Giustizia: il carcere dei più deboli… bambini e disabili di Antonio Piazza www.caffenews.it, 16 novembre 2010 Che il carcere sia il luogo nel quale vengono da sempre confinate le fasce sociali più deboli con lo scopo preciso di emarginarle è ormai un fatto assodato che la storia recente e non, raccontano a coloro i quali siano disposti ad accoglierne la verità. Quello che invece spesso viene taciuto dai media ma anche da molti operatori del settore è che questa enorme discarica umana e sociale sia sempre di più disposta ad ingoiare all’interno delle proprie tenebrose viscere i più deboli fra i deboli, le più indifese fra le vittime, i più innocenti fra gli innocenti. Stiamo parlando di bambini e disabili. Sono ben 56 i bambini che attualmente trascorrono le giornate della loro infanzia fra le sbarre, luogo creato per perpetrare sofferenza alle persone che lo vivono e per uccidere la speranza delle anime che lo popolano. E così, in questa nostra civile e democratica società tutta occidentale accade che anche agli angeli vengano incatenate le ali, costringendoli a dibatterle inutilmente per dischiuderle verso un volo che viene loro negato. Bambini che si industriano in mezzo a giocattoli improvvisati, che trascorrono i loro pomeriggi di fronte ad una televisione imprigionata dietro una grata e che riposano in una branda gettata nell’angolo di una cella. Sono 20 i bambini dagli 0 ai 3 anni che vivono con le loro madri all’interno del carcere di Rebibbia, a Roma. Proprio nella città che ha dato i natali alla civiltà o per lo meno a ciò che usualmente viene additata con tale pseudonimo. È la stessa civiltà che si è data delle leggi allo scopo di tutelare i diritti di tutti gli individui, quella che decide che un bambino appena nato debba respirare l’aria pesante di un luogo di detenzione anziché l’odore di un tiepido nido. Sembra quasi che questi bambini siano macchiati da una sorta di peccato originale; solo per il fatto di essere figli di una mamma che ha commesso uno sbaglio (grande o piccolo che sia), essi ricevono una condanna che possiamo definire “intrauterina”, perché ancor prima di venire alla luce è già stata allestita la “loro cella”, dove avranno il privilegio di essere allattati dalla propria madre. Ora, se ancora vogliamo che quel pezzo di carta chiamato “Costituzione” continui a conservare un minimo di credibilità e non sia riesumato esclusivamente nelle cosiddette cerimonie ufficiali, quando il fulgido amor di patria riempie le coscienze di tutti quanti, in special modo delle “personalità”, è bene che ci fermiamo a riflettere sulla valenza della parole che in esso sono contenute. Le domande che ci poniamo sono due. Forse che un bambino non debba essere riconosciuto come cittadino? Ed ancora, costringerlo a scontare l’altrui colpa che, come un male ereditario, lo perseguita fin dalla nascita, è un modo per tutelare la dignità sociale, personale ed umana del bambino? Ed ecco il secondo nodo critico: la presenza nelle carceri di individui portatori di disabilità motorie e/o sensoriali. Gli ultimi dati relativamente al numero di detenuti disabili risalgono al 2006 (questo la dice lunga su come venga affrontato questo problema, sempre che venga preso in considerazione come tale) e indicavano in 500 il numero di persone ristrette affette da disabilità. A livello normativo, la disabilità in carcere è regolata dall’art. 47 ter dell’Ordinamento penitenziario relativo alla detenzione domiciliare: in base al comma 3, “la pena della reclusione non superiore ai 4 anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando trattasi di persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali”. Affinché ciò sia possibile è necessaria la perizia di un medico che tuttavia può essere smentita dal tribunale di sorveglianza. Inoltre, c’è l’articolo 11 dell’Ordinamento penitenziario, che contempla i casi in cui il detenuto entri sano e si ammali all’interno del carcere. In questa eventualità, il direttore, prima del magistrato, può disporre il ricovero in ospedale appunto con articolo 11. In tutta Italia sono quattro le strutture con sezioni attrezzate per accogliere minorati fisici. Esse sono situate a Castelfranco Emilia, Parma, Ragusa e Turi ed hanno una capienza complessiva di 143 posti, registrando tuttavia solamente 21 presenze. Invece, per i detenuti con disabilità fisica, esistono sezioni attrezzate in 7 istituti per una capienza di 32 posti e 16 presenze nelle città di Udine, Pescara, Parma, Perugia, Fossano, Castelfranco Emilia e Brindisi. Infine presso alcuni istituiti sono state predisposte sezioni di osservazione destinate a detenuti con problemi psichici. In conclusione, qui non si ha l’obiettivo di muovere delle semplici critiche al sistema carcerario, che pur presenta numerose falle. Questo è più un appello alla civiltà e al rispetto dei diritti umani. Se è vero, come è vero, che esiste in Italia l’istituto dell’affidamento in prova presso i servizi sociali, che esiste la possibilità di scontare la pena in luoghi e modi alternativi al carcere, e se è altrettanto vero, come è vero, che la scarsa lungimiranza e la tendenza forcaiola dell’attuale classe politica non permette di applicare tali istituti ai detenuti colpevoli, che tuttavia ne potrebbero beneficiare, crediamo che offrire tale possibilità ad individui innocenti, a semplici “figli della colpa” sia non soltanto un gesto di giustizia ma un dovere sociale, etico e morale. Giustizia: Fini; irrisolto il nodo del sovraffollamento delle carceri Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2010 Non è usuale che un presidente della Camera presenti un libro che racconta la storia recente di un “delitto di stato”. Il presidente della Camera è Gianfranco Fini, il libro è “Vorrei dirti che non eri solo - storia di Stefano mio fratello”, scritto da Ilaria Cucchi con Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della sera. Il “delitto di stato” è la morte di Stefano (così si legge nella prefazione), arrestato la notte del 15 ottobre perché in possesso di una modica quantità di stupefacenti, entrato in carcere in buone condizioni di salute e restituito cadavere alla famiglia una settimana dopo, durante la quale il papà, la mamma e la sorella non sono riusciti a vederlo, a parlargli e a sapere come stava. Silenzi, abusi, menzogne, illegalità hanno scandito quei7 giorni, trasformando una tragedia familiare in una sconfitta delle istituzioni. Ilaria ha sempre chiesto “verità e giustizia”, affinché Stefano “diventi simbolo di dignità e non di morte”. No, “non è usuale”, ammette Fini, che un libro così sia presentato proprio alla Camera. “Lo abbiamo fatto coscientemente e volutamente - spiega - perché questa è una tragedia con dei riflessi che riguardano la società e che devono essere colti dalla politica per poter essere all’altezza delle aspettative legittime dei cittadini verso le istituzioni”. Aspettative che Ilaria, nel suo dignitoso dolore, non ha mai smesso di avere, anche ora che sul banco degli imputati non siede più suo fratello ma lo stato, per accertare le responsabilità individuali di quella tragedia, privata e pubblica. “Uno scandalo della democrazia”, la definisce il direttore di Repubblica Ezio Mauro. La determinazione della famiglia Cucchi tiene accesi i riflettori su quella vicenda, comune a tanti altri uomini usciti cadavere dalle galere italiane. Tossicodipendenti come Stefano, e soprattutto stranieri, senza né famiglia né casa e spesso senza neppure un nome. “Tanti casi Cucchi rimasti in gran parte nel silenzio o archiviati in fretta”, dice Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto”, ricordando la “macabra contabilità del carcere”: 170 morti nel 2010, 60 suicidi, con una frequenza 20 volte superiore a quella che si registra “fuori”. Eppure, osserva, “il corpo dei cittadini è sacro e lo stato deve garantirne l’integrità quando viene affidato a uno dei suoi apparati, come il carcere, pena la delegittimazione giuridica, morale e politica dello stato stesso”. Ma le nostre carceri non sono in grado di assolvere questo compito perché - come peraltro ammise persino il ministro della giustizia Angelino Alfano due anni fa - sono fuori dalla Costituzione. Fuorilegge. Fini ricorda che la morte di Stefano ha messo in risalto anche “l’irrisolta questione del sovraffollamento carcerario” (la popolazione è a quota 69mila su 44mila posti), delle “drammatiche condizioni di vita dei detenuti” e del “rispetto” dei diritti fondamentali dei reclusi, dovuto a “chiunque, italiano 0 straniero, sia in custodia dello stato”. Principi sui quali “è intervenuto con forza” anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Principi rimasti sulla carta: le nuove carceri non si vedono, i direttori sono in stato di agitazione, i detenuti si rivolgono sempre più numerosi alla Corte dei diritti dell’uomo (già 1.300 le richieste), la polizia penitenziaria è ai minimi termini. E si continua a morire di carcere. Giustizia: Fini; inaccettabile che su morte Stefano Cucchi nessuno abbia fatto ammenda Agi, 16 novembre 2010 “Reputo inaccettabile, indegno di un Paese civile, che nessuno abbia ancora fatto ammenda per quella tragica notifica con la quale la mamma di Stefano apprese, solo incidentalmente, della morte del figlio mentre la stavano informando della volontà di procedere all’autopsia”. Gianfranco Fini parla della tragica morte di Stefano Cucchi e aggiunge che “è agghiacciante pensare che nessuno avvisò in modo adeguato, rispettoso del dramma dei genitori e della dignità di Stefano, i famigliari dell’avvenuto decesso del giovane”. A Montecitorio, alla presenza anche di Luigi Manconi, presidente dell’associazione A Buon Diritte, e di Ezio Mauro, direttore de la Repubblica, si presenta “Vorrei dirti che non eri solo”, il libro scritto da Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi. Fini esprime “umana vicinanza ai genitori, la signora Rita e il signor Giovanni, così profondamente colpiti da una tragedia che ha distrutto le loro vite e che ha scosso e commosso l’Italia intera”. Difficile, osserva, “parlare del caso Cucchi senza rischiare di ferire ancora una volta la sua memoria e la sua famiglia, la fiducia dei cittadini verso le strutture dello Stato” perché, incalza, “quello di Stefano Cucchi, infatti, è un caso che, nel suo svilupparsi, passa da una dimensione privata a una dimensione pubblica, sociale”. “La sua storia, tra l’altro, ha messo in luce anche l’irrisolta questione del sovraffollamento del sistema carcerario italiano e delle drammatiche condizioni in cui vivono i detenuti: argomento sul quale il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è intervenuto con forza. Né si può sottacere, con amara constatazione, che quello relativo ai diritti dei detenuti - osserva ancora Fini - è un problema che riguarda non soltanto l’Italia, che sconta peraltro una pesante penuria di organico impegnato nelle carceri”. “Quella di Stefano - dice Fini - è innanzitutto una storia di diritti negati che si è consumata in appena una settimana. Stefano è morto - ricorda il presidente della Camera - perché chi avrebbe potuto e dovuto garantire l’assistenza sanitaria evidentemente non lo ha fatto, come emerge dalla lettura della relazione svolta dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale, presieduta dal sen. Ignazio Marino”. “Il dubbio terribile che agita le nostre coscienze - osserva Fini - è che, talvolta, chi rappresenta lo Stato non metta in atto nei confronti dei detenuti quei sistemi di garanzia che costituiscono un elemento fondamentale di ogni democrazia. Dobbiamo ricordare che il detenuto è per prima cosa un uomo. Concordo con il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che a suo tempo affermò si doveva evitare che Stefano Cucchi morisse. Uno Stato democratico assicura alla giustizia e può privare della libertà chi delinque. Ma nessuno può essere privato del diritto alla salute. Personalmente ritengo che chiunque, italiano o straniero, si trovi a essere in custodia dello Stato debba poter contare con certezza che i suoi diritti siano pienamente tutelati”. Fini evoca le fotografie di Stefano, “diffuse dalla famiglia non senza molti travagli interiori”, che “ci devono indurre a una dolorosa riflessione”: “È bene precisare - rileva - che Stefano non è morto perché era tossicodipendente. Il processo in corso stabilirà come sono andati i fatti e accerterà le responsabilità. Dobbiamo confidare nella magistratura per ristabilire la giustizia e per evitare che vi possano essere delle macchie che infanghino i leali servitori dello Stato, la stragrande maggioranza, ai quali deve andare tutta la nostra gratitudine per il quotidiano impegno nella lotta alla criminalità, nella tutela dell’ordine pubblico e per la custodia, la cura e l’assistenza ai detenuti”. E Fini tiene anche a chiedere che “le istituzioni democratiche debbano essere sempre permeate da un forte senso di umanità che non può, in nessuna circostanza, venir meno”. Giustizia: Osapp; dalle carceri numeri che allarmano, politica si assuma responsabilità Il Velino, 16 novembre 2010 “L’aumento della popolazione detenuta nelle carceri italiane continua imperterrito e oggi siamo alla cifra record di 69.158 presenze per 44.868 posti disponibili”. A lanciare l’ennesimo allarme sulle condizione del sovraffollamento penitenziario è Leo Beneduci segretario generale del’Osapp, l’organizzazione sindacale autonoma della Polizia Penitenziaria. “I dati che riceviamo e che leggiamo sono, infatti, ben più che preoccupanti di quello che può apparire e si passa dal 20 per cento di detenuti in più delle presenza regolamentare in Puglia (+808) all’11,3 per cento in più in Veneto (+341), il 9,7 per cento in più in Emilia Romagna (+389) il 7 per cento in più in Lombardia (+616) e in Liguria (+84). Nel mentre alcuni progetti di legge essenziali quali il ddl 2313 già approvato dalla Camera dei deputati e che tra l’altro avrebbe consentito l’assunzione di 1.800 poliziotti in più si è inspiegabilmente arenato al Senato della Repubblica - indica il sindacalista - e da agosto ad oggi l’attenzione della politica nei confronti dei problemi penitenziari è andata sempre più scemando. Visto che non sembrano esserci alternative al carcere in Italia, come anche il recente pacchetto - sicurezza varato dal governo andrebbe a dimostrare - conclude Beneduci - è quanto mai urgente una comune assunzione di responsabilità da parte della politica, dei partiti e della stessa amministrazione penitenziaria. Prima che il sistema deflagri definitivamente e a farne le spese siano i poliziotti penitenziari in servizio nelle carceri italiane”. Giustizia: mancano gli agenti, ma il ministro assume bomber di Francesco Dente Vita, 16 novembre 2010 Istituti invivibili, personale ridotto all’asso e concorsi bloccati. Ma in via Arenula le porte si aprono solo per selezionare cinque calciatori del team dei Baschi Azzurri. Il bando è chiaro. Sono richiesti sana e robusta costituzione fisica, altezza non inferiore a 165 centimetri e buona vista. I candidati, soprattutto, dovranno avere un apparato dentario in grado di assicurare la funzione masticatoria. Chi ha perso qualche incisivo o molare, tuttavia, può stare tranquillo. Sarà ammesso a condizione che il numero di denti mancanti o sostituiti da protesi non sia superiore a 16. Eh sì. Perché per essere bravi calciatori non basta avere buone gambe. Servono anche canini affilati. Come si fa altrimenti ad azzannare gli avversari? Il requisito, apparentemente bizzarro, è incluso nell’avviso di concorso con cui il ministero della Giustizia ha avviato le procedure per la selezione di cinque calciatori che dovranno militare nell’Astrea Calcio, la squadra della Polizia penitenziaria che gioca nel campionato dilettantistico di serie D. Basta leggere il primo articolo del bando per accorgersi però che la storia dei denti non è affatto singolare. I vincitori del concorso, riportiamo testualmente, saranno “nominati agenti di Polizia penitenziaria nel ruolo maschile”. Chi sarà selezionato, insomma, giocherà fino a quando avrà voglia o riuscirà a far gol e poi passerà nei ruoli come agente di custodia. A vita. Un concorso che, a parte i dubbi sulla scorciatoia che assicura il posto fisso grazie a due tiri in porta, suona come una beffa. Specie in questo momento. Mentre le carceri scoppiano (68.258 detenuti al 30 giugno 2010), le guardie sono sottoposte a turni pesanti (4 suicidi nel 2010), i suicidi dei detenuti si susseguono (53 nel 2010), gli istituti sono sottoutilizzati per carenza di personale (è il caso di Rieti, secondo le denunce dei sindacati riprese da una recente relazione della Corte dei Conti), i concorsi per le assunzioni ordinarie di agenti languono e, quando saranno effettuati (il ministro Alfano ha promesso 2mila assunzioni), riusciranno a rimpiazzare a fatica chi è andato in pensione. Non sono certo i primi “atleti di Stato”, potrebbe obiettare qualcuno citando il titolo dell’interessante volume di Stefano Frapiccini. L’Italia, infatti, come i Paesi dell’ex blocco sovietico, recluta tramite concorso atleti di livello nazionale nei gruppi sportivi militari, si pensi alle Fiamme Azzurre o Gialle, e garantisce loro un posto a fine carriera nelle diverse forze armate e corpi di polizia. Il punto è che se a qualcuno può apparire comprensibile finanziare grandi campioni destinati ad arricchire il medagliere nazionale, è il caso del carabiniere Alberto Tomba, non si riesce a capire quale beneficio tragga l’Italia dal sostenere i costi di un club di calcio che gioca in serie D. E resta anche un interrogativo tecnico. Si può davvero allestire una squadra tramite concorso? Giustizia: Ong denuncia; azienda di Milano vende veleno agli Usa per esecuzioni capitali di Enrico Franceschini La Repubblica, 16 novembre 2010 La Ong Reprieve: “Da Milano l’anestetico del cocktail per le iniezioni letali. La Hospira incaricata di produrre Sodium Thiopental, usato per le esecuzioni. L’Italia non ha la pena capitale, ma potrebbe presto contribuire attivamente a uccidere condannati a morte, a dispetto delle nostre leggi, dei comandamenti cristiani, della morale cattolica. Un’azienda farmaceutica con base vicino a Milano, la Hospira Spa è stata incaricata di produrre Sodium Thiopental. Si tratta dell’anestetico utilizzato per le esecuzioni con iniezione letale negli Stati Uniti. Da gennaio la società milanese, sussidiaria di una multinazionale americana, dovrebbe esportare la sostanza negli Usa, che ne sono rimasti a corto e non possono più giustiziare nessuno con questo metodo, usato in 35 Stati su cinquanta, finché non riceveranno nuove dosi. A scoprire questa “Italian connection” è stata Reprieve, l’organizzazione umanitaria britannica che si batte contro la pena capitale e la tortura in tutto il pianeta, e che ha anticipato a Repubblica l’appello inoltrato questa settimana all’azienda milanese. L’iniezione letale è un micidiale cocktail di tre sostanze, una delle quali è un anestetico dalle caratteristiche particolari, il Sodium Thiopental appunto, che dovrebbe garantire di uccidere i condannati “con gentilezza”. La Hospira Usa, l’unica compagnia americana che produceva questo farmaco, qualche mese fa ne ha interrotto la produzione per problemi nel suo stabilimento negli Stati Uniti. Ben presto, i penitenziari dei 35 stati che compiono le esecuzioni con tale sistema sono rimasti senza anestetico. A quel punto hanno disperatamente cominciato a cercarlo altrove. Lo stato dell’Arizona, per esempio, il mese scorso se ne è procurato un quantitativo prodotto da un’altra azienda farmaceutica in Gran Bretagna, ma la Corte Suprema dell’Arizona ha temporaneamente bloccato un’esecuzione, non avendo garanzie che il farmaco inglese avesse le stesse qualità di quello prodotto in America, ovvero permettesse una morte “senza atroci sofferenze”. La condanna in questione è stata poi ugualmente eseguita, uccidendo Jeffrey Landrigan, nonostante i dubbi sull’anestetico e nonostante il giudice che lo aveva riconosciuto colpevole si fosse dichiarato pronto a un ripensamento di fronte a nuovi elementi sulle circostanze del delitto di cui era imputato. Ma nel frattempo Reprieve (il nome significa “sospendere”, riferito alla pena di morte, tra i patroni dell’associazione figurano personalità come lo scrittore Alan Bennett, l’attrice Julie Christie, l’architetto Richard Rogers) ha fatto causa alla ditta britannica, come ha scritto il Guardian, chiedendo che venisse vietata la vendita del farmaco negli Usa in base a una legge europea (Eu Council Regulation 1236/2005) che definisce illegale l’esportazione di prodotti “utilizzabili per la pena capitale, la tortura o altri trattamenti crudeli e inumani”. A quel punto, pur di mandare avanti lo stesso la fabbrica della morte, lo stato dell’Oklahoma ha proposto di usare un anestetico usato comunemente dai veterinari per addormentare gli animali. Serviva però una soluzione più a lungo termine. E così Reprieve è venuta a sapere che Hospira ha affidato alla propria sussidiaria italiana, la Hospira Spa di Liscate, in provincia di Milano, la produzione di Sodium Thiopental da destinare ai penitenziari americani, almeno fino a quando la produzione non riprenderà negli Stati Uniti. “Non solo, abbiamo scoperto che la fabbrica milanese è stata già usata in passato per questo scopo”, dice a Repubblica l’avvocato Clive Stafford Smith, direttore di Reprieve, uno dei difensori dei diritti umani più famosi del mondo, autore di decine di mozioni contro la pena di morte e la tortura, dalle carceri degli Usa fino ai detenuti di Guantanamo. “Ora ci sono due modi per bloccare questa iniziativa. Il primo, il più semplice, è una decisione volontaria di Hospira Spa di fermare la produzione del farmaco o di impedire che venga esportato negli Usa per le iniezioni letali. Il secondo è che il governo italiano emetta un bando all’esportazione di questo anestetico”. Livia Firth, ambasciatrice di Reprieve per l’Italia, ha scritto ieri una lettera a Francesco Colantuoni, amministratore delegato di Hospira Spa, per chiedergli un incontro: “Siamo sicuri che non vorreste facilitare le esecuzioni, e soprattutto non in Italia, ove la lotta contro la pena di morte è particolarmente forte”, afferma la lettera. “La vostra ditta può evitare lo scandalo di essere direttamente coinvolta nella pratica barbarica della pena di morte”. Giustizia: Cgil; contrari a progetto per una nuova militarizzazione del carcere Agenparl, 16 novembre 2010 Il sottosegretario Caliendo ha confermato pubblicamente che esiste un progetto di riorganizzazione del Ministero della Giustizia che vuole accorpare il personale dei tre Dipartimenti sotto l’egida dell’Organizzazione Giudiziaria. Ciò comporterebbe lo smantellamento del Dipartimento della Giustizia Minorile e la gestione separata del personale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria tra polizia penitenziaria e personale del comparto Ministeri, con la conseguente perdita della specificità di questi due delicati settori. Ciò significherebbe una grave retrocessione nel campo della rieducazione e del trattamento carcerario per i minori e per gli adulti. Significherebbe una gravissima scelta politica che tende ad identificare il carcere con la parte meramente repressiva senza tener conto del valore più importante, scritto nella Costituzione, del trattamento mirato al reinserimento del detenuto nella società. Come Fp-Cgil ci opporremo al tentativo di una nuova militarizzazione del carcere che tanto abbiamo combattuto in passato. Giustizia: Nicolò Amato; al ministro Conso proposi misure più efficaci del 41bis Adnkronos, 16 novembre 2010 “Non sapevo, non so e non mi interessa sapere di trattative”. Piuttosto, “fui io ad avanzare la proposta di cercare forme di lotta alla mafia più serie, dure ed efficaci di quelle rappresentate dal 41-bis di allora”. L’ex magistrato e capo del Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Nicolò Amato, in un’intervista all’Adnkronos, si dice “indignato dei sospetti” e risponde alle rivelazioni secondo le quali fu lui a “suggerire” nel marzo del 1993, al ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, la revoca del regime carcerario duro per 140 mafiosi detenuti nel carcere palermitano dell’Ucciardone. Una delle richieste avanzate da Cosa Nostra allo Stato, nella presunta trattativa che si sarebbe consumata tra il 1992 e il 1993 tra stragi e ‘papellì. La decisione di non prorogare quei provvedimenti, effettivamente ci fu, nel novembre dello stesso anno: “Una scelta che ho fatto io, per evitare altre stragi”, ha detto Conso la scorsa settimana davanti alla Commissione Antimafia. “Il 41 bis l’ho introdotto io, d’accordo con Claudio Martelli, nell’estate del 1992”, rivendica invece Amato, ricordando il provvedimento con il quale, dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, “di notte riaprimmo l’Asinara e Pianosa” per trasferirci i detenuti per mafia. L’appunto (75 pagine, datato 6 marzo 1993, ndr) con il quale Amato avrebbe suggerito a Conso di attenuare il regime carcerario per i mafiosi dell’Ucciardone, “bisogna leggerlo tutto” afferma l’ex capo del Dap: “identificare questo appunto come una proposta per eliminare il 41 bis vuol dire distorcerlo completamente”. Nel ricordare il clima di quegli anni, nei quali lo Stato usciva vincitore dalla battaglia contro il terrorismo politico (Amato, dalla Procura di Roma seguì alcune delle inchieste e dei processi più importanti, tra cui il caso Moro) e si trovava ad affrontare quello mafioso, l’ex magistrato fa una premessa: “Per ragioni culturali sono sempre stato contrario a rendere permanente l’aggravamento delle condizioni di detenzione al di fuori di specifiche esigenze di giustizia e di emergenza”. E infatti, spiega, “ho assunto il mio incarico nel gennaio del 1983 e una delle prime iniziative che presi fu l’abolizione dell’Articolo 90 dell’allora Legge Penitenziaria, che era il padre diretto del 41 bis, che all’epoca si applicava prevalentemente ai terroristi”. Dopo aver soppresso l’Articolo 90 - ricorda Amato - gli omicidi in carcere finirono, i suicidi si ridussero, non ci furono più evasioni e rivolte con la frequenza di prima”. Nell’appunto del 1993, sostiene Amato, c’era la proposta di eliminare alcune delle restrizioni a suo giudizio meno efficaci. Come quella sul numero di ore d’aria, o sulla consistenza dei pacchi per i mafiosi detenuti. La censura della corrispondenza, spiega, non veniva abolita, ma se ne rimandava l’autorizzazione al magistrato, “come prevede la Costituzione”. Quanto ai colloqui, era inutile, secondo Amato, limitarne il numero, come prevedeva il 41bis, ma piuttosto, andavano videoregistrati. “Nell’appunto indirizzato a Conso lo proponevo. Fui io il primo in Italia a farlo, e infatti ora il 41 bis lo prevede. Questo significa forse aiutare la mafia? Anche perché - conclude Amato - la trattativa, se di doveva fare, i mafiosi la facevano con personalità di rango superiore, non certo con un funzionario del ministero”. Giustizia: spedita busta con proiettile al Garante detenuti del Lazio Angiolo Marroni Apcom, 16 novembre 2010 Una busta, con un proiettile calibro 40 Smith & Wesson e un messaggio intimidatorio firmato “Brigate Rosse Nucleo Galesi”, è stata recapitata al Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Secondo quanto reso noto dal Garante, la lettera, spedita nei giorni scorsi, è arrivata nella sede del Garante questa mattina. Dell’accaduto sono state immediatamente informate le forze dell’ordine. Nel messaggio intimidatorio c’è scritto: “Ultimo avviso: i prossimi non arriveranno con la posta. Dimettiti. Onore ai compagni caduti, onore al compagno Mario Galesi”. La firma è “Brigate Rosse - Nucleo Galesi”. È la terza volta che al Garante dei diritti dei detenuti del Lazio vengono indirizzate pesanti intimidazioni da parte di anonimi che si firmano Brigate Rosse: la prima volta fu nel febbraio del 2007, la seconda a novembre 2009. “In questi ultimi mesi - spiega Angiolo Marroni - abbiamo lavorato per evitare che la pesante situazione che si vive nelle carceri potesse deflagrare. Evidentemente questo ruolo di mediazione sociale che stiamo svolgendo fra reclusi, istituzioni e società civile, da fastidio a chi vuole portare la tensione nel Paese oltre il livello di guardia. Non saranno le intimidazioni, per quanto violente, a modificare la nostra linea di condotta. Continueremo a lavorare con il medesimo impegno che fin qui abbiamo avuto”. I messaggi di solidarietà Rutelli - “Voglio esprimere il mio sconcerto per il grave episodio di intimidazione di cui è rimasto vittima Angiolo Marroni, garante dei detenuti per la regione Lazio”. Così in una nota Francesco Rutelli, leader di Alleanza per l’Italia. “A Marroni, che conosco da molti anni, va la mia totale solidarietà umana e politica, e la certezza che questo vile episodio - conclude Rutelli - non avrà alcun rilievo sulla sua attività futura, su cui - anche a nome di Alleanza per l’Italia - rinnovo l’apprezzamento con l’incoraggiamento a proseguire nel difficile lavoro quotidiano”. Pomarici - “Le Br sono state sconfitte militarmente dallo Stato, politicamente dalle stesse masse cui si rivolgevano e moralmente da tutta la società civile. Il loro simbolo nefasto ed i loro metodi, però, servono ancora come scudo per intimidire nell’ombra. Desidero esprimere tutta la mia solidarietà ad Angiolo Marroni, che lavora a tempo pieno per garantire a tutti i detenuti diritti e una qualità della vita migliore; un uomo che abbiamo il dovere di proteggere da questi rigurgiti di odio”. Lo dice in una nota Marco Pomarici, presidente del Consiglio comunale di Roma. Chiti - “L’invio di una busta contenente un proiettile e un messaggio intimidatorio nei confronti del Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, è un atto grave e inaccettabile. Le parole rivolte a Marroni dalle sedicenti Brigate Rosse contengono accenti deliranti, elementi di violenza e intolleranza incompatibili con il dibattito democratico”. Lo dice in una nota Vannino Chiti, commissario del Pd Lazio e vicepresidente del Senato, che conclude: “Ad Angiolo Marroni vanno la mia solidarietà e il sostegno affinché continui a svolgere il suo importante lavoro con immutata dedizione e passione”. Di Giovan Paolo - “Non è la prima volta che si tenta di intimidire il garante dei detenuti nel Lazio Marroni. A lui va tutta mia solidarietà“. Lo afferma il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, dirigente del partito nel Lazio. “Il suo - continua Di Giovan Paolo - è un lavoro quotidiano a favore dei detenuti e per eliminare le storture del sistema. Molti carcerati vedono in lui una figura di riferimento”. Scalia - “Esprimo solidarietà ad Angiolo Marroni per l’intimidazione di cui è stato fatto oggetto. Marroni è un punto di riferimento per tanti detenuti nella nostra Regione. È una figura di garanzia fondamentale”. Lo afferma il consigliere Pd alla Regione Lazio Francesco Scalia. Montino - “La busta con proiettili e la lettera a firma Brigate Rosse indirizzata al garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, ci riporta indietro nel tempo agli anni bui della nostra democrazia. È solo l’ultimo di una serie di messaggi intimidatori che Istituzioni e Forze dell’ordine hanno il dovere di non sottovalutare soprattutto perché indirizzati a una persona che da anni lavora con grande spirito di sacrificio in difesa dei diritti dei detenuti. Ad Angiolo Marroni va la mia solidarietà e, oggi ancora più di ieri, l’apprezzamento per il suo lavoro encomiabile”. Lo dice il capogruppo Pd alla Regione Lazio, Esterino Montino. D’Annibale - “Desidero esprimere la mia solidarietà ad Angiolo Marroni per l’ignobile atto di intimidazione di cui è stato fatto oggetto. Mi auguro che le Forze dell’ordine individuino al più presto gli autori delle minacce. Conosco il coraggio e la determinazione di Marroni. Per questo sono convinto che non si lascerà intimidire da azioni tanto spregevoli e continuerà ad essere, nel suo ruolo di Garante, un sicuro punto di riferimento per i detenuti di tutto il Lazio”. Lo dice in una nota il consigliere Pd alla Regione Lazio, Tonino D’Annibale. Masino: “Dopo anni bui che il nostro paese ha attraversato, nonostante aver sconfitto le Br assistiamo ad un episodio a dir poco sconcertante”. È quanto dichiara in una nota il consigliere capitolino di Roma Capitale, Giorgio Stefano Masino (Pdl). “Esprimo tutta la mia solidarietà ad Angiolo Marroni - prosegue Masino - per il gravissimo atto nei confronti di chi è parte viva e voce in questa città. Sono certo che la forza di Angiolo è superiore a questi episodi isolati da parte di pseudo nostalgici. Ti invito ad andare avanti come nella tua quotidianità - conclude - esprimendoti tutta la mia solidarietà e vicinanza”. Zingaretti - Voglio esprimere tutta la mia solidarietà al Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, che da anni si adopera con ostinazione e convinzione affinché ai detenuti vengano garantiti tutti i diritti. Sono certo che queste forme di violenza e intimidazione non scalfiranno in alcun modo la sua determinazione e il suo impegno quotidiano a lavorare perché nelle carceri le condizioni di vita siano accettabili”. Lo dichiara, in una nota, il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti. Lucherini - “Minacce deliranti che sono convinto non fermeranno l’attività di Angiolo Marroni che da anni svolge con grande impegno e dedizione la sua funzione di garante dei detenuti. La sua attività di controllo e di denuncia delle condizioni delle carceri della Regione è sempre stata ispirata dal senso delle istituzioni e dall’impegno in difesa dei diritti dei carcerati. Queste minacce appaiono tanto incomprensibili quanto gravi e in questo frangente occorre che le istituzioni stesse sappiano dare una risposta adeguata. Ad Angiolo vanno tutta la mia solidarietà e la mia stima personale e politica”. Lo ha dichiarato Carlo Lucherini, segretario Pd della Provincia di Roma e consigliere regionale del Lazio. Leodori - “Purtroppo un ennesimo atto intimidatorio nei confronti di Angiolo Marroni al quale va tutta la solidarietà del Gruppo del Pd della Provincia di Roma”. È quanto dichiara, in una nota, il capogruppo del Pd provinciale Daniele Leodori in merito alle minacce ricevute questa mattina dal garante dei detenuti del Lazio. “Ci auguriamo - aggiunge - si faccia presto luce su questi episodi inquietanti e da non sottovalutare. Siamo anche certi che il garante saprà, senza esitazioni, mantenere il suo impegno per salvaguardare i diritti dei detenuti e per il miglioramento delle condizioni di vita nei luoghi di detenzione”. Polverini - “Ad Angiolo Marroni va tutta la solidarietà mia e della Regione Lazio per le gravi minacce ricevute”. È quanto dichiara in una nota il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini condannando “un gesto vile e odioso che di certo non condizionerà l’operato del nostro garante dei detenuti impegnato insieme all’amministrazione regionale a migliorare le condizioni di vita nelle carceri del Lazio. Mi auguro - conclude Polverini - che gli autori di questo preoccupante atto intimidatorio siano individuati e puniti”. Alemanno - “A nome mio e tutta la Giunta capitolina esprimo solidarietà e vicinanza ad Angiolo Marroni, vittima di un nuovo vergognoso episodio di intimidazione”. Lo dichiara in una nota il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. “Ci auguriamo che le forze dell’ordine individuino al più presto i responsabili delle minacce deliranti che gli sono state rivolte e li assicurino alla giustizia. Siamo certi - conclude il Sindaco - che Marroni continuerà con serenità il suo lavoro di garante dei detenuti forte della professionalità e della sua grande esperienza”. Forte - “Un atto intimidatorio gravissimo nei confronti di Angiolo Marroni, a cui indirizzo tutta la mia solidarietà personale e istituzionale”. Lo dichiara in una nota Aldo Forte, assessore alle Politiche sociali e Famiglia della Regione Lazio. “Certe manifestazioni antidemocratiche non devono essere prese sottogamba, ma vanno denunciate con forza - conclude Forte - Ad ogni modo sono certo che Marroni continuerà il suo impegno per la difesa dei detenuti del Lazio, nella speranza che le forze dell’ordine assicurino al più presto alla giustizia gli artefici di questo vile gesto”. Gasbarra - “Esprimo la vicinanza e la totale solidarietà al garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, che da anni lavora con grande serietà e passione per i diritti dei detenuti. L’episodio è senza dubbio allarmante anche perché in questi mesi Marroni è già stato più volte oggetto di tentativi di intimidazione che non possono essere sottovalutati”. Lo scrive in un comunicato il deputato del Pd, Enrico Gasbarra. “Conoscendo Marroni - conclude - so che proseguirà il suo delicato e complesso lavoro con ancor più determinazione”. Di Paolo - “Ad Angiolo Marroni va tutta la mia solidarietà. Gesti vigliacchi e intimidatori, come quelli subiti, non impediranno al garante dei detenuti del Lazio di continuare a operare con la massima serenità, ne sono certo”. Lo ha dichiarato in una nota l’assessore regionale alle Attività produttive e alle Politiche dei rifiuti, Pietro Di Paolo. Perilli - “Solidarietà e vicinanza al garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, che è stato ancora oggetto di un gesto ignobile che non riuscirà comunque a screditare il grande lavoro svolto in questi anni. A lui il pieno sostegno per proseguire il difficile cammino intrapreso nella lotta della garanzia dei diritti dei detenuti”. Lo dichiara in una nota il consigliere regionale del Pd, Mario Perilli. Uil - La Uil di Roma e del Lazio esprime in una nota “piena solidarietà al garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, da anni impegnato con passione e convinzione affinché ai detenuti nelle carceri del Lazio vengano garantiti tutti i diritti, destinatario di un messaggio minaccioso ed oltraggioso nei confronti di chi ha fatto ragione di vita la difesa dei deboli e dei socialmente svantaggiati”. La Uil, in conclusione, si augura che “la magistratura faccia chiarezza su questo grave episodio che evoca nella memoria di tutti i democratici uno dei periodi più brutti e problematici della storia repubblicana”. Ferranti e Touadi - “Esprimiamo solidarietà al Garante del detenuti del Lazio Angelo Marroni in seguito alle gravissime minacce che ha ricevuto”. Lo affermano i deputati del Pd Donatella Ferranti e Jean - Leonard Touadi. “In un momento di grave allarme per la condizione delle carceri nella nostra regione e in Italia, la figura del Garante e la dedizione con la quale Angelo Marroni svolge il suo compito rappresentano un contributo prezioso finalizzato a tutelare i diritti dei detenuti e il rispetto dello stato di diritto”, aggiungono. “Siamo convinti - concludono - che il garante proseguirà nella sua opera instancabile di mediatore tra le istituzioni, le associazioni di difesa dei diritti dei detenuti e i famigliari, per la piena applicazione delle norme che regolano la condizione carceraria e le finalità della pena nel nostro ordinamento e nella nostra Carta costituzionale”. Sicilia: Falcone (Pdl); rifinanziare la Legge Fleres per il reinserimento dei detenuti Adnkronos, 16 novembre 2010 “Bisogna rifinanziare la Legge 16, meglio conosciuta come Legge Fleres per i detenuti”. È quanto ha affermato oggi il Parlamentare regionale siciliano Marco Falcone, intervenendo in una sessione di studi alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Kore di Enna. “Oggi si parla tanto di rieducazione e risocializzazione dei detenuti - ha aggiunto il Parlamentare - e non sempre le Istituzioni colgono o sostengono gli strumenti che si sono dimostrati efficaci per un pieno reinserimento, degli stessi, nella società. La legge Fleres prevede l’erogazione all’ex detenuto di un contributo di venticinquemila euro per impiantare una piccola attività che gli consenta di vivere senza delinquere. L’esperienza dimostra che tutti quei detenuti che hanno richiesto ed ottenuto il contributo non sono più tornati in carcere. Il rifinanziamento di questa legge - ha concluso Falcone - sarebbe un grosso segnale di attenzione nei confronti di chi, pur avendo sbagliato, è pronto a cogliere un’altra chance di vita concessagli dalla società”. Lazio: denuncia sindacati dei medici; nelle carceri manca rispetto della salute Dire, 16 novembre 2010 Lo stato di salute dei detenuti versa in uno stato di grave incertezza. A denunciarlo è il Coordinamento regionale intersindacale di sanità penitenziaria della regione Lazio (Fimmg, Ugl, Uil), che ha indetto una conferenza stampa oggi a Roma presso l’Ordine provinciale dei medici - chirurghi e odontoiatri. Una situazione, quella denunciata oggi, che è stata determinata anche dai vuoti normativi seguiti al decreto del presidente del Consiglio dei ministri del primo aprile 2008 che ha sancito il passaggio di tutto il personale e le funzioni della medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale. In particolare, il Coordinamento sindacale denuncia che il piano sanitario regionale 2010 - 2012 non ha saputo tenere conto delle specificità e delle peculiarità di un settore delicato come quello dell’assistenza sanitaria in carcere e che è stato elaborato senza alcuna consultazione dei medici penitenziari. “Il detenuto non ha alcuna possibilità di scelta e il sistema sanitario regionale non sta coprendo le carenze della sanità penitenziaria”, ha affermato Fausto De Michetti della Fimmg, sottolineando come non venga “rispettata la salute del cittadino detenuto”. “Le conseguenze - ha affermato ancora De Michetti - sono lunghi tempi di attesa e carenza di personale medico”. Inoltre, ha aggiunto l’esponente della Fimmg, “le prossime scadenze contrattuali prevedono l’allontanamento di molti medici”. In questo modo, ha proseguito, “il carcere viene a perdere personale con specificità professionali nel campo della medicina penitenziaria”. Infatti, fa notare il Coordinamento, se venissero applicate le norme che disconoscono il rispetto della legge 740 del 1970 si svuoterebbero improvvisamente le carceri di personale medico esperto, con probabile integrazione di personale ignaro di tutte quelle competenze specifiche che garantiscano una idonea assistenza sanitario all’interno delle carceri. Questi problemi sono peraltro acuiti dalla questione del sovraffollamento che secondo De Michetti contribuisce “all’attuale condizione di abbassamento del livello dell’assistenza sanitaria in carcere”. Ad aprire la conferenza stampa è stato il presidente dell’Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e degli odontoiatri, Mario Falconi, che ha detto: “Il detenuto che ha problemi di salute più o meno gravi non trova assistenza adeguata perché viene privilegiato l’aspetto della sicurezza rispetto a quello della salute”. Lombardia: Antigone; no alla "Cittadella della Giustizia" a sud di Milano Redattore Sociale, 16 novembre 2010 L’associazione chiede che il progetto del quartiere in cui concentrare il carcere, il tribunale e gli uffici nell’area di Porto di Mare alla periferia sud-est di Milano venga “definitivamente e integralmente revocato". Tra le oltre quattromila osservazioni al Piano di governo del territorio depositate in Comune anche quello di Antigone Lombardia in cui si chiede che il progetto di costruzione della “Cittadella della giustizia” (un quartiere in cui concentrare il carcere, il tribunale e gli uffici, ndr) nell'area di Porto di Mare, periferia sud-est di Milano venga “definitivamente e integralmente revocato". “Noi non difendiamo la situazione esistente - spiega la referente di Antigone Lombardia Alessandra Naldi - a San Vittore i detenuti vivono in una condizione di assoluto degrado e pessime condizioni igieniche. Ma la storia, anche recente, insegna che bisogna diffidare da questi progetti”. Le carceri di Opera e Bollate, ad esempio, avrebbero dovuto portare alla chiusura del penitenziario milanese, ma così non è stato. Da decenni si parla del trasferimento in periferia del carcere di San Vittore, collocato in una zona centralissima e quindi molto appetibile per gli immobiliaristi. I rischi all'orizzonte sono almeno due: “Temiamo che la costruzione di un nuovo super-carcere sia un'operazione speculativa - spiega Alessandra Naldi -. Oppure che questa nuova struttura vada ad aggiungersi all'esistente, senza portare alla chiusura di San Vittore”. Inoltre, trasferire il carcere in periferia “equivale a rimuovere, dimenticare il problema - osserva Alessandra Naldi. Senza dimenticare i disagi che questo comporterebbe per i parenti dei detenuti, volontari e avvocati che devono recarsi lì ogni giorno”. Toscana: la Polizia penitenziaria sventa 2 tentativi di evasione in 24 ore Ansa, 16 novembre 2010 “Solo la professionalità, la capacità, l’attenzione ed il senso del dovere del Personale di Polizia Penitenziaria in servizio nelle carceri della Toscana hanno impedito due clamorosi tentativi di evasione in meno di 24 ore nei penitenziari di San Gimignano e Livorno. Ieri a San Gimignano un detenuto straniero ed oggi a Livorno un ristretto italiano appartenente al circuito di Alta Sicurezza hanno tentato di evadere ma sono stati bloccati dai nostri bravi agenti. I colleghi della Polizia Penitenziaria sono stati particolarmente attenti ed hanno immediatamente dato l’allarme, impedendo quindi che le evasioni si verificassero. Bravissimi i colleghi di San Gimignano e di Livorno, che lavorano costantemente in condizioni difficili: San Gimignano registra la presenza di circa 400 detenuti presenti a fronte di 235 posti letto regolamentari e Livorno circa 500 presenti rispetto ai 280 posti letto. Gli organici della Polizia Penitenziaria invece sono carenti di ben 84 agenti in meno in entrambi le sedi. Questi gravi episodi confermano ancora una volta le gravi criticità del sistema carcere e richiamano le responsabilità di quanti, seppur più volte sollecitati dal Sappe ad intervenire sui problemi dei penitenziari regionali, non sono - di fatto - mai intervenuti, tralasciando anche il potenziamento delle misure di sicurezza finalizzare a sanare le criticità degli Istituti. Basti pensare che il detenuto che a Livorno ha tentato di evadere è salito su una gru posta all’interno del carcere per lavori di ristrutturazione, gru che avevamo segnalato essere pericolosa proprio per il possibile verificarsi di fatti del genere”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, in relazione a quanto avvenuto nelle carceri toscane di Livorno e San Gimignano. “La situazione penitenziaria è sempre più incandescente” sottolinea il Sappe. “Lo confermano drammaticamente il numero dei detenuti che a breve toccherà quota 70mila per 43mila posti letto, i gravi episodi che con cadenza pressoché quotidiana avvengono nei sovraffollati penitenziari italiani: parlo di periodiche manifestazioni e proteste di detenuti sempre più violente, le gravi e inaccettabili aggressioni ai nostri Baschi Azzurri, unici rappresentanti dello Stati impegnati 24 ore al giorno nella prima linea delle sezioni detentive delle carceri. Ma soprattutto lo evidenziano i continui tentativi di evasione e le evasioni vere e proprie. Le istituzioni e il mondo della politica non possono più restare inermi e devono agire concretamente. C’è bisogno di una nuova politica della pena. La frequenza di questi gravi episodi un pò in tutta Italia e l’assenza di concreti provvedimenti per il sistema carcere da parte delle Istituzioni e della politica ci preoccupa. Oggi la Polizia Penitenziaria ha carenze organiche quantificate in 6mila unità: bisogna allora accelerare sulle previste assunzioni di 2mila nuovi Agenti previste dal ddl Alfano sulla detenzione domiciliare. Messina: processo per il suicidio di un detenuto, assolti la direttrice e gli agenti di Nuccio Anselmo Gazzetta del Sud, 16 novembre 2010 Non ci furono omissioni e depistaggi. Anche la corte d’appello lo ha sancito in maniera chiara dopo il verdetto di primo grado, confermandolo nel tardo pomeriggio di ieri in toto. Quindi il suicidio del detenuto Antonio Citraro, 30 anni, di Terme Vigliatore, avvenuto nella casa circondariale di Gazzi, a Messina, il 16 gennaio del 2001, non fu seguito da omissioni e depistaggi per sviare le indagini della Procura. Ha deciso così ieri la corte d’appello presieduta da Attilio Faranda e composta da Carmelo Cucurullo e Maria Eugenia Grimaldi, confermando integralmente la sentenza assolutoria decisa nel dicembre del 2007 in primo grado dal giudice monocratico Giovanni De Marco. Del resto anche l’accusa, in questo caso il sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza, ieri aveva richiesto la conferma della sentenza di primo grado, che tra l’altro la Procura non aveva nemmeno appellato. Assoluzione piena quindi anche in appello per l’ex direttrice del carcere messinese Letizia Belleli e per altri sei tra sottufficiali e agenti di polizia penitenziaria. Per tutti la formula confermata in secondo grado è stata quindi “perché il fatto non sussiste”. Oltre all’ex direttrice sono stati assolti anche Pantaleo Stomeo, Mario Giunta, Franco Mariano Cutugno, Giuseppe Lombardo, Pietro Puglisi e Carmelo Gambuzza. In questa lunga vicenda sono stati assistiti dagli avvocati Nunzio Rosso, Giuseppe Carrabba, Giuseppe Freni (del Foro di Catania) e Salvatore Silvestro. La parte civile per la famiglia Citraro, che aveva appellato la sentenza di primo grado, è stata invece rappresentata dall’avvocato Giovambattista Freni. In secondo grado era stato presentato anche un appello incidentale dall’Avvocatura dello Stato, semplificando possiamo dire che era incentrato sulla procedura di costituzione della parte civile. Numerosi erano i reati contestati inizialmente, ritenuti insussistenti anche in appello, visto che i giudici hanno confermato il giudizio di correttezza del comportamento della direttrice e dei sottoposti. C’erano in sostanza due filoni d’indagine, uno che riguardava la morte di Citraro e un altro che comprendeva tutto quello che s’ipotizzava sarebbe successo dopo. Cutugno era accusato di favoreggiamento personale nei confronti del collega Lombardo, in quanto in prima battuta avrebbe contribuito a occultare la videocassetta contenente la registrazione di quanto avvenne nella cella dov’era detenuto Citraro e poi, in seconda battuta, quando la Procura venne a conoscenza dell’esistenza della videocassetta registrata dal sistema a circuito chiuso, avrebbe “artatamente duplicato” il documento video in due videocassette, per creare un “buco” proprio quando Citraro si suicidò. Della stessa accusa e per gli stessi fatti, vale a dire favoreggiamento personale nei confronti di Lombardo per la storia della videocassetta, doveva rispondere anche Giunta. A carico dell’ex direttrice della casa circondariale Letizia Bellelli erano stati invece ipotizzati i reati di omicidio colposo per la morte di Citraro, favoreggiamento personale nei confronti di Lombardo, falso materiale e occultamento di atti (in relazione in prima battuta all’occultamento e poi alla duplicazione della videocassetta). L’accusa di omicidio colposo era stata formulata anche a carico di Lombardo. L’ultima ipotesi d’accusa riguardava invece Stomeo, Puglisi e Gambuzza: abuso dei mezzi di correzione e disciplina, e lesioni personali a danno di Citraro. Ma anche in appello, nulla di tutto questo è stato ritenuto sussistente. Messina: Osapp; l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto è dimenticato da Dap e Regione Il Velino, 16 novembre 2010 Non è la prima volta che l’Osapp, per voce del suo vice segretario generale Domenico Nicotra, debba denunciare quello che accade all’interno e come è obbligato ad operare il personale di Polizia penitenziaria in servizio all’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. “Venerdì scorso - dichiara Nicotra - si è perpetrata un’altra aggressione contro un Poliziotto Penitenziario che “se l’è cavata con 10 giorni di prognosi salvo complicazioni”. E mentre continuano a ripetersi simili episodi il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sembra abbia dimenticato in quali carenti condizioni di organico è costretto ad operare il personale dell’Opg”. “Infatti - continua Nicotra - i poliziotti penitenziari barcellonesi sono costretti a espletare la loro attività lavorativa, nella migliore delle ipotesi, per non meno di 8 ore al giorno. Attività quest’ultima assicurata in presenza di detenuti che nella maggior parte dei casi hanno anche problemi di natura psichica, che appunto giustifica la loro presenza in Ospedali Psichiatrici Giudiziari”. “Di recente, addirittura, è stata rinvenuta una cella senza le sbarre che occludono la finestra e pertanto si può serenamente asserire che è stato grazie al tempestivo intervento del personale di Polizia Penitenziaria se adesso si può parlare una sventata evasione.” “A questo bisogna aggiungere anche l’immobilismo della Regione Siciliana che pare sia rimasta l’ultima regione in ordine al completo passaggio della sanità penitenziaria alla sanità pubblica. Qualora l’Osapp - conclude Nicotra - dovesse assistere a questo perdurante immobilismo da parte delle Amministrazioni interessate, ognuno per quanto di rispettiva competenza, indirà lo stato di agitazione senza escludere pubbliche manifestazioni di protesta per portare a conoscenza l’opinione pubblica dello status quo dell’Opg di Barcellona”. San Gimignano (Si): Sindaco fa appello al Governo su sicurezza dopo tentativo evasione Adnkronos, 16 novembre 2010 “Il tentativo di evasione dal carcere di Ranza ci ripone di fronte, per l’ennesima volta, ai temi legati alla mancanza di sicurezza dell’istituto di reclusione. L’episodio è stato sventato solo grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria ma sta diventando una situazione inaccettabile dover fronteggiare ogni volta questi incresciosi accadimenti. Queste le parole del sindaco di San Gimignano (Siena), Giacomo Bassi, sulla tentata evasione dal carcere di un detenuto di nazionalità bulgara. “La sicurezza di Ranza - prosegue Bassi - è ormai compromessa da fattori denunciati da anni senza che il Governo e l’amministrazione penitenziaria abbiano mai preso nemmeno in considerazione gli eventuali provvedimenti. Ad essere in pericolo, oggi, è tutto il personale penitenziario ma anche la popolazione di San Gimignano che intorno alla struttura vive e lavora e come primo cittadino sono chiamato a difendere la loro incolumità e la loro sicurezza”. “Ormai non si contano neanche più gli episodi di questo genere - osserva Bassi - che evidenziano come ci siano delle serie problematiche di sicurezza intorno al carcere. Bisogna però prendere dei provvedimenti seri e immediati per adeguare il personale di polizia penitenziaria che conta attualmente il 40 per cento in meno del fabbisogno specie alla luce del numero inaccettabile di detenuti: circa 410 in una struttura che ne dovrebbe ospitare 260”. “Colgo quindi l’occasione per rilanciare al Governo un appello affinché prenda finalmente in considerazione dei provvedimenti. Primo fra tutti una direzione stabile dell’istituto dal momento che manca da quattro anni e, di pari passo, effettuare tutti quegli interventi che riportino la situazione alla normale e dovuta sicurezza. Nella speranza - conclude Bassi - che anche questo appello, come quello precedente e come le azioni parlamentari intraprese dagli Onorevoli Cenni e Ceccuzzi, non sia totalmente snobbato dal Ministero della Giustizia”. Cinema: “Dalla vita in poi”, quando l’amore si consuma dietro le sbarre di Francesco Gallo Gazzetta del Sud, 16 novembre 2010 Quanto può essere “coatta” e volgare la filiforme e raffinata Nicoletta Romanoff? Tantissimo, come dimostra lei stessa nel ruolo di Rosalba in “Dalla vita in poi” di Gianfrancesco Lazotti, film che arriverà nelle sale venerdì distribuito da 01 in circa ottanta copie. Il lungometraggio - pluripremiato al Festival di Taormina (miglior film e miglior attore a Filippo Nigro e attrice Cristiana Capotondi) e vincitore al Montreal World Film Festival 2010 - racconta la storia, parzialmente vera, di una più che tonica disabile, Katia (Capotondi), che si ritrova ad amare un omicida in carcere Danilo (Nigro) dopo avergli scritto centinaia di lettere spacciandosi per la sua amica Rosalba (Nicoletta Romanoff). Ovvero nella storia c’è una Capotondi in carrozzella che, come una sorta di Cyrano De Bergerac, si ritrova ad aiutare la sua amica del cuore, non proprio abile con grammatica e scrittura, che sì è innamorata di Danilo (ancora trenta anni da scontare in carcere). Quando però alla mutevole Rosalba la cotta passerà, Katia non mancherà di rivelare al detenuto che le lettere sono sue come anche l’amore che ha per lui. Comunque, non avendo nessun grado di parentela con Danilo, per Katia sarà più che difficile ottenere il permesso per incontrarlo. Ma lei non è certo una che si scoraggia. E così arriveranno gli incontri con lui fino a un felice matrimonio finale. “Di vero in questa storia - rivela Lazotti regista, tra l’altro, di tante serie tv - c’è Katia, una donna che ho conosciuto casualmente e mi ha colpito per ottimismo e spigliatezza. Ma, va anche detto, che in questo film temi come la detenzione e la malattia sono dal mio punto di vista solo sullo sfondo, quello che mi interessava davvero erano invece i ritratti dei tre personaggi principali”. Spiega invece la Capotondi del suo personaggio: “certo non si può dire che la malattia non abbia influito su Katia che in fondo è una donna che alla fine vuole solo vivere una vita normale come tutti. Per interpretarla ho pensato: cosa può fare una donna per compensare il fatto che non ha l’uso delle gambe? Deve essere tagliente, simpatica e politicamente scorretta, proprio come fa la mia Katia”. In “Dalla vita in poi”, prodotto da Rosa Film in collaborazione con Raicinema, quella veramente entusiasta sembra essere, non a caso, proprio la Romanoff, figlia del penalista e deputato del Popolo della libertà Giuseppe Consolo e di Natalia Nikolaevna Romanova, il cui padre discende dalla Casa reale russa. “Finalmente - dice a margine dell’incontro stampa di ieri mattina a Roma - mi sono ritrovata davvero a recitare. Questo personaggio è stato per me una vera liberazione. Quando ho letto il copione ho pensato che il regista aveva davvero del coraggio nell’affidarlo a me. Per quanto riguarda il dialetto romano - dice l’attrice che nel film non manca di parlare con volgarità e mostrare le sue grazie per buone e cattive cause - non c’è stato problema: sono 31 anni che vivo a Roma”. Cinema: dalla Giordania a Tokyo, “In My Prison” continua il suo viaggio nel mondo Il Velino, 16 novembre 2010 Diventa ancor più internazionale il percorso di “In My Prison”, il cortometraggio del giovane regista calabrese Alessandro Grande. Dopo la vittoria del Premio Anello Debole, il maggiore festival a tematica sociale in Italia, e le finali internazionali in Grecia, Spagna e Texas, In My Prison sbarca al Jordan Short Film Festival di Amman, in Giordania, e al giapponese Corto Tokyo. In entrambi i festival il lavoro di Grande è risultato l’unico corto italiano nella rosa ufficiale. “Sono sempre più soddisfatto dei traguardi che stiamo raggiungendo con In My Prison - commenta il regista - Pur essendo l’unico Italiano in gara, però, credo che nel nostro Paese ci sia un cinema giovane e indipendente di notevole qualità che merita come me una visibilità internazionale. Questo lavoro - conclude Grande - mi sta dando l’opportunità di comunicare al mondo un mio pensiero e non posso che esserne orgoglioso”. Il Jordan Short Film Festival si terrà ad Amman dal 17 al 20 novembre, mentre per il Corto Tokyo bisognerà attendere il mese di dicembre. Il cortometraggio prodotto dalla Gem Produzioni racconta le sofferenze di un detenuto all’interno di un carcere non contestualizzato e la messa in atto di un ‘piano genialè per porre fine a tutte le angosce. Usa: per gli ex detenuti di Guantanamo un risarcimento milionario dalla Gran Bretagna Ansa, 16 novembre 2010 Sei uomini hanno accusato alcuni membri dei servizi segreti britannici di complicità nelle torture. Uno di loro otterrà oltre un milione di euro. Attesa per oggi una dichiarazione ufficiale al Parlamento. La Gran Bretagna pagherà milioni di sterline in risarcimenti ad ex detenuti di Guantanamo che sostengono di aver subito torture esercitate con la complicità dei servizi britannici. Sulla vicenda, l’ufficio del primo ministro David Cameron ha riferito che il governo trasmetterà oggi al Parlamento una dichiarazione ufficiale. Secondo i media britannici la decisione è il frutto di settimane di trattative tra i rappresentanti legali del governo e degli ex detenuti. Lo scorso luglio Cameron aveva riferito che il governo aveva intenzione di trattare, ed eventualmente accordare risarcimenti agli ex detenuti di Guantanamo. È probabile che il governo voglia in questo modo evitare una causa lunga e costosa, che avrebbe messo i servizi segreti di intelligence inglesi sotto i riflettori. A quanto pare, uno dei detenuti otterrà oltre un milione di euro. Sempre a luglio, dopo una lunga battaglia giudiziaria, la giustizia britannica aveva ordinato la pubblicazione di più di 500 mila documenti relativi al caso. Alcuni riguardavano Binyam Mohamed, detenuto a Guantanamo per oltre quattro anni prima di essere trasferito in Gran Bretagna. Mohamed fu arrestato in Pakistan nel 2002. Trasferito in Marocco, fu torturato e poi trasferito nel carcere di Guantanamo. Lo scorso anno è stato rilasciato. Il Foreign Office aveva inizialmente impedito la pubblicazione dei documenti forniti dai servizi segreti americani, invocando la sicurezza nazionale e la necessità di preservare la riservatezza delle comunicazioni scambiate tra Londra e Washington. Sono sei gli ex detenuti di Guantanamo - Binyam Mohamed, Bisher al - Rawi, Jamil el Banna, Richard Belmar, Omar Deghayes et Martin Mubanga - che hanno accusato alcuni membri del MI5 di complicità nelle torture.