Dalla prigione al territorio: si può fare Il Mattino di Padova, 15 novembre 2010 Il 10 novembre i Comuni sono entrati in carcere per raccontare che è possibile accogliere i detenuti fuori, a lavorare nel territorio. La Casa di reclusione di Padova ospita 850 detenuti, a fronte di una capienza di circa la metà. All’interno lavorano circa 230 persone. Fuori invece lavorano solo 30 detenuti, un numero davvero esiguo. Grazie a convenzioni nei Comuni di Galliera Veneta, San Giorgio in Bosco, Limena, Trebaseleghe, Padova (Politiche Sociali, Urp, Archivio generale) da anni detenuti che hanno già espiato una parte della loro pena continuano, lavorando nel territorio, il loro cammino verso la libertà. Grazie agli sgravi previdenziali e fiscali, per i Comuni è un’opportunità di avere servizi a costi contenuti. C’è un reciproco vantaggio, su cui si costruiscono percorsi umani di conoscenza e crescita. Oltre ai sindaci (e operai e tecnici) dei Comuni già coinvolti, sono venuti in carcere per conoscere questa realtà i sindaci e amministratori di Campo San Martino, Loreggia, Masi, Massanzago, Rubano, Saonara, Solesino, Vigodarzere, Vigonza. Rossella Favero, Cooperativa sociale AltraCittà Grazie ai sindaci per la collaborazione Grazie a sindaci e amministratori per la collaborazione. La popolazione detenuta aumenta continuamente, anche qui. Arrivati ad un certo punto, vi è la necessità di tentare il reinserimento. So bene che gli enti pubblici non possono assumere direttamente detenni i o ex detenuti però, attraverso cooperative e volontariato, possiamo provare a “siste - mare i nostri ospiti in vista della scarcerazione. Il progetto funziona e va incrementalo. Altrimenti tutto il lavoro fatto si vanifica. Salvatore Pirruccio, Direttore della Casa di Reclusione Da “carcerati” a “ragazzi” Ecco come si può cambiare All’inizio le diffidenze e le difficoltà da superare sono state parecchie. Perché un conto è lavorare in un Comune di un milione di abitanti, altra cosa in uno di poche migliaia, dove gli operai sono come istituzioni. Solo la pazienza di alcune persone (ufficio tecnico e operai), ha permesso di continuare. Io devo dire che per fortuna che ci sono i carcerati, perché il lavoro che fanno è davvero prezioso. Dal punto di vista umano poi sono persone cui, quando dici “fai qualcosa”, brillano gli occhi. Quindi spero veramente che le esperienze che fanno i carcerati nei Comuni arricchisca sia loro che la comunità. Inizialmente i miei compaesani dicevano “Ecco i carcerati!”. Ora, quando li vedono, dicono “Ecco i ragazzi!”. Stefano Bonaldo, Sindaco di Galliera Veneta Un bilancio positivo sotto ogni punto di vista Il bilancio di questa esperienza non può che essere positivo, dal punto di vista del rapporto umano, in quanto ha permesso a chiunque sia venuto a contatto con queste persone di superare la diffidenza; altrettanto positivo può considerarsi il bilancio dal punto di vista strettamente materiale. Abbiamo quasi sempre incontrato detenuti che hanno dimostrato impegno e responsabilità, ottimizzando così il rapporto costi - benefici. Il nostro impegno nel contribuire al reinserimento nella società di questi fratelli è fondamentale. Renato Miatello, Sindaco di San Giorgio in Bosco Dubbi e paure di un detenuto davanti al reinserimento Dopo tanto tempo trascorso all’interno di un penitenziario, le incertezze e i timori che ti assalgono alla vigilia di una nuova fase della vita sono molti, da quelli pratici come non riconoscere la valuta e non sapersi destreggiare con i pullman, a quelli di ordine interiore. Il dubbio più grande che mi condizionava era non sapere come sarei stato accolto dalla comunità di San Giorgio in Bosco. Fortunatamente posso dire che il mio imbarazzo e i miei dubbi sono svaniti velocemente. Francesco La giustizia “riparativa” occasione per collaborare La giustizia riparativa è un’attività completamente gratuita e, proprio per disposizione del giudice, deve essere svolta a favore di enti pubblici o delle associazioni; ci sono solo i costi dell’assicurazione. Chiediamo di condividere con noi una campagna di sensibilizzazione in questo senso. Graziella Palazzolo, Direttore Ufficio esecuzione penale esterna Inutile tenere le persone in prigione senza uno scopo Faccio un invito ai politici del territorio: andiamo oltre. In Val Seriana i sindaci di grossi Comuni hanno presentato detenuti che avevano lavorato per loro alle aziende locali, che possono comunque usufruire di sgravi fiscali. Credo che questo sia lo sforzo in più che va chiesto. Il mondo del carcere ha bisogno di trovare un senso: non serve tenere le persone recluse dietro le sbarre senza offrirgli uno scopo di vita. Io ho istituito una commissione che si occupa delle attività lavorative e ho invitato i sindaci ad essere rappresentati. Angela Venezia, Direttore Ufficio detenuti Prap La Provincia di impegna a pubblicizzare i progetti Chi sbaglia è giusto che paghi, ma il carcere dovrebbe avere anche rieducare. Come Provincia di Padova cercheremo di pubblicizzare la possibilità del lavoro esterno anche nei confronti di quelle amministrazioni che ancora oggi non hanno avuto questo tipo d’esperienza. Enrico Pavanetto, Assessore alla sicurezza Provincia di Padova Se li conosci, dimentichi da dove vengono La nostra esperienza è cominciata nel 2008, con un leggero velo di diffidenza, che si è subito dissolto, nel momento in cui abbiamo conosciuto da vicino Sergio, Gaetano, Alberto e Moreno; ci siamo subito dimenticati del posto da cui provenivano e in cui tornavano la sera. Sono preparati in modo professionale e davvero molto motivati. Valeria Pavone, Direttrice Archivio generale del Comune Detenuti che lavorano in carcere 120 con il Consorzio Rebus, 7 con la Cooperativa AltraCittà, 100 per l’Amministrazione Penitenziaria Detenuti che lavorano all’esterno 10 Consorzio Rebus, 5 cooperativa AltraCittà, 4 Ristretti Orizzonti, 10 altre cooperative e ditte private Giustizia: carceri esplosive, ma dimenticate di Giovanni Palombarini (Magistrato) Il Mattino di Padova, 15 novembre 2010 È mai possibile che nessuna forza politica, rappresentata o no in Parlamento, non se la senta di dire ad alta voce che un provvedimento di amnistia e indulto è urgente e indispensabile, e quindi di proporlo a tutti i parlamentari? È troppo sperare che almeno Nichi Vendola, che va elaborando importanti indicazioni sul tema dei diritti, indichi un provvedimento del genere come un punto fermo del suo programma in vista della prossima scadenza elettorale? Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nel rilanciare il programma del governo, non ha neppure accennato al problema del carcere. Non ne parlano coloro che in questi giorni vengono indicati come candidati a sostituirlo. Come mai? Eppure la situazione è sotto gli occhi di tutti. I detenuti sono circa 69.000, un terzo dei quali tossicodipendenti e più di un terzo stranieri. Mai, nella storia della Repubblica, ce ne sono stati tanti. La capienza dei 206 istituti italiani è di 44.000. I suicidi e i tentativi di suicidio sono numerosissimi. A fronte di una simile situazione, gli agenti in servizio sono 18.000 a fronte di un organico di 37.348. Non può essere che a fronte del continuo aumento del sovraffollamento l’unica cosa alla quale si sa pensare sia la costruzione di nuovi stabilimenti. Già l’intervento penale dovrebbe in generale essere limitato, ma poi il carcere deve essere la extrema ratio. Invece, non a caso, ci si muove nella direzione contraria. Non si introducono pene non detentive, si limita al massimo l’affidamento in prova, che pure ha dato buoni risultati, per i recidivi si stabiliscono limiti al godimento dei benefici penitenziari, che hanno effetti micidiali. La verità è che vi è una novità, rispetto al problema del carcere e del sovraffollamento. Una novità significativa, che dà il senso di un cambiamento radicale nella concezione stessa della pena. Vi è un’accettazione esplicita, addirittura programmata, della prospettiva di un numero indeterminato, progressivamente crescente, di detenuti. Quasi a voler dire: per ogni tipo di devianza marginale, comunque determinata, la risposta è una sola, il carcere, cioè l’esclusione. Una politica indifferente alle ragioni del disagio sociale e alle cause dei fenomeni collettivi complessi, quali ad esempio l’immigrazione e le tossicodipendenze, non è solo timorosa dell’impegno e dei costi necessari per affrontarli fino infondo, ma ha operato una scelta, quella dell’emarginazione forzata dei soggetti che ne sono il prodotto. Non a caso si è parlato di un passaggio dallo stato sociale allo stato penale. Il ceto politico dirigente non si preoccupa di contrastare paure, sentimenti e risentimenti che maturano in una società sempre più impoverita, ma ha anzi scelto di assecondarli. Chi sbaglia paga. L’abbandono del welfare state impone di governare in altro modo, più semplice, la criticità sociale. Di qui la criminalizzazione e la carcerazione crescenti, che presentano tra gli altri il vantaggio di trovare larghi consensi elettorali. Non resta che sperare che nel panorama politico un qualche nuovo protagonista si faccia carico del problema, per indicare una strada alternativa all’attuale tendenza. Giustizia: Bernardini (Radicali); in cella il diritto alla salute è spesso “latitante” Adnkronos, 15 novembre 2010 Stefano Cucchi, Daniele Franceschi, Marcello Lonzi. Nomi uniti da un unico tragico destino, diventati l’emblema delle morti in carcere spesso avvolte nel mistero. Ma sono tanti i detenuti che muoiono in silenzio, perché la loro storia non passa sotto i riflettori e non diventa il caso mediatico da raccontare. Storie di chi si è visto negare non solo la libertà, ma anche il diritto alla salute. Una negazione impressa nell’ironia pungente delle vignette di Graziano Scialpi, che sulle pagine di “Ristretti Orizzonti”, il giornale del carcere di Padova, denunciava a colpi di immagini e battute, cosa vuol dire ammalarsi dietro le sbarre. Un’ironia che aveva il sapore della satira, che aveva appreso quando era giornalista di Trieste Oggi e che aveva maturato nella sua esperienza detentiva. Era finito in carcere accusato di omicidio, e dal carcere raccontava, giorno dopo giorno, attraverso le sue vignette, il proprio malessere e quello degli altri detenuti. Graziano, per gli amici “Dado”, è morto lo scorso 14 ottobre, a 48 anni, per un tumore che lo ha logorato e dopo aver chiesto, più volte, di essere sottoposto a risonanza magnetica. Fino a che ad agosto, una sera si è ritrovato paralizzato, la mattina dopo l’hanno ricoverato d’urgenza e operato subito: ma era troppo tardi. Ma la sua storia non è passata inosservata, almeno alle associazioni che ruotano intorno al pianeta carcere e a Rita Bernardini, già segretaria dei Radicali Italiani ed attuale deputata della delegazione Radicale nel Partito Democratico, che ha presentato quattro giorni dopo la morte di Scialpi, il 18 ottobre scorso, un’interrogazione a risposta scritta (4-09067) sul caso, ai ministri della Giustizia e della Salute. “La storia di Graziano - spiega la Bernardini all’Adnkronos - è una delle tante. Quell’interrogazione non ha ancora avuto alcuna risposta, e in questi giorni ne ho depositate altre sette su casi diversi, perché l’attenzione sulle criticità delle condizioni detentive resti sempre alta”. Nell’interrogazione presentata da Rita Bernardini (il cui iter è tutt’ora in corso), si leggono le parole amare di Vittorio, padre di Graziano, che racconta al Corriere Veneto l’odissea vissuta dal figlio fino alla morte: “Dallo scorso novembre, perciò, un anno fa - si legge - mio figlio chiedeva di fare una risonanza magnetica per cercare di capire la natura del fortissimo mal di schiena che lo tormentava”. “Ma nessuno - denuncia - gli ha mai permesso di fare neanche una visita. Lo hanno tenuto dentro finché una notte lo hanno trovato paralizzato. Ed era troppo tardi. Lui era arrivato al punto di trascinare le gambe sul pavimento, ma neanche in quel caso gli credevano”. A marzo scorso la malattia si fa sempre più aggressiva. Scialpi chiede nuovamente di potersi sottoporre ad una risonanza e questa volta i responsabili medici del carcere accettano. Ma accade quello che nell’interrogazione viene definito l’inverosimile. “Caricano Graziano su un’ambulanza e lo portano in ospedale - ricorda il padre - ma il giorno della visita era quello sbagliato. La visita era l’indomani. Così conducono di nuovo mio figlio in carcere, ma il giorno dopo non lo riportano in ospedale”. Il 30 aprile 2010 Scialpi, sofferente, viene portato in pronto soccorso: gli fanno soltanto una visita ortopedica e gli danno dei palliativi. Ma al di là dell’inchiesta aperta dalla magistratura per accertare eventuali responsabilità penali nel trattamento riservato a “Dado”, la Bernardini chiede se i ministri competenti “non ritengano, in via cautelativa nei confronti degli altri detenuti ristretti nel carcere Due Palazzi di Padova, di dover verificare, attraverso un’approfondita indagine interna, se il trattamento sanitario previsto nell’istituto abbia corrispondenza con le leggi dello Stato e, soprattutto, con quanto previsto dagli articoli 3, 13 (comma 4), 27 (comma 3), 32 della Costituzione”. E ancora, “quanti siano, negli ultimi 5 anni i detenuti i morti in carcere per malattia e quanti coloro che, usciti dal carcere in sospensione della pena per malattia, siano poi morti in ospedale o nelle proprie abitazioni. Tra le interrogazioni a risposta scritta presentate dalla Bernardini, anche quella che racconta la storia di Marcello Savio, detenuto 71enne, malato, tossicodipendente e stroncato da un infarto lo scorso 2 novembre mentre era ricoverato al centro clinico della casa circondariale di Pisa. Una storia ripresa da un articolo uscito sul quotidiano la Nazione il 3 novembre. La Bernardini in questo caso chiede prima di tutto “perché un detenuto così anziano, malato e tossicodipendente si trovasse in carcere, perché fosse stato trasferito da Montelupo Fiorentino a Pisa (il 5 ottobre), e soprattutto se fosse mai stato sottoposto a trattamenti medici (a causa della sua tossicodipendenza)”. Infine, si chiede se ci sia l’intenzione di aprire un’indagine amministrativa interna per “accertare eventuali responsabilità per omissione nella condotta del personale medico e penitenziario”. La Bernardini, che prosegue il suo ‘tour’ nelle varie carceri italiane per verificarne di persona le condizioni, racconta che il problema sanitario “è uno dei più critici, molte indagini vengono rinviate nel tempo perché magari le Asl locali non collaborano come dovrebbero, ma anche per i drastici tagli ai fondi. C’è poi la questione della mancanza di personale, e quando un detenuto è ricoverato in ospedale devono essere impegnati molti agenti fuori dal carcere”. Tanti fattori che finiscono per negare il diritto alla salute di molti detenuti. Graziano Scialpi ha raccontato per anni quei retroscena, in innumerevoli vignette che sono diventate un libro uscito nel 2005, dal titolo “Non aprite quel barattolo”, parafrasando il celebre film horror “Non aprite quella porta”. Tra queste, quella che vede in primo piano delle bare e un detenuto misurato in altezza da un uomo, dove si legge “In gran parte d’Italia i detenuti preferiscono aspettare il fine pena.. piuttosto che uscire con l’unica misura alternativa possibile”. E ancora, una vignetta sui suicidi in cella, sul ruolo dei mass media nell’informazione sulla giustizia, e una sull’affettività dietro le sbarre, con due detenuti che guardano oltre la finestra uniti dalle manette. Sotto, la frase “Felicità è guardare il tramonto tenendosi per manetta”. Infine, l’immagine di tanti detenuti ammassati nei letti a castello, ironizzando sul sovraffollamento con la frase: “In occasione dell’estate ogni cella è stata fornita di sauna finlandese con annessa piscinetta”. “Era una persona di grande intelligenza e cultura - racconta Francesco Morelli della redazione di Ristretti Orizzonti - abbiamo lavorato insieme per molto tempo e negli ultimi giorni della sua vita voleva giustizia. Voleva che il suo sacrificio servisse a evitare ad altri quello che era successo a lui”. Rita Bernardini è determinata a ricevere risposte sui problemi sollevati, perché, denuncia, “la dignità della persona umana in carcere non esiste”. Sul sito di Ristretti Orizzonti, aumentano di giorno in giorno i messaggi dei lettori che sorridevano e piangevano con le immagini di Graziano. E dicono: “ci ha fatto ridere, piangere, arrabbiare, pensare, ora speriamo solo che la sua storia serva a puntare un’attenzione nuova su chi sta male in carcere”. Giustizia: Poretti e Bernardini (Radicali); serve l’anagrafe telematica delle carceri Adnkronos, 15 novembre 2010 Una rivoluzione telematica che renda “trasparente” il carcere, a cominciare dal bilancio. A sollecitarla sono i radicali del Pd con due proposte di legge, una alla Camera e l’altra a palazzo Madama, che prevedono la creazione di un’anagrafe digitale gestita dal ministero della Giustizia, una sorta di registro pubblico informatico sulla situazione dei singoli istituti di pena, consultabile gratuitamente online dai cittadini. È importante, spiega la senatrice Donatella Poretti, prima firmataria di una delle due proposte, che la società impari a conoscere i luoghi di detenzione: “e deve poterlo fare - sottolinea - non solo attraverso l’operato degli addetti ai lavori, ma anche attraverso la constatazione diretta di quanto avviene, per mezzo di dati consultabili agevolmente. Non vi sono ragioni per nascondere le prigioni: i cittadini devono poter conoscere ciò che vi accade”. Ogni detenuto, ricorda Poretti, costa circa 300 euro al giorno, con una spesa complessiva stimata in più di 6 miliardi e mezzo di euro all’anno. Ma il cittadino, sottolinea l’esponente radicale, non è in grado di conoscere come effettivamente vengano spesi questi soldi pubblici. “Se vogliamo davvero conquistare la doverosa trasparenza al pubblico anche per questo settore, occorre necessariamente mirare alla presenza in rete di ogni istituto. Una gestione - spiega Poretti - affidata in maniera centralizzata al ministero della Giustizia attraverso il suo sito web, con una frequenza di aggiornamento su base almeno semestrale”, che garantisca al cittadino una conoscenza dettagliata del sistema carcerario del Paese. In sostanza, l’anagrafe digitale degli istituti di pena proposta dai radicali del Pd prevede il libero accesso ai dati sui bilanci delle amministrazioni penitenziarie, sulle strutture carcerarie, sugli interventi di edilizia carceraria, sulla trasparenza negli appalti; sul numero e sul grado degli agenti in servizio, sul numero e sui compensi del personale amministrativo, sui regolamenti penitenziari, sul numero dei reclusi, sul lavoro dei detenuti, sulla situazione sanitaria all’interno degli istituti di pena. Una “rivoluzione telematica della giustizia penale”, con la previsione di applicazioni riservate attraverso registrazione, autorizzazione e autenticazione, “che diano modo a magistrati, avvocati, familiari dei detenuti, di accedere a schede digitali particolareggiate e aggiornate in tempo reale con i dettagli della storia giudiziario - detentiva di ogni singolo detenuto”. Giustizia: la trattativa con la mafia e il documento smarrito sul 41-bis di Salvo Palazzolo La Repubblica, 15 novembre 2010 Sette mesi dopo la strage Borsellino, alcuni vertici delle istituzioni avevano fretta di revocare il carcere duro ai mafiosi. La questione fu affrontata addirittura durante un comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza. Fino ad oggi, mai nessuno l’ha ammesso. Anzi, tutti i politici interrogati dai magistrati e della commissione antimafia continuano a ribadire che in quei mesi ci fu solo la linea della fermezza contro i boss. Adesso, un documento li smentisce. È un “appunto” del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “numero 115077 del 6 marzo 1993”, indirizzato al capo di gabinetto del ministro della Giustizia Giovanni Conso. La firma è dell’allora direttore Nicolò Amato. A leggere l’oggetto, in quei 75 fogli c’è solo routine: “Organizzazione e rapporti di lavoro”. E invece, a pagina 59, Amato apre un capitolo cruciale: “Revisione dei decreti ministeriali emanati a partire dal luglio ‘92, sulla base dell’articolo 41 bis”. È il cuore del documento, rimasto per 17 anni negli archivi del ministero della Giustizia. Sabato, ho scritto sul mio giornale, Repubblica, un articolo che mostra per la prima volta quel documento. È un documento destinato a riscrivere la storia di quei mesi ancora oscuri. In quella nota c’è un’indicazione precisa al Guardasigilli: “Appare giusto ed opportuno rinunciare ora all’uso di questi decreti”. Due sono le strade suggerite: “Lasciarli in vigore fino alla scadenza senza rinnovarli, ovvero revocarli subito in blocco. Mi permetterei di esprimere una preferenza per la seconda soluzione”. Amato spiega perché: “L’emanazione dei 41 bis era giustificata dalla necessità di dare alla criminalità mafiosa una risposta. Ma non vi è dubbio che la legge configura il ricorso a questi decreti come uno strumento eccezionale e temporaneo”. Dietro queste parole non c’è solo un’iniziativa del Dap. È Amato a scriverlo. “In sede di Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, nella seduta del 12 febbraio, sono state espresse, particolarmente da parte del capo della polizia, riserve sulla eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario. Ed anche recentemente - prosegue il direttore - da parte del ministero dell’Interno sono venute pressanti insistenze per la revoca dei decreti applicati agli istituti di Poggioreale e di Secondigliano”. Perché il capo della polizia Vincenzo Parisi e il Viminale allora retto da Nicola Mancino esprimevano quelle “riserve”? Pochi giorni fa, alla commissione parlamentare antimafia, Conso ha svelato che nel novembre ‘93 fu tolto il carcere duro a 140 mafiosi. Amato non era più al Dap da giugno. “Fu una mia scelta, non ci fu alcuna trattativa”, ha ribadito Conso. Ma non ha convinto. Lettere: Fortunato va a Strasburgo… insieme agli altri 1.300 ricorrenti sostenuti da Antigone di Stefano Anastasia Terra, 15 novembre 2010 Settantacinque chilometri, un’ora e un quarto circa in auto: tanto distano, nello spazio e nel tempo Asti e Saluzzo. Settantacinque chilometri, ma giudici diversi, e diversa procedura nella tutela dei diritti. A Cuneo, nel gennaio scorso, il giudice di sorveglianza accoglieva il reclamo di due detenuti contro le condizioni inumane e degradanti cui erano costretti nella sovraffollata Casa di reclusione di Saluzzo. A Torino, qualche settimana fa, una sua collega dichiara la propria incompetenza sul reclamo presentato da Fortunato, detenuto ad Asti nelle medesime condizioni - a suo dire - dei suoi di colleghi, quelli di Saluzzo. Continua ad agitare le acque del penitenziario la sentenza Suleimanovic, con la quale la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per il trattamento inumano e degradante da sovraffollamento cui fu costretto il cittadino bosniaco tra il 2003 e il 2004, quando nelle carceri italiane c’erano circa quindicimila detenuti in meno di quanti ce ne sono ora. Il giudice di Cuneo, senza andare troppo per il sottile, decise direttamente, sulla base della Convenzione europea dei diritti umani e della giurisprudenza della relativa Corte. “Il reclamo - si legge nelle carte - … è lo strumento con il quale il detenuto può attivare i poteri attribuiti in via generale al Magistrato di sorveglianza”, il quale, a norma di legge, “esercita la vigilanza …” e “impartisce … disposizioni …”; “l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo impone …; la recente sentenza … ha condannato …; si rileva sia il mancato rispetto …, sia l’insufficienza …; “per questi motivi accoglie …”. Il giudice di Torino, invece, “visti gli atti …”, “visto il parere …”, “considerate le risultanze …”, ritiene “di dovere preliminarmente sollevare questione relativa al proprio difetto di giurisdizione”: “essendo la Corte europea dei diritti dell’uomo il giudice naturale riconosciuto per accertare se effettivamente uno Stato … abbia o meno violato uno dei diritti sanciti dall’accordo internazionale, appare chiaro che questo Giudice non può in alcun modo pronunciarsi sull’oggetto del reclamo”. “Solo in caso di esito positivo e di accoglimento del suo ricorso, il Giudice italiano … potrà intervenire …, qualora l’Amministrazione penitenziaria … non si adegui ai parametri fissati dalla Corte per le condizioni detentive del singolo recluso”. Fortunato va a Strasburgo, quindi, insieme agli altri 1.300 ricorrenti sostenuti e patrocinati da Antigone. Cosa aspetta il Ministero della giustizia a far fronte efficacemente al sovraffollamento? Lo scandalo di una nuova processione di sentenze di condanna e di indennizzi da pagare, come per l’interminabile durata dei processi civili? Milano: detenuto 53enne, in regime di 41-bis da 15 anni, muore di aids dopo ricovero all’ospedale Ansa, 15 novembre 2010 Ergastolano e da anni sottoposto al regime di carcere duro non aveva mai voluto pentirsi. Il boss di Villa Lina, Giuseppe Mulè, 53 anni è morto stamattina all’ospedale “Maggiore” di Milano. L’ergastolano era detenuto in regime di 41bis, ormai da circa quindici anni. Qualche anno prima aveva annunciato di essere malato di aids ma molti non gli credevano. Non pochi, e fra questi i magistrati della Dda di Messina, erano convinti che Mulè strumentalizzasse la sua presunta malattia per ottenere trasferimenti in carceri meno duri o in centri clinici ed ospedali e poter continuare a svolgere le sue attività criminose, su tutte le estorsioni. Non a caso domani il boss di Villa Lina sarebbe stato sottoposto a nuova perizia medica dopo l’annullamento, da parte della Cassazione, della decisione del Tribunale del riesame che aveva rigettato l’istanza di scarcerazione presentata dai suoi legali. Cagliari: Sdr; progressivo degrado e sovraffollamento del carcere di Buoncammino Agi, 15 novembre 2010 “Il progressivo degrado della struttura ottocentesca, il sovraffollamento con conseguenti inidonei spazi vitali per i detenuti, e la scarsa sicurezza impongono immediati interventi sul carcere di Buoncammino. Si corre altrimenti davvero il rischio di scivolare in un’incontrollabile crisi”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris con riferimento ai contenuti della relazione del segretario generale della Uil Penitenziari Eugenio Sarno, dopo la visita effettuata nella casa circondariale cagliaritana assieme ai segretari regionale Roberto Picchedda e provinciale Michele Cireddu. “Nella struttura detentiva cagliaritana - sottolinea Caligaris - possono essere attivati innanzitutto immediati interventi di alleggerimento del numero dei detenuti con il ricorso alle pene alternative e l’applicazione del principio della territorialità della carcerazione. Il numero di oltre 500 cittadini privati della libertà (contro i 332 regolamentari), divenuto ormai un dato stabile, è un significativo indicatore peraltro di sofferenza aggiuntiva alla reclusione soprattutto in relazione al numero di anziani e ammalati affetti da diverse patologie, molte delle quali gravi. Il primo atto concreto consiste dunque nella collocazione dei detenuti gravemente malati, se non alla detenzione domiciliare tout court almeno in strutture sanitarie. I continui ricoveri ospedalieri (in 10 mesi sono state registrate 168 giornate di piantonamenti, con l’impiego di 1268 agenti di polizia penitenziaria) la dicono lunga sulle condizioni di salute di molti ristretti, senza contare le traduzioni per visite specialistiche nello stesso periodo (ben 482)”. “La condizione di sovraffollamento protratta nel tempo - afferma la presidente di Socialismo Diritti Riforme - provoca inoltre uno stress che ha conseguenze negative sul clima e sull’attività di recupero e sicurezza. È inaccettabile che in una cella ad uso singolo trovino posto anche tre detenuti. Così com’è assurdo che i ristretti non possano fruire dell’ora d’aria perché gli spazi disponibili sono inadeguati al punto da dover fare i turni. Che dire poi della sicurezza e delle eventuali emergenze sanitarie, quando nelle sezioni, in media con 70 - 90 detenuti, sono presenti di notte raramente due agenti per tre piani, più spesso invece ce n’è uno soltanto? Il deficit di organico - su 264 unità previste risultano in servizio 193 di cui 29 utilizzate per le traduzioni e i piantonamenti - non può lasciare indifferenti anche perché gli agenti penitenziari devono ancora recuperare 16mila giornate di congedo ordinario non ancora fruito tra il 2007 e il 2010. Anche le condizioni igienico - sanitarie di Buoncammino, rivela la Uil Penitenziari, lasciano molto a desiderare”. Ancona: Uil-Pa; Montacuto è un carcere vecchio, sovraffollato, degradato e che cade a pezzi Comunicato stampa, 15 novembre 2010 “Quanto ho potuto verificare nel corso della mia visita nel carcere di Montacuto rafforza il convincimento di un’Amministrazione allo sbando, disorganizzata e finanche letteralmente cadente a pezzi. Oltremodo ad Ancona va in scena la fiera dello spreco: un Istituto vecchio, sovraffollato, degradato e che cade a pezzi ed un altro Istituto nuovo sottoutilizzato, anch’esso cadente a pezzi e che assorbe ingenti risorse economiche le quali ben altrimenti potrebbero essere utilizzate e destinate. Per dirla in sintesi una qualsiasi Amministrazione capace di gestire i propri interessi avrebbe già da tempo adottato la più logica delle soluzioni: chiudere Barcaglione per ristrutturazione (anche se parliamo di una struttura aperta da circa 5 anni) restituendo a Monteacuto le unità di polizia penitenziaria all’epoca sottratte per aprire una struttura che non ha mai pienamente funzionato.” Non le manda certo a dire il Segretario Generale della Uilpa Penitenziari che stamattina si è intrattenuto per circa 4 ore all’interno della Casa Circondariale della frazione Monteacuto “Qui impera il degrado e la disorganizzazione. Gli ambienti sono tutti invasi e pervasi da infiltrazioni di acqua piovana, perdite di acque dalle tubature, muffe e alghe la fanno da padrone. Alla 3^ Sezione è possibile prendere figurativamente atto di quella che è l’attuale Amministrazione Penitenziaria: il solaio è attraversato da crepe e buchi; le infiltrazioni determinano cadute di calcinacci, tanto da far temere per la stabilità della struttura; le docce sono quanto di più insalubre si possa immaginare. Evidentemente - Afferma Eugenio Sarno - a Monteacuto non c’è solo un problema di sovraffollamento ma anche un problema di carattere sanitario. Non sarà un caso, forse, che negli ultimi sei mesi abbiamo dovuto registrare la morte di 3 detenuti di cui 2, parrebbe, per una sovra dosata assunzione di farmaci.” Secondo quanto accertato dalla Uil vi è una forte carenza di organico nel contingente di polizia penitenziaria. “A parte l’anomala situazione che vede il reparto di polizia penitenziaria comandato da un Ispettore in missione da 3 anni, pur avendo 3 Commissari in forza (ma destinati ad altri incarichi) emerge un quadro di oggettiva sofferenza operativa. Basti pensare - denuncia Sarno - che il carcere di Montacuto che ospita circa 100 detenuti ad Alta Sicurezza nei turni notturni è vigilato da sole 6 unità. Il contingente previsto dal relativo decreto è fissato in 201 unità, sulla carta dovrebbero esserci 184 unità che diventano 131 causa i 53 distacchi di poliziotti penitenziari a Barcaglione, al provveditorato e presso altre strutture. Dei 131 restanti 18 sono impiegati al Nucleo traduzioni e Piantonamenti e circa 60 impiegati in uffici e servizi complementari. Ne deriva che occorre immediatamente ridefinire l’organizzazione del lavoro anche per smaltire le circa 8.100 giornate di congedo ordinario che il personale non ha ancora fruito. Da questo punto di vista recuperare le 18 unita di Barcaglione non solo sarebbero utile ma indispensabile.” La Uilpa Penitenziari nel sottolineare come nelle celle singole vi siano letti a castello a tre piani e nelle celle doppie siano a 5 persone rende noti i dati dell’affollamento. “A Monteacuto - chiude il Segretario generale della Uilpa Penitenziari - in una struttura che potrebbe contenere regolarmente 172 detenuti stamani ne erano ristretti 397. I detenuti classificati Alta Sicurezza assommano a 98. I detenuti con condanne definitive sono 136, i detenuti senza condanne definitive sono 261 (di cui 111 in attesa di primo giudizi). 209 gli italiani e 188 gli stranieri. Dal 1° gennaio ad oggi si sono verificati 4 tentati suicidi, 42 atti di autolesionismo gravi e 34 atti di aggressione alcuni dei quali anche nei confronti del personale di Polizia Penitenziari”. Napoli: progetto “Business chance”; da Confindustria un’opportunità per giovani ex - detenuti Il Mattino, 15 novembre 2010 Un sostegno tecnico e finanziario per lo sviluppo di microbusiness ideati da giovani under 25, che siano attualmente ristretti o abbiano esperienza di detenzione nell’Istituto Penale Minorile di Nisida. È uno dei punti salienti previsti dal Progetto Business Chance, iniziativa di responsabilità sociale d’impresa promossa da Unione Industriali Napoli, Mikro Kapital, Dipartimento della Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia, Cooperativa Il Quadrifoglio e Consiglio Regionale della Campania. Il Protocollo d’intesa per il Progetto Business Chance sarà firmato nel corso di un incontro in programma domani, martedì 16 novembre alle ore 10.30, presso la sede dell’Unione Industriali, in piazza dei Martiri 58. All’incontro, che rientra nelle manifestazioni della IX Settimana della Cultura d’Impresa di Confindustria, interverranno il Presidente dell’Unione Industriali di Napoli, Giovanni Lettieri, il Direttore Generale della Società Mikro Kapital, Vincenzo Trani, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per la Regione Campania, Adriana Tocco, il Segretario Generale della Fondazione Vodafone Italia, Ida Linzalone, il Direttore del Centro di Giustizia Minorile per la Campania, Sandro Forlani, il Presidente della Cooperativa Il Qadrifoglio, Lidia Ronghi. Ragusa: carceri sovraffollate e organico guardie carcerarie ridotto all´osso La Sicilia, 15 novembre 2010 Non se la passano per niente bene né i detenuti, né gli agenti di polizia penitenziaria delle due carceri di Ragusa e Modica. Una situazione al limite, in linea con il preoccupante trend nazionale che dal 1° gennaio 2010 ha fatto registrare dati impressionanti: 58 detenuti, 4 agenti penitenziari ed un dirigente generale, si sono suicidati. In provincia, negli ultimi 11 mesi, si sono verificati 4 tentati suicidi, tre di detenuti e uno da parte di un agente di polizia penitenziaria. L’ultimo suicidio di un detenuto risale a quattro anni fa. Le cause che spingono i carcerati a farla finita sono molteplici, e trovano nel sovraffollamento delle carceri il comune denominatore. La casa circondariale del capoluogo ospita 260 detenuti, compresa anche la sezione femminile, a fronte della capienza massima di 182. Ne consegue che in celle pensate per due detenuti, si trovano costretti a convivere fino a cinque persone in spazi angusti, ogni giorno per almeno 20 ore su 24. Il carcere di Modica ospita 50 detenuti, a fronte di un massimo di 30. Ne conseguono comportamenti aggressivi, esasperazione, depressione, che si accentuano soprattutto tra gli immigrati. Cinque di loro ingoiarono circa un anno fa delle lamette nel carcere di Ragusa, in un gesto estremo di autolesionismo. Si salvarono grazie al pronto ricovero in infermeria. Una bomba ad orologeria con la quale devono fare quotidianamente i conti gli agenti di polizia penitenziaria, il cui organico è ridotto all’osso, con circa mille unità in meno su scala nazionale. In Sicilia sono state di recente assegnate solo 30 unità, una goccia nell’oceano. Nel carcere di Ragusa l’organico della polizia penitenziaria conta su 88 unità rispetto alle 117 previste, circa il 22% in meno. Non cambia la situazione a Modica, con 30 agenti effettivi su 37 previsti in organico, il 10% in meno. Ne conseguono condizioni di lavoro logoranti e turni massacranti, senza la garanzia dei livelli minimi di sicurezza. Si rischia di sprofondare nel tunnel della depressione. L’ultimo tentato suicidio di un agente a Ragusa risale allo scorso agosto, quando un assistente capo ragusano di 44 anni ha tentato di impiccarsi nel garage di casa. Adesso l’uomo sta bene. Grida allo scandalo il sindacalista Francesco Accardi, segretario generale aggiunto della Fns Cisl sicurezza, secondo cui “Le carceri, sempre più fatiscenti e carenti dal punto di vista igienico sanitario, stanno scoppiando. Ma non interessa e nessuno, neanche al ministro Alfano. I detenuti non sono spazzatura umana - dichiara Accardi - e pretendiamo maggior rispetto per loro e per noi agenti di polizia penitenziaria, che non ci stancheremo mai di lottare per il rispetto dei nostri diritti”. Reggio Calabria: Centro di giustizia minorile e Fondazione Calabria siglano un accordo Redattore Sociale, 15 novembre 2010 L’intesa prevede interventi congiunti a sostegno dei minori in area penale e delle loro famiglie. L’obiettivo è prevenire disagio e devianza. Siglato un accordo di collaborazione tra il Centro di giustizia minorile per la Calabria e la Basilicata e la Fondazione Calabria etica. Il protocollo, frutto di contatti precedentemente intercorsi tra le due istituzioni nonché di una positiva precedente collaborazione sperimentale a Reggio Calabria, è stato sottoscritto per il Centro di Giustizia Minorile dal dirigente Angelo Meli, e per la Fondazione Calabria etica dal presidente Luigi Bulotta. L’accordo prevede l’avvio di un percorso sinergico, nell’intero territorio calabrese, per l’attuazione di interventi congiunti ed integrati a sostegno dei minori in area penale e delle loro famiglie. Attraverso l’accordo, il Centro e la Fondazione si propongono di promuovere, nei distretti di Corte d’Appello di Catanzaro e Reggio Calabria, “il benessere del sistema famiglia partendo dalla creazione di una cultura della prevenzione e di contrasto del disagio minorile e della devianza”. Obiettivo precipuo, quindi, è quello di incentivare risorse a sostegno dei minori e delle loro famiglie a rischio di esclusione sociale nell’area territoriale compresa tra Catanzaro e Reggio Calabria, in sinergia con gli attori sociali pubblici e privati. Il Centro di giustizia minorile e la Fondazione Calabria etica, si propongono, dunque, di attivare ogni forma di collaborazione ed integrazione delle rispettive organizzazioni per lo sviluppo di efficaci interventi di prevenzione del disagio minorile attraverso attività di sostegno socio - educativo per minori e giovani a rischio devianza e delle loro famiglie. I due organismi intendono condividere azioni di sostegno nei rispettivi territori di competenza nella organizzazione e realizzazione di progetti mirati alla salute fisica e psicologica dei minori e dei giovani del circuito penale. Altro importante impegno è quello di collaborare per la promozione e il potenziamento delle reti primarie e secondarie dell’utenza, rafforzando i rapporti con le famiglie e la comunità di appartenenza, con l’obiettivo di sostenere il reinserimento sulla base di una progettualità condivisa e orientata alla modifica degli atteggiamenti devianti. Firenze: quinto giorno del “digiuno a staffetta” contro il sovraffollamento di Sollicciano Ansa, 15 novembre 2010 È arrivato al quinto giorno lo sciopero della fame “a staffetta” lanciato dal Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone, per denunciare il grave sovraffollamento nel carcere fiorentino di Sollicciano dove oggi ci sono 1.027 detenuti, contro una capienza regolamentare di 490. La protesta dovrebbe andare avanti fino a Natale. Corleone, lo scorso 11 novembre, aveva avviato il digiuno, sospeso poi lo stesso giorno, dopo che era arrivata la prima adesione da parte del consigliere comunale di Firenze Stefano Di Puccio (gruppo misto), che oggi è arrivato al quinto giorno di sciopero. Corleone digiunerà di nuovo dal 18 al 20 novembre; dopo di lui proseguiranno don Alessandro Santoro, dell’associazione “Il Muretto”, il 21 e il 22, e Giancarlo Scheggi dell’associazione “Andrea Tamburi”, il 23 e il 24 novembre. Inoltre hanno aderito anche l’avvocato Nicola Federici ed Eros Cruccolini, capogruppo in Palazzo Vecchio di Sinistra Ecologia Libertà. San Gimignano (Si): tentata evasione dal carcere, bloccato un detenuto bulgaro Ansa, 15 novembre 2010 Era riuscito a scavalcare la prima cinta di mura costruendosi con delle lenzuola legate, una specie di corda. Bloccato dagli agenti. La denuncia del sindacato Cisl - Fns di Siena: “Allarme affollamento e carenza personale”. Tentativo di evasione nel carcere di San Gimignano: un detenuto bulgaro ha realizzato una specie di corda spezzando delle lenzuola e con quella ha scavalcato il muraglione del cortile raggiungendo l’intercinta del penitenziario dove è stato poi bloccato dalla polizia penitenziaria. Lo rende noto il segretario provinciale di Cisl - Fns di Siena, Giuseppe Sottile che, lodando l’operato degli agenti, rileva il mix esplosivo che caratterizza l’istituto di San Gimignano, per sovraffollamento di detenuti, sono più di 400, e carenza d’organico della polizia penitenziaria, 40% in meno delle forze previste. Secondo quanto spiegato in una nota, il tentativo di evasione è avvenuto verso le 15, durante l’ora d’aria. “La prontezza degli operatori in servizio presso le postazioni della sala regia e della sentinella - spiega Sottile - è stata determinante nell’impedire l’evasione” del detenuto che, catturato, è stato riportato immediatamente nella cella detentiva. Sottile spiega di non potersi “esimere da rivolgere una grossa critica agli organi governativi e dell’Amministrazione penitenziaria per l’ennesimo fallimento sull’incremento dell’organico di polizia penitenziaria da anni sostenuto e promesso”, definisce la carenza d’organico e il sovraffollamento dei detenuti “un mix esplosivo che sta generando un grave deficit operativo che inevitabilmente comprometterà la stabilità gestionale del penitenziario e annuncia che “iniziative di lotte sindacali saranno prese in considerazioni nei prossimi giorni”. Caluzzo (Cn): interrogazione di Rita Bernardini; 11 casi di scabbia tra i detenuti Agenparl, 15 novembre 2010 Nel carcere di Saluzzo di Cuneo sono stati accertati undici casi di scabbia. A darne notizia è l’Osapp, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che comunica che i contagiati sono stati isolati in due celle. Il Segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, ha espresso la sua preoccupazione innanzitutto per eventuali tentativi di suicidio e in secondo luogo per le emergenze di ordine sanitario quasi impossibili da fronteggiare, causata dal sovraffollamento e dalla carenza degli organici di sorveglianza. Lo rendono noto i deputati Pd, in un’interrogazione ai Ministri della Giustizia e della Salute a prima firma dell’on. Rita Bernardini presentata lo scorso 10 novembre alla Camera, per sapere quali iniziative si intendano adottare per debellare l’epidemia e se in altre carceri vi sia traccia della stessa patologia. Savona: Remigio (Pdl); il Comune indichi area per costruire il nuovo carcere Secolo XIX, 15 novembre 2010 “Basta passerelle mediatiche di politici e amministratori, sul carcere di Savona, che è in condizioni fatiscenti per chi è costretto a viverci, è ora di intervenire una volta per tutte”. È duro il tono dell’interpellanza urgente al sindaco che il consigliere comunale del Pdl, Alfredo Remigio, ha presentato nei giorni scorsi. “Da alcuni anni il carcere di Savona è il contenitore di tutti i disagi sociali - ha scritto - ci vivono quasi sempre il doppio dei detenuti che ci potrebbero stare. Ormai la situazione di sovraffollamento e di degrado ha raggiunto limiti insopportabili per chiunque e quindi è doveroso che il Comune si attivi per capire, una volta per tutte, come stanno davvero le cose per la costruzione del nuovo istituto e se è immaginabile, visto il fallimento di ogni altra soluzione prospettata finora, ipotizzare la costruzione del nuovo in Valbormida dove c’è la scuola di polizia penitenziaria”. Genova: detenuto minaccia agente con una lametta da barba Secolo XIX, 15 novembre 2010 Un detenuto marocchino ha aggredito e minacciato nel carcere di Marassi alcuni agenti di polizia penitenziaria armato di un lametta e di una lamiera chiedendo di poter avere una cella tutta per sé. Ne dà notizia il sindacato autonomo della polizia penitenziaria tramite il segretario generale Roberto Martinelli. Il detenuto, un nordafricano di 35 anni in carcere per motivi di droga è stato disarmato a fatica ed è stato trasferito in un’altra sezione del carcere. “La protesta del marocchino - sottolinea Roberto Martinelli, segretario del sindacato Sappe - riporta l’attenzione sul sovraffollamento della casa circondariale di Marassi dove il numero dei detenuti è quasi il doppio rispetto a quello previsto dal regolamento”. Udine: carcerati-attori nel video di Rita Maffei proiettato al MedFilm Festival di Roma Messaggero Veneto, 15 novembre 2010 Il video Michele Kohlhaas ideato e girato dalla regista Rita Maffei assieme ad alcuni detenuti della Casa Circondariale di Udine è stato proiettato ieri al MedFilm Festival di Roma in una particolare sezione del grande Festival cinema del Mediterraneo riservata ai cortometraggi realizzati nelle carceri italiane. “Corti dalle carceri” - questo il titolo della sezione - coinvolge gli istituti penitenziari italiani in cui si sono ideati corto e mediometraggi sul tema del festival, quest’anno connesso alle questioni sollevate in questo Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione. Dall’11 al 21 novembre arriveranno a Roma - a quello che è uno dei festival storici della Capitale - circa 100 film e 40 protagonisti del cinema mediterraneo ed europeo. Il video di Rita Maffei - che si potrà vedere alla Casa del cinema, in Sala Kodak alle 11 - nasce in particolare da una esperienza all’interno del carcere udinese, dove la regista ha più volte lavorato in questi anni conducendo laboratori di teatrali nell’ambito del Progetto di Attività Socioculturali curato dal CSS Teatro stabile di innovazione del Fvg. Il video testimonia alcune storie e racconti, anche personali e a volte autobiografici, sull’ingiustizia in un riuscito cortocircuito con alcuni nodi drammatici del racconto di Heinrich von Kleist, Michele Kolhaas, anche alla base di uno degli spettacoli più belli dell’attore Marco Baliani. “Ognuno dei partecipanti al mio laboratorio - spiega Rita Maffei - ha scelto la parte del racconto di Kleist che desiderava interpretare, ma in modo tale da dare a ognuno l’opportunità di calarsi nel ruolo del protagonista”. Immigrazione: Rapporto Medu; il Cie di Ponte Galeria è inadeguato a garantire dignità umana Redattore Sociale, 15 novembre 2010 Nessun miglioramento dopo il passaggio della gestione da Croce Rossa a cooperativa Auxilium: assistenza sanitaria solo di base, troppi psicofarmaci. “No alla proposta del prefetto di un nuovo Cie nel Lazio”. Il Cie di Ponte Galeria, alle porte di Roma, “si conferma essere una struttura del tutto inadeguata a garantire il rispetto della dignità umana degli immigrati trattenuti”, e se le criticità rilevate in passato, quando la gestione era affidata alla Croce Rossa, permangono anche ora, con la cooperativa Auxilium nel ruolo di ente gestore, e sono comuni alla gran parte degli altri Cie presenti sul territorio italiano, è evidente come “la proposta avanzata dal prefetto di Roma di chiudere il Centro di Ponte Galeria e di aprirne un altro maggiormente attrezzato in un’altra zona più periferica del Lazio, non possa in alcun modo superare le criticità di fondo costantemente rilevate nel corso dei dodici anni di storia del centro”. Ad affermarlo è il terzo rapporto di “Medici per i diritti umani” (Medu) sul centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, alle porte di Roma. Si tratta del più grande centro a livello nazionale. Le considerazioni sono il frutto della visita realizzata dagli operatori del Medu il 14 ottobre scorso e delle interviste realizzate agli immigrati presenti nella struttura. Il documento segnala che “le caratteristiche strutturali del centro richiamano quelle di un istituto penitenziario del tutto inadatto a garantire una permanenza dignitosa agli immigrati spesso trattenuti per un periodo prolungato di tempo” e che “persiste la mancanza di un adeguato collegamento con le strutture pubbliche esterne che si traduce in un difficile accesso alle cure specialistiche e agli approfondimenti diagnostici”. In particolare “il diritto alla salute per i trattenuti appare dunque ancora meno garantito che in passato in ragione del fatto che l’ente gestore è in grado di assicurare solo un’assistenza sanitaria di primo livello, che il personale sanitario della Asl non ha accesso alla struttura e che il periodo massimo di trattenimento è stato prolungato a sei mesi”. La cooperativa Auxilium ha sostituito la Croce Rossa nella gestione del campo a partire da marzo 2010. “Particolare preoccupazione” viene segnalata per l’uso degli psicofarmaci all’interno del centro, con una “prescrizione eccessiva e, sovente, irrazionale di farmaci sedativi ai trattenuti, in mancanza di personale medico specialistico”. Immigrazione: Rapporto Medu; nel Cie di Ponte Galeria 80% donne vittime tratta prostituzione Redattore Sociale, 15 novembre 2010 “Il Cie non è il posto giusto per garantire loro assistenza e protezione”. Ben 4 uomini su 5 arrivano dal carcere: “È un’ulteriore estensione della pena detentiva”. I romeni i più numerosi. Gli sforzi per ampliare le attività ricreative Un “drammatico clima di disagio” e una situazione che “permane esplosiva e imprevedibile” nonostante le rassicurazioni in tal senso dell’ente gestore. Così “Medici per i diritti umani” descrive nel suo “Terzo rapporto” la realtà di Ponte Galeria, vicino Roma, il più grande Centro di identificazione ed espulsione d’Italia. Con una media di 270 persone trattenute (la capienza globale è di 366, non è segnalato alcun fenomeno di sovraffollamento), nel centro transitano soprattutto romeni (la nazionalità più diffusa) oltre a nigeriani, marocchini, algerini, ucraini e serbi. L’80% dei trattenuti uomini provengono dal carcere mentre fra le donne quattro su cinque sono vittime della tratta della prostituzione. “Come sistematicamente rilevato anche nei precedenti rapporti - scrive il Medu - il trattenimento nel centro rappresenta spesso un prolungamento della detenzione carceraria: accade così che detenuti in condizioni d’irregolarità non siano identificati durante il periodo della permanenza in carcere, e allo scadere della pena, in luogo di essere rimpatriati, siano trasferiti nel centro, dovendo così scontare un periodo aggiuntivo di trattenimento”. “La permanenza nel Cie - si legge - viene sovente percepita da un ex - detenuto come un’ingiusta estensione della pena già scontata”: una situazione che con facilità può “alimentare tensioni e divenire difficilmente gestibile”. Appare poi “del tutto improprio” il trattenimento nel Cie di donne potenziali vittime di tratta, in quanto struttura “evidentemente non adeguata per avviare gli opportuni percorsi di assistenza e protezione sociale a favore di persone particolarmente vulnerabili”. Una riflessione anche sulla presenza così massiccia di trattenuti romeni, la cui espulsione, in quanto comunitari, è al momento consentita “esclusivamente per motivi di sicurezza dello Stato e ordine pubblico, ipotesi di minaccia grave e reale per la società non giustificabile automaticamente nemmeno con l’esistenza di condanne penali”. Secondo il Medu, “trattandosi di ipotesi eccezionali e circoscritte, un numero così alto di trattenimenti di cittadini rumeni suscita dubbi circa possibili abusi dello strumento normativo”. In questo contesto, per “Medici per i diritti umani” l’altissima frequenza di atti di autolesionismo nei primi mesi dell’anno, insieme alle proteste e alla rivolta di marzo 2010, testimoniano la tensione, il disagio e il malessere che si respira nel centro, per quanto “rispetto alla visita compiuta due anni fa bisogna rilevare che gli ambienti abitati (camerate, bagni) presentano uno stato di mantenimento sensibilmente migliore. Per il Medu il centro presenta “l’aspetto di una struttura penitenziaria”, con il perimetro delimitato da alte mura vigilate a vista e recinzioni interne costituite da sbarre alte 5 metri: il previsto posizionamento di pannelli trasparenti a copertura dei settori maschili (serviranno ad impedire fughe sui tetti e proteste eclatanti) “non farà che rendere ulteriormente oppressiva la struttura”. Preoccupa anche la mancanza di un regolamento scritto (una circolare ministeriale la prevederebbe) ma viene dato atto che dopo l’estensione del periodo massimo di permanenza da 60 a 180 giorni “sono stati compiuti degli sforzi per garantire maggiori spazi ed attività ricreative e di svago”: in particolare l’ente gestore riferisce di aver avviato corsi d’italiano, arte terapia, danza per le donne e cineforum pomeridiano, mentre sono presenti un campo di calcetto nuovo, una piccola biblioteca con vecchi testi e videocassette, spazi per le attività di culto. E nelle camerate (dormitori da otto posti letto per gli uomini e sei per le donne) ci sono delle tv. Interventi che però non cambiano il giudizio finale: “La struttura appare del tutto inadeguata ad assicurare condizioni di vita dignitose a persone che vi permangono per 24 ore al giorno affrontando periodi di trattenimento che si possono prolungare fino a 6 mesi”. Immigrazione: dopo sette anni di carcere ottiene permesso di soggiorno per motivi umanitari Corriere della Sera, 15 novembre 2010 Condannato a sette anni per associazione per delinquere finalizzata al terrorismo, esce dal carcere e ottiene dal giudice un permesso di soggiorno per motivi umanitari. La storia di Avni Er, giornalista e intellettuale turco, 39 anni, contiene tutto e il contrario di tutto. Per esempio, delle due l’una: o davvero lui è, come sostiene, “un oppositore del regime turco arrestato e ridotto al silenzio soltanto per aver difeso i diritti umani”, tesi sostenuta da centinaia di intellettuali, scrittori, politici, giornalisti, avvocati che si sono spesi per la sua causa con sit - in, appelli, blog e quant’altro (fra loro anche Nichi Vendola). Oppure è il terrorista internazionale che la Corte d’Assise d’Appello di Perugia ha condannato per la sua attività nell’associazione sovversiva Dhkp e che l’Ufficio di Sorveglianza di Avellino ha definito “socialmente pericoloso” confermando la sua espulsione dal territorio italiano. La Turchia lo rivorrebbe, ha aperto due procedimenti penali contro di lui per terrorismo e ne ha chiesto più volte, inutilmente, l’estradizione. Il ministro degli Interni Roberto Maroni ha voluto l’intervento dell’avvocatura dello Stato per far valere le ragioni di un “no” alla sua permanenza in Italia. Ma il giudice Achille Bianchi, II sezione del tribunale civile di Bari, ordina al questore barese di rilasciare a Avni Er il permesso di soggiorno per motivi umanitari e scrive nella sua sentenza che “la scelta di ritenerlo meritevole di protezione internazionale è confortata dalla sussistenza del dubbio circa la reale situazione che Avni Er dovrebbe affrontare una volta giunto in Turchia”. E cioè: esiste “il convincimento, al di là di ogni ragionevole dubbio, che sarebbe sottoposto a un nuovo processo per lo stesso fatto - reato se dovesse rientrare in Patria” e poi andrebbe incontro a “detenzione in condizioni non certamente rispettose dei diritti umani primari”. Anche la Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato politico si è occupata del caso Avni. Ha respinto la sua richiesta citando fonti “tendenzialmente rassicuranti circa la salvaguardia dei diritti dei detenuti politici” scrive il giudice Bianchi. Che però su quelle rassicurazioni non è d’accordo: “Le fonti citate dalla Commissione - dice la sua sentenza - sono contraddette dalle risultanze di segno diametralmente opposto, dei rapporti delle organizzazioni internazionali come Human Rights Watch ed Amnesty International”. Sui blog che sostengono la sua causa, Avni Er è un eroe. E se per caso ricorsi e controricorsi ribaltassero un giorno la decisione del giudice Bianchi, diventerebbe certo un caso - simbolo, simile a quello di Abdullah Òcalan, il leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), che nel 1998 si consegnò alla polizia italiana confidando nell’asilo politico poi non concesso dal governo D’Alema. Òcalan, dopo un rocambolesco trasferimento Italia - Kenya, fu arrestato dai servizi segreti turchi mentre era nelle mani di diplomatici greci e i Curdi misero in piedi proteste, disordini e assalti alle sedi diplomatiche greche in tutto il mondo. Avni Er dice che l’operazione con la quale è stato arrestato “è partita dal mio Paese contro persone che facevano giornalismo attivo”, che “lo scopo degli arresti era di soffocare la voce degli oppressi in Turchia”. La sua voce è stata “soffocata” per sei anni, uno scontato per buona condotta. Iran: arrestati cinque avvocati con accusa di reati contro la sicurezza nazionale e contro la morale Ansa, 15 novembre 2010 Cinque avvocati, tra cui tre donne, sono stati arrestati in Iran. Si tratta degli ultimi di una serie di arresti che hanno colpito attivisti per i diritti umani nella Repubblica islamica, tra i quali diversi legali, a partire dalle contestate elezioni presidenziali dello scorso anno che videro riconfermato Mahmud Ahmadinejad. Tre degli avvocati, ha detto il procuratore generale di Teheran, Abbas Jafari Dolatabadi, citato dall’agenzia Fars, sono stati arrestati all’aeroporto internazionale Imam Khomeini della capitale al loro rientro da un viaggio in Turchia. “Altri due avvocati a loro legati sono stati arrestati in Iran”, ha aggiunto il magistrato, secondo il quale le accuse sono di avere commesso reati relativi alla sicurezza nazionale e violazione delle norme morali della Repubblica islamica al di fuori del Paese. Jafari Dolatabadi non ha fornito le identità degli arrestati. Ma in precedenza siti dell’opposizione avevano riferito degli arresti di tre donne avvocato, Sarah Sabbaqian, Mariam Kian - Ersi e Mariam Karbassi, bloccate da agenti degli apparati di sicurezza al loro rientro dalla Turchia. Secondo le stesse fonti, non si sa dove le tre donne siano detenute. Secondo il sito Kaleme, Sarah Sabbaqian, membro del comitato per i diritti delle donne e dei bambini dell’Associazione degli avvocati iraniani, era già stata arrestata l’8 luglio scorso insieme ad altri colleghi, tra i quali Mohammad Ali Dadkah, collaboratore del Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi. Il sito ha aggiunto che la Sabbaqian è stata l’avvocato di un blogger, Hossein Ronaghi, condannato a 15 anni di reclusione. Mariam Kian - Ersi è stata invece legale di una donna, Kobra Najar, condannata alla lapidazione per adulterio, pena poi commutata in cento frustate. Diversi altri legali sono stati arrestati in Iran negli ultimi mesi. Trai loro, l’avvocatessa Nasrin Sotudeh, legale di diversi dissidenti, che ha attuato uno sciopero della fame in carcere per diverse settimane, e Javid Hutan - Kian, difensore di Sakineh Mohammadi - Ashtiani, la donna condannata alla lapidazione per adulterio per la cui salvezza si sono mobilitati governi e organizzazioni per i diritti umani in Occidente. L’ex avvocato di Sakineh, Mohammad Mostafai, è fuggito la scorsa estate dall’Iran per sottrarsi all’arresto e, secondo i siti dell’opposizione, è stato condannato in contumacia a sei anni di reclusione. Cuba: liberato detenuto politico Arnaldo Ramos, primo dei 13 che hanno rifiutato esilio in Spagna Ansa, 15 novembre 2010 Il governo cubano ha liberato Arnaldo Ramos, il primo di un gruppo di 13 detenuti politici che si sono rifiutati di partire in esilio in cambio della libertà. Lo ha annunciato sua moglie Lidia Lima. Arnaldo Ramos, 68 anni, economista, è il più anziano tra i 75 oppositori arrestati nel marzo 2003 e considerati prigionieri di coscienza secondo Amnesty International (Ai). “Per ora non voglio dire niente, rimango in attesa che anche i miei compagni siano liberati”: è il primo commento fatto oggi da Arnaldo Ramos Lauzurique, rilasciato qualche ora fa da una prigione dell’Avana, primo di un gruppo di 13 detenuti politici che si sono rifiutati di partire in esilio in cambio della libertà. Alla domanda su cosa intenda fare ora che è libero, Ramos (68 anni) ha ricordato di essere un economista: ed è proprio quello che continuerò a fare, oltre - ha puntualizzato - alle mie attività di tipo politico. Ramos, che stava compiendo una condanna in carcere di 18 anni, ha oggi accompagnato le Damas de Blanco nella consueta passeggiata nel centro dell’Avana di ogni domenica da parte del gruppo di mogli e familiari dei detenuti politici cubani.