e chi non ce l’ha - ha spiegato Ionta - si deve reperire il domicilio per chi può ottenere questa misura”. Sul 41bis, il regime di carcere duro per i reati legati al crimine organizzato, Ionta è intervenuto per ribadire l’attualità e la necessità di questo regime. “Penso che evitare i contatti tra l’interno e l’esterno è fondamentale per i detenuti per reati di criminalità organizzata - ha detto - chi ha il 41bis deve avere la possibilità di incontrare con cautela i familiari, l’avvocato e avere un minimo di socialità, ma ho sempre sostenuto la validità di questo sistema”. Il capo dell’amministrazione penitenziaria valuta “positivamente” la concentrazione presso il tribunale di Sorveglianza di Roma tutte le procedure del 41bis. I dati forniti dal Dap sono di 687 persone in regime di carcere duro al 41bis e di 1.506 detenuti all’ergastolo, di cui un terzo (544) hanno un’età compresa tra i 50 e i 59 anni. La regione in cui ci sono più detenuti ergastolani è la Lombardia, con 229 casi. “Mai più ergastolo bianco”, ha detto Ionta riferendosi ai malati psichiatrici internati che “non trovano possibilità di assistenza e di collocazione nella società nonostante sia finita la loro pericolosità sociale”. In Sicilia c’è un progetto da 4 milioni di euro per far uscire dall’Istituto di Barcellone Pozzo di Gotto un certo numero di internati. Giustizia: Anm; la crisi del sistema penitenziario non si risolve costruendo nuovi istituti Ansa, 26 novembre 2010 Non può essere la costruzione di nuovi istituti la soluzione per risolvere la crisi delle carceri, sostiene il presidente dell’Anm: La “drammaticità” della situazione delle carceri “ evidente”, con 69mila detenuti, un terzo dei quali tossicodipendenti e più di un terzo stranieri, ma “la soluzione al continuo aumento del sovraffollamento non può essere solo la costruzione di nuovi stabilimenti in quanto il carcere deve essere la extrema ratio”, ha detto. “È necessario introdurre pene alternative, non limitare l’affidamento in prova che pure ha dato buoni risultati, mitigare le restrizioni previste per i recidivi al godimento dei benefici penitenziari”. Il ddl svuota-carceri, approvato in via definitiva dovrebbe porre circa 9mila detenuti in detenzione domiciliare. “Questo provvedimento - rileva Palamara - sembra aprire la strada al criterio secondo il quale le pene brevi o il breve residuo finale possono essere spiati fuori del carcere nel senso auspicato dall’Anm di favorire il superamento della concezione pancarceraria della pena”, ma “restano dubbi e perplessità, anzitutto per la schizofrenia legislativa, evidenziata dalla contraddizione di un legislatore che, da un lato, criminalizza fatti di dubbia offensività”, come il reato di immigrazione clandestina, “e, dall’altro, sopraffatto dall’emergenza, si preoccupa di svuotare le carceri”. In un secondo tempo, occorrerà valutare i riflessi che i conseguenti adempimenti burocratico amministrativi determineranno sulla già disagiata macchina della giustizia”. Giustizia: Osapp; l'Anm ha ragione, Governo criminalizza fatti di dubbia offensività Adnkronos "Per quanto riguarda la tragedia penitenziaria che sta vivendo questo nostro Paese il presidente Palamara ha detto parole sante oggi, evidenziando il problema dei problemi. è vero: la crisi non si risolve con la sola costruzione di nuovi istituti". è quanto ha detto il segretario generale dell'Osapp, Leo Beneduci, a commento delle dichiarazioni del Presidente dell'Anm al XXX Congresso Nazionale dell'Associazione Nazionale Magistrati in corso a Roma. "Il carcere - spiega Beneduci - oggi come oggi genera soltanto nuovo carcere, soprattutto poi se c'è un Governo che come ha rilevato Palamara criminalizza fatti di dubbia offensività come il reato di immigrazione e, dall'altro, sopraffatto dall'emergenza, si preoccupa di svuotare le carceri". "Che il decreto c.d. svuotacarceri abbia i suoi effetti è indubbio, ma se questo Paese deve e vuole avere una lungimirante politica carceraria deve preoccuparsi di cio' che puo' fare il detenuto una volta uscito di galera", aggiunge."Noi della Polizia Penitenziaria sosterremmo sempre quei progetti e quei Gioverni che orientino la rieducazione del detenuto, cosi' come impone la Costituzione, verso l'introduzione di pene alternative, verso un'affidamento in prova piu' allargato, e verso la mitigazione di tutte quelle restrizioni previste per i recidivi al godimento dei benefici penitenziari", conclude. Giustizia: Ingroia (Dda Palermo); non toccare il 41-bis e l’ergastolo Redattore Sociale, 26 novembre 2010 Il procuratore aggiunto della direzione distrettuale antimafia di Palermo al convegno nazionale del Seac: “È storia che tutti i collaboratori di giustizia erano ergastolani, solo l’ergastolo ha costituito la molla che li ha spinti a collaborare”. “Non vanno toccati né il 41bis né l’ergastolo”. È quanto afferma Antonio Ingroia, procuratore aggiunto della direzione distrettuale antimafia di Palermo a margine del convegno nazionale del Seac (vedi lancio precedente). “La questione carcere, quando si ha a che fare con Cosa nostra ha la peculiarità che il componente dell’organizzazione non perde mai l’appartenenza - ha spiegato il magistrato - , il 41bis e l’ergastolo per i detenuti di mafia non hanno il senso di essere afflittivi, ma di interrompere questo vincolo”. In particolare sull’ergastolo Ingroia ha affermato che “può apparire antitetico rispetto alla funzione costituzionale di rieducazione della pena, ma con Cosa nostra il discorso è ribaltato: è storia infatti che tutti i collaboratori di giustizia erano ergastolani”. Il magistrato ha spiegato il concetto con queste parole: “Solo l’ergastolo ha costituito la molla che li ha spinti a collaborare con lo Stato”. Sulla trattativa Stato - mafia, il magistrato palermitano ha riposto ai giornalisti sull’audizione di Conso: “L’audizione è stata un passaggio necessario che ha consentito di acquisire informazioni importanti, da approfondire con l’esame di altre persone informate dei fatti”. Giustizia: Ionta (Dap); sono 687 i detenuti sottoposti al 41-bis Agi, 26 novembre 2010 “Ho sempre sostenuto la validità dello strumento del 41 bis. Credo che in questo momento il sistema regga abbastanza bene e la concentrazione nel tribunale di sorveglianza di Roma per tutti i soggetti al 41 bis è una norma di saggezza, poiché la tematica richiede una omogeneità di trattazione”. Lo ha detto Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, intervenuto questo pomeriggio, a Roma, al 43mo convegno nazionale del Seac, il coordinamento degli enti e associazioni di volontariato penitenziario. Ionta ha sottolineato che al momento i detenuti al 41 bis sono 687, una percentuale ridotta rispetto ai 69mila detenuti complessivi. “Limitare i contatti con l’esterno - ha detto - è una delle prime condizioni per evitare il supporto alle organizzazioni criminali che un detenuto potrebbe ancora dare. Ma anche chi è nel 41 bis deve avere la possibilità di incontrare difensori e familiari con le dovute cautele. Non può quindi esserci una assoluta impermeabilità rispetto a contatti esterni”. Il capo del Dap ha inoltre voluto ribadire l’importanza della norma approvata la settimana scorsa che prevede gli arresti domiciliari per chi ha avuto una pena inferiore ad un anno di reclusione. “La nuova norma - ha detto Ionta - necessita di un ruolo importante dell’amministrazione penitenziaria, della magistratura di sorveglianza ma anche di un ruolo degli enti locali e delle associazioni di volontariato poiché non deve esserci una diseguaglianza rispetto a quei detenuti che non hanno un domicilio. Pensiamo al cosiddetto ergastolo bianco dei malati psichiatrici che non riescono ad essere inseriti nel tessuto sociale poiché non trovano all’esterno una capacità di allocazione”. Giustizia: l’ex ministro Conso; fu solo mia la scelta di non rinnovare il carcere duro a 140 mafiosi La Repubblica, 26 novembre 2010 “Nel 1993 non c’è stato neppure il barlume di una possibile trattativa”. L’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso lo ripete più volte nelle tre ore e mezza di audizione davanti ai magistrati della Procura di Palermo, nella sede centrale della Direzione investigativa antimafia. “La scelta di non rinnovare il 41 bis a 140 mafiosi reclusi all’Ucciardone, nel novembre 1993, fu il frutto di una mia decisione solitaria, per fermare la minaccia di altre stragi”: il Guardasigilli dell’epoca ribadisce quanto detto nei giorni scorsi alla commissione parlamentare antimafia. E tiene a precisare: “È trascorso molto tempo, i miei ricordi sono vaghi”. I pm di Palermo hanno mostrato a Conso alcuni documenti acquisiti in questi giorni al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Non furono 140, ma circa 300 i mafiosi che si videro revocare il carcere duro. Erano detenuti a Palermo, ma anche in altri penitenziari italiani. L’ex ministro ha preso atto della documentazione mostrata dai magistrati e ha ribadito: “Fu una scelta personale, non la comunicai a nessuno. La decisione non era un’offerta di tregua o per aprire una trattativa. Cercavo solo di fermare altre stragi”. Davanti a Conso ci sono il procuratore Francesco Messineo, l’aggiunto Antonio Ingroia, i sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido. All’audizione dell’ex ministro della Giustizia i pm sono arrivati con molti documenti, quelli acquisiti nei giorni scorsi anche al Viminale, dopo l’audizione dell’ex direttore generale del Dap Nicolò Amato, che ha parlato di un comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, convocato il 12 febbraio 1993, per discutere pure del carcere duro. Amato scriveva di quella riunione anche in una nota inviata al capo di gabinetto del ministro Conso, il 6 marzo 1993: “Da parte del capo della polizia sono state espresse riserve sulla eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario. Ed anche recentemente da parte del ministero dell’Interno sono venute pressanti insistenze per la revoca dei decreti applicati agli istituti di Poggioreale e di Secondigliano”. I magistrati di Palermo hanno inviato la Dia al Viminale, per acquisire gli atti del comitato. Ed è sorto subito un giallo dopo la lettura del verbale di quel 12 febbraio: non c’è alcun cenno al carcere duro. I pm cercano adesso la relazione del capo della polizia Vincenzo Parisi. E presto potrebbero tornare a convocare l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino, che nella sua audizione a Palermo non ha fatto alcun riferimento al dibattito di quei mesi sulla revoca del carcere duro. Questoè diventato il vero giallo dell’indagine sulla trattativa Stato - mafia: all’inizio del ‘93, pochi mesi dopo le stragi Falcone e Borsellino, la posizione ufficiale del governo era la linea dura contro i boss: invece, in alcuni autorevoli consessi si sarebbe discusso di smantellare il 41 bis. Erano i mesi in cui il boss Bernardo Provenzano diceva ai suoi che presto il carcere duro sarebbe stato spazzato via. Come faceva a saperlo? Chi l’aveva rassicurato? Questa mattina, in commissione antimafia, il senatore del Pd Giuseppe Lumia chiederà di acquisire tutte le relazioni dei comitati nazionali per l’ordine e la sicurezza convocati al Viminale fra il ‘92 e il ‘93. Giustizia: Spataro (Procura Milano); concetto sicurezza strumentalizzato, contro gli immigrati Redattore Sociale, 26 novembre 2010 Il procuratore aggiunto del Tribunale di Milano: “Nelle carceri è raro trovare i colletti bianchi che compiono i reati di corruzione e falso in bilancio, quasi che il nemico pubblico numero uno del paese sia solo l’immigrato irregolare”. “C’è una strumentalizzazione del concetto di sicurezza di cui vediamo gli effetti sulla popolazione carceraria”. Sono parole di Armando Spataro, procuratore aggiunto del Tribunale di Milano, che ha aperto così il suo intervento al convegno annuale del Seac. “Nelle carceri ci sono numerosissimi criminali comuni, è raro trovare i colletti bianchi che compiono i reati di corruzione e falso in bilancio quasi che il nemico pubblico numero uno del paese sia solo l’immigrato irregolare, sembra che lì si debbano catalizzare le nostre attenzioni”, ha affermato il magistrato. “I pacchetti sicurezza sono talmente tanti che anche gli addetti ai lavori fanno fatica a fare l’elenco - ha spiegato il magistrato. Il primo lodo Alfano è stato approvato con il pacchetto sicurezza del 2008”. Giustizia: il Governo si costituisca parte civile nel processo per la morte di Cucchi di Leopoldo Grosso, Livio Pepino, Patrizio Gonnella e Tonio Dell’Olio www.linkontro.info, 26 novembre 2010 Appello al senatore Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e responsabile del Dipartimento delle Politiche Antidroga - Il 27 ottobre 2010 si è svolta l’udienza preliminare relativa al processo per la morte di Stefano Cucchi, avvenuta il 22 ottobre del 2009, dopo 6 giorni di arresto. Al processo sono imputate 13 persone, agenti di polizia penitenziaria, accusati di gravi lesioni alla persona, medici ed infermieri della sezione per detenuti dell’ospedale Pertini, accusati di mancata cura ed inadeguata assistenza, ed il dirigente del Prap, accusato di falso. All’udienza preliminare il Dipartimento delle Politiche Antidroga era assente. Lei, senatore Giovanardi, che è a capo del Dipartimento in quanto sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, non ha ritenuto di doversi costituire parte civile al processo, come invece ha richiesto ed ottenuto il Comune di Roma. La scelta da Lei effettuata non ha raccolto le sollecitazioni che Le sono pervenute, affinché il Dipartimento si presentasse come parte lesa. La sua mancata presenza al processo, appare come se la inaudita e tristissima vicenda di Stefano Cucchi non La riguardasse. Come se il comportamento di dipendenti dello Stato dei due diversi comparti preposti alla funzione di protezione e di cura non chiamasse in causa l’applicazione delle politiche sul carcere e la tossicodipendenza del Suo Dipartimento e lo stesso spirito della Sua legge, la Fini - Giovanardi, da Lei fortemente voluta e che porta in calce anche il suo nome. Al di là del giudizio di merito sull’opportunità e sull’efficacia di una legge approvata con voto di fiducia, in coda di legislatura, senza dibattito parlamentare, ed “agganciata” al decreto per il finanziamento delle olimpiadi invernali di Torino del 2006, ciò che Le chiediamo, con la richiesta di costituirsi parte civile al processo, è un atto di dissociazione inconfutabile che, più di ogni dichiarazione, recida il nesso tra le buone intenzioni da Lei attribuite alla Sua legge ed i comportamenti degli imputati che l’hanno disattesa. Lei ha sempre sostenuto che il Suo testo di legge, pur adottando una logica repressiva e punitiva, si pone come obiettivo la cura e la riabilitazione delle persone tossicodipendenti. L’intenzione, la “ratio”, come Lei ha spesso ricordato, dell’articolato legislativo consiste nel motivare le persone tossicodipendenti alla cura. L’esperienza del carcere rappresenta solo un passaggio o una minaccia, allo scopo di favorire una scelta di cura tramite l’accesso alla pena alternativa alla detenzione, che prevede il percorso riabilitativo in comunità terapeutica o nel territorio. L’innalzamento fino a 6 anni di condanna, ad eccezione di alcuni reati, previsto nella Sua legge, per fruire di tale beneficio, è stato l’argomento da Lei più volte addotto a dimostrazione del prevalere dell’intenzionalità terapeutica su quella punitiva dell’intero articolato. Alla Conferenza nazionale, che ha il compito di legge di verificare ogni tre anni l’efficacia delle politiche sulla droga, e che si è tenuta a Trieste nel marzo del 2009, Le furono rappresentate le tante difficoltà che si frappongono nel concreto alla realizzazione delle aspirazioni riabilitative che intendevano animare la sua riforma della legge 309. Una, fra le molte, riguarda l’intreccio tra la nuova normativa ed un’altra legge, la cosiddetta ex - Cirielli, che limita drasticamente alle persone recidive, di cui le persone tossicodipendenti costituiscono la maggioranza, la possibilità di ricorrere alle misure alternative alla detenzione. Una contraddizione che è probabilmente sfuggita nella fretta di legiferare a scadenza di mandato e che oggi contribuisce all’attuale sovraffollamento carcerario, e di conseguenza alla limitazione di fatto dei diritti delle persone detenute. Nella grande maggioranza delle situazioni le persone tossicodipendenti vengono mantenute in stato detentivo fino allo sconto definitivo della pena. Sono invece operativi gli altri aspetti della Sua riforma legislativa: l’aumento delle pene, l’equiparazione delle droghe “leggere” e “pesanti” in fatto di gravità, la limitazione dell’autonomia del giudice nell’accertamento della sottile linea di confine che separa il consumo personale dal reato di spaccio con la definizione arbitraria della dose massima consentita per uso personale. Un’attenta e seria valutazione delle conseguenze negative della legge da Lei voluta, a comparazione degli esiti auspicati, non è ancora stata condotta. Meriterebbe l’investimento di una ricerca. Se ne risultasse che si sono aumentati i danni, sarà compito del Suo Dipartimento delle politiche antidroga provvedere alle correzioni. È necessario che un aspetto vada subito, comunque, corretto. È l’equivoco, a cui la legge può dare luogo, nell’interpretazione semplificata di alcuni operatori che devono applicarla, di legittimazione di comportamenti irrispettosi che ledono la dignità delle persone tossicodipendenti. Se le persone tossicodipendenti debbono essere riabilitate per forza, perché in quanto tali non conservano la dignità di essere umani, l’interpretazione dell’uso della forza può portare a pericolose prevaricazioni. Anche per questo Le chiediamo che il Suo Dipartimento si costituisca parte civile al processo. Non solo per un dovuto atto di giustizia per la morte di Stefano e le modalità in cui è avvenuta, le cui responsabilità sono in corso di accertamento. È ancora in tempo. Tra l’udienza preliminare e l’apertura del dibattimento c’è ancora tempo per potersi costituire parte civile. Le chiediamo e Le auguriamo di farlo. Firmatari: Leopoldo Grosso, vice - presidente Gruppo Abele e componente della Consulta degli esperti presso il Dipartimento politiche antidroga; Livio Pepino, giurista, direttore di Questione giustizia e condirettore di Narcomafie; Patrizio Gonnella, presidente di Antigone; Tonio Dell’Olio, ufficio di presidenza di Libera. Giustizia: quando la tortura è di Stato, la prescrizione è incostituzionale di Marina Della Croce Il Manifesto, 26 novembre 2010 La prescrizione del reato di tortura è incostituzionale, se a compierla sono funzionari pubblici. La Corte costituzionale deve intervenire cambiando le leggi dello stato italiano per adeguarle ai principi della Corte europea dei diritti umani. La procura generale di Genova ha deciso di puntare su questa richiesta l’appello alla corte di cassazione presentato nei giorni scorsi dopo la sentenza che lo scorso 18 maggio aveva condannato a 98 anni di carcere agenti e dirigenti della polizia per l’assalto al dormitorio allestito nella scuola Diaz (durante le manifestazioni contro il G8 del 2001) durante il quale erano stati picchiati e feriti donne e uomini. “La giurisprudenza della Corte europea dei Diritti umani ha da tempo e costantemente espresso un principio - scrivono i sostituti Enrico Zucca e Franco Castaldi nel documento firmato anche dal procuratore generale Luciano Di Noto - “Ogni qualvolta un rappresentante dello stato è stato incriminato per fatti di tortura o maltrattamento è di estrema importanza che i procedimenti penali e i giudizi non siano soggetti a prescrizione e che non sia possibile concedere amnistia o condono”. Dunque, l’articolo 157 del codice penale - quello che regola la prescrizione e i cui tempi furono tagliati nel 2005 per volere del secondo governo Berlusconi - è in contrasto con l’articolo 117 della Costituzione, cioè con l’obbligo di adeguarsi all’ordinamento comunitario. Perché anche se in Italia il reato di tortura non esiste, i comportamenti contestati agli imputati sono assimilabili a quelli citati dalla Corte europea come “causa di una sofferenza molto grave e crudele” e “anche nelle modalità meno gravi e non assimilabili alla nozione di tortura sono da considerarsi inumani e degradanti”, tanto più che l’Italia non si è mai adeguata neppure al principio Ue per cui “il rappresentante dello stato posto sotto processo deve essere sospeso e se condannato rimosso”. L’eccezione di legittimità costituzionale vale solo per l’allora comandante del VII reparto mobile Vincenzo Canterini, il vicequestore Michelangelo Fournier e gli agenti del reparto mobile accusati di lesioni personali “semplici”. Quelli responsabili di lesioni gravi rischiano di veder confermata la condanna anche in cassazione, visto che il reato si prescrive nel 2012. E la eventuale pronuncia della corte costituzionale non interverrebbe comunque sulla prescrizione che ha salvato dirigenti importanti della polizia di stato come Gilberto Caldarozzi, Francesco Gratteri e Giovanni Luperi, condannati per falso e calunnia. Ma un intervento della Corte costituzionale potrebbe cambiare radicalmente il modo di giudicare fatti come quelli di Genova. Lettere: la Fp-Cgil Lombardia commenta il decreto “svuota-carceri” Ristretti Orizzonti, 26 novembre 2010 Il 19 novembre è stato licenziato definitivamente il Decreto del Ministro Alfano sulla detenzione domiciliare, che vorrebbe riuscire, almeno nelle intenzioni espresse, a contenere il sovraffollamento penitenziario, migliorando la gestione delle carceri attraverso l’assunzione di circa 1.800 poliziotti penitenziari. Pur riconoscendo che questo è il primo atto concreto assunto da questo governo, dopo tanti annunci, per risolvere il problema dell’invivibilità delle carceri sia per chi ci abita sia per chi ci lavora, ci chiediamo come gli esperti dell’amministrazione penitenziaria non si siano posti il problema dell’aumento esponenziale dei carichi di lavoro che questo provvedimento avrà su un personale che non avrà alcun incremento, ma piuttosto sta subendo nel tempo una riduzione costante, come gli assistenti sociali, o ha avuto di recente incrementi insufficienti, come gli educatori. Per non parlare della quasi inesistenza di psicologi e delle difficoltà che incontrano gli uffici di Sorveglianza per carenze di personale e di Magistrati di Sorveglianza. Certo, l’assunzione di poliziotti penitenziari, peraltro esigua in termini di necessità, come denunciato anche dal coordinatore nazionale Quinti, potrebbe sembrare un primo tamponamento dell’emergenza, ma con un cerotto non si sutura un’emorragia e, soprattutto, non si interviene realmente sul problema. Se poi si analizza il decreto dal punto di vista dei destinatari del provvedimento, molti sanno che chi potrà fruirne rappresenta una piccola minoranza insufficiente a rendere questo provvedimento significativo rispetto alla riduzione del sovraffollamento. Infatti i detenuti con fine pena sotto l’anno, per la maggior parte sono stranieri o senza fissa dimora, quindi non rientrano nelle fattispecie previste; inoltre i problemi si trasferiranno dal carcere al domicilio, dove i detenuti domiciliari dovranno essere controllati da forze dell’ordine già allo spasimo in termini numerici e di risorse, distogliendole di fatto dall’attività di prevenzione e contrasto alla criminalità. Liberare le persone in questo modo, senza un automatismo ma anche senza un reale intervento trattamentale, ci chiediamo a chi serva visto che non costituisce né un servizio alla collettività né la soluzione del problema del sovraffollamento. Ci sembra solo l’ammissione che il carcere oggi è di fatto invivibile e incivile perché ha assunto l’aspetto di un semplice contenitore di corpi e non anche di storie personali e collettive, che necessitano di essere riconosciute e comprese anche per prevenire recidive. Quanto negli anni passati è già più volte successo ci fa invece purtroppo temere che fra qualche tempo, dopo aver caricato uffici ed operatori penitenziari di un lavoro immane ed utile solo in minima parte, si accuseranno quegli stessi operatori di non essere efficaci e si lancerà la solita campagna sulla rieducazione che fallisce, per approvare nuove politiche di restrizione e rigore. Non si può tacere che questo Decreto grava principalmente sugli Uepe, dove gli assistenti sociali sono già in numero non sufficiente a coprire l’ordinaria amministrazione, rispondendo alle richieste provenienti sia dalla Magistratura che dagli Istituti Penitenziari. Non si è pensato anche al loro incremento numerico sbloccando almeno il turnover e la mobilità esterna da altri enti e servizi della P.A.! Gli operatori penitenziari sono stufi di provvedimenti che non risolvono niente, che non affrontano i veri problemi e trovano soluzioni che tali non sono. Dobbiamo purtroppo constatare che ancora una volta si è persa l’opportunità di effettuare un serio intervento sul carcere e sui servizi di esecuzione penale territoriale che assicurano la prevenzione e il controllo. Dobbiamo denunciare che non si è dato il via a un intervento che tutelasse la sicurezza come richiesto dai cittadini. I Segretari Reg. Fp Cgil, Comparto Ministeri e Sicurezza Gloria Baraldi - Natale Minchillo Il Coord. Reg. Fp Cgil Polizia Penitenziaria Calogero Lo Presti La Coord. Reg. Fp Cgil Dap Ministeri Barbara Campagna Lettere: il 41 bis e il Viminale… di Barbara Spinelli e Nicola Mancino La Repubblica, 26 novembre 2010 Caro direttore, le scrivo in merito all’articolo di Barbara Spinelli, nel quale apoditticamente mi si attribuisce l’opinione favorevole all’abolizione del carcere duro, “decisa” nel novembre 1993 dall’allora ministro della Giustizia Conso nei confronti di 140 mafiosi. In proposito le chiedo di precisare, a tutela della mia immagine e della mia coerenza, innanzitutto di cittadino prima ancora che di politico, di non avere mai espresso in nessuna sede opinioni a favore di un alleggerimento o addirittura dell’abolizione del regime del 41bis. Del resto, lo stesso prof. Conso, cui va tutta la mia stima, deponendo lo scorso 11 novembre davanti alla Commissione parlamentare antimafia, ha testualmente dichiarato (cito dall’Agenzia Ansa) di aver preso la decisione di non rinnovare il 41bis “in assoluta solitudine, senza consultarmi con nessuno”. Quanto alla mia posizione di allora (che oggi confermo), posso citare diverse occasioni pubbliche nelle quali ho sostenuto la necessità di mettere i detenuti più pericolosi in condizioni di non nuocere. Il 7 giugno 1993 il Corriere della Sera riportando una polemica sollevata contro di me dall’on. Tiziana Maiolo, allora eletta nelle liste di Rifondazione Comunista, e dal radicale Sergio D’Elia che mi accusavano di voler creare “carceri speciali”, cita la mia seguente espressione: “Mi sono battuto e mi batto contro il lassismo penitenziario quando consente ai mafiosi di comunicare con l’esterno e di guidare, dalle carceri, la lotta contro lo Stato”. All’epoca ero accusato d’essere un “duro”, mentre oggi, a distanza di 18 anni, sempre sulle “carceri speciali” sarei stato un “garantista”, se non addirittura un debole. A conferma della mia posizione, desidero ricordare che nel 1993, recatomi a Catania nella qualità di ministro dell’Intemo per un incontro con i responsabili dell’ordine pubblico della Sicilia orientale, ebbi a dichiarare, così come venne virgolettato dal Giornale di Sicilia del 12 ottobre 1993: “Ci siamo trovati tutti d’accordo sull’opportunità di non abolire l’articolo 41bis, quello cioè che prevede il trattamento differenziato per i detenuti più pericolosi, a cominciare dai boss. Dal momento che questo trattamento sta dando buoni risultati, occorre intensificare la lotta alla mafia anche in questa direzione”. Questa la mia posizione di quegli anni, sempre coerentemente sostenuta in tutte le sedi. Nicola Mancino Ringrazio il presidente Mancino per la lettera di rettifica, che chiarisce in modo inequivocabile la linea di fermezza che egli difese pubblicamente sul carcere duro per i delitti di mafia. Tanto più preoccupante è quel che Nicolò Amato, a quei tempi direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dichiarava il 6 marzo 1993 in un “appunto” indirizzato al capo di gabinetto del ministro della Giustizia Giovanni Conso: “In sede di Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, nella seduta del 12 febbraio, sono state espresse, particolarmente da parte del capo della polizia, riserve sulla eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario. Ed anche recentemente da parte del ministero dell’Interno sono venute pressanti insistenze per la revoca dei decreti applicati agli istituti di Poggioreale e di Secondigliano”. Conclusione dell’appunto: “Appare giusto ed opportuno rinunciare ora all’uso di questi decreti”. Questo significa che una parte del ministero dell’Interno non si limitava a pensare in modo diverso dal proprio ministro, ma che agiva - esercitando pressioni non leggere - per conto suo, senza che il titolare del dicastero ne sapesse alcunché. E che anche il ministro della Giustizia si trovò ad agire “in assoluta solitudine”, come da lui stesso svelato l’l1 novembre scorso in Commissione antimafia: la decisione di togliere il carcere duro a 140 mafiosi, adottata da Conso nel novembre 1993, fu presa poche settimane dopo che Mancino, suo collega del governo, aveva dichiarato, l’11 ottobre ‘93 a Catania parlando ai responsabili dell’ordine pubblico: “Ci siamo trovati tutti d’accordo sull’opportunità di non abolire il 41 bis”, ai fini di “intensificare la lotta alla mafia anche in questa direzione”. Vero è che Amato, contrario al 41 bis pur avendo lavorato con Giovanni Falcone, lasciò il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel giugno 1993. Ma il torbido di quei mesi e anni resta, e torbida resta la sicurezza con cui Bernardo Provenzano andava rassicurando i suoi, sull’imminente abolizione del carcere duro abolizione decretata secondo i magistrati della procura antimafia di Palermo non per 140 ma per più di 300 mafiosi, (come riportato giovedì da Salvo Palazzolo e Francesco Viviano su Repubblica). Che un ministro non controlli alla perfezione il proprio ministero è un male forse inevitabile. Che tanti attori del dramma agissero per conto proprio, su questioni di vita e di morte come la resistenza alla mafia, e che questa verità venga alla luce con 17 anni di ritardo, è un male oscuro su cui è essenziale fare chiarezza. Barbara Spinelli Lettere: appello per salvare la vita ad un detenuto di 70 anni di Vittorio Trupiano (Avvocato) Corriere di Aversa, 26 novembre 2010 Il presente è un appello alla società civile a tutela del diritto alla salute e dei valori fondamentali della Costituzione. In data 21 aprile si costituiva spontaneamente presso il carcere di Spoleto il 70enne napoletano Aragione Antonio in quanto raggiunto da ordine di esecuzione della pena perché riconosciuto definitivamente colpevole di aver partecipato, sia pure con ruolo marginale (tant’è che gli è stato concesso l’indulto nella sua massima estensione di anni 3) ad una organizzazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti. Le sue condizioni di salute apparivano subito gravi. Aragione, già riconosciuto da tempo invalido civile al 100% dall’Asl Napoli 3 e “inidoneo a compiere il più elementare atto della vita”, in quanto affetto, tra l’altro, da “lobotomia superiore polmonare destra per grave enfisema bolloso”, andava man mano aggravandosi in quanto respira solo col polmone sinistro la cui funzionalità è peraltro ridotta della metà. Ciò induceva il sottoscritto difensore a rivolgere ben tre istanze al Magistrato di Sorveglianza di Spoleto sottese al differimento dell’esecuzione della pena, tutte rigettate con la motivazione che, sebbene lo stesso fosse affetto da gravi patologie, queste erano ancora curabili all’interno del circuito dell’Amministrazione penitenziaria, rimettendo, così, gli atti al Tribunale di Sorveglianza di Perugia per ogni eventuale diversa valutazione. All’udienza tenutasi il 21 ottobre presso il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, lo stesso Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Perugia si dichiarava impossibilitato ad esprimere il proprio parere in quanto necessitavano “approfondimenti” clinici in ordine alla gravità della dedotta patologia. A tutt’oggi il Tribunale non ha ancora deciso, mentre una nuova istanza veniva presentata il 4 novembre 2010 al Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, giustificata dall’ulteriore aggravamento delle patologie del condannato. Era, infatti, stavolta proprio l’Asl 3 della Regione dell’Umbria “Ospedale di Spoleto” a certificare in data 14 ottobre: “Enfisema di alto grado con presenza di grossolane formazioni bollose prevalentemente localizzate a livello dei lobi superiori ed in sede paracardiaca sinistra della grandezza di circa 5 cm”. Aragione Antonio, 70 anni, è ad elevatissimo rischio di morte in quanto secondo autorevole casistica medica le c.d. “bolle giganti” da enfisema bolloso sono causa di decesso al pari dei carcinomi, proprio perché limitano gravemente la funzionalità del polmone e, quindi, quella cardiaca. Aragione Antonio, che non è delinquente abituale e su cui sono pervenute le informative della Polizia Giudiziaria che lo descrivono “non collegato alla criminalità organizzata” e che non ha altri procedimenti penali a suo carico, è allo stremo e può morire strozzato da fame d’aria da un momento all’altro. Il protrarsi della sua detenzione collide in modo stridente col principio di umanità della pena sancito dalla nostra Costituzione, nonché col diritto alla salute del condannato ed è anche incomprensibile alla luce delle vigenti normative in materia (artt. 146 e 147 c.p.). Il sottoscritto difensore propone, pertanto, un accorato appello alla Società civile ed ad ogni espressione democratica istituzionalmente preposta a che quanto sopra sia reso di pubblico dominio ed abbia a cessare quanto prima, pena la sopravvivenza dello stesso condannato. Si ringrazia per l’attenzione. Si allega: referto Ospedale di Spoleto. Roma: detenuto di Rebibbia muore all’Umberto I con la febbre alta, si sospetta una meningite Dire, 26 novembre 2010 “È morto, dopo una settimana di febbri altissime, nel reparto per detenuti del Policlinico Umberto I di Roma, senza che nessuna delle cure mediche tentate avessero effetto. È morto così, il 5 ottobre scorso, Antonio Alibrandi, detenuto 32enne del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso”. Lo dice in una nota garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, che precisa: “È la nona persona morta nelle carceri del Lazio dall’inizio del 2010; di queste tre sono stati suicidi. Il personale del carcere ha riferito ai collaboratori del Garante che, nella seconda metà di settembre, Alibrandi è stato colpito, per più di una settimana, da oltre 40 gradi di febbre e che gli antibiotici somministrati non hanno avuto effetto alcuno. Vista la gravità della situazione è stato disposto il ricovero dell’uomo nella struttura protetta dell’ospedale Sandro Pertini da dove, dopo pochi giorni, è stato trasferito al Policlinico Umberto I, dove è morto”. Il decesso, prosegue la nota, “potrebbe essere stato causato, secondo alcune ipotesi, da meningite o da leucemia fulminante. Alibrandi era arrivato a Rebibbia nuovo complesso ad ottobre del 2009 (prima nella sezione G 11, poi nella G 9) per scontare una condanna definitiva a due anni di reclusione per rapina semplice. Chi lo ha conosciuto lo descrive come una persona riservata. Single e detenuto lontano da casa (era di origine calabrese essendo nato a Lamezia Terme), aveva pochissimi colloqui se non con il Sert interno e l’area trattamentale. Proprio per la sua solitudine Alibrandi chiedeva spesso dei capi di vestiario ai volontari della Caritas. Ai collaboratori del Garante regionale dei detenuti l’uomo aveva chiesto di interessarsi per entrare in una comunità terapeutica e del vestiario”. “Quest’uomo è morto in ospedale da solo, senza il conforto di parenti ed amici, e proprio per questo il suo decesso rischiava di passare sotto silenzio - ha detto il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni - La cosa certa è che, con i livelli di sovraffollamento attuali, e le carenze di risorse, le carceri non sono la struttura adeguata a garantire l’assistenza per persona in quelle condizioni di salute”. Pisa: interrogazione parlamentare dei Radicali per la morte in carcere di Ajadi Moez Il Tirreno, 26 novembre 2010 Interrogazione parlamentare dei radicali per la morte di un detenuto in carcere. L’episodio a cui ci si riferisce è avvenuto al centro clinico del Don Bosco il 4 settembre scorso. L’interrogazione chiede lumi sulla morte del giovane tunisino Ajadi Moez, 33 anni. Sul caso la procura ha aperto un’inchiesta coordinata dal pm Antonio Giaconi. La morte del giovane presenta aspetti tuttora poco chiari. Lo straniero si era sentito male nella notte ed era stato ricoverato al centro clinico del Don Bosco, vero punto di riferimento nazionale. All’alba, visto il peggioramento, era stato trasportato al Santa Chiara ma era morto durante il tragitto verso l’ospedale. Il giovane straniero soffriva d’asma. Inizialmente si era pensato che a fargli male potessero essere stati alcuni farmaci, mentre è stata esclusa la possibilità che avesse problemi legati all’assunzione di stupefacenti. La procura ha però aperto una inchiesta che faccia piena luce sul fatto e per stabilire se vi sono eventuali responsabilità. Il tunisino inizialmente accusava problemi respiratori e dolori polmonari ma nulla lasciava presagire il peggio. L’autopsia era stata eseguita dal medico legale Marco Di Paolo: i prelievi ematici per gli esami tossicologici hanno portato a scartare l’ipotesi che a far male al detenuto potesse essere stato mix di farmaci. Spesso i detenuti non assumono subito i farmaci prescritti ma ne fanno una sorta di “scorta” per poi ingerirli tutti insieme. Ma l’ipotesi di un suicidio è stata scartata, almeno stando ai racconti dei compagni di cella che sono stati interrogati dalla polizia penitenziaria. Il tunisino era in carcere dal 16 giugno per la Bossi - Fini. Milano: i detenuti raccontano la loro colletta a favore del Banco Alimentare www.ilsussidiario.net, 26 novembre 2010 Riceviamo e pubblichiamo la lettera che, attraverso l’Associazione Incontro e Presenza, ci hanno inviato quattro detenuti milanesi. Ringraziamo per il contributo offerto ai nostri lettori l’Associazione Incontro e Presenza, la realtà grazie a cui quest’anno la Colletta alimentare potrà svolgersi nelle carceri di San Vittore, Opera e Monza. “Egregio direttore, potrà sembrarle strano che dei detenuti come noi abbiano scelto di partecipare alla Colletta alimentare che si terrà sabato (domani, Ndr). Abbiamo deciso infatti, come avvenuto anche gli anni scorsi, di fare la nostra parte raccogliendo dei generi di prima necessità nello spaccio del carcere per donarli alle persone che si trovano in libertà. Un’iniziativa in qualche modo originale, se si pensa al fatto che una cella non è certo un luogo confortevole e che non navighiamo nell’oro. Per questo abbiamo voluto scriverle per spiegarle le ragioni del nostro gesto. In tutta la nostra vita sbagliata, prima di finire in carcere, ci capitava di ritornare all’alba da una notte di bagordi e di incontrare lungo la strada gli operai che alla stessa ora si stavano recando al lavoro. Provavamo il massimo rispetto nei loro confronti, e un sentimento di vergogna per noi. Molti di quei lavoratori oggi un lavoro non ce l’hanno più, perché sono stati licenziati a causa della crisi. Dopo una vita onesta e fatta di sacrifici, non hanno più la possibilità di mantenere le loro famiglie. Molte di quelle persone si trovano nella condizione di avere bisogno di aiuto, aiuto pratico e concreto. Anche perché superata una certa età è sempre più difficile trovare una nuova occupazione e quindi avere un reddito dignitoso. Si tratta quindi di persone che avendo bisogno di portare a casa quello che serve per sfamare la famiglia, magari poi qualcuno di questi si ritrova anche a commettere piccoli reati danneggiando l’intera società che è vittima di un malessere generale. Proprio per questo, riteniamo che le motivazioni da cui nasce la Colletta alimentare siano nobili e profonde. Forse queste parole le possono sembrare stonate o improbabili se dette da un detenuto che si è macchiato di reati. Ma è proprio quello che intendiamo dire. E le possiamo assicurare che non siamo così ingenui da pensare di poter fare perdonare i nostri errori donando un pacco di spaghetti o una scatoletta di tonno. Per noi più che altro questa è una forma di giustizia riparativa”. Pavia: arrestato l’ergastolano evaso ieri, una fuga durata solo cinque ore Redattore Sociale, 26 novembre 2010 Valerio Paladini, condannato per un duplice omicidio e detenuto in regime di 416 bis, ha approfittato di una scala incustodita lasciata nel cantiere del carcere e, mentre si recava in palestra, è riuscito a fuggire. È stato bloccato nei pressi di una cascina nelle vicinanze del penitenziario. Arrestato l’ergastolano evaso nel pomeriggio dal carcere pavese. Valerio Paladini, 32 anni, nato a Surbo, provincia di Lecce, è stato bloccato nei pressi di una cascina non lontano dal muro di cinta del carcere di Torre del Gallo. Si chiude così la sua tentata fuga durata poco più di cinque ore. Paladini era evaso intorno alle 13. L’uomo è condannato all’ergastolo per un duplice omicidio compiuto a Surbo nella fine degli anni ‘90, ed è detenuto in regime di 416 bis. Proprio ieri gli era stata confermata in appello, la condanna all’ergastolo e nella mattinata di oggi gli era stata notificata in carcere. Mentre si recava nella palestra della casa circondariale, sembra abbia approfittato di una scala incustodita lasciata nel cantiere per la costruzione di un nuovo padiglione. Al momento della fuga era vestito con una tuta con i pantaloni al ginocchio, si sarebbe calato da una gru che serve per eseguire alcuni lavori all’intenro del carcere di Torre del Gallo. Le ricerche si sono concentrate nel Carrefour vicino alla casa circondariale e nel Parco della Vernavola. Anche due elicotteri hanno battuto la zona, poi nel tardo pomeriggio l’avvistamento e infine la cattura. Sappe: bene cattura ergastolano evaso, ma servono circuiti differenziati Siamo ben lieti che il detenuto ergastolano evaso oggi dal carcere di Pavia sia stato catturato tempestivamente dai nostri colleghi, dopo una fuga durata poche ore. Ma è del tutto evidente che il sistema non va: non è infatti possibile, come succede oggi, avere nello stesso carcere e talvolta nella stessa cella condannati all’ergastolo o a lunghe pene ed imputati o soggetti in attesa di giudizio, come avviene a Pavia. È quanto denuncia in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, nel commentare l’evasione lampo di un detenuto ergastolano avvenuta oggi nel carcere di Pavia. Una prima soluzione al pesante sovrappopolamento penitenziario può allora essere la concreta definizione dei circuiti penitenziari differenziati e, in questo contesto, la costruzione di carceri per così dire leggere per i detenuti in attesa di giudizio destinando le carceri tradizionali a quelli definitivi - propone Capece - In questa direzione, la soluzione alternativa per l’edilizia penitenziaria c’è ed è un progetto, molto usato negli Stati Uniti, che riguarda un sistema modulare, vale a dire un edificio con grandi capacità di resistenza agli agenti atmosferici, agli attacchi chimici o ad altri processi deteriorativi, che può essere sopraelevato senza particolari misure strutturali e con costi competitivi e tempi di esecuzione estremamente rapidi. Si tratta di edifici con 600 posti letto costruibili in quattro mesi, con un costo inferiore ai 20 milioni di euro e posti in opera in soli 7 mesi - spiega ancora il segretario del Sappe - Questa potrebbe essere una prima rapida soluzione per deflazionare le affollate carceri italiane. Perché non provarci?. È ovvio che per attivare nuove strutture penitenziarie è necessario avere le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria, che oggi non ci sono. Tutti sanno che gli organici del Corpo patiscono carenze quantificate in ben più di 6mila agenti - ricorda Capece - Solo a Pavia, ad esempio, mancano più di 100 agenti dagli organici del Reparto di Polizia. Vero è che da tempo immemore il Sappe, il primo sindacato del Corpo di Polizia, sostiene l’esigenza di definire i circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi, con particolare riferimento al bisogno di destinare, a soggetti di scarsa pericolosità, specifici circuiti di custodia attenuata e potenziando il ricorso alle misure alternative alla detenzione per la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale. Oggi ci sono in carcere quasi 70mila detenuti a fronte di una circa 42mila posti letto, il numero più alto mai registrato nella storia dell’Italia. Bisognerebbe dunque percorrere la strada dei circuiti penitenziari differenziati: ma altrettanto necessaria è una concreta riforma del sistema penale, sostanziale e processuale - conclude Capece - che renda più veloci i tempi della giustizia. Venezia: lavoro in carcere, impresa e recupero dei detenuti La Nuova di Venezia, 26 novembre 2010 Ci sono i turisti (francesi i più affezionati) che al “Banco Lotto” ordinano abiti su misura per il matrimonio o qualche cerimonia, mentre la Fenice si rivolge alla sartoria del carcere femminile per costumi (8, quest’anno) e camicie. In quaranta si occupano poi della pulizia del Villaggio Mose a Pellestrina. Ancora, c’è la lavanderia industriale che fattura 25 mila euro al mese con gli alberghi. E la pulizia delle isole, dei litorali, i servizi ai pontili di Actv: commesse con Actv, Consorzio Venezia Nuova, Veritas. Lavoro dentro e fuori dal carcere: una realtà imprenditoriale sempre più solida a Venezia, che vede la cooperativa sociale Il Cerchio (che gestisce anche gli impianti sportivi di Sacca Fisola) fatturare 3,5 milioni (in linea con il 2009 e ben il 18% in più rispetto al 2008) e impiegare oltre cento persone, tra ex detenuti, detenute, personale esterno. E non è l’unica, perché la coop Rio terà dei Pensieri lavora con le detenute all’orto di erbe che alimenta la linea di cosmetica naturale del laboratorio interno al carcere. E, ancora, la linea di borse, il laboratorio di serigrafia ed editoria elettronica a Santa Maria Maggiore, vari punti vendita dei prodotti in città. Questi tempi di drammatica crisi hanno riportato al centro della vita di molti il ruolo fondamentale del lavoro, nella vita delle persone. Per chi è o è stato in carcere rappresenta un’occasione di recupero alla vita sociale straordinario, con stipendi attorno ai 900 euro al mese, contributi ed assicurazione. È soprattutto la realtà del carcere femminile - diretto da Gabriella Straffi - quella dove la collaborazione con le coop sociali ha dato i maggiori frutti, con una quarantina occupate sulle 120 detenute (comprese 14 borse di lavoro del Comune). La situazione di Santa Maria Maggiore è, invece, molto limitata. “Purtroppo sinora non è stato possibile utilizzare a Venezia le opportunità di impiegare i detenuti semi - liberi in servizi di volontariato - come da noi potrebbe essere la pulizia delle isole - perché il carcere maschile non ha una sezione semi - liberi e i detenuti veneziani sono così a Padova o Treviso”, osserva Gianni Trevisan, presidente de Il Cerchio, “ma finalmente dal ministero sono giunte rassicurazioni sull’autorizzazione a una sezione semi - liberi anche a Venezia: offrire loro l’opportunità di lavorare (gratuitamente, ma con contributi, assicurazione sanitaria, vitto e trasporti pagati) è un’occasione di reinserimento molto importante, estendibile anche a chi è agli arresti domiciliari. Si potrebbero recuperare ad orti e vigneti molte isole della laguna”. Ivrea: con il progetto “Libri dal carcere” realizzati testi in braille per ipovedenti di Marco Campagnolo www.localport.it, 26 novembre 2010 Stampare in carcere libri multimediali indirizzati a bambini e ragazzi ciechi, ipovedenti e dislessici. Non è solo un’idea, ma un progetto che è in corso di attuazione nella Casa circondariale eporediese e che ha già prodotto un primo risultato: una favola stampata in braille, in caratteri ingranditi e contente un cd con l’audiolibro. Questo primo risultato non vuole assolutamente essere un punto di arrivo, bensì un prototipo per poter proporsi agli enti competenti come stamperia specializzata in questa nicchia di mercato. Il progetto denominato, “Libri dal carcere”, è nato da un’idea di Ivo Cavallo dell’Apri, l’Associazione Piemontese Retinopatici e Ipovedenti, e ha poi trovato l’interesse dell’Amministrazione Comunale, dei volontari che operano nel carcere e, ovviamente, della direzione dell’istituto di pena. Lo scorso mercoledì è stato ufficialmente presentato in Comune a Ivrea. “Tra degli scopi della pena carceraria - ha spiegato il direttore del carcere Maria Isabella De Gennaro - c’è anche quello di arrivare a “un’azione risarcitoria” del colpevole di un reato. Raramente questa azione può essere fatta direttamente nei confronti della vittima, ma può essere svolta nei confronti della società. Che alcuni dei nostri detenuti abbiano potuto raffrontarsi con una disabilità quale la cecità è importante per far capire a loro, che vivono la sofferenza della privazione della libertà, come vi siano persone che vivono quotidianamente delle sofferenze, ma in maniera incolpevole”. Una realtà che i carcerati sembrano aver compreso, almeno da quanto hanno scritto in un loro scritto letto in conferenza stampa: “Grazie a Ivo - scrivono i reclusi - ci siamo resi conto di quanti carceri ci possano essere anche nella vita di chi in carcere non è. Siamo contenti che ci sia stato concesso di renderci utili a quel mondo che non può vedere”. Cavallo, grazie all’Apri, ha portato in carcere una stampante brille e una fotocopiatrice tattile. I carcerati coinvolti (per primi quelli della “sezione speciale”, ovvero i collaboratori di giustizia) hanno imparato a trattare i testi e, soprattutto ,le immagini con il computer per poterle stampare in rilievo. Il libro realizzato, una favoletta, ha la parte in brille stampata su carta trasparente, in tal modo il testo a caratteri ingranditi può essere letto al di sotto: “Questo - ha spiegato Cavallo - permetterà all’insegnate, alla madre, di seguire da “sopra la spalla” la lettura del bambino che sta imparando a leggere il brille, ed eventualmente correggere gli errori”. Ora però il progetto deve uscire dalla sua fase di realizzazione del prototipo e verificare se può esserci un mercato, anche perché le risorse sono state esaurite per stampare le cinque copie di questa favola: “In pratica non abbiamo più carta - ha evidenziato Cavallo - e non si tratta di carta normale, ma di carta termosenibile che ha un costo attorno a un euro e 50 ogni foglio A3”. Ma Marco Bongi, presidente dell’Apri, è convinto che un mercato per questi prodotti possa esserci: “Da una parte vi sono finanziamenti statali e regionali per tradurre in brille i libri di testo delle scuole. Finanziamenti che spesso vengono mal spesi finendo a strutture elefantiache che consegnano i libri ad anno scolastico ormai avanzato”. Ma Bongi pensa, e spera, che il mercato possa essere più ampio, allargandosi anche a quello per i normodotati: “In fin dei conti anche gli audiolibri nacquero per la nicchia di chi non era in grado di leggere, e ora si trovano normalmente in libreria, magari con interpretazioni dell’autore stesso”. Inoltre i libri tattili potrebbero anche essere interessanti per i bambini piccoli. Non solo. L’esperienza acquisita per preparare i testi del libro tattile, potrebbe essere estesa al più ampio campo della digitalizzazione dei documenti. Il tutto avrebbe la duplice funzione sia di realizzare libri per bambini e ragazzi che ne hanno bisogno, ma anche di dare la possibilità ai carcerati di avere un lavoro e un proprio reddito. “Spesso il carcerato è una persona povera - spiegava la coordinatrice dei volontari Giuliana Bertola - . La possibilità di avere un lavoro, oltre all’ovvio scopo rieducativo e alla possibilità di passare il tempo, dà anche la possibilità di avere dei soldi e di non dover dipendere per i propri bisogni dalla sola “carità”, spesso sentita come un’umiliazione”. Chiunque fosse interessato ad approfondire la possibilità di stampare libri in brille (interesse già mostrato da alcune scuole) può contattare l’Apri alla mail apri@ipovedenti.it, oppure a quella della delegazione eporediese: canavese@ipovedenti.it. Nuoro: detenuto tenta suicidio a Badu ‘e Carros, salvato da un agente Ansa, 26 novembre 2010 Il pronto intervento dei poliziotti penitenziari in servizio a Badu ‘e Carros ha evitato il suicidio di Diego Calì, di 57 anni, di San Cataldo (Caltanissetta), in carcere per associazione mafiosa. L’uomo ha tentato di togliersi la vita ma l’arrivo dell’agente di servizio nella sezione Eiv (elevato indice di vigilanza) ha fatto sì che venisse salvato. Il detenuto è stato dapprima rianimato e quindi ricoverato. Calì ha tentato il suicidio anche sei mesi fa. Imprenditore con l’appoggio di Cosa nostra, secondo gli inquirenti Calì voleva acquisire il monopolio del racket del caro estinto, ed era stato arrestato, con l’accusa di associazione mafiosa, dai carabinieri di Caltanissetta, il 28 febbraio scorso. La notizia del tentato suicidio di ieri si aggiunge alle forti polemiche nate dopo l’arrivo nel penitenziario barbaricino del detenuto 41-bis Antonio Iovine. Trento: Santini (Pdl); entro fine mese via a trasferimento detenuti nel nuovo carcere Ansa, 26 novembre 2010 Inizierà entro la fine del mese il trasferimento dei detenuti del vecchio carcere di Trento nella nuova struttura a Spini di Gardolo, a nord del capoluogo. Resta da definire il problema del personale. Si fa strada intanto l’ipotesi di chiusura del carcere di Rovereto. Lo rende noto il parlamentare trentino del Pdl Giacomo Santini dopo un incontro con il sottosegretario alla giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati. “Il sottosegretario ha confermato che il trasferimento incomincerà entro la fine di questo mese (con due mesi di ritardo rispetto alle previsioni) essendo ultimati i lavori di adattamento che si erano resi necessari, dopo il passaggio formale dell’impianto all’amministrazione penitenziaria avvenuto in luglio”, dice l’on. Santini. “Rimane da perfezionare il problema relativo al personale. L’attuale pianta organica di 103 agenti di custodia (77 mediamente presenti) è in fase di implementazione con il ricorso a 25 nuove unità già assegnate a Trento, provenienti da altri istituti e con un interpello rivolto al personale in servizio nel centro - sud dove la carenza di organico è meno pesante”. Circa il carcere di Rovereto, l’on. Santini rende noto che il ministero considera di difficile ristrutturazione e recupero l’attuale palazzo storico che risale al periodo asburgico e si fa sempre più strada l’ipotesi che questa casa circondariale venga chiusa e i 105 detenuti (78 uomini e 27 donne ad una recente valutazione) trasferiti a loro volta nel nuovo carcere di Trento. In questo modo si renderebbe disponibile anche il personale di custodia di 73 unità in pianta organica (52 mediamente presenti)”. Pescara: il carcere di San Donato scoppia, 199 detenuti a fronte di una capienza di 105 Il Centro, 26 novembre 2010 Un sovraffollamento di quasi il 100%, con 199 detenuti a fronte di una capienza di 105 detenuti nel reparto giudiziario. Il nuovo campanello d’allarme sul carcere di San Donato che scoppia arriva dalla segreteria regionale della Uil Pa penitenziari, rappresentata da Giuseppe Giancola. Una delegazione del sindacato, infatti, ha visitato il carcere a fine ottobre notando un’ambivalenza. “Da un lato”, come dice Giancola, “la grande attenzione per la popolazione detentiva che diversamente da altri istituti è estremamente tranquilla, pur essendo nel solo reparto aperto (quello giudiziario) un sovraffollamento di quasi il 100 per cento. Dall’altro”, prosegue il sindacalista Giancola, “la scarsa attenzione per il personale di polizia giudiziaria, trascurato e costretto a operare sempre in emergenza”. La gravità della situazione della casa circondariale di Pescara perdura da tempo e la Uil l’ha stata segnalata alla provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e, in seguito alla visita del segretario generale della Uil, Eugenio Sarno, anche al ministero. “Non è possibile”, aggiunge Giancola, “lavorare in questa situazione e assicurare il minimo dei diritti, riposi, congedi, permessi sindacali, con l’inevitabile ripercussione sulla sicurezza dell’istituto e gravando sullo stato del personale in servizio”. Adesso, il sindaco Uil Pa penitenziari chiede rassicurazioni e “interventi per una soluzione” minacciando “di mettere in atto tutte le forme di protesta per risolvere il grave problema”. Lamezia Terme: in una cella rinchiuse 9 persone, di notte un solo agente sorveglia tutto il carcere www.lameziaweb.it, 26 novembre 2010 Nove persone rinchiuse in una sola cella per 20 ore al giorno. Tutti affollati su tre letti a castello, intorno a un tavolino in un corridoio stretto, e con un bagnetto. Vita da carcerati, non c’è dubbio. Ma dietro le sbarre del carcere di San Francesco diventa ancora più difficile. Ci sono 90 detenuti e 20 agenti penitenziari attivi nei corridoi, altri 10 negli uffici amministrativi. Ma il carcere potrebbe ospitare massimo 50 persone, e dovrebbe essere dotato di un agente per ognuno di loro. Tutte denunce fatte da Francesco Molinaro, segretario del Sappe, il più rappresentato sindacato degli agenti penitenziari. Che ricorda quanto scrive il segretario nazionale di categoria Donato Capece al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Il carcere lametino è interessato da tempo da un notevole sovraffollamento se si considera che la capienza regolamentare è di 30 posti e quella tollerabile di 50, mentre i detenuti oscillano dagli 80 ai 90, determinando una percentuale di sovraffollamento tra le più alte d’Italia”. Secondo il Sappe “c’è un solo sovrintendente in servizio per turno” perché tanti agenti sono distaccati altrove, e diversi non si trovano al lavoro per motivi di salute, e presto potrebbero andare in prepensionamento. Personale ridotto significa anche, secondo il sindacato, che c’è un solo agente donna e quando c’è l’accesso al carcere dei familiari dei detenuti bisogna fare ricorso a dipendenti di supporto che arriva da altre sedi. Manca anche un educatore, ogni tanto ne arriva uno che deve far fronte alle richieste di 90 detenuti. “La situazione”, prosegue Capece, “obbliga il personale ad effettuare gravose ed estenuanti turnazioni di lavoro, senza che possano essere assicurate adeguate condizioni di sicurezza nella struttura penitenziaria”. Ed aggiunge il segretario Molinaro che “un solo agente per notte non basta a fare i dovuti controlli nella struttura”, sottolineandone così la mancanza di sicurezza. Sulmona (Aq): fuori pericolo il detenuto che ha tentato il suicidio con gli psicofarmaci Il Centro, 26 novembre 2010 È fuori pericolo il detenuto di 45 anni, originario di Roma, che ha tentato di suicidarsi ingerendo un micidiale cocktail di psicofarmaci. Dopo aver identificato i medicinali che aveva assunto insieme ad altre sostanze, i medici del reparto di rianimazione gli hanno somministrato gli antidoti per contrastare l’intossicazione. Un miglioramento delle condizioni talmente repentino che già da ieri l’internato ha lasciato il reparto di rianimazione per essere trasferito nella cella riservata ai detenuti che si trova al piano terra dell’ospedale. Ieri, alcuni operatori medici hanno evidenziato la necessità di dotare l’ospedale di Sulmona di un vero e proprio reparto riservato ai detenuti, vista l’alta frequenza di ricoveri che si registrano nel corso della settimana. Sembrerebbe invece che il nuovo piano sanitario non preveda per Sulmona, che ha il carcere più grande della regione, nessun posto letto per i detenuti. Un paradosso che anche secondo il Tribunale del malato, che molto prudenzialmente aveva chiesto tre posti letto per i detenuti, (ma ce ne vorrebbero di più), dovrebbe essere risolto con una revisione del riordino sanitario in corso. Intanto insieme a quella della Procura della Repubblica di Sulmona, va avanti l’inchiesta interna disposta dalla direzione del carcere per risalire alle modalità con cui è avvenuto il tentativo di suicidio, ma soprattutto da chi e come l’internato è riuscito a procurarsi i medicinali che ha ingerito insieme a detersivo liquido. Nel carcere di via Lamaccio esisterebbe un fiorente mercato di psicofarmaci che verrebbero smistati durante l’ora d’aria. Medicinali che i reclusi riescono ad accumulare giornalmente saltando la terapia che invece dovrebbero fare. E per contrastare questo particolare fenomeno, molto diffuso nelle carceri italiane, che la direzione del penitenziario sulmonese avrebbe deciso di intensificare i controlli obbligando i detenuti ad assumere i farmaci nel momento in cui vengono consegnati dagli infermieri. Bologna: lunedì prossimo i Consiglieri regionali di Sel-Verdi in visita alla Dozza Adnkronos, 26 novembre 2010 Lunedì prossimo i consiglieri regionali del gruppo assembleare Sel - Verdi dell’Emilia Romagna, Gian Guido Naldi e Gabriella Meo, effettueranno una visita alla casa circondariale della Dozza di Bologna. La visita fa parte di una serie di sopralluoghi nei luoghi di restrizione della regione, organizzati insieme ai rappresentanti dell’associazione Antigone. “Conoscere il nostro sistema carcerario è il primo passo per migliorare la situazione - sostiene, infatti Meo - e vogliamo vedere con i nostri occhi le strutture, ma anche parlare con chi la situazione carceraria la vive ogni giorno”. “Per questo ogni visita è seguita dall’incontro con le associazioni che lavorano all’interno delle strutture” prosegue la consigliera, precisando che “l’apporto del volontariato è davvero necessario nello svolgimento della vita carceraria e per questo va supportato”. I consiglieri sono già entrati all’ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia, nelle case circondariali di Rimini, Ravenna, Piacenza e Parma e la prossima settimana saranno al carcere di Modena. “C’è bisogno di agire su diversi fronti: dal sovraffollamento alla maggiore attenzione dal punto di vista sanitario, dai diritti delle guardie carcerarie alle possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro per i detenuti” continua Naldi, rimarcando che “però ogni struttura ha delle peculiarità e ci sarà quindi la necessità di agire in maniera diversa”. Volterra (Si): scuola in carcere da salvare, alunni e insegnanti in piazza a metà dicembre Il Tirreno, 26 novembre 2010 Un grande sciopero per salvare la scuola. Non solo quella “tradizionale”, ma quella praticata in carcere da 27 insegnanti, che, con i tagli, rischiano di scendere a 9. È questo l’obiettivo per il quale è stata convocata l’assemblea di questa mattina all’Isa con insegnanti dei vari istituti e i sindacati. “La nostra scuola nel carcere - spiega Alessandro Togoli, responsabile del corso per carcerati - è ritagliata su quella esterna, tradizionale: ma la didattica è strutturata diversamente, e con un colpo del genere si rischia di perdere il significato stesso del corso”. Dunque sciopero, per salvare, o almeno provarci. La data è ancora da definire. Mentre per il 16 dicembre si vorrebbe organizzare una vera e propria manifestazione di piazza, unendo le forze con gli altri istituti della Valdicecina. Secondo Togoli, quello del corso per detenuti non è un semplice “optional”, non un’iniziativa che si possa considerare facoltativa: “Si tratta invece di un importante strumento di recupero”. Ad oggi, il corso per geometri conta 112 studenti. “Comune e Provincia sono solidali - afferma ancora Togoli - e abbiamo il supporto anche di una parlamentare Udc, Luisa Capitanio Santolini: segno che la lotta per il diritto all’istruzione deve essere trasversale e apolitico”. Milano: i francobolli inviati ai detenuti in mostra nel carcere di Bollate Redattore Sociale, 26 novembre 2010 Oggi la prima mostra filatelica all’interno dell’Istituto. Le lettere sono arrivate da tutta Italia ai reclusi del circolo Intramur, fondato da Sante Merlini: “Con le lettere arrivate da tutta Italia ho ritrovato il gusto della libertà” “I francobolli sono tutti belli. Ciascuno, un po’ come le donne, ha il suo fascino”: Sante Merlini è un detenuto di Bollate ed è il fondatore di Intramur, il circolo filatelico del carcere che sorge alle porte di Milano. Sabato 27 novembre sarà aperta la prima mostra filatelica all’interno dell’Istituto. Circa 200 francobolli che hanno scavalcato le mura grazie alla generosità di 250 persone che da tutta l’Italia hanno inviato lettere ai 20 detenuti del circolo filatelico. “In ogni lettera queste persone raccontavano la loro passione per i francobolli e, attraverso questa, la loro vita - racconta Catia. Con alcuni è nato un rapporto di amicizia”. Una boccata d’aria per i detenuti. “È stata una bella soddisfazione ricevere tante lettere da chi è lontano da questo ambiente - spiega Sante Merlini - . Ho ritrovato il gusto della libertà”. Tra le lettere ricevute, suscitava sempre stupore quelle del “Principe A.” che dalla Sicilia scriveva su carta intestata con uno stemma regale. Il progetto del gruppo filatelico è iniziato nel 2008: con annunci sui giornali i detenuti hanno chiesto a chi è fuori di inviare francobolli. Nel giro di poche settimane sono arrivate le prime lettere. Sabato 27 novembre detenuti e alcuni dei “volontari epistolari” si incontreranno per l’inaugurazione della mostra filatelica. Tra i pezzi più interessanti, quelli sul mito della Ferrari e un Gronchi rosa rigorosamente falso ma ben fatto. La mostra è aperta solo a chi ha un invito dalla direzione del carcere. Accanto ai pannelli dei francobolli verranno esposti i prodotti dei diversi laboratori dell’istituto: dai capi di sartoria alle piante agli oggetti in vetro e cuoio. Forlì: agente si fingeva malato per arbitrare partite di calcio, condannato a un anno di carcere Il Resto del Carlino, 26 novembre 2010 In tre anni aveva cambiato una decina di medici per spedire certificati di malattia a catena al ministero. Il giudice l’ha condannato a un anno di pena e 600 euro di multa. Se uno ha la sciatalgia mica può fare la guardia carceraria. E con la gastrite? Per carità. Ora - però - se quello stesso tizio cambia una decina di medici in tre anni e spedisce a catena di montaggio certificati di malattia al ministero di Grazia e giustizia, c’è qualcosa di sospetto in questa cagionevolezza? Sì; specie se lo stesso sventurato tizio - all’epoca agente penitenziario in servizio al carcere della Rocca di Forlì - te lo ritrovi in mezzo al campo con lo stesso cipiglio del più austero Concetto Lo Bello. Fa l’arbitro. Nell’Arci. Chiamato lì per le finali. Uno quotato. Ma il giudice Massimo De Paoli non doveva valutare il suo grado di conoscenza delle 17 regole fondamentali del calcio. Doveva vagliare la sua presunta innocenza, o colpevolezza. E il giudice l’ha condannato: truffa ai danni dello Stato. Un anno di pena, più 600 euro di multa. Proprio così. Lui - 47 anni - si dichiarava malato. Sciatalgia. Gastrite e cose varie. Roba cronica. Grave. Ma nel frattempo che faceva? Arbitrava nell’Arci. Siamo nel 2004. L’uomo accumula 50 giorni di assenza. Malattia. Anno 2005: la latitanza tocca quota 60. Va peggio nel 2006: ottanta sono i giorni in cui l’agente dice che non può stare appresso ai detenuti e che l’ambiente umido del carcere della Rocca è un martirio per il suo povero, tormentato nervo ischiatico. Immigrazione: in catene nel deserto, l’odissea infinita degli eritrei senza patria né diritti di Paolo Lambruschi Avvenire, 26 novembre 2010 Una parte degli immigrati respinti dall’Italia ha tentato di raggiungere Israele ma è bloccato nel Sinai. Il resto non ha documenti e finirà in carcere. Prigionieri nel Sinai, in catene come schiavi, ostaggio dei trafficanti egiziani. Così è finita una parte consistente, ben 80 dei 255 eritrei che nel luglio scorso avevano rischiato di morire nella famigerata prigione libica di Al Braq, in pieno Sahara, dopo essere stati respinti in mare dall’Italia e poi liberati grazie alla pressione delle organizzazioni umanitarie sul nostro governo. Un mese fa alcuni di loro sono fuggiti dalle sabbie libiche alla volta di Israele, su una delle nuove rotte della disperazione verso l’Europa, che ora incrociano il Medio Oriente e la Turchia, a rischiare di morire in un altro deserto. L’allarme è stato lanciato ieri, esattamente come l’estate scorsa, dal blog dell’agenzia di cooperazione allo sviluppo Habeshia. Secondo la quale ci sono 600 persone in condizioni disperate da oltre un mese nel deserto al confine tra Egitto e Israele, prigioniere del racket. Oltre agli 80 eritrei fuggiti da Tripoli, somali e sudanesi. Tra questi, vi sono anche donne, segnala il blog curato da Roma dal sacerdote cattolico eritreo Mosè Zerai. Ciascuno ha versato al racket 2.000 dollari. Ma i trafficanti ne pretendono altri 8.000. “Gli eritrei - racconta don Mosè - mi hanno raccontato di aver lasciato Tripoli per raggiungere Israele dall’Egitto. Ma nel corso del viaggio i trafficanti hanno tradito gli accordi e il prezzo è aumentato. Così li hanno sequestrati”. Sulla loro drammatica condizione sappiamo solo quanto hanno raccontato al prete. “Dicono di trovarsi nel Sinai, segregati dai beduini nelle case nel deserto, ma non sanno dire dove perché sono stati incappucciati durante gli spostamenti. Da un mese sono legati con le catene ai piedi, come si faceva nel commercio degli schiavi, continuamente minacciati e da 20 giorni non toccano acqua per lavarsi. Vi sono anche donne debilitate dalla mancanza di cibo e dalla scarsa igiene”. Non sono i primi a subire questa sorte. Questa forma di sequestro che sfrutta la disperazione dei profughi è redditizia. Già un anno fa l’agenzia Fortress Europe segnalava questa nuova rotta che parte dal Cairo verso la frontiera israeliana nel Sinai e dalla quale passano mille persone al mese, quasi tutti eritrei ed etiopi. Nei casi peggiori i passeggeri dopo aver pagato sono abbandonati lungo il confine. “Purtroppo - aggiunge don Mosè - questa situazione è anche frutto della chiusura delle frontiere dell’Europa. i richiedenti asilo provenienti dal Corno D’Africa non hanno alternative e si affidano ai sensali di carne umana”. Ieri il senatore Pietro Marcenaro, presidente della Commissione straordinaria per i Diritti Umani, ha presentato un’interrogazione urgente al ministro degli Esteri in cui si chiede di verificare la situazione degli 80 eritrei trattenuti in Egitto e di muovere tutti i passi necessari nei confronti del governo del Cairo per salvarli. Ma torniamo in Libia, dove a luglio esplodeva il caso di 205 uomini e 50 donne fuggiti dall’Eritrea. Nel 2009 e nel 2010 avevano tentato di passare per l’antica rotta del Mediterraneo ed erano stati respinti in mare e poi arrestati. Ai primi di giugno, ad esempio, una ventina di eritrei venne intercettata e respinta su un barcone diretto in Italia in circostanze mai chiarite. Videro un’imbarcazione con bandiera italiana e si avvicinarono, ma a bordo c’erano militari libici che li riportarono indietro. Il ritorno fu drammatico. “Una persona è annegata in mare, altri tre che conoscevano l’arabo sono stati malmenati perché si sono ribellati. Da quasi sei mesi nessuno ha più notizie di loro. Una donna e il suo bambino di otto mesi sono stati incarcerati al buio per ore senza ricevere cibo né acqua.”. A fine giugno, dopo una rivolta nel centro di detenzione libico di Misurata, i maschi vennero trasferiti nel durissimo carcere di Al Braq, a Sebha, a sud, nel deserto. Le donne rimasero a Misurata e furono sottoposte a violenze e atti degradanti. Ma ai primi di luglio qualcuno riuscì ad avvisare don Zerai, che rilanciò la notizia su Habeshia. Allora i 255 vennero rilasciati approfittando della nuova legge varata da Tripoli contro l’immigrazione clandestina che prevedeva una sanatoria, con un permesso provvisorio di tre mesi e il divieto di lasciare la città. Ora, però, i permessi sono scaduti e siamo da capo. “Chi non è fuggito è intrappolato nelle città libiche - chiarisce il sacerdote - senza diritti. In tutto in Libia vi sono un migliaio di eritrei, tutti a luglio hanno beneficiato della sanatoria. Chi ha potuto si è spostato verso Tripoli o Bengasi e lavora in nero. Per rinnovare il permesso devono, però, presentarsi con il passaporto eritreo e un contratto di lavoro. Altrimenti devono rivolgersi alle autorità diplomatiche del loro Paese. Naturalmente non possono farlo in quanto rifugiati”. Chi va in ambasciata rischia infatti la deportazione o vendette contro i congiunti rimasti nel Corno d’Africa. Ma, se non rinnovano il permesso, si spalancano le porte delle carceri. “Ho appena ricevuto - racconta il prete - chiamate che riferiscono di retate della polizia casa per casa. E tornare in quelle prigioni è terribile: vivono ammassati e senza potersi lavare, sono maltrattati. Molte donne sono state violentate e messe incinta dalle guardie carcerarie “. Chi può fugge allora dall’inferno, come gli 80 ora però imprigionati nel Sinai. Stando alla convenzione sui diritti umani queste persone non sono criminali, ma avrebbero diritto a chiedere asilo e ad essere protette dai governi della civilissima Europa. Il Cir: l’ultima speranza è l’Unione europea A novembre sembra essere calata una pietra tombale sulle speranze dei rifugiati eritrei bloccati in Libia. Ma se l’Ue fa la sua parte, non è ancora detta l’ultima parola. Ricapitoliamo. Per la legge libica non esistono “rifugiati”, solo immigrati regolari o no. Ad oggi quello di Tripoli è l’unico governo africano a non aver mai siglato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti umani che riconosce il diritto d’asilo. La politica del colonnello Gheddafi è questa e per ora non cambia. E dato che non esistono rifugiati, il governo lo scorso 8 giugno ha intimato all’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati di chiudere l’ufficio, in seguito riaperto solo per i casi pregressi. Dallo scorso giugno l’unica organizzazione umanitaria occidentale rimasta a Tripoli è il Consiglio italiano per i rifugiati, Cir, partner dell’Acnur, che opera attualmente con una ong libica. Al direttore, Cristopher Hein, chiediamo cosa è cambiato in Libia in questo mese di novembre. Quali prospettive ci sono che l’Acnur riapra l’ufficio tripolitano e torni ad analizzare le pratiche dei rifugiati? Le autorità di Tripoli il 12 novembre hanno respinto a Ginevra le raccomandazioni dell’Onu di adottare una legislazione sull’asilo e di firmare un’intesa sulla presenza dell’Alto commissariato nel Paese. La Libia ha respinto tra l’altro anche la raccomandazione di abolire la pena di morte e di garantire l’uguaglianza delle donne davanti alla legge e nei fatti. Al momento mi sembra difficile fare previsioni. Cosa è cambiato giuridicamente per gli eritrei? Rispetto allo scorso luglio il loro permesso temporaneo è scaduto e devono ripresentarsi alla polizia con un documento del Paese d’origine che dimostri la loro identità. Questo esclude i profughi eritrei la cui situazione ora è tornata preoccupante. Cosa rischiano? Il carcere per il reato di clandestinità. Qualcuno per disperazione è fuggito in Egitto, dove ora sappiamo cosa rischiano, o è tornato in Sudan, le cui autorità agiscono a intermittenza: a volte sono tolleranti, altre li rimpatriano condannandoli a morte o ai lavori forzati per diserzione. Ma dalle trattative in corso con l’Onu non può venire qualche spiraglio? Al momento tutto pare fermo sul fronte del Palazzo di vetro. Guardo invece con maggiore interesse agli sviluppi dei rapporti con l’Ue. La commissaria europea per l’immigrazione Maelmstrom ha di recente concluso un accordo di circa 50 - 60 milioni di euro con la Libia. Inoltre è imminente il vertice di Tripoli tra Unione europea e Unione africana dove si parlerà anche di flussi migratori. In questa fase ai libici interessa raggiungere un’intesa con l’Europa che riguardi anche il commercio e il turismo. Ma è chiaro che Bruxelles non può stringere accordi commerciali con un Paese che non garantisce il rispetto dei diritti umani. Le speranze per i rifugiati possono quindi venire dalle pressioni europee. Oggi sono cambiate le rotte africane verso la Libia? Gli arrivi continuano, in particolare dai Paesi del Corno d’Africa, ma in misura minore. C’è chi tenta di spostarsi verso l’Egitto per poi raggiungere l’Europa verso la Turchia. C’è stato uno spostamento di somali verso il Sudafrica, ma quello Stato l’anno scorso ha avuto il maggior numero di rifugiati e probabilmente è saturo. Immigrazione: 500 nigeriane uccise in Italia, la denuncia nella giornata contro la violenza alle donne di Cristiana Cella L’Unità, 26 novembre 2010 Isoke Aikpitanyi ha scelto la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne per presentare l’indagine sulla tratta delle nigeriane. È una delle fondatrici dell’Associazione Vittime ed Ex Vittime della tratta. La città, in Italia, nasconde, tortura, uccide, seppellisce. Città grandi e piccoli paesi, campagne, ovunque, in tutte le regioni, si può vivere all’inferno. Proprio lì, accanto nella strada di tutti i giorni. Un mondo sommerso, un passo più in là del nostro. È qui che abitano le giovani nigeriane, vittime della tratta, le schiave della porta accanto o del marciapiede di fronte. Un traffico che coinvolge da vent’anni decine di migliaia di giovani donne. Hanno nomi leggeri, Joy, Gladys, Rose e una vita di piombo. E continuano ad arrivare, sempre più giovani adesso, bambine, adolescenti. Oltre 500 sono state uccise, 200 in poco più di due anni. I cadaveri, devastati, abbandonati nei campi, nelle discariche, nei luoghi oscuri delle nostre civilissime città. Altre, stuprate, picchiate, massacrate, riescono a restare in vita. Se vita si può chiamare. Poche riescono a salvarsi. Sono centinaia le storie agghiaccianti raccolte da Isoke Aikpitanyi, nella indagine che viene presentata in questi giorni, portata avanti insieme ad altre due donne, come lei ex vittime della tratta, e con il sostegno del Ministero delle Pari Opportunità. I campioni della ricerca sono 500 ragazze, ma le storie si allargano alle amiche e coprono circa 20.000 donne. Solo una fetta del traffico più esteso che fa capo alla potente e violentissima mafia nigeriana, in collusione con quelle di casa nostra. Un esercito fragile, “con il corpo leggero come una foglia di mais”. Vite diverse, ma il percorso è sempre lo stesso. Comincia in Nigeria, dalle famiglie: le spingono a partire, hanno bisogno dei loro soldi, le costringono, le vendono. Anche i padri, i mariti, i fratelli. 476 su 500 donne del campione, sono il sostegno della famiglia. Passano in mano agli “italos”, i trafficanti. Sanno o non sanno. Il futuro è nebuloso, fa paura. Alcune sono convinte con le lusinghe di una bella vita, di un lavoro, altre devono cedere, anche se non vogliono. Il viaggio può durare mesi, attraverso il deserto e il mare, merce usata, trasportata, rivenduta, spartita. In Italia, comincia la nuova vita, all’ombra della “maman”, inflessibile carceriera e maestra del mestiere. La gerarchia para - familiare della tratta, che imita quella del villaggio. Accanto alle “maman”, i brothers, le sisters e le baby, cioè le minorenni. Obbedire è la legge. Tornare indietro non si può più. Devono ripagare il debito, enorme, infinito. Può arrivare anche a 80.000 euro. Chi si ribella, chi non vuole, chi parla, chi denuncia, chi incontra giornalisti, viene punita duramente, la famiglia al paese, minacciata. La “maman” pensa a tutto, anche ai permessi di soggiorno, legali, ottenuti illegalmente, il cui costo si aggiunge al debito. Ma non per tutte. La paura di essere arrestate e rimandate indietro serve. Tiene al guinzaglio. Serve sempre la paura. In patria le aspetta il rifiuto dei parenti, la prigione, luoghi di violenze terribili, un nuovo viaggio, la morte. Peggio di qui, perché allora muore anche quel filo di speranza. Lo stupro multiplo iniziale è parte della formazione. Sciamano per la città, si disperdono, conquistano altri territori, in piccoli gruppi, per non dare nell’occhio, lavorano al chiuso, ovunque. Il mondo sommerso si approfondisce, scompare. Le organizzazioni di assistenza adesso fanno fatica a trovarle. Alcune cambiano continuamente città, o vivono all’estero e diventano pendolari di frontiera. Una migrazione perenne. Irraggiungibili, tranne che per i clienti e per le ex vittime, come Isoke e le sue compagne. Il lavoro quotidiano dura 10/12 ore. Scendono in strada seminude, con i tacchi a spillo, pronte a essere usate. Esposte. Al freddo, alla violenza, qualunque, bersagli in attesa. Prima di iniziare, ogni giorno, per tutte, la stessa preghiera: “Fa che oggi non mi succeda niente”. Di tutto, infatti, può succedere. Ci sono clienti tranquilli, gentili perfino, ci sono anche i “polli” da spennare, ma ci vuole molta fortuna. Spesso quello che cercano non è solo sesso. Le ragazze li chiamano “stupratori a pagamento”. Vogliono fare di tutto perché hanno pagato. Comprano la possibilità di realizzare l’orrore che hanno dentro, impuniti. Gesti e parole che dormivano, di cui forse non pensavano di essere capaci. Bestie italiane, uomini del nostro paese. Sfogare la rabbia, la frustrazione, le fantasie da film porno e sadomaso, tutto quello che non hanno il coraggio di fare con la moglie. Tanto nessuno lo verrà mai a sapere. Dice Isoke: “Ogni nigeriana stuprata è un’italiana salvata”. Spesso ci si mettono in tanti ad accanirsi. Il disprezzo aiuta. Donna, giovanissima, immigrata, nera e prostituta. Assorbe qualsiasi sfogo, tutto è lecito. Quando hanno finito, le abbandonano nei posti deserti, ferite, distrutte, lontano chilometri dall’abitazione, dopo averle derubate. In ospedale ci vanno solo se stanno per morire, si può essere denunciate. La paura. Sempre, di nuovo. Si curano in qualche modo e poi di nuovo si trascinano sulla strada. Il corpo diventa estraneo, ostile, abbandonato al suo destino. Se fanno pena tanto meglio, a volte i clienti fanno l’elemosina. E la “maman” le accoglie con un sorriso: “Vedi, di che ti lamenti? Lavori lo stesso e senza fare niente”. Per fortuna i clienti non sono tutti carnefici. Possono diventare “risorsa”, fondamentale, per sottrarre le ragazze al traffico. Molti di loro, avvicinati dai collaboratori di Isoke, hanno deciso di aiutare la sua Associazione, diventare veicoli del riscatto. Si difendono, con risposte scontate, “perché no?”, “Come lo so che è minorenne?”. Ma poi ci pensano su e cambiano strada. “Abbandonano l’egoismo” così dicono. Alcuni informano, convincono, altri usano la “disobbedienza civile”: matrimoni di comodo, assunzioni fittizie, per far ottenere alle ragazze il permesso di soggiorno. Missioni che hanno spesso successo con l’uscita definitiva delle ragazze dalla schiavitù della tratta. Alcune trovano lavoro, si sposano, mettano su famiglia. E spesso, aiutano le altre che sono rimaste all’inferno. Così trasformano il dolore. Egitto: 156 cristiani copti arrestati per aver partecipato a manifestazione senza permesso Ansa, 26 novembre 2010 Le autorità giudiziarie egiziane hanno accusato 156 manifestanti, arrestati ieri al Cairo in occasione di scontri tra cristiani copti e forze di sicurezza, di aver voluto uccidere dei poliziotti e di aver manifestato senza permesso. I dimostranti sono scesi in strada per protestare contro il divieto di trasformare un centro appartenente alla Chiesa copta in un luogo di culto. I 156 fermati resteranno in stato di fermo per due settimane, durante le quali potrebbero essere incriminati. Durante gli incidenti di ieri un manifestante ha perduto la vita.