Giustizia: cittadini stranieri nelle carceri italiane, un dramma nel dramma L’Unità, 17 novembre 2010 Ormai da tempo si parla di sovraffollamento nelle carceri italiane e su un totale di 69 mila detenuti, circa il 38%, è composto da stranieri. Per una persona immigrata la difficile realtà detentiva viene resa ancora più gravosa da una preoccupazione: quella dei documenti. Infatti, nonostante sia possibile rinnovare il permesso di soggiorno anche in carcere, questa procedura non avviene mai né automaticamente né facilmente. E così molti, una volta fuori, si ritrovano senza alcuna garanzia di un lavoro, di un’abitazione, di una condizione regolare. In una situazione, a volte, anche peggiore di quella iniziale. Qui di seguito un brano di una testimonianza assai significativa sulla questione: “Il giorno del mio fine pena, viene a prendermi in carcere la polizia che mi trattiene in Questura fino a sera. (…) Un ispettore gentile, dopo molte telefonate, mi dà un foglio dove c’è scritto che ho 15 giorni per andarmene dall’Italia, da solo. Mi dice anche che il permesso di soggiorno è scaduto mentre ero in carcere e che non risulta che abbia chiesto la sanatoria. Ma anche se il permesso fosse stato ancora valido, avrei dovuto lo stesso andare via, perché ho l’espulsione in sentenza (…). Non ci capisco niente. E poi, se sapevano che avevo l’espulsione perché l’assistente sociale e l’educatrice mi hanno anche cercato lavoro (vabbè che non l’hanno trovato) senza dirmi che prima dovevo chiedere la revoca dell’espulsione? Capisco solo che per 15 giorni sono autorizzato a rimanere in Italia: per trovare un lavoro, un alloggio, un permesso di soggiorno, una cosa da niente per un ex detenuto, ex tossicodipendente, extracomunitario”. Tratto da “Storie e testimonianze dal carcere”, dal sito di Ristretti Orizzonti. Giustizia: la vicenda di Annino Mele e la logica delle sbarre di Luigi Manconi L’Unità, 17 novembre 2010 “Chiudi tutti i cancelli le tue porte blindate /le tue braccia magre le tue celle frigorifere / chiudi le tue gambe bianche i mari rossi le finestre e / chiudi bene le tue frontiere / e non dirmi dei palazzi parlami delle tue galere”. Sono i versi iniziali di una canzone di Vasco Brondi, tratta dal suo cd “Per ora noi la chiameremo felicità”. Vasco Brondi - insieme a Virginiana Miller, Meg, Offlaga Disco Pax e John De Leo … - è la più interessante novità del panorama musicale nazionale: e certo l’intelligenza più vivace e colta. È giovane: aveva giusto un paio d’anni quando, nella seconda metà degli 80, Annino Mele entrava in carcere per rimanervi fino a oggi e chissà fino a quando. Quella di Mele è una esemplare storia criminale. Nato a Mamoiada (Nuoro) nel 1951, è pastore fin dall’infanzia. In carcere dal 1976 al 1980, viene nuovamente arrestato nel 1987 e condannato all’ergastolo per omicidio e sequestro di persona. Da allora non è più uscito di prigione. Qui ha scritto “Il passo del disprezzo”, Già Editrice 1996, con Valdimar Andrade Silva, “Sos cammino della differenza”, Sensibili alle foglie 2001, “Mai. L’ergastolo nella vita quotidiana”, Sensibili alle foglie 2005; ha pubblicato ancora, con Efisio Cadoni “La sorgente delle pietre rosse”, Sensibili alle foglie 2007 e infine “Sa grutta de sos mortos”, Delfino editore, 2009. Attualmente è detenuto nel carcere di Fossombrone. Da qui, come può, continua a mantenere un rapporto epistolare con gli studenti del liceo di Meda, in Brianza, dove da anni si tiene un corso dedicato, tra l’altro, alla lettura critica dei suoi libri. Per quegli studenti Annino Mele è un insegnante e un tutor: per la Magistratura di Sorveglianza, invece, è persona tuttora scarsamente affidabile. Di conseguenza non merita di incontrare la propria madre, anziana e malata, che non vede da dieci anni. La logica del rifiuto di quella possibilità di incontro è chiara: perché Mele possa infine recarsi da sua madre, quest’ultima deve trovarsi in fin di vita. E, infatti nell’ultimo decreto di reiezione del Tribunale di Sorveglianza di Ancona relativo all’articolo 30 della legge sull’ordinamento penitenziario che disciplina i cosiddetti “permessi di necessità” si legge che la madre di Mele, “seppur affetta da varie patologie non versa in imminente pericolo di vita”. Ma proprio questo rivela l’atroce contraddizione di una certa idea della pena e del percorso di possibile riabilitazione del condannato. In quel percorso, i permessi o altri benefici (tanto più in un caso come questo) non sono regali discrezionalmente accordati o concessioni graziosamente elargite. Quei permessi sono, in primo luogo, altrettante opportunità finalizzate a consentire processi di integrazione e di socializzazione. Si tratta di una questione estremamente significativa che allude a una profonda divaricazione e, in ultima istanza, a un radicale conflitto tra differenti e opposte concezioni dell’esecuzione penale. Se il permesso per visitare un familiare viene concesso solo in caso di estrema e ultima necessità (“imminente pericolo di vita”), esso si configura al più come un atto compassionevole: una sorta di intervento umanitario. Qualcosa che, dunque, non contraddice la fissità e la rigidità della pena, ma finisce per immobilizzarla, riducendola a un dispositivo ferreo e immutabile, che non prevede cambiamento trasformazione metanoia. Se, al contrario, il permesso o un altro beneficio è una occasione di incontro e di comunicazione - di socializzazione, appunto - l’esecuzione della pena torna a essere ciò che la Costituzione prevede: un itinerario di maturazione e di emancipazione dalla condizione criminale. Ma in questo secondo caso, il permesso o un altro beneficio rappresentano altrettanti punti di un “programma di integrazione sociale”. E di quel programma, Mele, si è confermato mille volte meritevole, lungo un arco di tempo più che sufficiente a evidenziare l’incontrovertibile autenticità del suo cambiamento. Ciò è tanto più vero se si tiene presente che la possibilità di incontro e di comunicazione e di relazione, richiesta da Mele, riguarda la propria madre. Soggetto essenziale, va da sé, per ricostituire un sistema di rapporti che l’attività criminale e la lunga detenzione hanno brutalmente interrotto. Dovrebbe essere interesse di tutti - di tutti - che quella interruzione non sia per sempre. Giustizia: Marino (Pd): impegno per far uscire parte 300 internati dagli Opg entro fine anno Agenparl, 17 novembre 2010 “La Commissione è intenzionata a ottenere entro la fine dell’anno la dimissione di una parte dei pazienti internati negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Abbiamo consegnato a Luca Coletto, assessore alle Politiche Sanitarie della Regione Veneto, audito oggi nella sua veste di coordinatore degli assessori regionali alla sanità, la lista dei pazienti dimissibili. Si tratta di circa 300 persone su 1.500 che la Commissione entro la fine di dicembre vuole affidare alle Asl competenti, in modo da risolvere l’inaccettabile situazione dei cosiddetti ergastoli bianchi: persone internate, anche se hanno commesso un reato minore, e mai più uscite a causa delle infinite proroghe delle misure cautelari, anno dopo anno, senza speranza”. È quanto ha affermato Ignazio Marino, presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale, dopo l’audizione di Luca Coletto, assessore della Regione Veneto, nell’ambito dell’indagine sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. “Oggi in Senato - continua Marino - la Commissione presenterà un ordine del giorno per impegnare il Governo su questo fronte, chiedendo in particolare un impegno concreto sui detenuti dimissibili e il superamento degli Opg, strutture chiaramente inadeguate sia dal punto di vista igienico-sanitario che di rispetto della dignità della persone internate. Infatti, al momento attuale, almeno cinque istituti, sul totale di sei, sono sovrapponibili ai vecchi manicomi criminali”. Giustizia: pena di morte; un pizzico di Italia nel thiopental, il farmaco che uccide Agenzia Radicale, 17 novembre 2010 L’ultima polemica in tema di iniezione letale colpisce direttamente l’Italia. Ha scandalizzato la notizia, divulgata nei giorni scorsi, che vorrebbe un’azienda italiana responsabile di vendere il thiopental sodium agli istituti di pena (e di morte) americani. Negli Usa le scorte sono ormai esaurite e i boia si stanno organizzando per evitare di fermare, almeno fino a marzo, le esecuzioni capitali via iniezione letale. Occorre tuttavia fare chiarezza in tal senso. L’azienda in questione, Hospira, ha effettivamente la sua sede a Liscate, vicino Milano, e non è un segreto industriale che molti istituti di pena statunitensi abbiano chiesto formalmente alla sede di Liscate di avviare una fornitura di thiopental sodium. Non sono stati specificati gli usi, le modalità di utilizzo e i dettagli della fornitura; tuttavia è noto l’uso che viene fatto di questo farmaco: è il primo ingrediente per il cocktail di morte somministrato ai condannati sui lettini bianchi delle carceri Usa. Ma non solo. Il thiopental sodium è un potente barbiturico; il suo uso medico e farmacologico è molto vario. Viene usato per “sciogliere” l’interrogato durante gli interrogatori, viene usato in dosi di 1,5 grammi nei paesi in cui è permessa l’eutanasia, per interventi chirurgici di breve durata. Ma anche, in dosi minori, per addormentare la madre durante il parto cesareo, senza danneggiare il bambino. È un farmaco versatile e l’effetto provocato dipende dal suo uso: può aiutare la nascita della vita come indurre la morte. Specificatamente, nella pratica di iniezione letale è il primo farmaco somministrato, atto a indurre uno stato d’incoscienza prima delle altre due sostanze, quelle che realmente provocano la morte. È parte dell’assurdo concetto di “morte pulita ed indolore” senza la quale non viene permessa la pena capitale negli Usa. La deputata radicale Elisabetta Zamparutti ha presentato un’interrogazione parlamentare in relazione proprio a questa notizia, diffusa inizialmente dalla Ong britannica “Reprieve” e poi dalla stampa italiana, chiedendo di “intervenire perché siano rispettate tutte le nostre leggi e le norme europee che vietano di cooperare in qualsiasi modo alla pratica della pena capitale, della tortura o di altri trattamenti crudeli ed inumani” sottolineano il paradosso di un paese, l’Italia, che fa pressioni costanti sull’Onu per l’approvazione della Moratoria sulla Pena di Morte, per poi fornire un farmaco chiave per l’iniezione letale. L’azienda Hospira risponde direttamente per bocca del suo Ad, Giuseppe Riva, che garantisce di aver sottoscritto un codice etico molto rigido. “Il problema” dice Riva “è l’uso che alcuni stati americani fanno della sostanza, non la sostanza in sé”; l’amministratore delegato ha tuttavia garantito che, qualora emergessero normative europee ritenenti il farmaco non esportabile in Usa, e se tali normative fosse vincolante, “ne trarremo le debite conseguenze”. Effettivamente l’azienda non ha tutti i torti; se, a maggior ragione, riflettiamo sul fatto che Hospira è un’azienda americana, con una sede a Napoli ed uno stabilimento a Liscate, purtroppo ci sono ben pochi modi per fermare l’uso che chi acquista il farmaco potrebbe farne, nello specifico delle carceri americane. È importante affrontare la tematica pena di morte, ed è importante comprendere se ci sono responsabilità italiane, correggerle e punirle se necessario. Ma la questione andrebbe affrontata con più ampio respiro: è paradossale che un paese che può vantare la prima città al mondo, Firenze, che ha abolito la pena di morte nel 1786, e soprattutto può vantare un impegno in prima linea al Palazzo di Vetro per l’abolizione della pena capitale in tutto il mondo, sia al contempo tra i primi produttori di morte “al dettaglio” a livello globale. Giustizia: le ultime parole di Stefano Cucchi “soffro di epilessia e celiachia” L’Unità, 17 novembre 2010 La voce di qualcuno che sta molto male. “Posso scusi... Sono Cucchi Stefano, nato a Roma l’1 ottobre 1978. Lavoro con mio padre, sono celibe. Ho precedenti, non per droga”. Ancora: “Soffro di epilessia e celiachia”. Il ragazzo romano, morto il 22 ottobre a Regina Coeli, per le botte in carcere, risponde così dice nell’udienza di convalida dell’arresto il 16 ottobre del 2009 e l’audio di quelle frasi le ha pubblicate il sito www.abuondiritto.it di Luigi Manconi. Nella registrazione Cucchi chiede chiaramente di essere assistito dal proprio avvocato di fiducia (“richiesta non viene accolta allora e nemmeno dopo”, commenta Manconi) e specifica di soffrire di epilessia, celiachia e anemia. Durante l’interrogatorio il magistrato chiede a Stefano dove voglia che arrivino gli atti del processo se verrà scarcerato e lui risponde, riferendosi al legale presente, “presso il mio nuovo avvocato, vorrei nominarlo gentilmente come avvocato di fiducia”. Poi Stefano fa delle dichiarazioni spontanee: “Mi scusi... un’altra cosa: io mi dichiaro tossicodipendente” e quanto alle accuse che gli vengono rivolte dice: “Mi dichiaro innocente per lo spaccio, colpevole per la detenzione, per uso personale”. Infine, a domanda degli inquirenti, precisa di essere stato “seguito al Sert di Torpignattara, però il metadone lo compro, non vado al Sert perché ho discusso con certe persone che stanno lì fuori e non ci posso andare. Il metadone lo compro in piazza. Non ci vado più in questi posti, non sono più segnato al Sert anche se ho ancora la esenzione per tossicodipendenza e epilessia, perché soffro di epilessia. Vabbè poi ho pure la celiachia e l’anemia”. “Abbiamo pubblicato la registrazione dell’udienza di convalida dell’arresto di Stefano Cucchi, il 16 ottobre del 2009. Sono oltre sette minuti che danno conto di un interrogatorio dove Stefano Cucchi appare già provato, in grave difficoltà, con voce sofferente”, commenta il presidente di “A Buon Diritto” Luigi Manconi spiegando che “in quella circostanza, Cucchi rinnova la sua richiesta di essere assistito dal proprio avvocato di fiducia”. Sempre oggi la sorella Ilaria ha presentato il libro suo e del giornalista Giovanni Bianconi sulla vicenda di Stefano alla Camera. Lì il presidente dell’aula Gianfranco Fini ha sostenuto che bisogna rendere giustizia a Stefano Cucchi morto in carcere, per i probabili maltrattamenti ricevuti, per restituire dignità alle istituzioni che non sono riuscite a difenderlo. Nel “dubbio terribile che chi rappresenta lo Stato e le istituzioni non metta in atto nei confronti dei detenuti quei sistemi di garanzia che costituiscono un elemento fondamentale di ogni democrazia”. Giustizia: Ilaria Cucchi; mio fratello è stato condannato a morte Dire, 17 novembre 2010 “Riascoltare la sua voce, le sue ultime parole è stato un dolore terribile. Mio fratello era soltanto un tossicodipendente e invece è stato condannato a morte. Adesso vorrei sapere: il giudice e il pm che hanno detto di non averlo guardato in faccia, come spiegano il fatto di aver ignorato la sofferenza nella sua voce?”. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, commenta così al Tgcom l’audio dell’ultimo interrogatorio del fratello. Lui che ai carabinieri, il 16 ottobre scorso, diceva: “Sono nato nel 1978” e poi, con un timbro flebile, stentato e affaticato dai sospiri aggiungeva: “Scusate non riesco a parlare bene”. Lei, che adesso ribatte: “Mio fratello soffriva ed era solo. Non hanno voluto vedere. Non sono stati capaci di andare oltre al pregiudizio”. Stefano era stato fermato per spaccio. Morirà il 22 ottobre, sei giorni dopo quelle parole stanche. Durante l’interrogatorio si era dichiarato tossicodipendente ma non spacciatore, aveva chiesto di essere assistito da un legale di fiducia. Richiesta non accolta e convalida del fermo. Il giovane morirà in carcere, nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini, pieno di lividi in circostanze ancora da chiarire. Un calvario che rivive adesso con le sue parole, registrate. E che, secondo la sorella non può essere messo a tacere. “Mio fratello è stato condannato a morte fin dall’inizio. Sono tante le persone che adesso metterei sul banco degli imputati - afferma - a partire dal giudice e dal pm. E poi, tutti coloro che facevano finta di non accorgersi di quello che accadeva. Per tutti era solo un tossicodipendente e non meritava quindi rispetto e tutela dei diritti”. Per la sua morte la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per dodici persone. Una sfilza di reati contestati tra cui lesioni aggravate, abuso di autorità nei confronti di un arrestato, abbandono di persona incapace. Decaduta, invece, l’accusa di omicidio preterintenzionale a carico degli agenti penitenziari. Ma la famiglia Cucchi non ci sta. È convinta che ci sia un nesso causale tra la morte del giovane e le percosse subite. Ne è convinta ancora di più adesso, dopo aver sentito l’ultimo interrogatorio. Per questo nella prossima udienza chiederà una perizia definitiva. Giustizia: Marroni; minaccia stavolta è più inquietante, la Digos indaga, ho fiducia nel loro lavoro Dire, 17 novembre 2010 “La minaccia stavolta è stata più inquietante delle precedenti. La firma è Br, ma forse non siamo di fronte alle nuove Br. Penso sia una minaccia che derivi da altre parti”. Così il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, intervenuto ai microfoni di ‘Radio Città su Radio Ies. Il garante ha poi spiegato di non sapere rispondere sui motivi del gesto: “Non so rispondere. Se fossero le Br potrebbe riguardare il mio compito, che è quello di garantire la sicurezza dei detenuti. Ma nel messaggio c’è scritto ‘Dimettiti’, ed è difficile pensare che le Br scrivano questo: se ti devono sparare, sparano e basta. Potrebbe anche trattarsi di un mitomane. Anche in questo caso- ha concluso Marroni- non c’è da stare sereni, perché il mitomane è imprevedibile. La Digos indagherà e ho fiducia nel loro lavoro”. Favi: solidarietà del Pd ad Angiolo Marroni “Esprimo a nome mio personale e del Forum Giustizia del Partito Democratico, la piena solidarietà e vicinanza al Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, oggetto di pesanti e gravi intimidazioni terroristiche”. Lo dice Sandro Favi, coordinatore del Forum Giustizia del Pd. “Sono convinto- aggiunge- che nonostante la gravità dell’atto compiuto contro Angiolo Marroni, il suo impegno per il rispetto dei diritti dei detenuti e dei lavoratori penitenziari, non sarà minimamente influenzato e, anzi, sarà ancora più rafforzato”. Sicilia: class action dalle carceri, interviene il Garante dei detenuti Salvo Fleres La Repubblica, 17 novembre 2010 Le condizioni di vita dei detenuti all’interno delle carceri siciliane sono al centro di un’interrogazione parlamentare presentata dal senatore Salvo Fleres, senatore del Pdl e Garante dei diritti dei detenuti. L’Ufficio del garante peri diritti fondamentali dei detenuti si è mosso all’indomani della notizia del ricorso contro lo Stato alla Corte europea di Strasburgo da parte di cinquanta detenuti siciliani. A raccontare l’iniziativa è stata Repubblica sabato scorso. I carcerati, assistiti dall’avvocato Maximillian Molfettini, sostengono di vivere in condizioni “disumane”, tra topi, scarafaggi, al freddo d’inverno e al caldo cocente d’estate. “Ci stiamo battendo per difendere i diritti umani”, dice il legale che rappresenta i pregiudicati. Gli istituti penitenziari dai quali arrivano le denunce sono Pagliarelli, Ucciardone, Castelvetrano, Giarre e Salerno. Fleres ha anche richiesto all’avvocato dei detenuti il dossier dove sono stati raccolti i racconti dei carcerati. Al fianco dei detenuti scende anche Pino Apprendi. “Di fronte ad una situazione penitenziaria siciliana che fa acqua da tutte le parti amareggia il silenzio del ministro della Giustizia che per gli oltre 8.000 detenuti non ha trovato un momento per dare risposte e speranze”, dice il vicepresidente della commissione Attività produttive all’Ars. Tra le storie raccontate dai detenuti che ricorrono alla Corte europea dei diritti dell’uomo ci sono anche alcuni racconti di sospetta malasanità. E proprio ieri la storia di un tunisino arriva dal carcere Pagliarelli. Il detenuto non fa parte della class action promossa dai cinquanta. L’uomo, un trentenne, da un anno e mezzo è in lista di attesa per sottoporsi alla litotrissia, il trattamento con laser che serve a frammentare i calcoli. Nonostante il benestare dei medici del carcere, il detenuto resta ancora in attesa di essere chiamato dall’ospedale Civico tra dolori lancinanti. Fleres ha scritto al manager dell’Arnas, all’assessore regionale alla Sanità e al Dap chiedendo se si tratta di un ritardo burocratico o se invece la causa è il mancato trasferimento della Sanità penitenziaria alla Regione. Marche: polemiche sulla “nomina politica” dell’Ombudsman e Garante dei detenuti di Giulia Torbidoni Il Manifesto, 17 novembre 2010 Chi svolge un ruolo di garanzia può essere nominato da un politico? O dovrebbe essere sempre e in ogni caso eletto da un’assemblea? Sono queste le domande che si impongono dopo la vicenda della nomina del Difensore civico delle Marche che svolge anche le funzioni di garante dei minori e dei detenuti (l’Autorità di garanzia dei diritti di adulti e bambini - Ombudsman regionale). Lo scorso 30 luglio, ultimo giorno prima delle ferie estive, il presidente del Consiglio regionale, Vittoriano Solazzi (Pd), ha nominato con un suo decreto Dpcr n° 22 del 30 luglio 2010) uno dei tre candidati a ricoprire questo incarico: il professore Italo Tanoni, ex dirigente tecnico all’ufficio scolastico regionale, già assessore alla cultura al Comune di Loreto e candidato nella lista “democratici con Franceschini” in vista del congresso del Pd del 2009. Il presidente del Consiglio lo ha preferito sia al predecessore, l’avvocato Samuele Animali, che si era ricandidato, sia all’avvocato Anna Maria Repice. Una scelta, quella di Solazzi, che ha creato malumori all’interno dello stesso Partito democratico dove, sul momento, alcuni consiglieri hanno criticato “il modo” che il Presidente aveva seguito e chiesto “chiarimenti”. Soprattutto, però, la decisione di Solazzi ha avuto strascichi importati: da un lato la delusione delle associazioni del terzo settore, che avevano sostenuto la ricandidatura di Animali e chiesto al Consiglio di rieleggerlo; dall’altro i ricorsi di Animali al Tar e l’ordinanza del Tribunale amministrativo con cui si è sospeso il decreto di nomina del professore Tanoni. L’ombudsman è un’autorità di garanzia che arriva dai paesi del nord Europa e nella regione Marche è stato istituito con la legge 23 del 2008. È una figura unica che riassume i tre compiti, prima separati, di difensore civico, garante per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e garante dei diritti dei detenuti. Dal 2008, l’avvocato Samuele Animali ricopriva questo incarico ed è diventato riferimento in Italia per le istituzioni europee e internazionali, visto che non esiste ancora nel nostro paese un vero e proprio difensore civico nazionale, come invece accade in altri paesi. Secondo la legge, l’Ombudsman viene eletto “all’inizio di ogni legislatura” tra le persone con “laurea attinente agli uffici da svolgere e dei requisiti idonei”. Dopo le elezioni regionali dello scorso marzo, con cui il presidente uscente Gian Mario Spacca veniva riconfermato con una coalizione che, rispetto al quinquennio precedente, abbandonava Rifondazione comunista e i Comunisti italiani per abbracciare l’Udc, è iniziata una nuova legislatura. Il problema per l’elezione dell’Ombudsman, però, è nato da un paio di articoli della legge 23. Uno sottolinea che l’autorità “rimane in carica fino alla nomina del successore”, ma non oltre 6 mesi (art.3 comma Ibis). Il secondo {art.4 comma 6), invece, consente l’applicazione di una legge del 1996 (Lr. n°34) che dà al Presidente dell’Assemblea il potere “surrogatorio” di nomina se il Consiglio non delibera entro i tempi stabiliti. Anche se quest’ultimo articolo non è inserito nel capitolo della legge che riguarda l’elezione dell’autorità, bensì in quello che parla dei casi di ineleggibilità e incompatibilità. La votazione era fissata per il 15 giugno, in quanto doveva avvenire entro il 18 giugno (in base all’art. 10 della l.r. 34/1996, cui fa riferimento il decreto n. 79 del 23/10/2009 che inserisce la nomina dell’Ombudsman tra quelle da farsi nel 2010). “Quel giorno - ricorda Animali - Solazzi comunica all’Assemblea che il Presidente Spacca aveva chiesto di rinviare le nomine perché, in funzione dei tagli della manovra Tremonti e in un’ottica di risparmio e razionalizzazione, si sarebbe dovuto riformare alcuni istituti”. Il Consiglio, quindi, non procede con l’elezione e Solazzi, “non considerando i 6 mesi di proroga”, ma la scadenza del 18 giugno, “ritiene che subentri il suo potere surrogatorio”. E, dopo 45 giorni, fa il suo decreto. Per Animali, però, “c’era ancora tempo perché l’Assemblea eleggesse l’ombudsman nei sei mesi di proroga”. Tutto in regola, invece, per Solazzi che ricorda pure “che il Consiglio poteva votare l’Ombudsman. Il 15 giugno c’erano molte nomine da fare: alcune sono state rinviate, ma altre sono state fatte. Perché i capigruppo non hanno inserito la nomina dell’Ombudsman tra quelle da non rinviare? In più, in quei 45 giorni, nessuno ha sollecitato con me la rielezione di Animali. E sui sei mesi, io non Io so, so solo che l’Ombudsman andava nominato”. Alcune persone vicine ad Animali avevano messo in dubbio fin da subito la correttezza del decreto di nomina in quanto “carente della motivazione e della comparazione tra curriculum dei tre candidati”. E proprio questo punto è stato affrontato anche dal Tar di Ancona che con l’ordinanza 613 dell’8 ottobre 2010 ha accolto l’istanza cautelare presentata da Animali e ha sospeso il decreto con cui Solazzi aveva nominato il professore Tanoni. Questo perché, secondo il Tar, c’era una carenza di motivazione e perché nei casi in cui vi è la nomina monocratica e non la elezione “devono prevalere le esigenze di trasparenza dell’azione amministrativa affinché la scelta di un soggetto non avvenga sulla base di un mero arbitrio”. Pochi giorni dopo l’ordinanza del Tar, il Presidente Solazzi ha emanato un altro decreto (n. 28 del 13 ottobre) con cui dava la motivazione della scelta di Tanoni e lo reintegrava al suo incarico. Anche se, per Animali, l’ordinanza poteva essere l’occasione per rimettere tutto in discussione e tornare a votare l’ombudsman in Assemblea. Nulla di fatto, quindi. Non solo. L’ordinanza del Tar sembra che abbia sospeso un decreto di nomina, ma non il nominato, se 111 ottobre, quindi nei 5 giorni in cui la nomina era sospesa, Tanoni non ha comunicato la sua situazione al Coordinamento nazionale dei difensori civici e ha continuato ad essere candidato a un incarico nell’ambito del coordinamento nazionale. Tanoni, presentato e sostenuto dall’assessore regionale al lavoro, respinge le critiche ai mittenti e sostiene che non ha “nulla da rimproverarmi sul piano curriculare”. Ha due lauree, in Sociologia e Pedagogia, anche se non sono equipollenti al titolo in Giurisprudenza che secondo alcuni addetti ai lavori sarebbe indispensabile per i compiti dell’ ombudsman. “La giurisprudenza ha evidenziato - ha detto Animali - che i difensori civici hanno competenze per le quali è necessaria una specifica preparazione giuridica”. In più, la magistratura di sorveglianza della regione, nei primi mesi dell’anno, ha espressamente richiesto che a fare i colloqui con i detenuti sia solo il Garante, e non i suoi collaboratori, perché “l’autorità ha competenze giuridiche”. Secondo Solazzi, però, Tanoni “ha tutte le competenze” anche perché al suo attivo ha pure incarichi politici e amministrativi. Il Presidente ha più volte dichiarato ai media locali di averlo scelto anche “per alternanza” e che si tratta di una “nomina politica”. C’è da aggiungere che per quanto molti consiglieri, sia di maggioranza che di opposizione, abbiano contestato la scelta e i modi con cui il presidente Solazzi ha operato è abbiano espresso apprezzamento per il lavoro svolto da Animali, per quanto alcuni abbiano dichiarato che la legge andrebbe perfezionata nella parte che riguarda l’elezione perché ambigua, nessuno di loro ha votato la mozione presentata il 21 settembre dal rappresentante di Sei per chiedere al presidente Solazzi di ritirare il suo decreto di nomina. “Una nomina poco trasparente - sottolinea Animali - che non resta un caso isolato. Anzi, si tratta di una prassi purtroppo diffusa in Italia che delegittima le funzioni svolte dalla difesa civica. Perché i cittadini dovrebbero fidarsi?”. A dispetto, insomma, delle associazioni del terzo settore e di chi pensava che quelle delle autorità di garanzia non dovessero essere nomine politiche. Marche: il Garante dei detenuti incontra gli operatori delle carceri Ansa, 17 novembre 2010 Il Prof. Italo Tanoni, Ombudsman regionale, Garante dei diritti dei detenuti, si è incontrato oggi (17 novembre) con le associazioni di volontariato ed i ministri di culto che operano negli Istituti penali, per discutere e confrontarsi sui problemi legati alle varie situazioni in cui si trovano i sette istituti penitenziari delle Marche. Durante l’incontro è stato presentato il programma predisposto dall’Ufficio del garante, per lo specifico settore dei detenuti. In quest’ambito, l’Ufficio del Garante ha aperto, dal 1 gennaio 2010 ad oggi, 83 pratiche di cui più della metà sono già state espletate. Nelle Marche i detenuti rinchiusi nelle case di pena sono in totale 1.131 di cui 655 italiani e 476 stranieri (questi ultimi rappresentano il 42,09% della popolazione carceraria regionale). Una situazione pesante come più volte denunciato dal Garante Tanoni che ha portato l’Assemblea legislativa a istituire una commissione, composta da Consiglieri regionali, che eseguirà una serie di visite negli istituti penali per verificare direttamente la situazione. La prima visita sarà a Montacuto lunedì 22 novembre, poi a Fermo il 24 novembre, a Barcaglione il 26, a Camerino il primo dicembre e ad Ascoli Piceno il 3 dicembre. Il Garante dei detenuti ha già avviato una serie di iniziative, convegni, corsi di formazione per i volontari carcerari, corsi di fotografia e giornalismo per i carcerati, progetti per aiutare il detenuto ad inserirsi nel mondo del lavoro una volta scontata la pena. Iniziative mirate che tengono conto delle varie realtà e criticità del mondo carcerario che non possono e non devono essere sottovalutate. Nelle carceri delle Marche, dal primo gennaio 2010 a oggi ci sono stati 3 suicidi, 96 atti di autolesionismo, 13 aggressioni a polizia penitenziaria e un suicidio di polizia penitenziaria. Padova: la Procura avvia un’inchiesta per far luce sulla morte di Graziano Scialpi Corriere Veneto, 17 novembre 2010 Ora è ufficiale: c’è un’inchiesta in Procura sulla morte di Graziano Scialpi, il 48enne ex giornalista detenuto al “Due Palazzi”, deceduto lo scorso ottobre per un tumore ai polmoni diagnosticato in ritardo. L’indagine è stata assunta dal pubblico ministero Emma Ferrero, che dovrà stabilire se, nella tragica fine del carcerato, sussistano eventuali responsabilità omissive dei sanitari o dei poliziotti penitenziari. Erano stati i familiari dell’uomo, assistiti dall’avvocato Anna Maria Alborghetti, a denunciare il fatto alla magistratura. Secondo i parenti, Scialpi sarebbe stato lasciato solo per oltre un anno, senza la possibilità di poter fare nemmeno una visita specialistica. Drammatica, in particolare, la testimonianza del padre. “Dal novembre 2009 - ha denunciato Vittorio Scialpi - mio figlio aveva chiesto di fare una risonanza magnetica per cercare di capire la natura del fortissimo mal di schiena che lo tormentava, ma nessuno gli ha mai permesso di fare una neanche una visita. Era arrivato a trascinare le gambe sul pavimento, neanche in quel caso però gli hanno creduto. E Graziano Scialpi stato tenuto dentro finché una notte lo hanno trovato paralizzato”. In settimana, l’avvocato Alborghetti consegnerà nelle mani del magistrato una lista di testimoni che sarebbero pronti a confermare le tappe del calvario del detenuto. La morte di Scialpi è stata al centro anche di un’interrogazione parlamentare della deputata dei Radicali Rita Bernardini, che ha chiesto al ministro della Giustizia, Angelino Alfano “se, al di là dell’inchiesta della magistratura, non si ritenga di dover verificare, attraverso un’approfondita indagine interna, se il trattamento sanitario previsto nell’istituto di reclusione abbia corrispondenza con le Seggi dello Stato”. Scialpi era stato condannato per l’omicidio della cognata e il ferimento dell’ex moglie. Firenze: Sollicciano scoppia, prosegue lo sciopero della fame a staffetta lanciato dal Garante Nove da Firenze, 17 novembre 2010 Prosegue lo sciopero della fame “a staffetta” lanciato dal garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone, per denunciare il grave sovraffollamento nel carcere fiorentino di Sollicciano. Hanno aderito finora alla protesta, che dovrebbe andare avanti fino a Natale, il consigliere comunale di Firenze Stefano Di Puccio (gruppo misto), oggi al settimo giorno di sciopero, don Alessandro Santoro, Giancarlo Scheggi dell’associazione radicale Andrea Tamburi, l’avvocato Nicola Federici ed Eros Cruccolini, capogruppo in Palazzo Vecchio di Sinistra Ecologia Libertà. Il carcere di Sollicciano si trova da tempo in una situzione di insostenibile sovraffollamento: a fronte di una capienza regolamentare di 497 detenuti, è stata superata la soglia di 1.000 presenze, per la precisione siamo a 1.040 più 4 bambini. “Speriamo di ottenere obiettivi minimi - ha dichiarato Franco Corleone - come la costituzione da parte della Regione di un ‘Tavolò per la riforma del carcere e per la valutazione della sanità carceraria, presenze sotto quota mille a Sollicciano, il ripristino integrale della scuola in carcere e la garanzia dell’esame in Senato del ddl sulle “Disposizioni relative all’esecuzione a domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno”. Alcune richieste dovrebbero ricevere attenzione anche dal Comune di Firenze, dato che un anno fa, come ricordato da Ornella De Zordo nell’ultima seduta, il consiglio aveva approvato una mozione proposta dal gruppo Per Un’altra Città in cui si impegnava ad attivarsi per migliorare la vivibilità del carcere. Tra queste, l’individuazione di strutture per le persone in permesso o in semilibertà che devono pernottare fuori, dopo la chiusura di Santa Teresa e di quella di via Santa Caterina, ma anche la riapertura della seconda cucina di Sollicciano (da regolamento ce ne vorrebbero 5, invece ce n’è una sola, con conseguente pessima qualità del cibo), e pure la “maggiore utilizzazione del Giardino degli incontri, anche con iniziative promosse dal Comune che dovrebbe farne quello per cui era stato pensato da Michelucci, cioè il punto di incontro fra il carcere e la città”. Bari: la denuncia del Sappe; superati i 700 detenuti, situazione vergognosa Comunicato stampa, 17 novembre 2010 Da mesi il Sape - Sindacato autonomo polizia penitenziaria - maggior sindacato di categoria, sta denunciando la grave situazione che si sta vivendo all’interno dell’Istituto barese. Infatti il sovraffollamento, a seguito dei numerosi arresti di questi giorni ha superato livelli mai raggiunti con oltre 700 detenuti (nelle condizioni attuali se ne potrebbero ospitare non più di 290). In questo contesto aumenta la tensione ed il nervosismo che sfociano in episodi di violenza tra i detenuti e contro il personale di polizia penitenziaria a cui si deve aggiungere la precarietà della struttura, condizioni igienico-sanitarie e di lavoro assurde per il personale di polizia penitenziaria, con un organico ampiamente insufficiente. Ed è amaro constatare che mentre detenuti “eccellenti” vedi i Misseri a Taranto vengono ospitati in celle singole con un agente di guardia, a Bari per esempio(come peraltro la totalità delle sezioni detentive della regione Puglia) ci sono persone che sono costrette a vivere in condizioni da terzo mondo e senza alcun rispetto della dignità umana. Un esempio eclatante è rappresentato dalla II° Sezione della vergogna che l’Amministrazione Penitenziaria ha sempre evitato di far vedere ai visitatori illustri nonostante il fiume di denaro che ha attraversato il carcere di Bari e per cui non sarebbe male un controllo anche dell’autorità giudiziaria. È bene che tutti sappiano, poiché nessuno potrà poi dire di non sapere che, specialmente nella II sezione i diritti umani sono calpestati ed offesi. È bene che si sappia che in una stanza di tre metri per 1,50 sono ristretti almeno due detenuti e che gli stessi sono costretti a fare i loro bisogni corporali senza alcuna privacy nella stessa stanza dove mangiano,dormono e passano tutta la maggior parte della loro giornata. È bene che si sappia che dai corridoi dei piani cadono calcinacci in continuazione per le fatiscenti condizioni dei muri che in qualche occasione hanno sfiorato o colpito sia i detenuti che il personale di Polizia Penitenziaria; È bene che si sappia che in sezioni con oltre 70, 80 detenuti sistemati in stanze dove al massimo ci starebbero 3 detenuti ne vengono stivati 6, 7 in pessime condizioni igieniche. È bene che si sappia che in queste camere sono stati ricavati dei bagni in delle strutture in lamiera molto pericolose perché arrugginite e che emettono odori e puzze incredibili. È bene che si sappia che un solo agente è costretto a vigilare da solo, fino a 100 detenuti Purtroppo anche la sicurezza dell’Istituto è a rischio considerato l’alto numero di detenuti appartenenti alla criminalità organizzata che ultimamente hanno riempito tutte le sezioni del carcere, a seguito delle maxi retate effettuate dalle forze di polizia. In questo contesto non sembra più bastare l’enorme sacrificio degli operatori penitenziari costretti a lavorare in condizioni disastrose con automezzi per la traduzione di detenuti, vecchi e mal funzionanti che cercano di chiudere tutte le falle che si aprono, ma che rischiano di essere inghiottiti da questa situazione che ogni giorno diventa sempre più grave. Il Sappe ritiene che non sia più rinviabile la costruzione di un nuovo penitenziario a Bari, misura necessaria per rispondere alla domanda di legalità giustizia dei cittadini, salvaguardando però, diritti primari sanciti dalla costituzione. Il Sappe si augura che a seguito di questa ennesima denuncia qualcuno finalmente si svegli, a partire dal Presidente della Regione così attento alle problematiche penitenziarie, poiché è inaccettabile per un Nazione degna di questo nome, consentire che ci siano lager in cui vengono confinati uomini e costringendo la Polizia Penitenziaria a lavorare in condizioni assurde. Se anche ciò non basterà il Sappe è intenzionato a mettere in atto azioni di protesta estrema , quali lo sciopero bianco che di fatto paralizzerà tutte le attività dell’Istituto barese. Il Segretario Nazionale Sappe Federico Pilagatti Teramo: a Castrogno le botte ci furono, ricostruzione nell’aula del Tribunale di Teodora Poeta Il Messaggero, 17 novembre 2010 “L’agente reagì al pugno del detenuto e ne nacque una vera e propria colluttazione tra i due”. Sono le parole riferite ieri nell’aula di tribunale da un collega dell’agente di Polizia penitenziaria che il 22 settembre del 2009 sarebbe stato aggredito dal detenuto Mario Lombardi, finito sotto processo per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali. A pochi giorni dall’opposizione alla richiesta d’archiviazione del caso Castrogno, si torna in qualche modo a parlarne. “Quel giorno mi trovavo in uno stanzino - ha raccontato il teste - ma sono stato richiamato dalle urla. Un crescendo di urla. Prima si trattava solo di un battibecco vivace tra il collega e Lombardi, poi quest’ultimo colpì l’agente con un pugno”. Ma l’agente non si limitò ad immobilizzare il detenuto. “Reagì e nacque tra i due una vera e propria colluttazione. A quel punto intervenimmo per separarli”. Ma quale fu il motivo scatenante? “Dalla mia posizione non sentivo bene - ha riferito il testo in aula. Però ricordo il collega urlare verso Lombardi prima di prendere del pugno e chiedergli “che ti è successo? Che stai facendo?”. In carcere per reati di droga, Lombardi dopo l’episodio registrato nel cd che fece scoppiare il caso Castrogno (e che risalirebbe proprio a quel 22 settembre 2009) avrebbe avuto paura a denunciare i fatti per timore di non essere creduto. Quel mattino un litigio finito alle mani tra lui e una guardia ci fu. Per l’accusa si sarebbe trattato di resistenza a pubblico ufficiale. E a quanto pare sarebbe stato proprio quello il motivo “scatenante”, ciò che spinse i colleghi della guardia, più tardi, a far capire al detenuto come ci si dovrebbe comportare in carcere. Con un errore: “...C’è stato il negro che ha visto tutto...” (Uzoma Emeka, poi deceduto). Ma dalla Procura è stata chiesta l’archiviazione per il cosiddetto caso Castrogno. Sempre ieri sul banco dei testi è comparsa anche la moglie di Emeka. “Ho visto - mi disse Uzoma -, la guardia stava picchiando il detenuto”. A presentare una denuncia per aggressione fu però la guardia: trauma contusivo alla spalla sinistra e alla mano destra con edema, giudicate guaribili in 6 giorni. Mentre Lombardi riportò un polso slogato e alcune costole rotte... e un rinvio a giudizio per il quale ora si sta celebrando il processo. Ad essere stato sentito, sempre durante l’udienza di ieri, il vice dell’allora comandante del carcere di Castrogno. A lui riferirono quanto avvenuto quella mattina del 22 settembre 2009 quando arrivò sul posto. San Gimignano (Si): il carcere di Ranza è una bomba a orologeria, il governo intervenga subito Il Tirreno, 17 novembre 2010 “Il governo deve intervenire subito per trovare delle soluzioni concrete ai problemi di sovraffollamento, della cronica carenza di personale e del sovraccarico di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria che fanno del carcere di Ranza una bomba a orologeria pronta a esplodere in ogni momento”. Sono queste le parole con le quali Niccolò Guicciardini, segretario dell’Unione comunale del Pd di San Gimignano e Andrea Marrucci, capo gruppo consiliare Centrosinistra per San Gimignano, commentano la situazione del carcere di Ranza, alla luce del tentativo di evasione dalla struttura carceraria della cittadina turrita, avvenuto nei giorni scorsi. “Agli agenti penitenziari - continuano Guicciardini e Marrucci - va tutta la nostra solidarietà e il plauso per come sono riusciti a evitare l’evasione di un detenuto. Nello stesso tempo dobbiamo rinnovare l’appello al Governo affinché intervenga per risolvere una situazione intollerabile nella quale il personale è costretto a lavorare con turni massacranti e a rischio della propria incolumità, i detenuti vivono in condizioni disumane e con la comunità sangimignanese sempre più insofferente ad accettare il degrado della struttura carceraria. In questi mesi il Pd ha sollevato i problemi del carcere di Ranza in tutte le sedi, presentando mozioni in consiglio comunale e in consiglio provinciale, avvalendosi del prezioso e costante lavoro dei nostri parlamentari Susanna Cenni e Franco Ceccuzzi, che hanno lavorato al fianco delle rappresentanze degli agenti di polizia penitenziaria, per sollecitare il governo e per trasformare il carcere in un luogo più sicuro e vivibile per agenti e detenuti. Dal governo non è arrivata nessuna risposta, solo annunci al vento relativi al “piano carceri” di cui, ad oggi, non si è ancora visto niente di concreto. Continueremo a batterci - concludono Guicciardini e Marrucci - con tutti gli strumenti a nostra disposizione per cercare delle soluzioni sull’emergenza di Ranza e dare così il nostro contributo per risolvere il problema delle strutture di detenzione italiane che, oggi, non è più eludibile”. Livorno: delegazione del Pdl in visita alla Casa circondariale Il Tirreno, 17 novembre 2010 Missione al carcere delle Sughere per una delegazione del centrodestra livornese, guidata dal senatore del Pdl Achille Totaro. Invitato dal responsabile del sindacato Sinappe Calogero Panevino, Totaro ha visitato la Casa circondariale di Livorno, ottenendo numeri eloquenti: i detenuti attuali sono 489 detenuti (205 oltre il previsto) sotto la responsabilità di 221 agenti, contro una previsione tabellare di 305. Col senatore c’erano la capogruppo del Pdl in Provincia Costanza Vaccaro, il consigliere comunale Andrea Romiti e alcuni loro collaboratori. “Come delegazione - spiega Vaccaro - abbiamo rilevato come i detenuti sottoposti a regime di alta sicurezza possano liberamente muoversi all’interno della loro sezione e come un solo agente, in condizioni di serio rischio personale e sottoposto a condizioni di stress psicofisico facilmente comprensibili, si trovi a dover sorvegliare da solo due sezioni con oltre 100 detenuti che scontano pene di lungo periodo, spesso per reati di criminalità organizzata”. Il senatore Totaro ha già annunciato una interrogazione parlamentare e ritiene “inaudito” il fatto che la direttrice del carcere sia costretta a dividersi fra quattro diversi istituti di pena della Toscana. Busto Arsizio: a scuola di dolce in carcere Varese News, 17 novembre 2010 Scuola e carcere insieme per la prevenzione delle devianze e il recupero dei detenuti con un progetto che coinvolge tre istituti superiori di Busto e Gallarate. Laboratori dolciari e artigianali e lezioni per i ragazzi con esperti e volontari. “A scuola di... dolce in carcere” è il nome del progetto, finanziato da fondi regionali, presentato lunedì presso la casa circondariale di via per Cassano e che mette “in rete” detenuti, scuole e Comuni. Nasce dalla collaborazione fra le amministrazioni comunali di Busto Arsizio, Gallarate e Cassano Magnago, l’associazione assistenza Carcerati e Famiglie e tre scuole superiori locali: due bustocche, il Liceo artistico Candiani, l’Ipc Verri (già impegnata in progetti di formazione in carcere), e una gallaratese, l’Ipc Falcone. Coordina l’iniziativa per l’associazione che aiuta carcerati e famiglie Pierluigi Brun, che ricordava come finalità dell’iniziativa sia quella di prevenire l’insorgere tra i giovanissimi di fenomeni di devianza sociale, violenza e bullismo: anche con lezioni in classe, facendo loro conoscere la realtà del carcere tramite l’incontro con gli operatori e i volontari. Ma soprattutto, la novità sta nella collaborazione attiva studenti-detenuti in laboratori finalizzati a realizzare i dolci (con l’ausilio di esperti pasticceri) e oggetti artigianali di ceramica, tutti pezzi unici, contributo del liceo Candiani. Le classi seconde degli istituti saranno coinvolte nella parte “educativa-preventiva” del progetto, mentre gli studenti maggiorenni saranno coinvolti nella parte di laboratorio, e terranno prossimamente un incontro pubblico. Quello di Busto Arsizio è un carcere ormai noto per la produzione dolciaria dei suoi laboratori, uno dei progetti di lavoro più apprezzati nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria. I laboratori per la produzione di cioccolato e quella di miele con tanto di arnie, la serra per le colture, persino un videoclip dedicato a Pinocchio sono alcuni dei fiori all’occhiello di questa casa circondariale, ricordate dalla responsabile dell’area trattamentale, dottoressa Rita Gaeta. Senza queste, resterebbe la dura condizione delle carceri italiane, dove con difficoltà si cerca di preservare la dignità di uno Stato di diritto. Il quinto carcere d’Italia per sovraffollamento non è dunque solo un luogo di afflizione e reclusione: si cerca con impegno sincero di fare della pena un’occasione di rieducazione, per quanto gli scarsi mezzi e spazi a disposizione lo consentano. Il personale di vigilanza è sempre insufficiente, nondimeno si riesce a dare un’attività più o meno continua da svolgere almeno a oltre due terzi dei detenuti. Cosa che serve non solo a rendere meno pesante la dura condizione del detenuto, isolato dalla società e “ristretto”, ma in molti casi ad acquisire una competenza professionale eventualmente “spendibile” una volta fuori. Purché, “fuori”, imparino a non giudicare chi è già stato giudicato. Fuori dal portone, infatti, non è meno dura per chi è stato in cella ed esce privo di contatti: fondamentale, ricordava l’assessore bustocco ai servizi sociali Mario Crespi, il reinserimento pieno di chi ha sbagliato, per evitarne la marginalizzazione e la ricaduta nella devianza. Pavia: parla la madre di Marcello Russo; voglio la verità sulla morte in carcere di mio figlio La Provincia Pavese, 17 novembre 2010 Il magistrato dice che nel suicidio in cella, a patto che di suicidio si sia trattato, non vi sarebbero responsabilità di terzi. Ma Addolorata Masiello, madre di Marcello Russo, morto in carcere il 23 marzo 2009, non si rassegna. E si oppone all’archiviazione del fascicolo. Vicenda delicata quella di Marcello Russo, 45 anni, un passato pieno di ombre. Il 23 marzo 2009 venne ritrovato cadavere, nella propria cella, con un sacchetto di cellophane sulla testa e dentro una bomboletta di gas con l’erogatore ancora aperto. Suicidio o disgrazia? La Procura di Voghera aprì un’indagine. Il titolo di reato era istigazione al suicidio. Ma circa un anno dopo, il pubblico ministero al quale è toccato il fascicolo chiede l’archiviazione. “All’esito degli accurati accertamenti effettuati - scrive il magistrato - si deve escludere che sussistano profili di responsabilità di terzi in relazione al decesso del detenuto Russo Marcello. In particolare non sussiste alcuna istigazione o aiuto al suicidio sia perché non si configurano condotte dolose finalizzate allo scopo e sia perché non vi è neanche certezza che di un suicidio si sia trattato e non piuttosto di una morte accidentale, derivante dalla diffusa pratica fra i detenuti di assumere il gas delle bombolette per i suoi effetti euforizzanti e di “sballo”. L’avvocato Sara Bressani, che assiste la madre di Russo, non la pensa allo stesso modo. Il legale ricorda che sin da un precedente periodo di detenzione a Perugia, Russo era sottoposto a una terapia a base di antipsicotici e antidepressivi. L’avvocato elenca, poi, una serie di gesti di autolesionismo. Il 4 agosto 2008, Russo si procurò tagli al torace e all’addome, ai quali fece seguito uno sciopero della fame e della sete; il 2 e 13 gennaio si sarebbero verificati altri atti che lasciarono segni sulla zona della bocca; il 17 gennaio il detenuto presentava un ematoma frontale; il giorno seguente fu medicato per ustioni alle dita; il 13 febbraio, prima fu trovato riverso a terra con un sacchetto di cellophane sul capo e la bomboletta del gas aperta, un’ora dopo ingerì una lametta da barba. Infine, il 23 marzo, vi fu l’episodio di inalazione del gas rivelatosi fatale. L’avvocato Bressani cita anche alcune lettere che i compagni di carcere di Russo scrissero alla madre. E ribadisce un concetto: se una persona viene affidata all’istituzione carceraria, la stessa ha il dovere di tutelarlo in ogni modo. Il 25 novembre è fissata l’udienza davanti al giudice, Donatella Oneto. L’avvocato Bressani chiede nuove indagini o la citazione diretta a giudizio. Camerino (Mc): firmata l’intesa tra Dap e Regione, per la costruzione del nuovo carcere Apcom, 17 novembre 2010 Parte il piano carceri: nella sede del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a Roma è stata firmata l’intesa con la Regione Marche per la costruzione di un nuovo istituto penitenziario a Camerino, che ospiterà 450 detenuti. “L’intesa con la Regione Marche è il frutto di un’attività di concertazione con tutti gli enti pubblici coinvolti”, sottolinea il direttore del Dap Franco Ionta e Commissario delegato per il Piano carceri, e secondo l’amministrazione il nuovo istituto potrà risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri marchigiane. Con la firma dell’intesa istituzionale per una nuova struttura penitenziaria a Camerino, prende così il via la fase esecutiva del Piano carceri. Il documento è stato siglato oggi, nella sede del Dap a Roma, dal Commissario delegato per il Piano carceri, Franco Ionta, e Luca Marconi, assessore ai Servizi sociali delle Marche, delegato dal presidente Gian Mario Spacca. Presente alla firma anche il sindaco di Camerino Dario Conti. È la prima intesa - spiega il Dap - di una serie programmata che il Commissario delegato firmerà nelle prossime settimane con le Regioni nelle quali sorgeranno i nuovi istituti penitenziari individuati dal piano di intervento del governo per affrontare l’emergenza dovuta al sovraffollamento carcerario. Nelle Marche i sette istituti penitenziari presenti ospitano 1131 detenuti (dati del Dap aggiornati al 31 ottobre) a fronte di una capienza di 764. “Un problema di sovraffollamento - si sottolinea - che sarà risolto grazie ai 450 posti della nuova struttura, che avrà un costo complessivo di circa 40 milioni di euro, prevista dal Piano carceri”. “Il nuovo istituto di Camerino - ha evidenziato il Commissario delegato per il Piano carceri Franco Ionta - consentirà di stabilizzare il sistema penitenziario marchigiano, tutelando la dignità dei detenuti e migliorando sostanzialmente le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”. Il documento siglato oggi stabilisce che la nuova struttura, che sarà costruita in tempi rapidi secondo le disposizioni urgenti per la realizzazione di istituti penitenziari (legge 26 febbraio 2010, n. 26), sorgerà nel territorio comunale di Camerino, in un’area di circa 17 ettari in prossimità della frazione Morro, a circa mezzo chilometro dall’ospedale. “L’intesa raggiunta - prosegue il Commissario delegato - è il risultato di un’intensa attività di concertazione informale che ha coinvolto regione, provincia, comune, prefettura, protezione civile, azienda sanitaria unica regionale, vigili del fuoco e direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici”. “Un lavoro prosegue il commissario - che non solo ci ha consentito di individuare, in tempi rapidi e in sintonia con la Regione Marche e il Comune di Camerino, l’area nella quale realizzare il nuovo istituto penitenziario, ma ci assicura che il metodo adottato ci permetterà di procedere velocemente in tutte le fasi successive dell’operazione, senza rinunciare all’integrazione urbanistica della struttura con il territorio.” “Per questa ragione - conclude Ionta - e soprattutto per rispettare i tempi prefissati dal Piano per risolvere il sovraffollamento degli istituti penitenziari, stiamo già lavorando alla stesura del bando di gara concorrenziale per la realizzazione dell’opera”. Camerino (Mc): Osapp, nuovo istituto da solo non basta, servono agenti e detenzione domiciliare Apcom, 17 novembre 2010 “Quale organizzazione sindacale del personale di polizia penitenziaria, prendiamo atto dell’avvenuta intesa al Dap, tra Regione e Amministrazione penitenziaria per la costruzione di un nuovo istituto da 450 posti a Camerino, quale primo atto concreto del c.d. piano-carceri del Commissario Delegato e Capo del Dap Franco Ionta”. Lo dice afferma Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). “Ma se da un lato è indubbio che le Marche, con 1.162 detenuti per 764 posti, abbisognano con urgenza di nuove infrastrutture - prosegue il leader dell’Osapp - non possiamo dimenticare che quella dell’edilizia penitenziaria è solo una delle misure necessarie per deflazionare l’attuale e gravissimo sovraffollamento delle carceri”. “Il Capo del Dap Ionta e il Ministro Alfano avevano parlato di tre ‘pilastri’ e i due che mancherebbero perché il primo, l’edilizia, non si riveli un fallimento - aggiunge il sindacalista - riguardano l’incremento di organico della polizia penitenziaria e la detenzione domiciliare per i detenuti con 12 mesi di pena residua. Entrambe le misure sono oggetto di un disegno di legge, il 2313, all’esame del Senato e le notizie che ci pervengono rispetto alla possibile calendarizzazione e approvazione del progetto sono tutt’altro che favorevoli - conclude Beneduci - per cui chiediamo con urgenza l’intervento risolutivo del Ministro Alfano”. Pesaro: da luglio 2011 nelle carceri in servizio 45 nuovi agenti Corriere Adriatico, 17 novembre 2010 A contemperare la situazione di gravità estrema che caratterizza le carceri delle Marche, in particolare quelle di Pesaro e di Fossombrone, è intervenuto un provvedimento del Ministero della Giustizia che ha dislocato 45 nuovi agenti di sorveglianza, di cui 35 uomini e 10 donne, nelle strutture del territorio regionale. Del provvedimento il consigliere nazionale del Sappe (Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria) Aldo Di Giacomo e il rappresentante del carcere di Fossombrone Peppe Pasquino, hanno dato merito all’onorevole Carlo Ciccioli e al consigliere regionale Giancarlo D’Anna che hanno più volte sollecitato il ministro Alfano ad intervenire. Non si tratta della soluzione di tutti i mali, ma comunque un certo miglioramento delle condizioni di sicurezza dei carcerati e delle condizioni di lavoro dei sorveglianti si dovrebbe determinare. I nuovi arrivi sono fissati a fine luglio, al termine di un corso di quattro mesi che dovrà preparare gli agenti al loro compito. A fronte di una capienza regolamentare complessiva di 740 detenuti nelle carceri marchigiane ve ne sono 1.100. Villa Fastiggi ha fronte di una capienza di 176 detenuti, raggiunge una media di 312 unità. Il problema del supercarcere di Fossombrone, invece, non è il superaffollamento, ma la precarietà delle sue strutture. Costruito 146 anni fa, oggi si trova in un degrado indicibile. Bologna: arrivano carta e libri di scuola per sostenere i corsi di alfabetizzazione dei detenuti Dire, 17 novembre 2010 Dopo i 400 kit donati ai detenuti bolognesi alla fine di agosto da Federcartolai dell’Emilia-Romagna e da Ascom, oggi al carcere della Dozza di Bologna sono arrivati anche i libri e la carta, necessari per poter frequentare al meglio i corsi di alfabetizzazione alla Dozza. Il materiale è stato consegnato oggi nelle aule del penitenziario, durante lo svolgimento delle lezioni, dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Vanna Minardi, dalla direttrice del carcere, Ione Toccafondi, e dalla dirigente scolastica dell’Istituto comprensivo X che realizza i corsi. Come spiega una nota del Comune di Bologna, alla Dozza sono arrivate, oltre a 50 risme di carta riciclata, venti copie del testo di prima alfabetizzazione “Parole e lettere” (completo di appendici) e altri quattro volumi: “Bar Italia”; “Giocare con la scrittura”; “Giochi senza frontiere” e “Ricette per parlare”. Il materiale giunto oggi alla Dozza era stato “segnalato dai docenti per favorire il corretto svolgimento delle lezioni e dell’apprendimento dei corsisti” si legge nella nota. “Questo piccolo contributo, che segue la donazione dei 400 kit di cancelleria da parte di Federcartolai dell’Emilia-Romagna e Ascom, potrà consentire ai detenuti di poter più adeguatamente frequentare i corsi scolastici”. Per l’anno scolastico 2010-2011, alla Dozza sono stati avviati 19 corsi: sette di scuola media (frequentati da 107 detenuti) e 12 di italiano (li frequentano in 153). I detenuti attualmente presenti alla Dozza, ricorda la nota del Comune, sono 1.130. Rovigo: l’aspetto sociale della vita in carcere; idee e proposte di Livio Ferrari, garante dei detenuti Rovigo Oggi, 17 novembre 2010 Livio Ferrari, garante dei detenuti di Rovigo, fondatore e primo presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, racconta le tematiche affrontate nel proprio libro “Di giustizia e non di vendetta”, dal quale emerge che il sistema giudiziario garantisce i ricchi e non i poveri. Ancora più penalizzati risultano gli immigrati. Non ci sarà mai vera giustizia finché alcune persone saranno più tutelate, specialmente in fase di condanna. Livio Ferrari, garante dei detenuti di Rovigo nonché fondatore e primo presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, ne parla nel proprio libro “Di giustizia e non di vendetta” (ed. Gruppo Abele), partendo dal presupposto che “le tutele creano disparità”. La disparità di sentenze per lo stesso reato tra italiani abbienti e poveri è solo uno dei tanti aspetti che Ferrari affronta nell’opera, forte dell’esperienza ultra ventennale di volontario sul campo. È lo stesso autore a spiegare come il libro sia diviso in tre parti. La prima racconta alcune brevi biografie e riporta alcune lettere di detenuti, la seconda presenta alcune riflessioni che vanno dall’analisi della società che alimenta l’esclusione sociale al futuro delle carceri italiane passando per il ruolo del volontariato nelle case circondariali. Infine nella terza parte Ferrari presenta alcune proposte relative all’esecuzione penale e alla mediazione per i giovani adulti nonché per i sex offender e i clandestini. Secondo le parole di Ferrari, il carcere è un fallimento, “lo dicono i dati forniti dal Ministero - spiega - secondo i quali oltre il 70% di chi sconta una pena in cella, risulta recidivo”. Al contrario, il 70% di chi la esegue almeno in parte secondo misure alternative, non ricade nello stesso reato. Da qui la proposta: “Usiamo i finanziamenti alle carceri per far restare i detenuti sul territorio, in modo conciliatorio rispetto al danno arrecato ed eventualmente restituire quanto sottratto, se possibile”. Secondo questa logica le attuali 206 strutture per adulti presenti sul nostro territorio nazionale potrebbero essere dismesse per tre quarti: “Si direbbe addio ai problemi di sovraffollamento - sottolinea Ferrari -, considerando che i detenuti sono 69 mila in Italia, su 42 mila posti previsti”. Riprende: “La carcerazione produce tanti di quei guasti, fisici e psicologici, che solo la minoranza di coloro che la subiscono riescono a resistere alle usure e a ritornare da liberi ad una “normalità” di vita”. In quali casi, quindi, è previsto il carcere? “Nei casi di reati legati alla criminalità organizzata, il 16% dei detenuti - afferma il Garante - per loro è difficile pensare a soluzioni diverse. Per i cosiddetti “sex offender” invece si può pensare a luoghi di esecuzione penale diversificati ma garanti dei diritti umani”. Tuttavia, i detenuti oggi ci sono e sono in gran numero. Di questi il 35% sono tossicodipendenti, il 38% extracomunitari. Quali sono i problemi in cui incorrono durante la detenzione? “Il problema più grave riguarda la loro salute. L’80% di chi entra sano esce malato e risulta difficile garantire le cure adeguate, da quando sono stati affidati al sistema sanitario nazionale. In secondo luogo non ci sono gli spazi adeguati per vivere: oggi una cella predisposta per una persona è occupata in media da sei. Capita spesso che alcuni cadano dai letti a castello e si rompano una gamba o un braccio”. “Il carcere è un’esperienza che distrugge - rimarca Ferrari - tanto che il fenomeno dei suicidi ha numeri spaventosi: da inizio 2010 quelli accertati sono 46 e 150 le persone morte in totale. Si tratta spesso di ragazzi giovani, a pochi mesi dal termine della condanna”. Vietato perciò parlare di “certezza della pena”: “È l’ottica vendicativa dell’uomo che riporta a questi ragionamenti. Ogni giorno le persone cambiano, perché non si può pensare che anche i criminali possano cambiare in positivo?”. In una sistema giudiziario che garantisce i ricchi e non i poveri e asseconda chi si può permettere un buon avvocato, il carcere dovrebbe essere un luogo in cui si assicurano i criminali alla giustizia, invece le cose sembrano non stare così. Viene spontaneo chiedersi dove stia, a questo punto, la giustizia. Bollate (Mi): i cavalli a sostegno dei detenuti www.equitando.com, 17 novembre 2010 Il 29 novembre il carcere milanese di Bollate ospiterà il convegno dedicato alle prospettive degli interventi riabilitativi “Cavalli in Carcere - Percorsi riabilitativi nella devianza sociale”. Un progetto unico in Europa nel panorama degli interventi sulla devianza sociale. Se infatti negli Stati Uniti fin dagli anni 80 i cavalli sono entrati a contatto, tra l’altro con ottimi risultati, con la popolazione detenuta, in Europa ed in Italia negli ultimi anni qualche approccio è stato tentato, sopratutto nelle carceri minorili, unicamente con i piccoli animali. A Bollate esiste già da alcuni anni una piccola scuderia, gestita dall’Associazione Salto Oltre il Muro, il cui presidente, Claudio Villa e i cui collaboratori, psicologi ed educatori, svolgono un lavoro di formazione e rieducazione per i cavalli maltrattati. I detenuti possono seguire infatti corsi per artiere ippico, che daranno loro la possibilità di un reinserimento sociale, una volta terminata la pena e che consentono, a chi sceglie di assumerli, di usufruire di numerose agevolazioni fiscali. A tutto ciò si aggiunge il lavoro di riabilitazione per i cavalli maltrattati o sequestrati in operazioni di polizia, che vengono assegnati alla scuderia dell’Asom per ritrovare la forma fisica e la tranquillità. Purtroppo all’interno del carcere non esiste un maneggio, solo ampi paddocks, per cui le attività con il cavallo montato sono al momento impossibili; ci si impegna però in un proficuo avvicinamento da terra, utilizzando i criteri di doma dolce, per far sì che si stabilisca tra cavallo e detenuto quel particolare rapporto empatico che è alla base di tutte le attività riabilitative. Il convegno del 29 novembre vuol far conoscere questa realtà e proporre anche dei progetti innovativi che potranno consentire, in un futuro non troppo lontano, la costruzione di un maneggio per ampliare l’offerta riabilitativa. Oltre al direttore di Bollate, la dottoressa Lucia Castellano, e il Provveditore alle carceri della Lombardia, interverranno il presidente del Comitato Lombardia Fise, Uberto Lupinetti, il Garante ai diritti degli animali del Comune di Milano, l’on. Paola Frassinetti, vicepresidente della commissione cultura alla Camera, il dottor A. Rossi, vice presidente della provincia di Perugia, dove è allo studio un progetto simile. Da sottolineare che tutti gli intervenuti avranno la possibilità di visitare la scuderia dell’Asom e di verificare lo stato di benessere dei cavalli che vi sono ospitati. Bollate (Mi): “Officine Musicali Freedom Sound”, in carcere spettacoli e scuola di musica Agi, 17 novembre 2010 Grande successo per la prima esibizione ufficiale del progetto “Officine Musicali Freedom Sound”: alcuni detenuti del carcere di Bollate hanno dato vita ad uno spettacolo musicale che li ha visti interagire sullo stesso palco con musicisti professionisti capitanati da Cesareo, chitarrista di Elio e le Storie Tese. L’evento è stato possibile grazie al contributo della Fondazione Antonio Carlo Monzino, con il supporto di Roland e Ibanez - due marchi simbolo nel mondo degli strumenti musicali, che supportano un importante progetto di crescita e rieducazione incentrato sulla musica, condotto presso il Carcere di Bollate. Alla Casa di Reclusione è stata effettuata una donazione di strumenti musicali a sostegno di un progetto educativo innovativo. Innovativo perché totalmente autogestito: l’intraprendenza dei detenuti e il sostegno degli educatori hanno portato alla creazione di uno spazio attrezzato, per fare musica all’interno del carcere. Attraverso la Fondazione Antonio Carlo Monzino - nata nel 1999 allo scopo di promuovere i valori sociali, formativi e culturali della musica - le due aziende hanno scelto di supportare il progetto, mettendo a disposizione gli strumenti necessari per dare ai detenuti la possibilità di suonare, creando vere e proprie band che spaziano tra generi musicali diversi - dal rock anni ‘60 e ‘70 al rap, dall’hip hop all’elettro pop. Accanto a questi progetti, cresce ogni giorno la “scuola di musica”: detenuti che insegnano ad altri detenuti a suonare strumenti, a scrivere canzoni, ad esprimere attraverso le note e le parole i propri sentimenti e le sensazioni di vivere in reclusione. “La musica è sacrificio, è impegno, è rimettersi in gioco - dichiara Marco Caboni, uno dei detenuti che ha dato vita, oltre un anno e mezzo fa, al progetto di rieducazione musicale all’interno del Carcere di Bollate - ed è grazie a questa esperienza che vediamo giorno dopo giorno la gente cambiare, vivere in maniera nuova la propria condizione di detenuto”. Grande successo per la prima esibizione ufficiale del progetto “Officine Musicali Freedom Sound”: alcuni detenuti del carcere di Bollate hanno dato vita ad uno spettacolo musicale che li ha visti interagire sullo stesso palco con musicisti professionisti capitanati da Cesareo, chitarrista di Elio e le Storie Tese. L’evento è stato possibile grazie al contributo della Fondazione Antonio Carlo Monzino, con il supporto di Roland e Ibanez - due marchi simbolo nel mondo degli strumenti musicali, che supportano un importante progetto di crescita e rieducazione incentrato sulla musica, condotto presso il Carcere di Bollate. Alla Casa di Reclusione è stata effettuata una donazione di strumenti musicali a sostegno di un progetto educativo innovativo. Innovativo perché totalmente autogestito: l’intraprendenza dei detenuti e il sostegno degli educatori hanno portato alla creazione di uno spazio attrezzato, per fare musica all’interno del carcere. Attraverso la Fondazione Antonio Carlo Monzino - nata nel 1999 allo scopo di promuovere i valori sociali, formativi e culturali della musica - le due aziende hanno scelto di supportare il progetto, mettendo a disposizione gli strumenti necessari per dare ai detenuti la possibilità di suonare, creando vere e proprie band che spaziano tra generi musicali diversi - dal rock anni ‘60 e ‘70 al rap, dall’hip hop all’elettro pop. Accanto a questi progetti, cresce ogni giorno la “scuola di musica”: detenuti che insegnano ad altri detenuti a suonare strumenti, a scrivere canzoni, ad esprimere attraverso le note e le parole i propri sentimenti e le sensazioni di vivere in reclusione. “La musica è sacrificio, è impegno, è rimettersi in gioco - dichiara Marco Caboni, uno dei detenuti che ha dato vita, oltre un anno e mezzo fa, al progetto di rieducazione musicale all’interno del Carcere di Bollate - ed è grazie a questa esperienza che vediamo giorno dopo giorno la gente cambiare, vivere in maniera nuova la propria condizione di detenuto”. Immigrazione: le religiose al Cie di Ponte Galeria Radio Vaticana, 17 novembre 2010 Suore di diverse congregazioni portano sostegno nel Centro di identificazione ed espulsione, tra emarginati e vittime della tratta di Laura Badaracchi. Si ritrovano alla fermata Magliana della metro B ogni sabato pomeriggio, ormai da sette anni. Partono dalle loro case generalizie, dalle comunità o dalle case famiglia, formando un gruppo eterogeneo per età e nazionalità; alcune hanno imparato una lingua straniera vivendo per anni in missione. Oltre una quindicina di suore, di congregazioni differenti, salgono tutte sul treno che le porterà al Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria, che ha una capienza di 364 persone. La cronaca ne parla quando si verificano tensioni; poi cade il silenzio su chi lì dentro sta per mesi. Secondo i dati di fine ottobre, i detenuti sono 69 uomini (l’ala maschile è in ristrutturazione) e 136 donne, provenienti soprattutto da Nigeria e Africa sub-sahariana, Europa dell’Est, Paesi dell’ex Unione sovietica, Cina e Mongolia, America Latina. Cosa fa un gruppetto di religiose in mezzo al loro? “La nostra è una presenza di vicinanza, ascolto, preghiera con loro. È importante farle sentire amate e accolte”, rileva suor Maria Rosa Venturelli, missionaria comboniana e coordinatrice del gruppo; da oltre tre anni, ogni sabato trascorre due ore con le recluse nel Cie, un posto “squallido, tutto cemento e grate”. Emigrate, giovani e meno giovani, provenienti dal marciapiede o dal lavoro clandestino, quasi sempre vittime della tratta. “Per avvicinarle, personalmente ho dovuto prima di tutto capire come accostarmi a una ragazza che si trova nel giro della prostituzione non per sua volontà, e che vive sul territorio italiano senza permesso di soggiorno”. Le religiose si dividono in gruppi linguistici, per poter incontrare le detenute parlando la loro lingua. Pregano con loro, organizzano momenti ecumenici e le invitano “a rivolgersi quotidianamente al loro Dio, qualunque sia il suo nome. Le religioni che professano, infatti, sono diverse: cattolicesimo e altre confessioni cristiane, buddhismo, islam, confucianesimo, sikhismo e religioni tradizionali; alcune si dichiarano atee”, riferisce suor Maria Rosa, parlando dei “legami spirituali con queste donne azzerate dalla violenza e dall’abuso: una scuola di vita e un ministero spirituale di consolazione. Perché si impara ad amare in profondità, con più discrezione e delicatezza: ci evangelizzano con il loro coraggio, le loro speranze, anche con frustrazioni e tristezze senza ritorno”. Un’esperienza umanamente forte, che segna il cammino delle stesse suore: “Al Cie si impara a rispettare i tempi dell’altra e a metabolizzare l’impotenza. Come Maria sotto la croce: non poteva far nulla per cambiare quella situazione, ma era lì”, testimonia suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, per 24 anni in Kenya, alla guida dell’Ufficio tratta dell’Usmi nazionale. Tra le veterane del gruppo, sottolinea che questo servizio “insegna a non giudicare, a essere aperte di mentalità”. Un bilancio di questo apostolato verrà illustrato venerdì (19 novembre 2010) nella sede Usmi di via Zanardelli 32, nel convegno su “Dieci anni di storia e servizio a donne e minori vittime di tratta”. È ampia a Roma e in Italia, infatti, la rete di strutture “a protezione della dignità femminile - nota la religiosa -. Ma possiamo ancora rivitalizzare la nostra missione nella Chiesa e nella società”. Droghe: interpellanza dei Radicali; individuate otto criticità nella relazione del Governo 9Colonne, 17 novembre 2010 I senatori radicali Donatella Poretti e Marco Perduca hanno presentato un’interpellanza al presidente del Consiglio su otto passaggi specifici della Relazione annuale del Governo al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia. I parlamentari radicali hanno dichiarato: “Anche quest’anno abbiamo onorato la presentazione, da parte del sottosegretario Giovanardi, della Relazione in Parlamento, studiando in modo approfondito il testo e individuando otto criticità. Eccone alcune: l’inadeguatezza quantitativa delle risposte ai questionari antidroga, dalla cui elaborazione Giovanardi ha desunto che vi è stato un calo addirittura di un milione di consumatori di sostanze illegali; uno scarto di ben 8.000 detenuti con problemi socio-sanitari droga correlati fra le rilevazioni del Ministero di Giustizia e del Ministero della Salute (significa ben 8.000 detenuti senza assistenza sanitaria?); la solita disparità quantitativa e qualitativa dei trattamenti metadonici somministrati fuori e dentro il carcere (ma in base alla riforma della medicina penitenziaria, Asl e Sert devono assicurar le stesse prestazioni sia ai cittadini liberi che a quelli detenuti); solo una regione su tre ha incardinato un programma regionale di riduzione del danno (nulla di sorprendente, visto che Giovanardi vuole addirittura abolire la locuzione “riduzione del danno). Vorremmo non essere i soli a onorare i documenti del governo in materia. Vorremmo che, prima che tutto precipiti, il Parlamento trovi un giorno per discutere seriamente sui costi e sui benefici di vent’anni di legislazione proibizionista, che ha segnato le vite di milioni di cittadini italiani. Non parliamo solamente delle centinaia di migliaia di detenuti; parliamo anche dei 737.642 cittadini italiani segnalati ai Prefetti dalle forze dell’ordine. Una tale mole di lavoro è servita, se non eliminare, almeno a ridurre il consumo di stupefacenti?”. Stati Uniti: detenuto muore in cella dopo 35 anni passati nel “braccio della morte” Ansa, 17 novembre 2010 Un detenuto texano di 55 anni, Ronald Curtis Chambers, condannato a morte nel 1976, è stato trovato morto oggi in un carcere del Texas dopo essere stato rinchiuso per 35 anni nel braccio della morte. Lo rivela sul suo sito il Dallas Morning News, citando fonti penitenziarie e precisando che sulla morte del detenuto è stata aperta un’inchiesta. L’uomo è stato trovato privo di vita nella sua cella; non sono state rese note le cause del decesso. Chambers aveva 20 anni quando fu arrestato per l’omicidio di uno studente, nel 1975. Condannato a morte nel 1976, da allora ha trascorso tutta la sua esistenza nel braccio della morte. Per gli Stati Uniti si tratta di un record. Secondo le autorità penitenziarie, in media un detenuto in attesa dell’esecuzione della sentenza resta nel braccio della morte tra i dieci e i dodici anni. Il Texas è lo Stato americano che vanta il più alto numero di esecuzioni capitali. Nel solo 2010 sono stati giustiziati 17 dei 45 condannati messi a morte quest’anno negli Stati Uniti. Algeria: mille detenuti in programma formativo per il reinserimento Agi, 17 novembre 2010 Ha riscontrato notevole successo il programma formativo per il reinserimento dei detenuti nella società varato dalle autorità algerine negli istituti penitenziari della provincia nord-occidentale di Tlemecen. La maggior parte dei circa mille detenuti che hanno aderito al programma segue corsi di formazione professionale in falegnameria, elettricità e informatica; il resto va a lezione per conseguire la licenza media e la maturità. Alla conclusione della pena coloro che avranno completato con profitto i corsi professionali potranno beneficiare di prestiti agevolati, utili per avviare un’attività artigianale o commerciale. Mauritania: impegno del Governo per migliorare la condizione dei detenuti Agi, 17 novembre 2010 Il governo della Mauritania si è impegnato a migliorare le condizioni di vita della popolazione carceraria. Un impegno assunto dal ministro della Giustizia, signora Abidine Ould El Kheir, dopo un sopralluogo alla prigione di Dar Naim, la principale della capitale, Nouakchott. Il ministro ha annunciato che i miglioramenti saranno “sia qualitativi sia quantitativi” anche per quanto riguarda gli spazi a disposizione di ogni singolo detenuto e le razioni di cibo. Ould El Kheir ha aggiunto che l’esecutivo si muoverà anche per apportare miglioramenti alla situazione igienico-sanitaria e all’organizzazione delle attività formative.