Giustizia: la “class action” promossa da 50 detenuti; il carcere è un inferno, risarciteci di Romina Marceca La Repubblica, 14 novembre 2010 I detenuti siciliani si rivolgono alla Corte europea di Strasburgo denunciando la situazione nelle carceri e chiedono un risarcimento danni per le condizioni “disumane”. Nel ricorso cinquanta reclusi, assistiti da un avvocato, raccontano la loro vita fra topi, scarafaggi, celle anguste e senza riscaldamento. Tra scarafaggi, topi e celle sovraffollate trascorrono i loro giorni da detenuti. Infreddoliti e senza acqua calda scontano pene per rapine, furti e spaccio ma assicurano che “baratterebbero i loro anni di reclusione con due giorni tra le fiamme dell’inferno”. “Perché questo è già l’inferno”, raccontano i carcerati. Adesso in cinquanta hanno deciso di ricorrere contro lo Stato per le condizioni ritenute “disumane” e si sono rivolti alla Corte europea per i diritti umani. Sono i detenuti di quattro carceri siciliane e del penitenziario Fuorni di Salerno, famoso per il più alto tasso di suicidi. Le altre carceri dalle quali sono arrivate le denunce sono l’Ucciardone e il Pagliarelli, il penitenziario di Castelvetrano e la casa circondariale di Giarre. A raccogliere le proteste dei carcerati, che hanno tutti tra i 25 e i 40 anni, è stato l’avvocato Maximillian Molfettini, che di detenuti si occupa da anni. Attraverso un questionario, il legale ha collezionato racconti densi di sofferenza. “Il ricorso è un’idea che ho sviluppato dopo i colloqui con i miei assistiti. Adesso chiederemo un’equa riparazione per il danno che viene arrecato al detenuto - spiega l’avvocato - Sosteniamo che c’è stata una violazione dell’articolo tre della carta dei diritti dell’uomo per i trattamenti inumani e degradanti. I detenuti sono assistiti tutti con il gratuito patrocinio”. I racconti che emergono denunciano casi di sospetta malasanità, sovraffollamento delle celle, mancanza di socializzazione, violazione delle norme igieniche e delle condizioni di vivibilità all’interno dei penitenziari. Le voci dal carcere sono tutte raccolte in un dossier preparato da Molfettini. Giuseppe ha quarant’anni ed è dentro per rapina. È all’Ucciardone. “Le celle sono, per la maggior parte con letti a castello a tre piani - racconta il detenuto - Una notte, tra le prime che ho trascorso in carcere sono caduto dalla mia branda, che era proprio al terzo piano a due metri di altezza. Ho riportato contusioni in tutto il corpo e devo ringraziare il cielo se non è andata peggio”. Ma al carcere Ucciardone oltre al sovraffollamento - da otto anni si attende l’inaugurazione della sesta sezione che aggiungerebbe 200 posti - c’è anche un altro problema. È quello dei bagni. Nell’area dedicata all’ora d’aria i servizi igienici sono guasti. “Ci è stato chiesto di autotassarci con 10 euro per ripararli - racconta Andrea, 23 anni, spacciatore - Abbiamo rifiutato questa assurda richiesta. E così ci ritroviamo a doverci tenere la pipì durante il tempo all’aria aperta perché non possiamo tornare in cella”. Una delle situazioni ritenute più gravi per la maggior parte dei detenuti è quella della mancanza di acqua calda e climatizzatori. “Facciamo le docce fredde”, denuncia un detenuto del carcere di contrada Strasatto a Castelvetrano. Ad agosto, proprio sulle condizioni del penitenziario trapanese, un deputato nazionale gridò allo scandalo per la mancata realizzazione dell’allacciamento alla rete idrica dopo quasi 20 anni dalla realizzazione del carcere. Non va maglio a Fuorni, dove l’unico detenuto che ricorre insieme ai siciliani è un ultracinquantenne nato a Enna ma residente a Napoli. A Palermo è stato bloccato con 40 chili di hashish. Nelle ventinove carceri siciliane sono ospitati 8.200 i detenuti, a fronte di una capienza massima di 5.500 posti. “I metri quadri per detenuto non sono rispettati - dice Lino Buscemi, dirigente regionale dell’Ufficio del garante per i diritti del detenuto - Uno dei punti sui quali ci battiamo da troppi anni”. Giustizia: lo Stato trattò con la mafia; per fermare le stragi 40 boss fuori dal 41-bis di Attilio Bolzoni La Repubblica, 14 novembre 2010 Dalle parole dell’ex Guardasigilli Conso e di Amato squarci di verità sulla trattativa. L’allora ministro ha ammesso di non aver rinnovato il carcere duro per i 40 boss detenuti. La Procura indaga sull’ex direttore delle carceri che poi difese esponenti di Cosa Nostra. È la prima volta che un uomo di governo dell’epoca confessa un cedimento, un gesto di resa verso la mafia siciliana. È la prima volta, dopo una sconcertante omertà di Stato, che qualcuno ammette di avere cercato una tregua con Cosa Nostra. In tempi di guerra volevano fare la pace con i boss “per evitare altre stragi”. La deposizione in Commissione Antimafia dell’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso apre un varco intorno a quella trattativa cominciata con l’uccisione di Falcone e mai finita. C’era nel 1992 fra gli attentati di Capaci e di via D’Amelio con la stesura del famoso papello custodito da Vito Ciancimino, c’era fra la misteriosa cattura di Totò Riina e le bombe di Firenze, c’era ancora nella seconda metà degli Anni Novanta quando Bernardo Provenzano girava indisturbato per Palermo e quando i capi più rappresentativi dell’organizzazione lanciavano l’offerta di una dissociazione di massa. E, assumendo anno dopo anno forme diverse, quella trattativa si è trascinata fino a questi ultimi mesi con le enigmatiche mosse dei fratelli Graviano di Brancaccio, ergastolani che hanno fatto intendere di voler negoziare lanciando messaggi “a chi non ha mantenuto gli impegni”. Destinatario finale: Silvio Berlusconi. Per seguire i fili di questa trama oggi però è decisivo ripartire dal clamoroso annuncio dell’ex Guardasigilli sul mancato rinnovo del carcere duro - il 41 bis - per 140 detenuti dell’Ucciardone, una svolta per una ricostruzione più convincente dei fatti e per le eventuali conseguenze nelle inchieste giudiziarie di Palermo e di Caltanissetta e di Firenze. Se da una parte l’ex ministro giura di avere agito in solitudine, dall’altra svela un dettaglio che in quel 1993 nessuno sapeva al di fuori dei boss o di coloro che con i boss trattavano: e cioè la presenza sulla scena di Provenzano, diventato il mafioso che reggeva le sorti di Cosa Nostra. Come faceva il ministro Conso a conoscere il “peso” di quel latitante se anche gli addetti ai lavori più qualificati, gli investigatori di prima linea, sospettavano addirittura che Provenzano fosse morto? All’inizio di quel 1993 fu nientemeno che Balduccio Di Maggio, quello che si prese il “merito” di aver fatto arrestare Totò Riina, a rivelare che “probabilmente” Bernardo Provenzano era passato a miglior vita. Ufficialmente era un fantasma per tutti. Tranne per chi gli stava vicino. Ma quella è solo una delle incoerenze che affiorano nella deposizione del Guardasigilli. Giovanni Conso non è stato l’unico a indietreggiare, a ritirarsi nel 1993 davanti alle bombe di Cosa Nostra. Il disvelamento di un documento rimasto fino ad ora sepolto smentisce - sbugiarda - tutti coloro che hanno sempre garantito di “essere all’oscuro” di qualsiasi patto. Sono carte ufficiali che come dinamite potrebbero far crollare muri di segretezza. Nel marzo del 1993 - otto mesi prima della revoca del 41 bis decisa da Conso - il direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato aveva inviato al ministero della Giustizia (che era sempre Conso) una relazione nella quale sosteneva “l’opportunità di rinunciare a questi decreti emergenziali”. Il documento scopre anche che altri uomini delle istituzioni erano coinvolti in quel “dibattito” sul 41 bis - di sicuro il capo della polizia Vincenzo Parisi e il ministro degli Interni Nicola Mancino - che secondo Amato avrebbero manifestato “riserve sull’eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario” ed esercitato anche “pressanti insistenze” per cancellare il carcere duro. Perché nessuno ha mai voluto parlare di quei misteri? Perché tanti ostinati silenzi? Un ultimo particolare, non sfuggito ai procuratori di Palermo, riguarda la singolare posizione di Nicolò Amato. Direttore delle carceri fino al 1993, poi difensore di alcuni boss dell’ala “moderata” di Cosa Nostra come Giuseppe Madonia di Caltanissetta, poi ancora (e a sorpresa) avvocato di Vito Ciancimino. Proprio lui, quello del papello, il primo protagonista degli accordi fra Stato e mafia. Giustizia: talpe e ricatti, così “sparì” il carcere duro di Peter Gomez La Repubblica, 14 novembre 2010 Un’estorsione o se preferite un tentativo di ricatto (riuscito) alto Stato e alle istituzioni. Ecco cosa sono state le stragi di mafia del 1993. Ed ecco perché solo oggi a 18 anni di distanza, in molti ritrovano brandelli di memoria. Di fronte ai documenti sulla trattativa forniti da Massimo Ciancimino e alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, ha ormai poco senso negare. Meglio allora minimizzare e dire, come ha fatto l’ex ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni Conso, che la decisione di revocare, tra il 4 e il 6 novembre del 1993, il 41-bis a 40 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone, fu da lui presa in totale autonomia “senza consultare nessuno”. L’obiettivo, certo, era quello di evitare altre bombe. Ma, sostiene Conso, nessuno oltre a lui, era al corrente della scelta e soprattutto nessuno trattava. Dalla cronache di quei mesi e dalla lettura dei documenti (finora disponibili) emerge però una storia diversa. Non solo a Roma si sapeva benissimo che dietro il tritolo c’era la volontà di Cosa Nostra di spingere la politica a chiudere le carceri di Pianosa e l’Asinara e arrivare alla cancellazione del 41-bis per tutti i detenuti (il carcere duro). Nelle Capitale succedeva di più e di peggio. Qualcuno teneva i boss informati in tempo reale di ciò che si discuteva in segreto negli uffici del ministero di Grazia e Giustizia. E spiegava alla mafia cosa era stato deciso sul 41-bis, un decreto che allora doveva essere rinnovato ogni sei mési. Anche per questo tutti gli ultimi anni di vita di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’indagine sulle stragi morto nell’aprile del 2003, sono stati dedicati alla ricerca delle talpe istituzionali che dialogavano con Cosa Nostra. Quello che aveva scoperto, Chelazzi lo riassume in un interrogatorio a Claudio Martelli nel febbraio del 2001. A Martelli, che era stato ministro prima di Conso, il magistrato racconta come Bernardo Provenzano, nelle settimane precedenti agli attentati di Milano e Roma del 27 luglio ‘93, fosse particolarmente ottimista sul mancato rinnovo del carcere duro. I collaboratori di giustizia infatti erano concordi nel descrivere un Provenzano convinto “nei primi dieci giorni di giugno che il 41-bis si sarebbe rivelato un flop nelle mani delle autorità di governo”. E Provenzano, che oggi è ritenuto essere il Padrino con cui lo Stato e i suoi apparati dialogavano, allora non aveva torto. Il 12 febbraio 1993, circa un mese dopo l’arresto di Totò Riina, durante una riunione del Comitato nazionale per l’ordine pubblico e la sicurezza, sia il capo della Polizia, Vincenzo Parisi sia il ministro dell’Interno, Nicola Mancino, avevano espresso “riserve sulla durata” del 41-bis. E il 6 marzo Nicolò Amato, il direttore del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) aveva scritto al capo gabinetto di Conso, per proporne la revoca. 0 immediatamente, soluzione che Amato (vicino ai socialisti) prediligeva, o evitando la proroga dei decreti in scadenza per il 20 luglio. Di tutto questo dibattito, Provenzano sembrava dunque informato. E, per Chelazzi, il sospetto che sapesse si era mutato in certezza guardando a cosa era accaduto subito dopo. Il 4 giugno ‘93 il vecchio staff del Dap viene silurato. Vicedirettore delle carceri diventa Ciccio Di Maggio (oggi deceduto), un uomo che di revocare il carcere duro non ne vuole sapere. Da quel momento, spiega Chelazzi a Martelli, “lo stato maggiore delle stragi contrappunta le proroghe dei decreti, firmate dal ministro Conso dal 16 luglio in avanti, con una nuova raffica di attentati. Perché, praticamente nelle stesse ore nelle quali erano in corso le notifiche, partivano da Palermo i camion con l’esplosivo per Roma e per Milano, perché fosse possibile eseguire gli attentati, come poi è successo, praticamente negli stessi giorni nei quali gli uomini d’onore ricevevano le notifiche delle proroghe”. Qualcuno, insomma, dall’interno delle istituzioni, aveva avvertito Cosa Nostra. Chelazzi per capire attraverso che canale filtrassero le notizie batte varie strade. Inizialmente pensa al senatore Vincenzo Inzerillo, della sinistra Dc come Mancino, legato ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, gli autori materiali delle stragi (la posizione Inzerillo sarà però archiviata). Poi ragiona sugli incontri tra l’allora comandante del Ros, Mario Mori e il consigliori di Provenzano, Vito Ciancimino. Mori, anche se Ciancimino era ormai in carcere, un canale con i vertici di Cosa Nostra forse ce l’aveva. E per questo al magistrato appare singolare che, proprio per la mattinata del 27 luglio (a sera ci saranno gli attentati) Mori avesse segnato un appuntamento con Di Maggio accompagnato dalla scritta “per 41-bis”. Il generale voleva forse dirgli che la mafia era pronta a rispondere alle proroghe con il tritolo? Mistero. E certo, solo che Di Maggio, subito dopo le nuove bombe, dice in un’intervista che quella è la risposta alla firma dei decreti. Passano le settimane. I Graviano trascorrono il loro tempo tra la Versilia, il Veneto, Milano (dove secondo un in formatore incontrano Marcello Dell’Utri) e la Sardegna. Il 12 settembre un parlamentare De, Alberto Alessi, entra a passo veloce all’Ucciardone. E decide di restarci. Dice che non uscirà finché il ministro Conso “non revocherà il 41-bis”. A convincerlo a desistere dalla protesta, secondo i giornali, sarà poi una telefonata proprio con Di Maggio. Arriva novembre e Conso i 41-bis dell’Ucciardone li revoca per davvero. I boss sono allora sempre più convinti che le stragi paghino: per cancellare il carcere duro bisogna continuare con le bombe. Tanto che nel gennaio del 1994, Giuseppe Graviano vede Spatuzza e gli spiega di voler uccidere allo Stadio Olimpico di Roma 100 carabinieri. “Dobbiamo dare loro il colpo di grazia”, dice. Il telecomando però non funziona. L’autobomba non esplode. E i Graviano vengono poco dopo arrestati a Milano. Così chi nello Stato ha trattato con la mafia non si ritrova sulla coscienza altre decine di morti. Ma a ben vedere, questo, è solo un caso. Giustizia: Sidipe; i Direttori delle carceri proclamano stato di agitazione Agi, 14 novembre 2010 Stato di agitazione, con la possibilità di dichiarare lo sciopero, proclamato dal Sindacato direttori penitenziari (Sidipe). La decisione, informa una nota diffusa dal segretario nazionale Sidipe Enrico Sbriglia, è stata presa dal direttivo nazionale dell’organizzazione che rappresenta i direttori dei penitenziari. È stato “preso atto che il fantomatico Piano Carceri è evaso e si è trasformato in un Piano Fantasma camuffatosi attraverso qualche padiglione rimesso in sesto all’interno di qualche istituto, mentre le solenni dichiarazioni d’intenti - aggiunge il Sidipe - rendono tragicomica la situazione”. Il sindacato critica l’assenza di iniziative nel settore penitenziario, tra cui il ddl sulla detenzione domiciliare, l’assunzione di nuovo personale, nuovi concorsi per direttore penitenziario o i progetti per nuove carceri. “I tagli (meglio sarebbe dire le mutilazioni)”, aggiunge il Sidipe, “hanno riguardato orizzontalmente tutta l’amministrazione pubblica, comprese le carceri per le quali si proclamava lo stato d’emergenza. Com’è possibile -si interroga la nota sindacale- che il Governo non si sia interrogato su come possano gestirsi prigioni traboccanti di detenuti con meno risorse di quelle che sarebbero necessarie in condizioni di normalità?”. Giustizia: Sappe; un anno di emergenza carceri, ma nulla di concreto per deflazionarle Ristretti Orizzonti, 14 novembre 2010 “È quasi trascorso un anno dal decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri che ha classificato come emergenziale la situazione penitenziaria nazionale, ma nonostante ciò la classe politica è stata incapace di realizzare riforme ampie e condivise per meglio regolamentare la politica dell’esecuzione della pena in Italia, preferendo le polemiche politiche e partitiche alle priorità del Paese. Si continua a perdere tempo e l’implosione di un sistema che si avvia ad ospitare 70mila detenuti nelle patrie galere è ogni giorno più vicino. E allora non è più rinviabile un confronto con il Ministro della Giustizia Angelino Alfano per individuare i possibili correttivi al grave fenomeno del sovraffollamento penitenziario (oggi 69mila i detenuti presenti, il numero più alto mai registratosi nella storia d’Italia) che gravano pesantemente sulle condizioni psico-fisiche e lavorative degli appartenenti al Corpo. Bisogna adottare necessari ed urgenti correttivi in materia di sicurezza delle strutture penitenziarie del Paese. Necessaria è anche una riforma del Corpo, indispensabile al riassetto gerarchico e funzionale della Polizia Penitenziaria a vent’anni dalla sua istituzione. Occorre garantire una piena funzionalità del Corpo di polizia penitenziaria, le cui attività vanno svincolate da farraginosi passaggi burocratici. L’istituzione della Direzione generale della Polizia penitenziaria, in seno al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è sempre più necessaria per raggruppare, secondo criteri di omogeneità, tutte le attività ed i servizi demandati al Corpo, evitando passaggi di competenze tra i vari uffici dipartimentali.” Lo afferma in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. “Nell’immediato, una prima soluzione tampone per l’emergenza carceri” prosegue Capece “potrebbe essere quella di far fronte alla grave carenza di personale di Polizia Penitenziaria con l’impiego di militari per la sorveglianza dei muri di cinta delle carceri, oggi quasi completamente sguarniti proprio per la mancanza di agenti della Penitenziaria”. Il leader del Sappe punta su altro aspetto fondamentale: “Non si può fare sicurezza” conclude Capece “senza un’adeguata formazione ed aggiornamento professionale: quella che attualmente ci propina la Direzione Generale del Personale e della Formazione del Dap è vecchia di trent’anni ed è abbondantemente superata. La popolazione carceraria è cambiata, soprattutto per l’alta presenza di tossicodipendenti e stranieri tra i reclusi. Vi è quindi l’indifferibile necessità di elevare la funzionalità del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dotandolo di strumenti organizzativi che lo rendano efficiente e in grado di garantire una razionale distribuzione delle risorse di cui dispone. Questo obiettivo non può prescindere da una più adeguata organizzazione del Corpo di Polizia penitenziaria. Occorre dunque garantire la piena funzionalità della Polizia penitenziaria, con l’istituzione della Direzione generale del Corpo, in seno al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per raggruppare tutte le attività ed i servizi demandati alla quarta Forza di Polizia del Paese”. Giustizia: scritte Br contro Ionta; solidarietà dei sindacati di Polizia penitenziaria Apcom, 14 novembre 2010 Minacce al capo del Dap, Franco Ionta, firmate Brigate rosse. Scritte di intimidazione contro il magistrato sono apparse nei giorni scorsi all’Università Bocconi, a Milano. I sindacati che rappresentano gli agenti di polizia penitenziaria hanno espresso solidarietà a Ionta. Eugenio Sarno, segretario generale Uil-Pa, ha espresso la sua “piena, convinta e sincera solidarietà al capo del Dipartimento dell`amministrazione penitenziaria, Ionta, per il vile atto intimidatorio che lo ha visto oggetto di scritte minatorie da parte di sedicenti organizzazioni terroristiche”. Sarno ribadisce come si imponga “di tenere alta la soglia dell`attenzione per gestire e reprimere questi fuochi fatui del terrorismo interno”. E “tutti gli operatori penitenziari hanno ben presente e ben impresso nella memoria il tributo ed il martirio dei loro colleghi nella stagione di fuoco”. Anche Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, ha espresso la vicinanza e la totale solidarietà a Ionta. “Siamo fermamente convinti che la vile, inaccettabile e ignobile intimidazione non fermerà affatto il suo impegno per la legalità, impegno che vedrà sempre in primo piano anche e soprattutto il Corpo di Polizia penitenziaria”. Lettere: con gli assassini psicotici e seriali meglio il manicomio del carcere di Paolo De Pasquali (psichiatra e criminologo) Il Foglio, 14 novembre 2010 La conclusione della vicenda giudiziaria di Abel e Furlan, coppia di serial killer che agiva con la sigla “Ludwig”, ci sembra una buona occasione per esprimere il nostro parere in merito alla valutazione ed al trattamento da riservare agli assassini seriali. Nessuna meraviglia se anche Stevanin, Bilancia, Giudice, Bergamo, usciranno di prigione una volta scontata la pena; se li consideriamo comuni pluriassassini, non possiamo trattarli diversamente da tutti gli altri consimili. “Ma sono pericolosi!” potrebbe obiettare qualcuno. Vero. Ma perché non ricordarcene in tribunale al momento del giudizio? Una ragione c’è. Al termine di un processo per molteplici efferati omicidi, nessun giudice, nessuna giuria se la sente di infliggere al responsabile meno del massimo della pena. La possibilità di considerare una eventuale infermità di mente viene vista come un comodo escamotage per ottenere uno sconto di pena; diversi mafiosi sani di mente si sono fatti passare per pazzi ottenendo delle facilitazioni. Ma i serial killer sono altra cosa, sono “sui generis”, non esitiamo a definirli mostri, perché si macchiano di delitti aberranti, inusuali, apparentemente immotivati. È vero che non tutti i criminali che commettono omicidi raccapriccianti sono folli; ma è anche vero che alcuni lo sono: tra questi i serial killer, quelli che uccidono per entrare in contatto con la morte, l’unico tipo di relazione che riescono a sostenere. È una forma di patologia anche questa. Qualcuno ribatte: i serial killer uccidono programmando tutto, fanno in modo di non essere catturati, sono abili, ecc. Tutto vero. Ma la psicopatologia ci insegna che non sempre la premeditazione è incompatibile con l’infermità di mente. Anche un paranoico può pianificare un delitto ed eseguirlo perfettamente; ma resta un paranoico, cioè un soggetto con un delirio persecutorio che consiste nella convinzione (erronea, ma da lui non criticabile) che certe persone vogliano danneggiarlo o addirittura ucciderlo. Ebbene questo soggetto è un folle, crede cose non vere, ma non può ammetterlo perché la sua malattia del pensiero glie lo impedisce. E però può anche uccidere i suoi “nemici” e può farlo con accuratezza, preparando l’azione nei minimi dettagli, armandosi in modo idoneo allo scopo, scegliendo il luogo e il momento giusto per colpire, annullando le difese della vittima. Ma rimane un folle, uno che ha perso il contatto con la realtà, e con esso la capacità di intendere e di volere. Ed è pericoloso. Sempre. Perché molto difficilmente si può guarire da questi disturbi. Dunque i serial killer sono perennemente pericolosi. E folli, anche se a volte non lo sono del tutto. Ad esempio quando soffrono di disturbi di personalità, ossia gravi anomalie del carattere. In questo caso gli assassini hanno una parziale consapevolezza di quello che fanno, ma non riescono a non mettere in atto certi comportamenti violenti, che per loro sono diventati abituali. Questi soggetti sono solo in parte responsabili delle loro azioni, e vengono riconosciuti perciò “semi-infermi di mente”. Nessuna sorpresa. È la nostra Costituzione che lo prevede. Ma attenzione: sono anch’essi estremamente pericolosi e difficilmente curabili. I rei-folli-pericolosi appartenenti alle suddette categorie devono essere inviati in Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario, il vecchio manicomio criminale) dove verranno curati e resteranno detenuti finché non saranno guariti e dunque non più pericolosi. Finché tale guarigione non avverrà saranno destinati a rimanere in Opg, anche per sempre. Dunque in termini di prevenzione ciò che non può fare il carcere può essere realizzato con l’internamento in Opg. Ecco perché riteniamo che non ci sia da scandalizzarsi - anzi! - se a tali assassini viene riconosciuto un “vizio di mente”, parziale o totale, col conseguente invio in strutture detentive-curative. Insomma, anche ai fini di difesa sociale è più opportuno che, dopo il carcere, essi permangano in Opg. È comunque importante, stante la loro pericolosità sociale, che non godano di benefici di legge quali permessi premio, né di pene alternative alla detenzione, perché vi è un altissimo rischio di recidiva, come purtroppo accaduto in molti casi (Izzo il più recente). Ciò detto, poiché la nostra legge garantisce anche ai serial killer il “diritto all’oblio”, da oggi in poi dimentichiamoci di Abel & Furlan. Lettere: mio figlio Luca ha bisogno di cure, ma non in carcere Gazzetta del Mezzogiorno, 14 novembre 2010 "Dovete aiutare me e mio figlio". È una mamma disperata Maria Grazia Carriero, 61 anni, di Potenza. Non sa più a chi rivolgersi. E ha deciso di parlare con i giornali. "Voglio fare un appello", dice alla Gazzetta. Suo figlio si chiama Luca Labella, ha 42 anni, e da qualche tempo è detenuto nel carcere di Potenza. Per gli investigatori che l’hanno arrestato è uno spacciatore. Uno degli spacciatori storici di Potenza. Ma è anche un tossicodipendente. "E ha bisogno di cure", dice la mamma di Luca. La sua condizione non sarebbe compatibile con la detenzione in carcere. Dice la mamma: "Voglio fare un appello ai giudici, al personale sanitario del carcere di Potenza e al direttore del carcere affinché vengano garantite a mio figlio le cure necessarie per le gravissime patologie di cui soffre e che pertanto venga ricoverato e curato nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Carlo di Potenza". È preoccupata la mamma di Luca. E lo è ancora di più da quando ha saputo che suo figlio rischia di essere trasferito in un ospedale psichiatrico giudiziario, un istituto che, a metà degli anni settanta, ha sostituito i precedenti manicomi criminali. È questo che spaventa la mamma di Luca. "Mio figlio ha bisogno di cure, non certo di finire in un manicomio giudiziario di fuori regione. È questo che mi ha spinto a rivolgere l’appello ai giudici e alla loro coscienza". Lettere: con Pisapia solo amicizia e stima, ma niente di elettorale Di Luigi Pagano (Provveditore del Prap della Lombardia) La Repubblica, 14 novembre 2010 Leggo su Repubblica che io chiedo voti per Pisapia. Devo precisare che ho grande giudizio e amicizia per Giuliano, non minore, però, è la stima e la riconoscenza nei confronti del professor Onida (ex presidente della Corte Costituzionale e volontario nel carcere di Bollate) o il rispetto per Boeri e Sacerdoti, seppure non li conosco direttamente, e devo aggiungere che con il sindaco Moratti abbiamo costruito in questi anni iniziative per le carceri di assoluto valore. Con questo voglio dire che ai contendenti di oggi e al futuro sindaco di Milano chiederò, come ho sempre fatto, un impegno per le tre carceri milanesi quale investimento in legalità e sicurezza sociale, ma qui mi fermo, perché, pur avendo le mie idee, sono e mi sento in primo luogo uomo delle istituzioni che lavora con le altre Istituzioni e non troverei corretto partecipare alle competizioni elettorali in favore dell’uno o dell’altro candidato. Padova: quindici Comuni in aiuto ai detenuti di Massimo Zilio Il Gazzettino di Padova, 14 novembre 2010 Si sono ritrovati nella biblioteca del carcere Due Palazzi una sessantina di amministratori e dirigenti di una quindicina di comuni. “Dal carcere al territorio, si può fare” è il motto dell’incontro, che ha visto coinvolte, oltre alle amministrazioni (con quella del comune di Padova e della provincia), la dirigenza del carcere e la cooperativa sociale AltraCittà. Dal 2004 la cooperativa, presieduta da Rossella Favero, porta avanti delle convenzioni con alcuni comuni per inserire i detenuti con possibilità di lavorare all’esterno in diversi ruoli, legati specialmente all’archiviazione e alle biblioteche, ma anche nella manutenzione delle strade e del verde. Un’esperienza che, nei comuni di Galliera, Limena, San Giorgio in Bosco e Trebaseleghe, e che la cooperativa, come ha spiegato Rossella Favero, anche per l’interesse di diverse amministrazioni, vuole allargare. L’esperienza nasce una decina d’anni fa a Galliera, grazie al lavoro di Rosa De Marco, educatrice del carcere e cittadina del comune dell’alta. Proprio il sindaco di Galliera, Stefano Bonaldo, ha portato una testimonianza sul risultato di anni di collaborazione: “Oggi sembra tutto semplice, ma all’inizio siamo andati incontro a diverse difficoltà. In un comune piccolo, dove gli operai sono il riferimento di tutto il paese, è facile sorgano diffidenze. Grazie alla pazienza è alla disponibilità di molte persone, nonostante qualche incidente di percorso, abbiamo fatto molti passi avanti nell’accettazione delle persone detenute. All’inizio venivano chiamati “i carcerati”, oggi sono “i ragazzi” per tutti”. “Il lavoro mi ha ridato la gioia di vivere” Giuliano Cattoni è un esempio di cosa possa voler dire lavoro nei comuni per un detenuto: “Ho iniziato a lavorare per il comune di Galliera il 6 settembre del 2008 - ricorda con estrema precisione - Prima lavoravo allo spaccio degli agenti, per la direzione. Quando Rossella Favero mi ha fatto la proposta, non ho potuto rifiutare”. Ora è praticamente cittadino di Galliera: “Tutte le mattine alle 6.45 partiamo per andare a lavorare. Dire che il rapporto con i cittadini è stupendo è poco. Se un giorno sei impegnato da un’altra parte, poi se lo ricordano: “dov’eri, dovevo offrirti un caffè”. Sembra quasi una grande famiglia”. Cattoni, che aspetta a dicembre la risposta alla sua domanda di scarcerazione, si occupa dell’ecocentro del comune, dove viene smaltito il materiale da riciclare. Siracusa: nuova denuncia dell’Ugl; carceri piene e pochi agenti penitenziari La Sicilia, 14 novembre 2010 Non si riesce a trovare un punto di incontro tra le richieste del corpo di Polizia penitenziaria e la parte pubblica. Lo afferma il vice segretario regionale di categoria per l’Ugl Salvatore Gagliani che rimarca ancora una volta come in una situazione simile “a farne le spese è sempre il lavoratore”. Tanti i problemi che gravano sul personale operante nelle strutture carcerarie e che vengono riportate alla luce con la situazione all’interno della casa di detenzione di Noto la cui direzione, a detta del rappresentante sindacale, dopo aver fatto slittare due incontri “si è limitata a fornire alle organizzazioni sindacali uno sterile documento privo di proposte costruttive e fattibili, dopo aver violato la normativa che prevede che dopo il rinvio deve trascorrere un lasso di tempo non superiore a 15 giorni per la nuova convocazione”. Le rivendicazioni dei sindacati di categoria riguardano tutti gli istituti di pena e i relativi organici, sempre sottodimensionati rispetto alla popolazione carceraria e pertanto costretti a turn-over. “Ci sono turni di lavoro su 3 quadranti (quindi turni di 8 ore) con un dispendio economico notevole, vista la carenza di fondi per lo straordinario, nonché destabilizzante per i lavoratori della polizia penitenziaria, letteralmente stanchi di dover sopperire alle esigenze degli istituti effettuando, anche contro la propria volontà, turni superiori alle 6 ore, spesso anche prolungati oltre il massimo consentito”. Tutto ciò, ribadisce l’Ugl, a scapito anche della sicurezza, sia degli stessi operatori di polizia sia dei detenuti. La carenza di personale, spiegano dall’Ugl Polizia penitenziaria, proprio perché comporta la concentrazione del lavoro sulle spalle del ridotto personale in servizio, inevitabilmente origina disservizi che non dovrebbero sussistere in un lavoro delicato come quello della sicurezza nelle carceri. Esempio ne siano alcune recenti aggressioni lamentate dagli stessi sindacati. Enna: nel carcere nasce “Fila Dritto”, cooperativa tessile femminile Italpress, 14 novembre 2010 Nasce la prima cooperativa sociale femminile del tessile nel carcere di Enna. L’annuncio nel corso del concerto di beneficenza del cantautore popolare Mario Incudine, organizzato ieri sera dall’Inner Wheel, per finanziare l’istituzione dell’orchestra del Carcere di Enna e la realizzazione di un cd con i testi scritti dai ristretti e cantati dai grandi della canzone italiana. “Fila Dritto” è questo il nome della cooperativa che ha tra le socie, oltre ad una detenuta ristretta ad Enna, la sociologa esperta in feltro Ninni Fussone, l’ex direttore del carcere di Enna, Agata Blanca e Pierelisa Rizzo, giornalista e presidente dell’Inner. Da oggi sarà, così, possibile commercializzare i prodotti in feltro creati all’interno del carcere che vanno dai complementi d’arredo agli accessori di moda. Il feltro recupera una antica tradizione. Si tratta di un tessuto molto caldo e versatile, creato con la lana cardata che viene colorata a mano con le piante tintoree e impastato con acqua calda e sapone di Marsiglia. Il tessuto non presenta cuciture. Ad Enna il feltro approda con Ninni Fussone che per anni ha tenuto un corso da volontaria nella sezione femminile fino a quando, grazie all’Anfe Regionale, una scuola di formazione professionale che vanta un’esperienza ultra ventennale dentro la Casa Circondariale, un gruppo di detenute e, quest’anno, di detenuti hanno partecipato ad uno specifico corso di formazione. L’avvio della cooperativa rientra in un progetto nazionale del Ministero di Grazia e Giustizia, che raccoglie le realtà cooperative delle carceri italiane del tessile. Modica (Rg): detenuto tenta il suicidio, trasferito all’Opg di Barcellona La Sicilia, 14 novembre 2010 Orazio Toscano, l’uomo che lo scorso mese di marzo ha ucciso la moglie Concita Russo ha tentato per la seconda volta di suicidarsi in carcere. L’uxoricida, rinchiuso nella casa circondariale di Piano del Gesù a Modica Alta, si è tagliato in modo rudimentale le vene nella sua cella e solo il provvidenziale intervento degli agenti della polizia penitenziaria hanno evitato che il proposito di porre fine ai suoi giorni si realizzasse. Prontamente soccorso è stato trasportato all’ospedale Maggiore dove è stato sottoposto alle cure del caso, dopo di che è stato dimesso dopo qualche giorno di degenza. Immediato il suo trasferimento da Modica nella struttura carceraria psichiatrica di Barcellona Pozzo di Gotto. Toscano è intanto in attesa di comparire davanti al Giudice per le udienze preliminari del Tribunale di Modica per il processo con rito abbreviato fissato per il prossimo 25 novembre. Questo in accoglimento di una richiesta avanzata dal suo difensore, l’avvocato Saverio La Grua, legata ad una perizia psichiatrica e confortata da precedenti che avevano visto l’uomo sotto cura del Dsm. Già una prima volta, lo scorso mese di maggio infatti l’imputato aveva tentato d’impiccarsi ed in quella occasione era stato trasferito nel carcere di Pagliarelli a Palermo per fare ritorno a Modica dopo alcune settimane. Ora l’uxoricida continua a sollecitare il suo difensore per il ritorno a Piano del Gesù, ma questo difficilmente potrà avvenire prima dell’udienza del 25 novembre, allorquando, stando alle previsioni, dovrebbe essere nominato per una perizia psichiatrica un consulente tecnico d’ufficio. Sposato con Concita Russo da ben ventuno anni Orazio Toscano ha avuto tre figli, rispettivamente di 15, 10 e 7 anni. Quella sera di marzo i due coniugi si erano allontanati di casa a bordo della Toyota Yaris che l’uomo aveva acquistato da poco per discutere della loro crisi coniugale. In via Mantegna Itria, l’uomo era stato assalito da un raptus di follia. Avezzano (Aq): l’Associazione “Liberi di liberare” torna nel carcere San Nicola Il Centro, 14 novembre 2010 L’associazione “Liberi di liberare” onlus di Avezzano, nata nel 2004, è pronta a tornare nella casa circondariale San Nicola, tornata in funzione da poche settimane. Il presidente dell’associazione è don Francesco Tudini , responsabile dei cappellani d’Abruzzo, affiancato da suor Benigna Raiola e circa dieci volontari. Lo scopo è quello di strutturare percorsi spirituali ed educativo formativi individuali attraverso attività di laboratorio. Dal 2006 (anno di chiusura del carcere) ad oggi i volontari hanno continuato nel loro operato garantendo ai detenuti in permesso premio l’accoglienza nei vari alberghi del territorio, portando la loro presenza anche nel penitenziario di massima sicurezza di Sulmona. Si punta adesso all’apertura della Casa accoglienza per persone svantaggiate in via Garibaldi ad Avezzano. Una struttura concessa dal Comune e dal sindaco Floris, con l’ausilio degli ingegneri Palumbo e Mariani e dell’architetto De Santis e grazie all’intervento del senatore Luigi Lusi (Pd). A quest’ultimo, che ha contribuito alla ricerca dei fondi, va il ringraziamento dell’associazione. Bergamo: portavano droga ai parenti in carcere, scoperti e denunciati Agi, 14 novembre 2010 Andavano a visitare i parenti in carcere e come generi di conforto portavano la droga. Un’operazione effettuata stamattina dalla polizia penitenziaria nel carcere di Bergamo ha confermato i sospetti su un traffico di droga in corso tra i detenuti e i parenti in visita. Quando sono scattati i controlli con la partecipazione dell’unità cinofila del servizio regionale, alcuni dei parenti si sono affrettati a buttare via la droga che avevano con sé: in bagno è stata infatti trovata una pallina di hashish e in un cestino dei rifiuti un seme di canapa. Uno dei parenti in visita è stato però scoperto con alcune dosi di hashish nascosti nelle mutande (e altri 28 grammi gli sono poi stati trovati a casa), mentre a un 29enne sono stati trovati 18 grammi di hashish nell’auto fuori dal carcere. Entrambi sono stati denunciati per detenzione di droga ai fini di spaccio. Viareggio (Lu): caso Franceschi; genitori Cucchi, Lonzi e Uva partecipano a corteo Ansa, 14 novembre 2010 Giovanni Cucchi, padre di Stefano; Maria Ciucci, madre di Marcello Lonzi; e Lucia Uva, madre di Giuseppe. Anche loro, genitori di ragazzi morti in carcere, hanno partecipato ieri pomeriggio al corteo a Viareggio (Lucca) per chiedere giustizia per Daniele Franceschi, il viareggino morto in carcere in Francia. La madre di Daniele, Cira Antignano, ha ribadito che intende andare fino in fondo per arrivare alla verità. Fra gli striscioni apparsi in passeggiata a Viareggio: “Verità e giustizia per Daniele”; “La verità non si compra, la giustizia si pretende”. Presenti anche rappresentanti del “Comitato 13 novembre” e di “Assemblea 29 giugno”, nato dopo la strage ferroviaria di Viareggio, del 29 giugno 2009. Il presidio è stato seguito da un dibattito sulle condizioni dei detenuti nelle case di reclusioni italiane e straniere. Roma: razziata sede di “Rinnovamento nello Spirito”, impegnata in recupero detenuti Ansa, 14 novembre 2010 Il comitato nazionale di “Rinnovamento nello Spirito Santo” ha comunicato che nella notte di martedì 9 novembre la sede nazionale del movimento, a Roma, è stata violata, eludendo i sistemi di sorveglianza, e “fatta oggetto di razzia e di dileggio”. Nessun danno è stato provocato alle persone che erano ospitate nella struttura. In una nota, Rinnovamento nello spirito ha sottolineato: “La circostanza crea costernazione poiché il fatto si ripete a distanza di un anno, con modalità e finalità analoghe, e si aggiunge ad una recente serie di azioni intimidatorie ai danni del “Casale Sturzo”, a Caltagirone, e della casa “Famiglia di Nazareth” a Loreto. “Constatiamo, poi, la singolare concomitanza di tali accadimenti con l’avvio di una più capillare azione sociale da parte del nostro Movimento, particolarmente nella rifunzionalizzazione delle proprietà che furono della Famiglia Sturzo in Sicilia e nel recupero di detenuti, ex detenuti e delle loro famiglie”, afferma nella nota il presidente nazionale RnS, Salvatore Martinez. “Proseguiamo con serenità il nostro cammino, stimolati dalla perseveranza dei nostri collaboratori e dall’affetto degli aderenti al Rinnovamento, ringraziando le Forze dell’Ordine per la pronta assistenza che ci hanno assicurato”. Napoli: seminario del movimento “Uomo Nuovo”, si è discusso di rieducazione e giustizia Terra, 14 novembre 2010 Carcere, società, legalità, giustizia, questo è stato il titolo del seminario di studio, organizzato dal movimento Uomo Nuovo, sabato 6 novembre presso il convento delle suore Stimmatine Francescane, sito nel popoloso quartiere di Barra, al quale hanno partecipato,in qualità di relatori, il professore Alessandro Bertirotti, l’avvocato Valerio De Martino, il giornalista e politologo Ugo Maria Tassinari e di Mario Tuti, protagonista della lotta armata, da destra negli anni di piombo e ora operatore di comunità, con conclusioni affidate a Nicola Trisciuoglio, segretario del movimento Uomo Nuovo. Il professore Alessandro Bertirotti, dopo i saluti di rito, ha ricordato come il movimento Uomo Nuovo crede fermamente che le persone possono cambiare per cui afferma solennemente come un ex detenuto rimane ex detenuto per sempre, anche per questo motivo, il movimento lavoro alacremente in due zone difficili di Napoli quali Barra e Scampia, dove più forte è il disagio sociale, altissima è la percentuale dei disoccupati, forte è il richiamo della criminalità sempre alla ricerca di nuovi “lavoratori”. L’avvocato Valerio De Martino della Camera penale di Napoli, ha ricordato ai presenti come lo stato di salute di una società si rileva dalle condizioni in cui vivono i ceti meno abbienti, e un movimento come l’Uomo Nuovo, dimostra in maniera limpida e netta, come sia l’uomo stesso artefice del suo destino, precisando comunque, che l’errore va combattuto, gli errori nella propria vita si pagano, esiste un principio giuridico fondamentale che è quello della responsabilità penale che è personale, l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva e che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, come da dettato dell’articolo 27 della Costituzione Italiana. La struttura carceraria italiana,secondo Mario Tuti, ricorda la nostra Napoli ora sommersa dai rifiuti, per cui è una discarica sociale dove gli ultimi e non i più cattivi vengono messi lì senza neanche farli prendere coscienza di quel che hanno fatto, dei propri errori, parole importanti dette da un uomo che 35 anni faceva la lotta armata, mentre oggi si occupa del recupero dei tossicodipendenti in una comunità nell’alto Lazio ed è impegnato con l’associazione Uomo Nuovo in progetti che coinvolgono giovani di Barra e di Scampia. Ugo Maria Tassinari, giornalista e politologo, nel corso della sua relazione, ha affermato come il carcere negli anni ‘70 fosse tutto tranne che possibilità di riscatto, altro che rieducazione del condannato e reinserimento nella società, come afferma solennemente l’articolo 27 della Costituzione, ricordando inoltre gli strumenti di differenzazione all’interno del carcere per cui esistevano, nelle carceri campane, per esempio, reparti dove erano reclusi camorristi di osservanza cutoliana e reparti dove invece vi erano detenuti appartenenti alla cosiddetta nuova famiglia. Le conclusioni del seminario sono state affidate a Nicola Trisciuoglio presidente del movimento Uomo Nuovo che ha ricordato al folto pubblico, come la nostra società sia figlia delle civiltà della decadenza, di cui il carcere è la massima espressione. Stati Uniti: test Dna fa nascere dubbi su colpevolezza detenuto giustiziato nel 2000 Ansa, 14 novembre 2010 Il test del Dna effettuato su un capello ritrovato sul luogo del delitto nel 1989 ha dimostrato che il reperto non apparteneva a Claude Jones, giustiziato il 7 dicembre del 2000 per aver ucciso con tre colpi di pistola Allen Hilzendager, proprietario di un negozio di alcolici a Point Blank, in Texas. Jones, che al momento della morte aveva 60 anni, è stato l’ultimo detenuto a essere giustiziato quando George W. Bush era governatore del Texas. Il fatto che il capello non appartenesse al giustiziato non lo scagiona ma, secondo le leggi del Texas, la condanna a morte è stata eseguita con insufficienza di prove. Prima dell’esecuzione, Jones aveva chiesto la prova del Dna, ma i funzionari non avevano fatto pervenire la richiesta all’allora governatore del Texas Bush. Secondo Barry Scheck, cofondatore di Innocence Project, centro legale che usa la prova del Dna per salvare i detenuti dalla pena di morte, “è oltraggioso che nessuno abbia detto a Bush della richiesta di Jones. Se non si può fare affidamento sullo staff del governatore, vuol dire che qualcosa proprio non funziona nel sistema”. Svizzera: sciopero della fame di detenuto attivista pro-cannabis diventa affare di Stato Ansa, 14 novembre 2010 In Svizzera, un sempre più mediatizzato e lungo sciopero della fame di un detenuto che milita per la depenalizzazione della cannabis sta mettendo a dura prova il sistema giuridico elvetico: Bernard Rappaz - coltivatore di canapa del canton Vallese - è stato condannato a cinque anni ed otto mesi di detenzione per gravi infrazioni alla legge federale sugli stupefacenti, ma contesta la pena con uno sciopero della fame ad oltranza. Dopo 79 giorni senza cibo, l’uomo di 57 anni è in condizioni critiche ed il dibattito è acceso per sapere se lo Stato deve lasciarlo morire, nutrirlo con la forza o sospendere la pena. Ecologista, agricoltore e attivista per la depenalizzazione della cannabis, Rappaz è entrato in prigione lo scorso 22 marzo per scontare una pena di cinque anni e otto mesi per violazione grave della legge federale sugli stupefacenti e riciclaggio di denaro. Ieri, il Tribunale vallesano ha ordinato all’ospedale universitario di Ginevra, dove Rappaz è stato trasferito il mese scorso, di alimentarlo con la forza. Ma l’ospedale, dopo aver esaminato la questione ha definito la richiesta inapplicabile sul piano medico e dell’etica medica ed ha annunciato un ricorso al Tribunale federale, la Corte suprema elvetica. Nella medesima sentenza, il Tribunale cantonale vallesano ha respinto il ricorso Rappaz contro la decisione delle autorità del cantone del Vallese di negargli un’interruzione della pena. Il legale ha annunciato che farà ricorso. È stata inoltre presentata una richiesta di grazia, sulla quale il parlamento vallesano dovrebbe pronunciarsi, a porte chiuse, il 18 novembre. Nel frattempo, Rappaz pesa ormai 58 chili e ad ogni istante corre il rischio di un arresto cardiaco o di una trombosi, spiega un amico citato dalla stampa. Un numero crescente di personalità - politiche, medici e specialisti - ha preso posizione sul suo caso. Intervistato dalla stampa, il senatore radicale Dick Marty ha affermato che la morte del vallesano costituirebbe una pagina poco brillante della storia giudiziaria elvetica. San Salvador: 19 morti, si aggrava il bilancio dell’incendio in un carcere minorile Ansa, 14 novembre 2010 Si è aggravato il bilancio dell’incendio scoppiato lo scorso mercoledì nel penitenziario di Ilobasco, a circa 50 chilometri dalla capitale di El Salvador: dopo i 16 giovani reclusi morti a causa della sciagura, nelle ultime ore anche altri tre detenuti rimasti ustionati hanno perso la vita, di 18, 22 e 25 anni. Il carcere ospita detenuti che hanno compiuto i 18 anni ma sono stati condannati quando erano ancora minorenni. Lo hanno reso noto fonti ufficiali mediche del paese centroamericano, precisando che sono sempre ignote le cause dell’incendio, nel quale sono rimasti feriti anche una trentina di persone. Le autorità hanno sottolineato che sono in corso indagini avviate dalla procura e dai pompieri. Si scarta l’ipotesi di un eventuale rivolta e si presume che l’incendio sia scoppiato a causa di un cortocircuito avvenuto in un padiglione dove dormivano almeno 43 reclusi. Myanmar: liberata leader opposizione Aung Suu Kyi; la soddisfazione della Farnesina Italpress, 14 novembre 2010 “La liberazione di Aung San Suu Kyi è una notizia che accogliamo positivamente, è il frutto dell’azione di sostegno e di ininterrotta solidarietà espressa dalla comunità internazionale: un’azione che ha visto impegnata l’Italia, la Farnesina e il Ministro Frattini personalmente, e l’Ue nelle sue diverse articolazioni, incluso il Rappresentante Speciale On. Fassino”. Così il Portavoce del Ministro degli Esteri Frattini, Maurizio Massari, ha commentato la liberazione del premio Nobel Aung San Suu Kyi. “Resta forte il nostro rammarico per il fatto che la liberazione di Aung San Suu Kyi, così come quella di numerosi altri detenuti politici, non sia avvenuta prima delle elezioni del 7 novembre, le prime elezioni dal 1990 le quali avrebbero certamente assunto un significato ben diverso se si fossero svolte in un contesto di libero e democratico confronto tra le diverse forze politiche del paese. Auspichiamo che la liberazione, seppur ritardata, di Aung San Suu Kyi rappresenti un primo segnale di apertura del governo di Rangoon per avviare un dialogo con l’opposizione ed un processo di apertura sul fronte delle libertà democratiche ed il rispetto dei diritti che è fortemente auspicato dalla comunità internazionale e che crediamo risponda anche agli interessi del paese e alle sue prospettive di sviluppo”. Amnesty: dopo Suu Kyi liberi tutti i detenuti politici Amnesty International accoglie con favore il rilascio di Aung San Suu Kyi e chiede al governo birmano di liberare subito tutti i prigionieri di coscienza. Suu Kyi “faceva parte di un totale di oltre 2.200 prigionieri politici e di coscienza, detenuti in condizioni deplorevoli semplicemente per aver esercitato il loro diritto di protestare in forma pacifica”, si legge in un comunicato. “Il rilascio di Aung San Suu Kyi è certamente una notizia positiva, anche se segna solo la fine di una sentenza ingiusta ed estesa illegalmente - ha dichiarato Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International - rimane il fatto che lei e gli altri prigionieri di coscienza non avrebbero mai dovuto essere arrestati”. In Birmania ci sono oltre 2.200 prigionieri politici, condannati sulla base di norme vaghe, utilizzate sovente per criminalizzare il dissenso politico e detenuti in condizioni agghiaccianti, con cibo e servizi igienici inadeguati e senza cure mediche, denuncia Amnesty, precisando che la maggior parte di loro sono stati arrestati durante la cosiddetta “rivoluzione zafferano” del 2007. Myanmar: 2.200 prigionieri politici, torture e isolamenti Agi, 14 novembre 2010 In Myanmar vi sono attualmente oltre 2.200 prigionieri politici, condannati sulla base di norme vaghe, utilizzate sovente per criminalizzare il dissenso politico e detenuti in condizioni agghiaccianti, con cibo e servizi igienici inadeguati e senza cure mediche. Molti di essi sono stati torturati nel corso degli interrogatori e subiscono ancora torture da parte del personale penitenziario. Secondo Amnesty International, la maggior parte di essi sono prigionieri di coscienza, arrestati prevalentemente durante la cosiddetta “rivoluzione zafferano” del 2007. Negli ultimi tre anni, centinaia di prigionieri politici sono stati trasferiti in carceri estremamente lontane e questo ha reso ancora più difficili le visite di medici, avvocati e parenti. Le denunce di tortura sono in aumento. Il Comitato internazionale della Croce rossa si vede negare l’accesso alle carceri dal dicembre 2005. Tra i prigionieri di coscienza di cui Amnesty International chiede il rilascio, figurano: - Min Ko Naing, 47 anni, ex leader studentesco e attivista del movimento democratico, che sta scontando una condanna a 67 anni di carcere per aver preso parte alle manifestazioni del 2007; - U Gambira, esponente dell’Alleanza di tutti i monaci di Birmania, condannato a 63 anni di carcere per aver preso parte alle manifestazioni del 2007; - U Khun Htun Oo, 67 anni, presidente della Lega per la democrazia delle nazionalità Shan, condannato a 93 anni di carcere per aver criticato il progetto governativo di una nuova Costituzione. Soffre di diabete e di alta pressione.