Rassegna stampa 2 marzo

 

Giustizia: ddl di Alfano sulle misure alternative "in chiaroscuro"

 

Redattore Sociale, 2 marzo 2010

 

Arrivano i primi commenti alla bozza del Ddl Alfano sulla esecuzione domiciliare delle pene e sulla messa in prova. È preoccupato Alfonso Scandurra dell’associazione Antigone: "Alcune norme rischiano di far crescere ulteriormente il numero della persone detenute".

La bozza, che è stata resa pubblica oggi nella sua versione integrale, introduce "accanto a interventi deflattivi, peraltro di modesta portata, anche misure che avrebbero come esito addirittura una crescita della popolazione detenuta", sottolinea Scandurra.

Il Ddl Afano, come anticipato da Redattore Sociale (vedi lancio del 22 febbraio) introduce la concessione quasi automatica per i detenuti (anche recidivi che devono scontare l’ultimo anno di pena) e l’allargamento della messa alla prova nei processi per reati con pena inferiore a tre anni.

La relazione di Scandurra pone diversi interrogativi sul fatto di subordinare la concessione di misure alternative alla detenzione a "forme di riparazione a favore della collettività". Sarà possibile - chiede il referente di Antigone - garantire a tutti gli interessati, in tutta Italia, forme di riparazione?

"Il dilemma di fondo è il seguente: le persone vanno aiutate nel loro percorso di reinserimento, o vanno sostenuti solo i "meritevoli", inserendo nuovi ostacoli nei percorsi trattamentali? chiede Scandurra. La legislazione recente, e questa proposta, sembrano optare per la seconda soluzione".

Rendendo obbligatorio il lavoro di pubblica utilità "se ne altera l’originaria fisionomia di pena sostitutiva", commenta Patrizia Ciariello, dell’ufficio del garante dei detenuti di Milano. Inoltre, le attività riparatorie si aggiungono al lavoro di pubblica utilità o lo compendiano? Dirimere la questione è molto importante".

Ma la bozza del Ddl Alfano prevede anche innalzamenti di pena non irrilevanti per il reato di evasione: da uno a tre anni. "Non si comprende la ratio ispiratrice dell’inasprimento delle pene previste per l’evasione - sottolinea Patrizia Ciardiello. Tale inasprimento appare dettato, ancora una volta, da ragioni puramente simboliche. La vigente previsione normativa appare del tutto adeguata a sancire negativamente l’evasione, e non solo attraverso la revoca della misura".

Il Governo, conclude Scandurra, pur comprendendo la drammaticità della attuale situazione di emergenza, sembra non riuscire a liberarsi "dalla convinzione, smentita inoppugnabilmente dai fatti, per cui le alternative al carcere rappresentano una minaccia, e non una risorsa, per la sicurezza collettiva".

Giustizia: Sdr; le navi-prigione? sono un inutile spreco di soldi

 

Agi, 2 marzo 2010

 

"La risposta al sovraffollamento delle carceri italiane e sarde non può essere un posto letto in una chiatta ormeggiata in una banchina dismessa. La nuova ipotesi sostenuta dal Ministro Angelino Alfano e affidata a Fincantieri si profila come un inutile spreco di denaro pubblico". Lo afferma la presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme" Maria Grazia Caligaris con riferimento alla soluzione delle carceri-galleggianti illustrata da Fincantieri in occasione del convegno del sindacato dei direttori penitenziari (Sidipe).

"Si continua a parlare di carceri - afferma Caligaris - come luoghi in cui stipare le persone dimenticando che in Italia esistono una Costituzione e una legge sull’ordinamento penitenziario che dettano precise finalità e norme in materia di detenzione e riabilitazione sociale. Appare inoltre assurdo promuovere la realizzazione di nuove strutture per la cui realizzazione occorrono 2 anni e 90 milioni di euro nel momento in cui per risparmiare non si assumono psicologi, assistenti sociali, agenti di polizia penitenziaria e perfino direttori.

Il tutto è paradossale se poi si considera che sono stati investiti 160 milioni di euro per la costruzione di 4 nuove istituti penitenziari in Sardegna che avrebbero dovuto essere terminati entro il 2010 e che sono ancora in allestimento perché tra l’altro sono mancati i fondi necessari per non parlare dell’inchiesta sui relativi appalti".

"È evidente che l’ottica con cui si opera nei confronti dei cittadini privati della libertà - sottolinea l’esponente socialista - è sostanzialmente quella di rimuovere il più possibile il problema di una detenzione riabilitativa a sostegno di quella punitiva. Permane infatti una concezione del detenuto come individuo senza diritti. La privazione della libertà in genere non è considerata sufficiente. Ciò in particolare per chi ha pochi mezzi economici e culturali".

"Il carcere-chiatta risponde perfettamente a queste logiche di risparmio/rimozione e contribuisce a creare ulteriori problemi per i detenuti, i loro familiari, gli agenti di polizia penitenziaria, gli operatori carcerari e gli avvocati. Insomma - conclude Caligaris - sarebbero necessarie meno chiacchiere e più azioni concrete e soprattutto un Parlamento che garantisse norme compatibili con la Costituzione e non finalizzate a inasprire le pene senza risolvere i problemi che favoriscono l’insorgere di conflitti sociali e di reati".

Giustizia: Servizi; inasprimento 41bis causa tensioni in carceri

 

Adnkronos, 2 marzo 2010

 

Con l’inasprimento da parte del governo del carcere duro per i boss mafiosi, il cosiddetto 41bis, "sono prevedibili tensioni dentro e fuori dal carcere, progettualità ritorsive e lotte per il potere". È quanto affermano i Servizi di intelligence nella Relazione 2009 presentata al Parlamento. Nel capitolo dedicato alla criminalità organizzata nazionale, i Servizi rilevano come sul piano delle dinamiche criminali, "il dato più significativo, dovuto all’arresto di numerosi elementi apicali delle organizzazioni mafiose è parso quello dell’inedita concentrazione di leadership in ambito detentivo". Di conseguenza, si è determinata una "accresciuta valenza del circuito carcerario quale potenziale centro mediatore degli indirizzi strategici dei boss reclusi".

Giustizia: Cucchi; appello a coscienze di chi ha pestato Stefano

 

Ansa, 2 marzo 2010

 

"Voglio rivolgere un appello alle coscienze delle persone che hanno pestato mio fratello. C’è qualcuno che ha sbagliato". Con queste parole Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il 31enne romano morto in carcere alcuni mesi fa in circostanze ancora da chiarire, è intervenuta alla trasmissione Punto Dem in onda su YouDem Tv. "Non mi riesco a spiegare come sia stato possibile. Mio fratello - racconta - è stato rivisto la mattina dopo l’arresto e aveva già il volto gonfio e parlava a fatica. Stefano - ricorda Ilaria - prima dell’arresto stava benissimo, sia moralmente che fisicamente. Faceva attività fisica tutti i giorni ed era in un momento di forte ripresa". Guardando al futuro, Ilaria Cucchi si augura che "entro metà marzo i medici legali possano concludere le loro operazioni e che qualcosa si possa smuovere".

Emilia Romagna: campagna volontariato su misure alternative

 

Redattore Sociale, 2 marzo 2010

 

Al via il progetto promosso dalle associazioni di Piacenza, Modena e Forlì. Previsti manifesti in tutte le città che ospitano istituti di pena, un giornale, e un convegno il 6 maggio a Bologna.

Un’attività finanziata dal Coge emiliano-romagnolo nell’ambito della progettazione "interprovinciale" e promossa da tre associazioni di volontariato penitenziario: "Oltre il muro" di Piacenza, "Carcere e città" di Modena e "Con-tatto" di Forlì. L’obiettivo è una campagna di sensibilizzazione e informazione sulle "misure alternative" alla detenzione che, poco conosciute dai media e dai cittadini, suscitano spesso commenti poco ragionevoli e fuorvianti.

"Le carceri scoppiano, le carceri costano - si legge in una nota - ; la pena detentiva non solo non garantisce più la funzione rieducativa prevista dalla Costituzione, ma non riesce nemmeno ad ottemperare agli standard minimi di tutela dei diritti umani previsti dalla Corte di Strasburgo, che con sentenza del 16 luglio 2009 ha condannato l’Italia al risarcimento di mille euro al signor Sulejmanovic, detenuto nel carcere romano di Rebibbia con una motivazione legata al sovraffollamento. Accanto al piano carceri che prevede la costruzione di nuovi istituti, c’è la motivata sfiducia del mondo del volontariato che ogni giorno si scontra con situazioni di invivibilità e rileva - dati alla mano - che l’inarrestabile crescita delle misure detentive non sarà risolta nemmeno dai nuovi posti letto".

"L’allarme sicurezza, d’altro canto, sembra essere più uno slogan pubblicitario che una reale condizione del nostro paese mentre sui media, e di conseguenza nelle bocche della politica, si invoca la "certezza della pena" che rinvia esclusivamente alle mura del carcere. Mentre nei Paesi più civili d’Europa gli strumenti a disposizione dei giudici sono sempre più evoluti, e si ragiona sulle "pene di comunità", sulla mediazione penale e sociale, sulla "probation o messa alla prova", in Italia si insegue la strategia della carcerazione, pur conoscendone i costi in termini di denaro e di sicurezza.

Con il progetto "Nonsolocarcere: la pena utile" il volontariato emiliano-romagnolo vuole risvegliare il mondo dei media, della politica, della cultura e tutta la cittadinanza a una riflessione più ampia e competente, con la speranza di vedere anche il nostro Paese impegnato in uno slancio in avanti rispetto al concetto di pena e di giustizia che non è - nel modo più assoluto - sinonimo di impunità.

Le azioni previste sono sostanzialmente tre: una campagna di comunicazione mediante manifesti che verrà proposta in tutte le città che ospitano istituti di pena in regione, un giornale unico previsto in uscita alla fine di aprile che verrà distribuito in allegato ai settimanali diocesani e nei luoghi significativi identificati dai volontari sui vari territori, e un convegno che si terrà il 6 maggio a Bologna e ospiterà alcune testimonianze di buone prassi europee. Il progetto si avvale della consulenza di Ristretti Orizzonti. Info: carla.chiappini@fastwebnet.it, tel. 339.5047291 (Carla Chiappini).

Lazio: oltre mille detenuti in più rispetto alla normale capienza

 

Agi, 2 marzo 2010

 

Attualmente i 14 penitenziari laziali ospitano oltre 5.900 detenuti a fronte di una capienza regolamentare delle strutture pari a poco più di 4.600 posti.

Quasi il 60% dei detenuti presenti sono stranieri. Nelle carceri laziali lavorano, complessivamente, circa 3.400 Poliziotti rispetto ai 4.136 previsti. Sono i dati forniti da Maurizio Somma, segretario regionale per il sindacato Sappe, che domani riunirà il suo Consiglio del Lazio. In quella sede, annuncia Donato Capece, leader nazionale del Sappe, "auspicheremo ancora una volta una svolta bipartisan di Governo e Parlamento, in particolare di tutti i parlamentari eletti nel Lazio, per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, anche alla luce della sostanziale inefficacia degli effetti dell’indulto.

Oggi - ricorda Capece - il nostro Paese ha raggiunto un record di detenuti, più di 66mila le presenze, il più alto numero mai registratosi nella storia d’Italia. Solleciteremo una accelerazione sull’applicazione del Piano carceri, approvato il 13 gennaio scorso. Per ora il Governo, il Ministero della Giustizia ed il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si sono fatti scudo della drammatica situazione attraverso il senso di responsabilità del Corpo di Polizia Penitenziaria; ma queste sono condizioni di logoramento che perdurano da mesi e continueranno a pesare sulle 39mila persone in divisa (ed ai circa 3.400 agenti in servizio nel Lazio) per molti mesi ancora se non la si smette di nascondere la testa sotto la sabbia".

 

Marroni: serve svolta a livello politico

 

"I dati diffusi dal Sappe dimostrano, ancora una volta, che anche nel Lazio il sistema carcerario sta vivendo una fase di estrema precarietà. È evidente che le misure annunciate più importanti annunciate dal governo, il piano carceri e il processo breve, non basteranno a dare una svolta ad una situazione che è sempre più di grande emergenza".

Lo ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando i dati diffusi dal Sappe secondo cui, nelle 14 carceri del Lazio, sono ospitati oltre 5.900 detenuti, il 60% dei quali stranieri, a fronte di una capienza regolamentare delle strutture pari a poco più di 4.600 posti. Nelle scorse settimane l’Ufficio del Garante aveva presentato uno studio in base al quale quasi la metà dei reclusi nel Lazio è in attesa di giudizio definitivo.

"La maggiore criticità del sistema carcere è oggi, il sovraffollamento - ha aggiunto Marroni - che dipende da una politica di governo che reprime con la reclusione ogni tipo di condotta contraria alla legge. Quello che occorre è una riforma sistematica, con la radicale riforma del codice penale, con il ricorso al carcere per i reati più gravi e un sistema di pene alternative per le categorie disagiate (tossicodipendenti, disagiati psichici, stranieri senza permesso di soggiorno); un meccanismo che ridurrebbe i detenuti senza danno per la sicurezza dei cittadini".

Roma: detenuto morì per tumore, assolti i medici del carcere

 

Agi, 2 marzo 2010

 

Non ci sono responsabili per la morte di Francesco Marrone, detenuto siciliano di 41 anni, deceduto nel carcere di Rebibbia il 16 febbraio del 2004. Lo ha deciso il giudice del tribunale capitolino, Gennaro Romano, che, con la formula "il fatto non sussiste", ha assolto dall’accusa di omicidio colposo il direttore sanitario di Rebibbia Nuovo Complesso, Sergio Fazioli, e altri undici medici. Gli imputati furono rinviati a giudizio perché sospettati di aver ritenuto Marrone erroneamente sofferente di una patologia psichiatrica, senza diagnosticargli un tumore al cervello che lo portò alla morte.

Oltre a Fazioli, l’assoluzione, giunta dopo tre anni di dibattimento, ha riguardato anche i medici di guardia e di reparto della casa circondariale Mauro Finocchiaro, Ermanno Tommasini, Giuseppe Dichirico, Giulio Gentili, Massimo De Lellis e Maurizio De Angelis, gli psichiatri Luciano Benelli, Andrea Pacileo, Carlo Valitutti e Pasquale Pede, e il neurologo Carlo Colosimo. Il pubblico ministero (un viceprocuratore onorario) aveva chiesto sei condanne (tra cui quella di Colosimo e Fazioli, a pene che andavano dai 9 ai 4 mesi di reclusione) ed altrettante assoluzioni.

Stando all’originaria imputazione, i medici, "con condotte colpose tra loro indipendenti, concorrevano a determinare il decesso di Marrone avvenuto per arresto cardiocircolatorio da lesione del tronco encefalico conseguente a incuneamento del lobo temporale, dovuto alla presenza di un processo espansivo di tipo tumorale". La procura, che aveva rilevato soprattutto una grave carenza organizzativa, aveva attribuito responsabilità al direttore sanitario perché "ometteva di provvedere alla manutenzione ordinaria e/o straordinaria ovvero alla sostituzione dell’apparecchiatura strumentale Eeg (elettroencefalografo) in dotazione e in uso alla casa di reclusione del cui malfunzionamento era a conoscenza, e di disporre in ogni caso il trasferimento del detenuto in altra struttura, anche ospedaliera, per effettuare tutti gli accertamenti diagnostici richiesti e mai eseguiti". Il direttore, inoltre, non avrebbe svolto gli opportuni controlli "sull’operato dei sanitari, anche attraverso l’esame della cartella clinica".

"E invece - ha commentato l’avvocato Giovanna Mazza che, assieme a Giancarlo Pittelli, ha difeso Pacileo - questa sentenza è la prova che l’istituto carcerario funziona, che vi sono medici esperti, che gli specialisti sono accorti e che i detenuti malati nella struttura carceraria di Rebibbia sono ben seguiti. Finalmente dopo oltre tre anni si è chiuso per gli imputati questo calvario con una sentenza il cui esito poteva già essere chiaro sin dalle indagini preliminari".

Castrovillari: troppi suicidi in carcere, alla ricerca di soluzioni

di Angelo Biscardi

 

Gazzetta del Sud, 2 marzo 2010

 

"Vicino agli agenti della Polizia penitenziaria di Castrovillari". Il carcere di Viale Cosmai, infatti, è una delle case circondariali calabresi che, ultimamente, è finita "agli onori della cronaca nazionale" a causa di alcuni casi di suicidio avvenuti nel corso degli ultimi 5 anni. Anche i tentativi di togliersi la vita avvengono con una certa continuità, sintomo che non è facile vivere il cosiddetto "regime carcerario" in una struttura che dovrebbe essere ampliata e potenziata, soprattutto dal punto di vista dell’organico della Polizia Penitenziaria.

E ieri, dopo il recente tentativo di suicidio di un detenuto della Casa Circondariale di Castrovillari, il consigliere provinciale dell’Associazione "Liberi e Forti", nonchè consigliere comunale del Pdl, Riccardo Rosa, si è recato presso l’Istituto di pena castrovillarese per "sincerarmi - è scritto in una nota - circa la reale situazione della struttura, che negli ultimi anni si è contraddistinta per le tante iniziative volte al recupero ed al reinserimento dei detenuti, con progetti quali la realizzazione del canile e la recente convenzione con il Comune di Castrovillari che consentirà la nascita di una azienda floreale".

Il consigliere Rosa, che entra in quelli che possono essere i problemi più annosi delle carceri italiane, rileva come "non sempre l’emergenza del sovraffollamento determina atti così estremi quale il suicidio. Le reali motivazioni che sottendono tali atti sono di fatto da addebitarsi alla personalità del soggetto ed alle problematiche strettamente interiori che lo riguardano e che a volte in un ambiente di restrizione della libertà quale quello carcerario, oltrepassano qualsivoglia limite di tollerabilità".

In ordine all’ultimo tentativo di suicidio, poi, la cronaca "locale - scrive Rosa - ha amplificato l’ulteriore tentativo di suicidio, dimenticando - a mio giudizio - il ruolo del personale che, intervenendo prontamente, ha evitato il peggio. Stando alle testimonianze che ho raccolto durante la mia visita, infatti, il tentativo di suicidio è stato scongiurato dal pronto intervento degli agenti della polizia penitenziaria che, insieme ad altri detenuti, hanno potuto soccorrere il detenuto, trasportando il soggetto in barella fino all’arrivo dell’autoambulanza del 118".

Per il consigliere Rosa bisognava, oltre a concentrarsi sull’ennesimo caso di tentato suicidio, far "cenno al grande ruolo che agenti e detenuti hanno svolto per evitare il peggio, salvando, di fatto, la vita al malcapitato". La struttura carceraria, dunque, merita grandi attenzione da parte della politica tutta "senza distinzione di colore o di bandiere", unitamente ai detenuti che vanno assistiti anche sotto il profilo della salvaguardia della loro dignità.

Per questo, Rosa ha assunto "formale impegno - in qualità anche di consigliere comunale - affinché il Consiglio comunale possa recarsi in visita presso la nostra Casa Circondariale per ringraziare gli agenti della polizia penitenziaria per il ruolo che svolgono e per dimostrare vicinanza alla struttura ed ai detenuti che realmente meritano politiche di reinserimento".

Parma: tre agenti sotto processo per maltrattamenti a detenuto

 

La Repubblica, 2 marzo 2010

 

Capelli tagliati cortissimi, volto sbarbato, qualche chilo di più. Aldo Cagna oggi sembra una persona diversa da quel giovane scarmigliato con la coda di cavallo che la notte del 12 settembre 2006 speronò l’auto dell’ex fidanzata Silvia Mantovani e la massacrò a coltellate, reso folle dall’ossessione per lei e dalla tossicodipendenza. Irriconoscibile, con felpa e scarpe da ginnastica grigie, oggi il 32enne è tornato davanti al tribunale di Parma. Ma dall’altra parte: si è seduto sul banco dei testimoni, parte lesa nel processo che vede imputati due agenti di polizia penitenziaria per lesioni e un terzo per favoreggiamento.

Vessazioni ripetute, botte, insulti, umiliazioni. Le parole di Cagna dipingono un quadro infernale dell’esperienza carceraria in via Burla nei primi mesi dopo l’arresto. Il pestaggio di cui sono accusati Vincenzo Casamassima e Andrea Miccoli non sarebbe altro che il culmine dell’incubo fatto passare da guardie e altri detenuti a quell’uomo colpevole di un delitto imperdonabile, per le regole non scritte del carcere.

Cagna non ricorda di quanti episodi di maltrattamenti sia stato vittima, né chi siano tutti i responsabili. Ma non gli sembra importante, alle domande del giudice Pasquali risponde "non ricordo, succedeva spesso, alla fine ero esasperato". Poi di fronte alle insistenze sbotta: "Mi facevano ruzzolare giù dalle scale per portarmi in isolamento, poi mi pestavano".

Per questo, dice, quelle due rampe di scale che portano dal piano della sezione alle celle d’isolamento lui le ricorda così bene. Veniva punito spesso, i primi tempi, perché era un detenuto agitato dalla tossicodipendenza e ancora sconvolto da quello che aveva fatto. E poi, dichiara, anche perché lo avevano preso di mira. Narra dell’episodio scatenante, nel novembre 2006, quando viene accusato da un agente di aver fatto delle scritte nella cella. Lui nega e si rifiuta di pulirle. Poi si convince che è meglio obbedire, ma quando si volta la guardia lo schiaffeggia in testa. Lui reagisce con insulti e spintoni, viene condotto in isolamento. Significa stare per qualche giorno, fino a una settimana, da soli dentro a una cella, senza ora d’aria. Cagna ci finisce 5 o 6 volte durante il suo periodo di detenzione a Parma. Ed è lì che viene a contatto con gli agenti che accuserà del pestaggio.

Casamassima entrava nella mia cella quando ero in isolamento, si metteva un paio di guanti neri e mi diceva "Preparati, lo sai" - ha dichiarato Cagna - Poi mi faceva alzare la testa e mi schiaffeggiava due o tre volte". Un comportamento che le guardie, non solo quelle imputate, avrebbero ripetuto più volte. Così come la "doccia" con acqua sporca: Cagna racconta che gli versavano addosso l’acqua con candeggina contenuta nel secchio dopo la pulitura dei pavimenti. Lui non è certo un detenuto modello: "Rispondevo, insultavo. Loro mi provocavano. Ma ero in uno stato mentale non giusto, dovevano capirlo".

Il primo febbraio 2007 accade il fatto che Cagna decide di denunciare, per la prima volta. Parla con l’avvocato difensore che gli prospetta una pena di 20 anni, lui si agita. Comincia a litigare con un detenuto chiuso in un’altra cella che lo prende in giro: "In vent’anni qui ne imparerai di lingue: albanese, marocchino". La discussione viene interrotta dagli agenti penitenziari. Cagna ha riferito che Casamassima gli avrebbe detto: "Ti ricordi in isolamento che ti facevo piangere come una bambina?". La replica "Non piangevo per te ma per quello che avevo fatto" non sarebbe andata giù alle guardie. Cagna viene fatto uscire e condotto dal "capoposto", l’agente responsabile del turno. Ma mentre sta per scendere le scale, viene afferrato per i capelli, fatto cadere e pestato con calci e pugni. Cagna racconta che Miccoli gli avrebbe sferrato un cazzotto in un occhio.

Più tardi, in cella, vomita sangue. Ma il medico non gli crede perché ha tirato lo sciacquone. Allora Cagna insiste, dà fastidio, vuole essere visitato ancora. Racconta l"accaduto al medico, che stila un referto e poi lo fa portare al pronto soccorso. È durante il viaggio che il capoposto Tanlerico gli avrebbe consigliato di non dire di essere stato picchiato dalle guardie ma da altri detenuti, per evitare problemi in futuro. Cagna ha ribadito che non c’è stata nessuna minaccia, si sarebbe solo trattato di un invito a riflettere. Che alla guardia 56enne, però, è costato un’accusa di favoreggiamento.

Tornato in carcere, Aldo Cagna firma un verbale in cui compaiono entrambe le versioni: quella riferita al medico del carcere, che accusa gli agenti, e quella che tira in ballo ignoti detenuti, rilasciata al pronto soccorso. Ma soprattutto, sottoscrive di non voler sporgere denuncia per quanto accaduto. "Poi però non ne potevo più, ero esasperato da questi episodi. Ci ho ripensato e ho sporto una regolare denuncia".

Gorizia: pene alternative al carcere aperta casa di accoglienza

 

Messaggero Veneto, 2 marzo 2010

 

Partirà dal presupposto di offrire ai giovani condannati per piccoli reati un’esperienza di comunità che possa essere alternativa al carcere. Nell’assemblea di sabato si è parlato di altre iniziative che l’Arcobaleno ha in cantiere per il 2010 fra cui nuovi laboratori per le persone ospitate.

La riunione ha segnato fra l’altro il rientro nel direttivo di don Alberto De Nadai che ne era uscito per dedicarsi maggiormente al territorio e al carcere. Sarà lui l’anima della nuova casa. L’apertura di una casa a Farra per i giovani che devono affrontare pene riabilitative alternative al carcere, la più stretta collaborazione con le realtà del territorio, la promozione di attività collaterali per rendere il giardino di via San Michele un luogo di socializzazione.

Sono questi alcuni dei progetti che la Comunità Arcobaleno intende portare avanti nel 2010, secondo quanto emerso nell’assemblea del sodalizio. Un incontro aperto al pubblico e per questo piuttosto affollato, che ha segnato il rientro di don Alberto De Nadai nel consiglio direttivo: il sacerdote, che era uscito per dedicarsi di più al territorio e al carcere, ha introdotto i lavori con una riflessione sull’accoglienza, per poi lasciare la parola alla presidente Eda Sartori e al direttore Andrea Bellavite.

"Il 2010 - ha detto quest’ultimo - dovrebbe essere maggiormente impegnato nel trasformare la presenza degli accolti rendendoli protagonisti della vita della comunità, soprattutto curando la dimensione laboratoriale, l’acquisizione e la valorizzazione di capacità tecniche e di competenze specifiche. Dovrebbe poi esser prioritaria la preoccupazione formativa degli operatori e dei volontari, attraverso un programma di reperimento e inserimento di nuovi volontari. Si dovrebbe intensificare l’impegno con il carcere attraverso il pieno sostegno all’attività formativa proposta da don Alberto De Nadai con l’avvio di una specifica casa per persone in difficoltà, in particolare in situazione di pena alternativa al carcere".

L’idea è che i giovani possano vivere un’esperienza di comunità, lavorando le vigne, come situazione alternativa al carcere magari per piccoli reati. Don Alberto sarà il fulcro della struttura, con il sostegno della Comunità arcobaleno stessa e della conferenza regionale volontariato e giustizia. Nella sua relazione Bellavite si è soffermato anche sulle attività del 2009, come la casa albergo Emmaus, che ha accolto sette persone, e i due appartamenti messi a disposizione dall’Ater, oltre al centro diurno, che ha dato voce a coloro che si trovano alle prese con varie forme di disagio. È stata ricordata anche la raccolta di alimenti e generi di prima necessità condotta a favore di persone bisognose, della mensa dei padri cappuccini e per un breve periodo della Caritas, in difficoltà a causa dell’improvviso aumento delle domande dei richiedenti asilo espulsi dal Cara di Gradisca. È invece risultato in difficoltà il progetto della Zattera, volto a integrare con l’assistenza immediata ai detenuti bisognosi la presenza permanente di don Alberto nelle strutture di via Barzellini.

Sono invece proseguite la collaborazione con la scuola elementare di via Zara, grazie alla presenza di un operatore stipendiato come assistente nei momenti di pranzo dei bambini, e con Sos Rosa, con cui è stato avviato un corso di floricultura come introduzione al lavoro per donne immigrate e non solo. Infine, è stato fatto riferimento all’elaborazione di un progetto formativo e informativo sulle dipendenze sul confine: cinque realtà italiane e altrettante slovene hanno presentato un piano alla Ue nell’ambito del programma Italia/Slovenia (ex Interreg). Il progetto, per il quale si attende una risposta, punta all’intensificazione dei rapporti intessuti con realtà di intervento slovene e italiane complementari alla Comunità Arcobaleno.

Bollate: la direttrice; detenuta incinta? nostro progetto è valido

 

Ansa, 2 marzo 2010

 

Un amore nato tra i banchi di scuola, ma in una scuola "diversa", dove dopo le quattro ore di lezione si torna in cella. Un amore nato dove l’amore - quello fisico, affettivo, relazionale, eterosessuale - è proibito e sei costretto a subire soltanto, e non magari a scegliere, un amore omosessuale. Un amore diventato "scandalo" e oggetto di una denuncia quello di Sonia (il nome è di fantasia) una ragazza dell’est di quasi 30 anni, detenuta nel carcere di Bollate (Milano) da poco più di un anno per reati di spaccio di stupefacenti.

Sonia potrebbe essere rimasta incinta dopo aver conosciuto, durante le ore di lezione alla scuola superiore per perito chimico, un suo coetaneo detenuto. L’amore, quello fisico, quello proibito, si sarebbe consumato proprio in quella scuola "fiore all’occhiello" del Progetto Bollate, un carcere dove per i detenuti ci sono progetti di poesia e scrittura creativa, scuola media, scuola superiore, teatro e persino corsi universitari per 25 aspiranti dottori.

Lei Sonia, è insieme, ad un’altra detenuta, l’unica donna che tutti i giorni dall’una e trenta alle 17.30 frequenta i corsi per perito chimico in un aula della scuola.

Primo anno di corso, insieme ai detenuti maschi. Le detenute a Bollate sono in netta minoranza su 1.040 reclusi 990 sono maschi, ma la direttrice, Lucia Castellano, ha assicurato anche a loro di poter frequentare i corsi scolastici e gli altri progetti rieducativi. Che ci fosse una relazione tra Sonia e il suo compagno di scuola era apparso evidente a Bollate: la detenuta aveva infatti chiesto di poter accedere a quelli che in gergo burocratico si chiamano "colloqui affettivi" e che avvengono tra detenuti sposati, fidanzati o che hanno una relazione stabile che possono incontrarsi e parlare nel reparto femminile.

La richiesta era in valutazione presso la direzione del carcere quando è giunta la "rivelazione" del Sappe. Il Sappe spiega che, a quanto risulta al sindacato dalle 16 alle 18.20, non vi è la sorveglianza del Personale di Polizia Penitenziaria. Perché? Chi lo ha deciso? Chi aveva la responsabilità gestionale di quel Reparto?.

"Ci chiediamo - spiega Leonardo Capece, segretario del Sappe - come sia possibile che avvenga tutto ciò in un carcere e crediamo che il Ministro della Giustizia Alfano ed il Capo dell’Amministrazione penitenziaria debbano predisporre adeguati approfondimenti".

La direzione del carcere di Bollate, da parte sua, spiega di aver già avviato accertamenti per verificare il presunto stato di gravidanza della detenuta e precisa che "l’unico luogo in cui la detenuta può incontrare i detenuti maschi è la scuola da lei frequentata e che il reparto è sempre presidiato dalla Polizia penitenziaria". "Eventuali responsabilità spiega la direttrice Lucia Castellano - saranno prontamente accertate dall’Amministrazione. E poi dobbiamo effettivamente accertare questa presunta gravidanza". Ma il rischio, ora, secondo qualcuno dopo la denuncia dello "scandalo" è quello di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ossia cancellare gettare un ombra sul carcere modello, sul Progetto Bollate.

Varese: Djibril e Diop, cucinano dei piatti senegalesi ai detenuti

 

Varese News, 2 marzo 2010

 

Djibril Thiam è andato ai Miogni e ha proposto piatti della tradizione africana ai 150 detenuti. "Sono molto felice perché tra tre giorni divento cittadino italiano".

Il giallo dona a Djibril Thiam, un senegalese che potrebbe fare tranquillamente il pivot in una squadra di basket. Prima di arrivare in piazza Venti Settembre per lo sciopero degli immigrati del primo marzo, Djibril è andato in carcere, spontaneamente, senza alcun provvedimento del giudice. Ci è andato di primo mattino insieme al connazionale Diop Rokhayaper per fare da mangiare ai detenuti ai quali è stato proposto un menù ispirato alla tradizione africana. L’iniziativa è stata resa possibile grazie alla sinergia messa in campo dall’aerea educativa, diretta dalla dottoressa Mongiello, e dall’area della sicurezza, presieduta dal dottor Croci, con la collaborazione del volontario Ambrosini.

"Il senso di questa giornata è fare qualcosa per i dimenticati - spiega Djibril -. Io mi sono ispirato a un leader spirituale senegalese, Habib M’Backe, che nei giorni di festa non si dimenticava mai degli ultimi. Lui diceva che le vie del Signore sono infinite, ma quella più veloce per arrivare a lui sono i poveri, coloro che non hanno voce".

Djibril è in Italia da quindici anni è sposato con una donna italiana e ha una figlia, lavora in una ditta che fa serramenti in alluminio. Tra tre giorni diventerà cittadino italiano. "Sono felice e fiero di questa cosa, perché mi sento più italiano che senegalese. Penso che educare significhi dare il buon esempio e quindi quando si parla di integrazione bisogna iniziare dalla propria vita".

Alla domanda se un giorno tornerà in Senegal, Djibril esita un istante. "Sicuramente non adesso e fino a quando mia figlia non sarà autonoma e indipendente non se ne parla. Ho un po’ paura, perché quando torno nella mia terra mi sento straniero".

Libro: "Sembrano proprio come noi…", di Daniela De Robert

 

Roma One, 2 marzo 2010

 

Proseguono gli appuntamenti con la cultura, all’interno della Biblioteca "Quarticciolo". Lo scorso 28 febbraio, la Responsabile della Biblioteca la Dott. Rosa di Fusco ha aperto le porte della struttura alla presentazione del libro di Daniela De Robert "Sembrano proprio come noi-Frammenti di vita prigioniera".

L’incontro, organizzato dall’Associazione "A Roma, Insieme", ha visto la presenza dell’autrice del libro che ha raccontato la sua esperienza di oltre vent’anni, come volontaria nel carcere romano di Rebibbia. Questa conoscenza diretta del mondo della quotidianità delle carceri ha permesso a Daniela De Robert, che lavora come giornalista presso la redazione del Tg2, di realizzare uno straordinario reportage sull’universo carcerario italiano.

Scegliendo la via morbida di una narrazione attenta ai dettagli, agli effetti all’apparenza minori, di un sistema di regole che postula la cancellazione dell’individualità e l’infantilizzazione dei detenuti, raccontando la vita in carcere "dall’interno".

Il pubblico presente alla manifestazione ha potuto ascoltare la lettura di alcuni brani, tratti dal volume di Daniela De Robert. L’incontro ha visto un ospite d’eccezione il giudice e scrittore, Giancarlo De Cataldo che ha donato un contributo alla giornata, grazie alla sua grandissima esperienza in materia. De Cataldo inoltre ha risposto alle numerose domande del pubblico presente, esprimendo il suo parere su alcuni dei casi più discussi della cronaca italiana, come il "caso Cucchi".

Intervenuto all’incontro anche il Presidente dell’Associazione "A Roma, Insieme", Leda Colombini, che ha illustrato le iniziate svolte dall’associazione soprattutto all’interno delle carceri femminili.

L’Associazione "A Roma Insieme", nasce nel 1991, da una assemblea di operatori dei servizi sociali che lavorano sul disagio sociale in generale, per migliorare la funzionalità e la qualità dei servizi e per alleviare il disagio delle fasce deboli della città e ha concentrato poi le sue forze sul carcere, in particolare su Rebibbia femminile. I volontari dell’associazione, ogni fine-settimana si impegnano a portare fuori dal carcere i figli delle detenute di Rebibbia femminile per fargli vivere una giornata di libertà, di conoscenza e di gioco, insomma una giornata normale.

Inoltre Leda Colombini ha ricordato la sua proposta di disegno di legge, in favore delle mamme detenute, sostenuta all’interno dello scorso "Convegno di Rimini", da parte del Ministro della Giustizia Angelino Alfano.

L’Assessore alla Cultura del VII Municipio, Leonardo Galli, presente all’incontro, ha espresso il suo consenso positivo sulle continue attività dedicate alla cultura, all’interno della Biblioteca "Quarticciolo".

Inghilterra: 2.203 i minori in detenzione, Ong lancia campagna

 

Dire, 2 marzo 2010

 

La buona notizia è che il numero di bambini in detenzione è crollato. La cattiva notizia è che ce ne sono ancora 2.203 in custodia in Inghilterra e Galles, metà dei quali sono reclusi per comportamenti non violenti. Prison reform trust, Ong che si occupa di salvaguardare i minori in detenzione, ha lanciato una campagna e un sito (www.outoftruble.org.uk) con l’obiettivo di ridurre il numero di under 18 attualmente in detenzione in Gran Bretagna.

L’età oltre la quale è possibile essere incriminati in Gran Bretagna è 10 anni e Inghilterra e Galles sono gli unici due paesi in Europa in cui bambini sotto i 14 anni possono essere messi in prigione. La ragione principale per evitare che under 18 possano finire in prigione, questa la convinzione alla base della campagna di Prt, è che non c’è alcuna evidenza che dimostri che il carcere possa migliore la situazione psicologica e sociale di questi minori.

Palestina: più di 7.000 i detenuti nelle carceri dell’occupazione

 

Infopal, 2 marzo 2010

 

Il Comitato Superiore Nazionale di solidarietà ai prigionieri - che opera con la sovrintendenza del ministero dei Prigionieri - ha redatto un rapporto sui detenuti relativo all’anno 2010. Il rapporto fa un esaustivo studio statistico sui prigionieri riportandone la seguente composizione: 7.000 sono sparsi tra (circa) 25 prigioni, centri di detenzione e centri di arresto.

Nel rapporto, preparato da Ryad al-Ashqar, responsabile della comunicazione del Comitato nazionale, si legge che, sin dall’inizio dell’anno, il numero delle prigioniere è aumentato a 37 (e questo dato si registra con l’arresto di Muntaha al-Tawil) moglie del sindaco di al-Bireh, di Fatima Abu Diab (45 anni) di Gerusalemme e ancora di una terza donna di Hebron, di cui non si conosce l’identità, arrestata dopo aver accoltellato un colono israeliano all’ingresso della colonia Qiryat ‘Arba, ad est del distretto di Hebron (Cisgiordania del sud).

Tra questi prigionieri, 340 sono ragazzi sotto i 18 anni e 300 si trovano in detenzione amministrativa - quindi senza alcuna accusa e senza processo. 16 prigionieri sono membri rappresentanti del Parlamento e due ex ministri. 9 prigionieri sono stati sottoposti alla giurisdizione dell’illegale codice di guerra mentre, dal 1967, 197 prigionieri sono morti.

Circa 5.000, sul totale dei prigionieri, sono stati giudicati con verdetti che variano come segue: 790 sono stati condannati ad uno o più ergastoli, 1.800 sono in detenzione, i palestinesi in detenzione amministrativa sono diminuiti a 300 dall’inizio dell’anno mentre, 9 (tutti della Striscia di Gaza) sono stati sottoposti all’illegale codice di guerra.

Il rapporto del Comitato Superiore nazionale riporta che il numero dei prigionieri che hanno speso maggior tempo nelle prigioni ed internati dal periodo precedente agli accordi di Oslo è di 317; una parte ha trascorso oltre 15 anni in prigione. Tra questi 114 sono leader dei prigionieri e sono coloro che hanno speso oltre 20 anni all’interno delle carceri dell’occupazione in modo continuativo. 14 hanno trascorso 25 anni in carcere e a quest’ultima categoria, da pochi giorni si è aggiunto Ahmad Faryd Shahad di Ramallah mentre tre hanno scontato 30 anni in carcere. Tra essi si ricorda Nael Al-Barghouthi, che tra un mese compirà 33 anni di prigionia e leader dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri dell’occupazione.

Si richiede di porre fine ai crimini di guerra e alla violenza e una trasparenza negli accordi internazionali per i diritti umani. L’occupazione ne ha fatto una questione politica per aggravare lo stato dei prigionieri e delle loro famiglie. Nel rapporto pertanto, si richiede di esercitare pressioni.

Il rapporto nazionale ha svelato che, dopo la scorsa guerra contro la Striscia di Gaza, l’occupazione fa progressivo ricorso all’illegale "codice di guerra" nei confronti di 9 palestinesi che hanno finito di scontare la propria pena ma che, nonostante questo, si trovano ancora sotto sequestro.

Il rapporto sostiene che l’applicazione di questa legge non è altro che un ordine politico e costituzionale senza alcun rispetto per la legge convenzionale, lo considera un attacco ai diritti umani ed un sopruso all’autodeterminazione dei prigionieri palestinesi con la distruzione di sentimenti e aspirazioni di detenuti e familiari.

Nelle conclusioni del rapporto, il Comitato Superiore nazionale si appella a tutti i figli del popolo palestinese perché cooperino alle attività del Comitato di solidarietà con i prigionieri in nome dei quali proclama l’anno 2010. Si richiama la loro causa in ogni direzione affinché facciano pressioni sull’occupante per raggiungere un accordo internazionale sui prigionieri, si rivolge alle organizzazioni internazionali perché condannino l’occupazione per i suoi crimini di guerra perpetuati contro i prigionieri.

 

 

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