Rassegna stampa 16 marzo

 

Giustizia: 67mila detenuti, 1.200 in più rispetto ad un mese fa

 

Apcom, 16 marzo 2010

 

In Italia, all’8 marzo, i detenuti nelle carceri erano quasi 67mila, circa 1.200 in più rispetto a un mese fa. Secondo il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i detenuti sono 66.831 contro i 65.685 di febbraio e i 64.910 rilevati il 30 dicembre 2009. Rispetto a un mese fa gli stranieri sono circa 500 di più (24.840 contro 24.312), le donne 2.866 (a febbraio erano 2.834).

La regione con il maggior numero di detenuti è la Lombardia con 9.067 reclusi (a febbraio erano 8.895), seguita da seguita da Sicilia (8.142 contro i 7.868 di febbraio), Campania (7.987 contro 7.770) e Lazio (6.082 contro 5.875). Dall’11 gennaio scorso all’8 marzo i detenuti sono cresciuti di duemila unità (da 64.853 a 66.831) con una frequenza di circa 250 detenuti a settimana. Dal 28 febbraio 2009 al 28 febbraio di quest’anni i detenuti sono 2.200 in più (66.692 contro 60.350) In tutta Italia il 45% dei detenuti (30.116 su 66.831) sono in attesa di giudizio definitivo.

Per quanto riguarda il Lazio, sono ormai stabilmente oltre quota seimila i detenuti reclusi nelle carceri del Lazio, spiega il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, vice-coordinatore della conferenza nazionale dei Garanti, commentando i dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del provveditorato generale dell’amministrazione penitenziaria. All’11 marzo i detenuti nelle carceri del Lazio erano 6.082 (5648 uomini e 434 donne), 200 in più rispetto al dato censito un mese prima (5.882 totali, 5.470 uomini e 412 donne). Il numero dei reclusi è di 1.484 unità in più rispetto alla capienza regolamentare degli Istituti laziali dichiarata dal DAP (4.598 posti). Gli stranieri reclusi sono 2263, quasi il 37% dei reclusi.

Nel Lazio resta confermato il dato che quasi il 50% dei detenuti presenti (2969) è in attesa di giudizio definitivo: quelli in attesa di primo giudizio sono 1.427, gli appellanti sono 877, i ricorrenti 519, quelli in posizione mista senza definitivo 146. I condannati definitivi sono 3.079.

Giustizia: il "carcere possibile" e i gironi infernali a Poggioreale

 

Il Mattino, 16 marzo 2010

 

Nello stesso giorno sulle pagine de "La Repubblica" edizione di Napoli, Poggioreale è descritto come "Il Girone dei dannati".

"Il carcere possibile" quello previsto dalla legge è andato in onda l’altra notte su Rai 3, nella trasmissione "Telecamere". In nome del principio costituzionale della rieducazione del condannato, la TV è entrata in alcuni Istituti. Mura linde e pulite, celle ordinate, familiari accolti in ambienti decenti. Detenuti al lavoro in torrefazioni di caffè ed in fabbriche di birra. Sono stati ripresi anche servizi igienici in alluminio di nuova generazione. Tutto così come previsto dall’Ordinamento e dal Regolamento Penitenziario. Chi non avesse visto il programma, potrà farlo sul sito di "telecamere".

Allo spettatore è stato detto che i suicidi, sarebbero dovuti esclusivamente a problemi degli stessi detenuti, aggravati dallo stato di detenzione, mentre le carceri sono state mostrate come luoghi relativamente accoglienti, dove i familiari vanno, con comodità, a trovare i loro cari. Nella stessa giornata, "La Repubblica" edizione di Napoli, ha pubblicato un articolo dal titolo "Poggioreale, nel girone dei dannati" - Viaggio nel carcere super affollato dove si è appena compiuto l’ultimo suicidio. Fino a dieci detenuti per cella".

Un contrasto d’informazioni esasperato. Quale la verità? Essere detenuto in un luogo o in un altro cambia la vita? Ebbene sì. Cambia e non di poco. Entrambe i servizi hanno raccontato la verità. Quella del giornale era riferita alla Casa Circondariale di Napoli, quella televisiva ha fatto riferimento a quanto deve meritare il plauso dell’opinione pubblica, perché è così che va scontata la pena, nel rispetto della legge. Non sarà stato facile individuare solo le carceri che funzionano. Non sono molte, anzi pochissime. Ma ci sono riusciti, magari con l’indicazione di qualche addetto ai lavori. Sarebbe stato opportuno, che il più grande mezzo d’informazione, avesse fatto conoscere anche quello che avviene nella maggior parte degli Istituti di pena, non solo ai detenuti, ma anche ai familiari che li vanno a trovare e agli agenti di Polizia Penitenziaria che ci lavorano.

Crediamo che ai detenuti vada offerto un "diritto di replica" e che le telecamere debbano entrare anche in altri Istituti, magari a Poggioreale, nel padiglione "Napoli", dove si vive per 22 ore al giorno anche in 10 in una stanza, dove si cucina, si mangia e c’è il bagno a vista. Ci si potrebbe poi soffermare su quanto avviene fuori le mura della Casa Circondariale dalle tre di notte, quando i familiari iniziano la fila per i colloqui, che si terranno al mattino.

Non vogliamo condannare l’Amministrazione Penitenziaria, che in questa costante emergenza fa miracoli, ma l’assordante silenzio della politica che, pur dichiarando "lo stato di emergenza", nulla concretamente fa per affrontare la palese violazione di diritti umani, anzi emana inutili provvedimenti che prevedono una maggiore carcerizzazione. Finché i "media" tutti, non si faranno carico dell’emergenza, i politici continueranno a rinviare il problema e nelle carceri si continuerà a morire.

Giustizia: detenuti vincono ricorso, ma restano nella mini-cella

di Andrea Garassino

 

La Stampa, 16 marzo 2010

 

Carcere di Saluzzo sovraffollato. Due detenuti presentano un reclamo al Giudice di sorveglianza di Cuneo che gli dà ragione. Spettano loro almeno 7 metri quadri a testa. Ne hanno a disposizione solo 4,5.

Sono rinchiusi al "Morandi", nelle sezioni "Alta sicurezza". Prima di poter godere di spazi più ampi, però, devono attendere le direttive del Dipartimento penitenziario del Piemonte. "Le disposizioni per i carcerati dell’Alta Sicurezza - dice il direttore del penitenziario saluzzese Giorgio Leggieri - sono stabilite da circolari ministeriali che non possono essere derogate da decisioni del direttore. I decreti del magistrato di Cuneo sono in fase di valutazione da parte del Dipartimento".

Il tribunale ha accolto le istanze dei detenuti in base a due sentenze della Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo e della Corte Costituzionale. I due detenuti sono rinchiusi in una cella di 9,35 metri quadri, cioè 4.75 a testa, mentre il "Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti" indica in 7 metri il limite minimo. Altra prescrizione: 8 ore di tempo minimo fuori dalla cella. "I due detenuti nel reclamo hanno parlato di 5 ore - precisa Leggieri -, ma nel computo delle 8 vanno prese in considerazione anche le ore dedicate a corsi professionali e scolastiche che abbiamo attivato nei mesi scorsi, quindi non ci sono infrazioni per quanto riguarda questa prescrizione".

Sono 400 gli "ospiti" della casa circondariale di Saluzzo. Settantaquattro sono rinchiusi nelle due sezioni di "Alta Sicurezza", che avrebbero una capacità totale di 100 persone. In due sezioni penali, invece, nei mesi scorsi è stata aggiunto un posto letto per cella, per passare da 50 detenuti per reparto a 75 e il problema del sovraffollamento in questi settori del carcere è molto sentito. In questo caso le celle sono aperte dalle 8,30 alle 19,30, ogni giorno. Presto sarà avviato il cantiere per un nuovo padiglione da 200 posti.

Lettere: Psicologi penitenziari scrivono al Partito democratico

 

www.linkontro.info, 16 marzo 2010

 

Lettera di Paola Giannelli, Segretario nazionale Società Italiana Psicologia Penitenziaria, a Sandro Favi, responsabile Settore Carcere del Forum Giustizia del Partito Democratico.

In nome e per conto della Società Italiana di Psicologia Penitenziaria e di tutti gli psicologi che, come me, in qualità di esperti ex art. 80 Op, hanno svolto e svolgono tuttora, presso gli istituti penitenziari del territorio nazionale, sia la funzione di Osservazione e Trattamento, sia l’assistenza psicologica (nonostante questa seconda funzione non sia stata loro riconosciuta nel passaggio della Sanità penitenziaria al Ssn), mi permetto di fare alcune precisazioni in relazione alle mozioni approvate, sperando che si possa fare qualcosa per rappresentare la problematica dell’assistenza psicologica così come realmente è. Leggendo la mozione in oggetto, nel punto che riguarda la carenza degli operatori ed in particolare dell’assistenza psicologica, essa recita: "…..così come si deve andare fino in fondo quando si tratta di mettere in atto un concorso che risale al 2006 e che riguarda 39 psicologi".

Manca completamente, in questo passaggio, il riferimento agli psicologi che, molto, molto prima che venisse bandito tale concorso e precisamente dal 1975, c’erano già: gli psicologi esperti ex art. 80, che lavoravano in modo stabilmente precario, mal pagato e con un numero di ore che sono state più volte oggetto di tagli di bilancio, fino ad arrivare attualmente ad essere in media 15 al mese ciascuno, ovvero 2 ore l’anno per ciascun detenuto. Questa situazione non poteva e non può, ragionevolmente, garantire una assistenza adeguata ma solo, se e quando ci si riesce, interventi sulle emergenze.

A questi psicologi, la cui aspettativa era, prima del concorso ed è tuttora, che venisse sanata la loro situazione di infinito precariato e che venisse loro consentito di prestare effettivamente servizio, è stata negata anche la possibilità che in quel concorso per psicologi del 2006, vi fosse una valutazione per titoli, oltre che per esami, o che venisse attribuito un punteggio per l’esperienza professionale maturata o per l’anzianità di servizio. E questo, nonostante ognuno di noi, oltre a lavorare da tanti anni per l’Amministrazione Penitenziaria, avesse a suo tempo superato una prova selettiva di idoneità e valutazione di titoli che ci ha consentito di essere iscritti negli elenchi delle Corti d’Appello.

A questo proposito, nella presente mozione viene fatto un riferimento formulato in modo parziale, impreciso e, di conseguenza, non solo non corrispondente al vero, ma fuorviante: "….così come risulta deficitaria l’assistenza psicologica a cominciare da quella legata alle attività di Osservazione e Trattamento dei detenuti, visto e considerato che, a fronte di quasi 66.000 detenuti gli psicologi che prestano effettivamente servizio sono appena 352 , il che comporta che gli istituti siano diventati un’istituzione a carattere prevalentemente se non esclusivamente afflittivo".

Ebbene, se 352 psicologi prestassero effettivamente servizio - come si intende da quanto scritto - e se la sproporzione tra operatori del controllo e operatori del trattamento non fosse così smisuratamente elevata e tale da rendere (n.d.r.) il carcere "una istituzione a carattere prevalentemente, se non esclusivamente afflittivo", forse non ci sarebbe stato neanche bisogno di un concorso per psicologi.

Ma poiché questo concorso è stato fatto, è giusto che chi lo ha vinto possa svolgere il suo lavoro. Altro però è dire, ed è questo che mi sembra fuorviante, che questi 39 psicologi, aggiunti ai 19 di ruolo, consentiranno di affrontare il problema della tutela della salute psichica e dell’assistenza psicologica ai detenuti.

Vorrei infine sottolineare che, se si ripeterà, come è probabilissimo, quanto già avvenuto in ambito minorile, l’assunzione e quindi l’ingresso di questi 39 giovani colleghi comporterà, negli istituti dove essi saranno assegnati, la perdita del lavoro da parte degli psicologi esperti ex art. 80 ivi presenti (gli stessi a cui ci si riferisce quando, sempre nella mozione che riprende i contenuti di una proposta di Legge (n. 1970 del 1-12-2008, a firma Livia Turco) si dice che il Ministero avrebbe " preferito affidarsi a consulenze parcellizzate di professionisti esterni con pesante aggravio, in termini economici per le casse statali", anziché "avvalersi esclusivamente degli psicologi vincitori di concorso". Come se questo potesse risolvere magicamente i problemi di assistenza di 67.000 detenuti!

Più volte abbiamo tentato, come ho già rappresentato alla riunione del Gruppo di Lavoro sul carcere del Forum Giustizia, di far comprendere al gruppo dei 39 colleghi vincitori di concorso, che rispettiamo e riteniamo legittimo il loro interesse ad essere assunti ma, altrettanto legittima è l’aspettativa di chi, come noi, lavorando da tanto tempo negli istituti di pena desidera riconoscimento e stabilizzazione. Questo anche nell’interesse dell’istituzione che non disperderebbe un patrimonio di esperienza professionale e degli utenti perché non consentire a noi di fare il nostro lavoro inciderebbe sulla qualità del servizio e la continuità dell’assistenza fin qui ricevuta dai detenuti.

Purtroppo, e la mozione così come è formulata lo conferma, l’esigenza emergente è ancora una volta l’interesse di pochi, a scapito del bisogno di tanti, i quali non hanno tutele, sia che si tratti di chi lavora in modo precario, che di detenuti. Confidando che si possa rettificare le imprecisioni rilevate sull’assistenza psicologica e dare concretezza alle proposte, ti saluto e rinnovo la disponibilità a collaborare, mia personale e dell’ associazione.

P.S. Non è assolutamente secondario, anche se lo aggiungo alla fine, che non sia stato affrontato nemmeno il problema dell’assistenza psicologica ai minori, i quali sono rimasti nella maggior parte delle regioni senza alcuna assistenza. Su questo aspetto potrà essere più precisa una collega che lavora in questo ambito e con la quale, se siete interessati all’argomento, posso farvi contattare.

Padova: l’avvocato del detenuto suicida; la denuncia è pronta

di Gianluca Perricone

 

L’Opinione, 16 marzo 2010

 

Aveva 35 anni Giuseppe Sorrentino, il detenuto di origini campane suicidatosi la scorsa settimana nel carcere di Padova. Sulla vicenda, l’avvocato difensore di Sorrentino, Bianca De Concilio, ha rilasciato dichiarazioni piuttosto dure: l’abbiamo intervistata.

 

Avvocato De Concilio, innanzitutto, da quanto tempo e perché il suo cliente era detenuto nel carcere padovano?

Sorrentino era detenuto al carcere di Padova da oltre 5 anni. Il trasferimento presso tale istituto di pena fu disposto dal Dap per motivi di sicurezza che in realtà, a mio avviso, vuol dire tutto o niente.

 

Secondo quanto da lei dichiarato quella del suo assistito era "una morte annunciata", perché la considera tale?

Perché soffriva da diversi anni di una grave forma depressiva tale da determinare diversi ricoveri presso l’ospedale psichiatrico giudiziario. Il povero Sorrentino aveva già in passato tentato il suicidio tagliandosi le vene e nell’ultimo anno viveva in completo isolamento rifiutando ogni tipo di contatto umano sia con gli altri detenuti che con i propri familiari.

 

Lei ha sostenuto di aver "anche chiesto il ricovero in ospedale, il trasferimento a un carcere più vicino alla famiglia, nel salernitano", ma nessuno l’ha ascoltata. Anzi, un mese e mezzo fa il direttore sanitario del carcere di Padova in una relazione su Sorrentino scrisse "il detenuto non è malato, finge". Sono dichiarazioni piuttosto pesanti…

Mi sono limitata a dire la verità. Credo sia assolutamente inconciliabile affermare che il Sorrentino simuli la propria infermità mentale con quanto è facilmente desumibile dalla lettura del diario clinico dello stesso. Ho ripetutamente inoltrato istanze affinché si potesse intervenire in tempo ma nessuno mi ha dato ascolto. In particolare il Magistrato di Sorveglianza non ha mai disposto una perizia al fine di verificare lo stato di salute di Sorrentino e il direttore sanitario non è stato in grado di assumersi le responsabilità che sono proprie del ruolo che ricopre. Nei prossimi giorni depositerò, su mandato dei congiunti, una denuncia al fine di poter far luce sull’intera vicenda.

Lucca: carcere fatiscente degradato inadeguato, sovraffollato

 

Ansa, 16 marzo 2010

 

"Pensavo di dover visitare un carcere, mi sono ritrovato in un luogo indegno le cui condizioni di degrado e invivibilità non è facile rappresentare, tantomeno illustrare". Questo il giudizio, riporta una nota, del segretario generale della Uil Pa penitenziari Eugenio Sarno, dopo aver visitato oggi il carcere di San Giorgio a Lucca.

Sarno descrive l’istituto lucchese come "fatiscente, degradato, inadeguato, sovraffollato". "Non capisco - aggiunge - come si possa tollerare una situazione come quella del carcere Lucca dove i rischi igienico-sanitari sono sotto gli occhi di tutti. Anche le condizioni di lavoro del personale sono pessime.

Non invidio certo il direttore appena insediatosi - prosegue Sarno -. Ha davanti a sé un compito arduo, voglio sperare che l’Amministrazione penitenziaria e lo stesso Comune siano al suo fianco perché in tempi brevi si possano ripristinare condizioni di vivibilità e ridare dignità alle persone". Sarno invierà una "dettagliata relazione ai vertici del Dap", che trasmetterà anche "al sindaco, al prefetto, alle autorità sanitarie e al procuratore della Repubblica".

Vicenza: chiusa Sezione di A.S., più spazio per i reclusi comuni

di Chiara Roverotto

 

Giornale di Vicenza, 16 marzo 2010

 

Riclassificata dal Ministero dell’Interno la struttura cittadina, che così perde una sezione. Resta aperto il problema del sovraffollamento: ieri i carcerati erano 329. Il personale resta lo stesso, nessun aumento di agenti.

La sezione di massima sicurezza del carcere di S. Pio X in via Della Scola è stata chiusa. Il provvedimento, annunciato nelle scorse settimane, è già diventato operativo. Erano una cinquantina i detenuti rinchiusi per reati legati ad associazione mafiosa o al traffico di sostanze stupefacenti, che ora sono stati trasferiti a Padova e a Tolmezzo.

La "manovra" decisa dal Dipartimento carceri è stata necessaria per il sovraffollamento della casa circondariale cittadina. All’interno ci sono celle progettate per un solo detenuto quando in realtà ne ospitano tre-quattro, che non riescono nemmeno a stare in piedi contemporaneamente.

Situazione denunciata più volte dai sindacati e anche dagli operatori e volontari di S. Pio X. "Di fatto - spiega il direttore, Fabrizio Cacciabue - c’è stata una riclassificazione delle carceri in tutta Italia e Vicenza, pur mantenendo il medesimo livello di sicurezza, perde una sezione che sicuramente creava un aggravio professionale e lavorativo agli agenti di polizia penitenziaria".

In realtà la situazione nelle ultime settimane si era fatta particolarmente seria, al punto che i detenuti protestavano due volte al giorno battendo sulle spranghe delle celle chiedendo un trattamento più adeguato e più umano. In pratica, vista la cronica mancanza di personale accadeva che i detenuti in regime di massima sicurezza, non potevano ricevere visite in tutti i giorni previsti, non venivano consegnati loro i pacchi provenienti dall’esterno e non venivano assicurati nemmeno tutti i servizi che invece dovevano essere effettuati. Almeno stando al regolamento. Ora la situazione pare stia migliorando, anche se le cifre sull’affollamento restano comunque alte: ieri erano presenti 329 reclusi, ma il numero cambia di giorno in giorno. Quest’estate ci sono stati picchi anche di 370 carcerati.

"Con la sezione di massima sicurezza, ora libera, riusciamo a mettere tre detenuti all’interno di una cella dove prima c’era una sola persona o al massimo due. Questo spostamento - continua il direttore Cacciabue - ci permette non solo una gestione diversa, ma anche la possibilità di tradurre in pratica tutti quei progetti che riguardano i detenuti comuni, tra cui l’attività legata al giardinaggio e la famosa scuola di cui tanto si è parlato. La pena, infatti, è un marchio che una persona si trova sulle spalle per tutta la vita.

La prima cosa che uno perde entrando in carcere è il lavoro : per questo è importante incrementare i progetti e le iniziative che già sono in atto, come il laboratorio per la lucidatura dei metalli". Tutto questo, però, non risolve i problemi all’interno del carcere cittadino dove gli agenti sono sotto organico. Infatti, a fronte di una pianta organica in cui sono previste 191 unità, gli effettivi sono 157 di cui 13 distaccati ed altri 4 inseriti in altri servizi. Di fatto chi lavora all’interno di via Della Scola sono 140 agenti per quasi 330 detenuti.

Inoltre resta ancora aperta la questione ampliamento. Il Dipartimento amministrativo del Ministero ha già individuato l’area dove dovrebbero trovare posto altri 110-120 detenuti, ma finora l’opera non è stata finanziata, come del resto accade in altri istituti penitenziari su tutto il territorio nazionale. "A Vicenza - conclude il direttore - ci sono 5 sezioni con 117 celle singole di 9 metri quadrati occupate come si diceva anche da quattro detenuti. Ora si respira di più, ma i problemi non sono certo risolti. Diciamo che la tensione si è un po’ alleggerita" .

Perugia: formazione professionale "a distanza", per i detenuti

 

Adnkronos, 16 marzo 2010

 

Con un fondo di 1 milione 700mila euro, l’assessorato alla Formazione professionale della provincia di Perugia si appresta a finanziare nuovi corsi di formazione professionale rivolti all’inclusione sociale e lavorativa delle fasce più deboli. La giunta ha approvato il nuovo piano che prevede per ogni tirocinante una borsa lavoro di 800 euro per una durata dei corsi-tirocini di 4 mesi. I nuovi percorsi formativi sono rivolti in particolare a lavoratori che hanno avuto problemi o sono dipendenti di sostanze stupefacenti, a soggetti seguiti dai servizi sociali o persone diversamente abili iscritte al collocamento. L’obiettivo è duplice: insegnare una nuova professione e allo stesso tempo cercare di inserire il soggetto all’interno di una rete sociale.

Sempre la giunta provinciale, su indicazione dell’assessorato alla Formazione professionale, ha previsto il finanziamento anche di corsi di lingua italiana, di informatica e cultura per gli stranieri per un valore totale di 300mila euro. Ogni corso durerà almeno 150 ore. Infine, nel piano triennale sono previsti corsi e tirocini anche per alcuni carcerati che sono ospiti delle strutture di Capanne e Spoleto nell’ambito del progetto che si basa su una logica di reinserimento lavorativo dopo la conclusione della pena. Ai detenuti selezionati la provincia di Perugia garantirà un borsa di lavoro da 800 euro per 5 mesi di impegno. E per le lezioni teoriche si avvarrà del modello della formazione a distanza, mentre per quelle pratiche del laboratori delle strutture penali. I fondi a disposizione sono di 500mila euro.

Roma: Leda Colombini; una vita "normale" per figli del carcere

di Valentina Santarpia

 

City, 16 marzo 2010

 

Leda Colombini con la sua Associazione "A Roma insieme"si batte per dare una vita "normale" ai figli delle mamme detenute. Anche attraverso una proposta di legge.

 

Di cosa si occupa l’associazione "A Roma insieme"?

Di fornire servizi sociali alle classi disagiate.

 

Uno dei progetti degli ultimi anni è quello di portare fuori dalle carceri i bambini delle mamme detenute...

Certo: dopo la riforma dell’ordinamento penitenziario del ‘75 per la prima volta si è data la facoltà alle madri che non hanno la possibilità di affidarli ad altri, di portarli con sé in carcere fino ai tre anni. Quella è l’età in cui per un bambino stare con la madre è indispensabile e decisivo.

 

Però questo significa costringere i bambini ad una vita anomala?

Sì, purtroppo quella legge da una parte ha concesso a madre e bambino di poter vivere insieme quegli anni cruciali, ma ha aperto una sorta di contraddizione, costringendo i bambini a vivere in una condizione innaturale.

 

Quanti bambini ci sono attualmente in carcere in Italia?

Non hanno mai superato i 72-75, ma solo perché tutte quelle che possono preferiscono lasciarli fuori, a qualche altro affetto.

 

Che vita fanno questi bambini in carcere?

Il loro sguardo sbatte sempre contro un muro. E invece gli orizzonti, l’altezza degli alberi, la circolazione, sono tutti stimoli che non dovrebbero mancare loro.

 

Vivono in una cella?

Sì, in spazi ridottissimi: a Rebibbia ci sono anche celle dove ci sono 6 madri e 6 bambini. Poi stanno chiusi a chiave dalle 8 di sera alle 8 del mattino. Di giorno possono uscire in un giardinetto, ma stanno sempre e solo con le donne detenute e con i loro figli. Così vivono una tensione permanente, non solo perché le madri sono di lingue, culture, usi e costumi diversi, ma perché le vedono anche spesso litigare tra di loro.

 

Come avete migliorato questa situazione?

Prima di tutto abbiamo intrapreso una battaglia per portarli al nido esterno: nonostante non siano mai stati più di 12, è stata comunque dura.

 

Perché?

Abbiamo dovuto fare in modo che il Comune fornisse un pulmino per portarli al nido: ma la delibera continuava ad avere ostacoli. Alla fine abbiamo preso da parte le consigliere comunali, e abbiamo detto loro: "Il disagio più grande di una persona è quello di vedersi privata della libertà. Ve li immaginate questi bambini a cui viene tolta la libertà di correre, giocare, vedere il mondo?" A quel punto la delibera è passata.

 

Vengono portati tutti nello stesso nido?

No, altrimenti non sarebbe avvenuta l’integrazione: e poi sarebbe stato difficile imporre al municipio di togliere tanti posti in un solo nido. E poi non le dico le reticenze delle madri.

 

In che senso?

Molte hanno una cultura ancestrale e vivono con difficoltà l’idea di separarsi dai propri figli: pensi alle nomadi. Ma poi hanno cominciato a fidarsi… e ora sono contente.

 

Ma non vi bastava…

No, abbiamo pensato che i bambini dovessero avere il massimo della normalità possibile. Quindi era fondamentale che imparassero anche a entrare nella società, a esplorare altri ambienti, altre persone. Allora abbiamo proposto le uscite del weekend.

 

Dove li portate?

In tutti gli ambienti dove andrebbe una famiglia normale. Al supermercato, in montagna, al mare, allo zoo.

 

Come reagiscono i bambini?

È incredibile, sono stupiti persino del traffico. Molti hanno paura di tutto. Ricordo sempre una bambina che aveva il terrore di salire sullo scivolo: ma quando si è sbloccata ci è voluta un’ora per tirarla giù! E un’altra che si è portata una palla di neve in carcere per farla vedere alla madre.

 

Avete qualche psicologo che vi consiglia?

No, abbiamo preferito far leva sull’esperienza di madri e di volontarie: siamo sempre attente ai loro bisogni, ma lasciandoli molto liberi. Forse questa esperienza aiuta più noi, persino le vecchie befane come me, a crescere e ad andare più in profondità.

 

Ma che fine fanno questi bambini dopo i tre anni, se le mamme rimangono in carcere?

Io non auguro a nessuno di vedere le scene che abbiamo visto: bambini strappati alla madre senza sapere che cosa sarebbe stato di loro. È per questo che abbiamo creato una specie di percorso per l’affidamento familiare di quei bambini che non avevano alternativa all’istituto. Le famiglie affidatarie escono con noi 3-4 volte il sabato, in modo che il bambino si abitui a loro. La separazione è sempre dolorosa, ma meno traumatica.

 

Lei mi sta parlando di Rebibbia, ma esistono anche altre iniziative del genere in Italia?

Grazie al nostro impulso, anche la Provincia di Milano ha messo a disposizione una villa dove sono state portate le detenute di S. Vittore, che possono vivere in un ambiente meno ostile del carcere con i propri figli.

 

Non avete pensato a una proposta di legge?

Certo che sì. Presentata al Parlamento nel 2005, corredata di 10mila firme, è arenata. Punta a far sì che le madri detenute possano usufruire di una custodia attenuata, anche perché nel 98% dei casi sono colpevoli di reati socialmente non pericolosi. E poi punta a cancellare delle ingiustizie: ad esempio che quando un bambino viene portato in ospedale la madre possa assisterlo, anche se accompagnata dalla scorta. Attualmente alla madre è vietato e lui resta solo.

Spoleto (Pg): Sappe; polizia penitenziaria in stato d’agitazione

 

Comunicato Sappe, 16 marzo 2010

 

Sono molte le criticità del Personale di Polizia Penitenziaria in servizio nella Casa di Reclusione di Spoleto, che oggi terranno un’assemblea in istituto con Donato Capece ed i vertici della Segreteria Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria.

Spiega Capece, segretario generale Sappe: "Nonostante i numerosi e pregressi interventi del Sappe, con cui sono state esternate le ragioni di una netta contrarietà alla riapertura del reparto detentivo cosiddetto Nuovo giudiziario senza adeguati incrementi di organico di Polizia Penitenziaria ormai ai minimi storici (mancano 67 agenti rispetto ai 307 previsti secondo una vecchia e inadeguata pianta organica del 2001), l’Amministrazione penitenziaria - seguendo una consueta e semplicistica logica di creare posti letto a tutti i costi - ha raddoppiato la capienza regolamentare del carcere di 145 posti inserendo 290 detenuti.

Peccato che, oltre a condizioni di vita comunque disagevoli per i detenuti, i costi sono quotidianamente a totale carico del personale di Polizia Penitenziaria. A causa dell’organico insufficiente c’è stato un aumento esponenziale dei carichi di lavoro, con l’accorpamento di più posti di servizio, con turni di lavoro oltre l’ordinario che, in alcuni casi, e specialmente nei servizi di traduzione e piantonamenti, si protraggono oltre le 12 ore continuative.

Ogni giorno, in vari posti di servizio non vengono messe le unità che invece sarebbero previste, semplicemente perché non ci sono. Ma tutto questo non era sufficiente tanto che, vista la totale assenza di proteste da parte della direzione, che non ha supportato minimamente i numerosi allarmi lanciati da questa e altre OO.SS. negli ultimi mesi, i detenuti continuano ad arrivare ogni settimana (ora tocca al circuito AS 3, raddoppiare i posti letto) ed è stata riaperta anche la 4° sezione infermeria".

Aggiunge ancora Capece: "Una sezione che dovrebbe ospitare solo temporaneamente detenuti ricoverati per motivi di salute, oggi ospita contemporaneamente detenuti di media sicurezza, detenuti AS 3, detenuti di sezioni protette, al di fuori di ogni regola e logica penitenziaria. È ancor più grave che l’unico agente fino ad oggi ivi comandato di servizio ha dovuto coprire contemporaneamente 3 posti di servizio, vigilanza, sezione- rotonda - ambulatori infermeria, con grave pregiudizio per la sicurezza e rischi enormi per la stessa incolumità fisica, in quanto, in caso di aggressioni, difficilmente qualcuno potrebbe accorgersi in tempi ragionevoli cosa accade.

La Segreteria Sappe di Spoleto attende da oltre un mese una risposta ad una nota con la quale si richiamava il direttore ad adempiere ad una disposizione emanata dallo stesso Dirigente ad ottobre 2009, riguardante la dotazione al personale di allarmi antiaggressioni, ma ancora tutto tace. Ci risulta, inoltre, che la Direzione penitenziaria ormai da mesi non prende in considerazione nulla di quanto proposto dalle OO.SS., con assenza totale di relazioni sindacali, declinando risposte e soluzioni ai numerosi problemi rappresentati, tanto che il sentimento di malumore e demotivazione nonché di abbandono totale dell’Amministrazione è diffusissimo tra il personale.

Ciliegina sulla torta: viene segnalato che, negli ultimi giorni, il Direttore "ha accettato" l’assegnazione a Spoleto di un detenuto (arrivato il 26 febbraio in gran segreto) che, a causa di numerose e reiterate aggressioni al personale, i Direttori di Roma "Rebibbia" prima e Firenze "Sollicciano" poi non hanno voluto perché sembrerebbe che… occorre troppo personale per gestire tale personalità aggressiva… (perché a Spoleto il personale è più numeroso?). Ebbene, già con i gravi problemi esistenti, ora nella 4° sezione dovranno per forza di cose essere impiegate 3 persone per turno, nulla importa se salteranno riposi o congedi. Il personale non ce la fa più a sostenere tali ritmi senza una rimodulazione delle attività dei detenuti e con adeguati rinforzi di organico! Il Sappe chiede, nell’immediato, l’opportunità di far rientrare tutto il personale distaccato a vario titolo ovvero l’emanazione di un interpello straordinario di missione o distacchi senza oneri per un minimo di 20 unità. E di questo parleremo oggi nella nostra assemblea con il Personale del carcere".

Milano: io, prete del Beccaria, vi racconto i "ragazzi di strada"

 

Il Giornale, 16 marzo 2010

 

Milano non è mica tutta uguale. Ogni quartiere ha un’identità. E un cuore, proprio come quello che ricordano i figli del dopoguerra, quando "Nessuno si chiudeva in casa. Si viveva gomito a gomito, miee, nevodìn, fradèj, sorèj, cugine zitelle, preti e perpetue...", come racconta Laura Pariani nel suo toccante capolavoro meneghino Milano è una selva oscura (Einaudi).

Quei cuori di quartiere battono ancora e rendono Milano una fucina di storie e personaggi. Una di queste storie è quella di don Claudio Burgio, nato nel 1969 in un quartiere storico come il Giambellino, "in un contesto popolare che favorì la nascita della mia passione educativa", come ci ha raccontato. Oggi don Burgio, a soli 41 anni, è un pezzo di storia di Milano.

Della storia migliore, fatta di operatività quotidiana, di cose concrete, di persone che al posto degli orari e delle rivendicazioni hanno messo volontà, speranza e, in certi casi, preghiera. Cappellano del carcere minorile "Cesare Beccaria" a fianco di don Gino Rigoldi (è l’’unico che, insieme con lui, può entrare nelle celle), direttore della Cappella musicale del Duomo, autore di un catechismo per adolescenti diffuso in moltissime diocesi italiane, da qualche giorno don Claudio è arrivato anche in libreria, con Non esistono ragazzi cattivi. Esperienze educative di un prete al Beccaria di Milano (Edizioni Paoline), che verrà presentato domani al circolo Acli di Lambrate (via Ponte Rosso 5, ore 21).

Quello che oggi si occupa di due tra le istituzioni più significative della città, il carcere e la cattedrale appunto, è partito come un ragazzo qualsiasi, dal Giambellino. Quando arriva al liceo però, capisce di avere una missione. Non ancora una vocazione, ma un istinto primario che gli viene dal cuore: aiutare i ragazzi in difficoltà. Fa il volontario in una comunità. Poi arriva il momento dell’incontro con Dio. E ancora, nella sua prima parrocchia a Lambrate, altro quartiere in cui i milanesi imparano a essere concreti ancora prima che a compitare l’alfabeto, don Claudio crea Kayròs, un progetto di comunità che continua ancora oggi.

Nel libro, si racconta soprattutto l’incontro con una realtà di cui in città si parla poco, il "Cesare Beccaria", istituto penale minorile nato negli anni Sessanta in via dei Calchi Taeggi 20, 2mila metri quadri senza sbarre per un numero variabile di ragazzi - sempre intorno ai cento - tra i 14 e i 21 anni. Una realtà che andrebbe esplorata più a fondo, a fronte di un interesse sempre crescente dei media verso gli adolescenti, i loro problemi, aspettative, desideri e trasgressioni. Tutte cose che don Burgio conosce benissimo: "Non siamo solo quelli che celebrano la messa quando capita, ma figure di relazione. Parliamo coi ragazzi non solo dei reati, ma delle motivazioni. Diamo un nome ai problemi, per rielaborare la loro storia".

Per questo don Burgio ha il polso della situazione, e il suo libro ha valore di modello pedagogico: "Sorprende che al Beccaria siano in aumento gli arrivi tra i ragazzi di buona famiglia, regolari, che vivono in contesti sociali di benessere. Inoltre, i consumatori di cocaina o di alcol tra i minori dell’istituto sono almeno il 90%. Gli adolescenti sono fragili e già frustrati, perché spinti a ottenere risultati al di là delle loro possibilità.

Spesso i reati sono dettati dall’improvvisazione". Questo stesso sacerdote è il rettore della scuola più antica di Milano, nata oltre 600 anni fa per educare ogni anno dieci nuovi bambini di quarta elementare che fino alla terza media canteranno ogni domenica in Duomo: "Due prove al giorno oltre alla formazione scolastica. L’unica altra realtà del genere in Italia è il coro della cappella Sistina". Tanta differenza con i ragazzi del Beccaria? "I problemi in germe sono gli stessi. E così le questioni educative. Però qui si può prevenire. Con la musica, ad esempio".

Bologna: venerdì 5 detenuti usciranno per recitare Dostoevskij

 

Redattore Sociale, 16 marzo 2010

 

Venerdì 19 e sabato 20 va in scena all’Arena del Sole "Nastasja", frutto di un laboratorio col regista Paolo Billi. Ma le attività di lavoro e rieducazione all’interno della Dozza sono ancora troppo poche. Ziccone: "Solo 100 posti di lavoro all’interno".

Venerdì 19 e sabato 20 marzo va in scena all’Arena del Sole "Nastasja", tratto da "L’idiota" di Dostoevskij, frutto di un laboratorio col regista Paolo Billi. Lo spettacolo vedrà in scena 5 detenuti della Sezione penale maschile del carcere, insieme a 5 attrici dell’associazione teatro del Pratello: rientra nel progetto "Esperimento di teatro alla Dozza", giunto al terzo anno, promosso dalla direzione dell’istituto di pena, dalla Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, Desi Bruno, e sostenuto dalla Provincia di Bologna nell’ambito di una nuova convenzione sottoscritta per mezzo dell’istituzione Minguzzi, dal Comune e dall’associazione teatro del Pratello.

Domenica 21 marzo invece locali e osterie di via del Pratello ospiteranno "Libero ovunque tu sia", una serie di iniziative di solidarietà ai detenuti con la partecipazione del teatro del circolo Pavese e della rivista "L’Arengo del viaggiatore". Parteciperanno numerose associazioni di volontari, che porteranno fuori dal carcere i laboratori che svolgono assieme ai detenuti.

Ma le attività di lavoro e rieducazione all’interno della Dozza sono ancora troppo poche: lo sottolineano operatori e dirigenti dello stesso istituto di pena. "Cerchiamo di evitare che i detenuti rimangano in cella per 22 ore su 24, come accade a Poggioreale - afferma Massimo Ziccone, responsabile area educativa del carcere bolognese - le iniziative di rieducazione e le attività lavorative sono parte integrante della esperienza riabilitativa che un carcerato deve svolgere prima di tornare in libertà, altrimenti è facile ricadere in situazioni di disagio che poi lo riporterebbero a compiere reati. Ma le risorse per le attività riabilitative vengono solo dagli enti locali".

"Il teatro permette ai detenuti di riappropriarsi della sicurezza in loro stessi, di acquisire competenze lavorative specifiche e di sfruttare le loro potenzialità espressive - spiega la vicedirettrice della Dozza, Nicoletta Toscani -. C’è bisogno di distinguere tra chi è in carcere per situazioni di disagio come la tossicodipendenza, e chi crea allarme sociale. L’iniziativa all’Arena del Sole serve anche a non spegnere le luci sulle condizioni gravi in cui vivono i carcerati: in questi giorni, per carenze strutturali, alla Dozza 10 detenuti sono costretti a dormire per terra su materassi".

Ziccone presenta alcuni dati: "Il 70% dei detenuti è straniero, il 67% è privo di reddito, c’è un vero e proprio problema di acquistare anche solo le mutande. Il 90% dei detenuti è responsabile di piccoli reati come spaccio o piccoli furti e non resta più di un anno in carcere. La mancanza di misure alternative alla detenzione causa situazioni di emergenza. Circa tre quarti dei detenuti sono alla Dozza senza una sentenza passata in giudicato".

"C’è bisogno di ripensare a livello nazionale la legislazione e il codice penale - dicono Desi Bruno e la presidente della Provincia di Bologna, Beatrice Draghetti - sarebbe utile rivedere leggi come la Fini-Giovanardi sulle droghe e la Bossi Fini sull’immigrazione, perché sono queste le leggi che riempiono le carceri di persone che non hanno compiuto reati particolarmente significativi".

Draghetti ricorda l’impegno economico della Provincia per i vari progetti di riabilitazione dei detenuti: "Sono già attivati percorsi di formazione professionale per adulti, a cui abbiamo destinato 280 mila euro, e per i minori, a cui abbiamo destinato 60 mila euro principalmente per attività teatrali. Abbiamo aperto uno sportello di ricerca lavoro all’interno del carcere. Abbiamo rifinanziato per il 2010 le attività sportive, a cui già partecipano la totalità delle detenute e metà dei detenuti maschi, in collaborazione con Uisp". Nel 2009 le attività sportive e teatrali non erano state finanziate, per le ristrettezze di bilancio sofferte dalla Provincia di Bologna.

"Questo spettacolo è anche un messaggio alla politica: servono misure alternative alla detenzione. - ricorda la garante Desi Bruno: - Le condizioni di vita nelle carceri stanno peggiorando sempre di più, a causa dell’inasprimento della legislazione penale promossa da questo governo. Le pene più dure per piccoli reati creano sovraffollamento e situazioni disperate nelle case circondariali, logorano gli operatori, ma sopratutto impediscono la riabilitazione dei detenuti". Oggi la Dozza, a fronte di una capienza di 483 detenuti, ne contiene 1069: una situazione "fuorilegge" per gli standard europei, ma simile a quella della maggioranza delle carceri italiane.

Pordenone: mostra getta uno guardo al recupero nelle carceri

 

Messaggero Veneto, 16 marzo 2010

 

Nell’ambito del progetto "Educazione alla cultura della condivisione e della solidarietà", fino al 26 marzo è ospitata nei locali del liceo Michelangelo Grigoletti di Pordenone la mostra "Libertà va cercando, ch’è sì cara. Vigilando redimere". Si tratta di una iniziativa organizzata dal centro culturale "Augusto Del Noce", con il sostegno del Centro servizi volontariato del Friuli Venezia Giulia, in cui vengono raccontate alcune esperienze di recupero nelle carceri, che possono risultare particolarmente significative in un contesto educativo quale è quello scolastico, utilizzabili come spunto di riflessione in vari ambiti disciplinari.

Il principale intento della mostra è quello di documentare che, paradossalmente, in un luogo come il carcere, dove tutto sembra finalizzato alla privazione della libertà, può nascere una domanda di verità di sé, inizio di un percorso di riconquista dell’umano. In essa si racconta, con diversi strumenti espressivi, tali esperienze di recupero, giungendo a porre interrogativi sul ruolo della detenzione nel nostro Paese rispetto a una funzione rieducativa costituzionale spesso disattesa.

Immigrazione: da venti anni in Italia e ora nel Cie mi umiliano

di Laura Eduati

 

Liberazione, 16 marzo 2010

 

Said comincia a singhiozzare. È molto provato. È detenuto nel Cie di Gradisca d’Isonzo con un decreto di espulsione perché ha perso il lavoro e dunque, dopo sei mesi, anche il permesso di soggiorno. È sposato con Nadia, marocchina come lui, e ha due figli: un maschio di otto anni e una femmina di tre. Said ha quarant’anni. Quando ne aveva ventuno è partito da Casablanca per raggiungere la sua famiglia - madre, padre e sei fratelli - nel Bresciano.

Non è un uomo fortunato. Nel 2005 una forte scossa di terremoto ha distrutto alcune case e aziende della zona di Salò, dove viveva. Una delle case era la sua. E una delle aziende era quella dove lavorava. "Da allora", ci ha raccontato al telefono con un filo di voce, "ho sempre lavorato ma non mi hanno mai assunto".

E dunque non ha potuto rinnovare i documenti. Il fratello Ali, titolare di un bazar a Villa Nuova, sul lago di Garda, è allibito: "La situazione è ormai insopportabile, Said è stremato perché non capisce cosa vogliono fare di lui. Cie significa centro di identificazione ed espulsione. Said è già identificato, cosa aspettano a mandarlo via? I parenti sono disposti a pagargli il viaggio, se lo Stato non ha i soldi".

Uno dei fratelli di Said ha la cittadinanza italiana, i suoi figli sono nati in Italia. E Nadia, la moglie, lavora ed è regolare. I bambini soffrono la mancanza del padre, dormono poco e spesso scoppiano a piangere per nessun motivo. spesso rifiutano di andare a scuola e all’asilo.

Oltre alla detenzione, Said ha dovuto subire un pestaggio da parte di sei agenti di polizia. È accaduto nella notte tra il 28 e il 29 dicembre. Lo racconta cosi: "Alcuni ragazzi avevano tentato di scappare, Si sono ribellati, hanno distrutto la stanza dove dormivo. Per questo mi hanno rinchiuso, in isolamento, in una stanza fredda e senza materassi.

Provavo a bussare per farmi aprire, ho citofonato ma nessuno rispondeva. Allora, preso dalla rabbia, ho colpito la vetrata e l’ho rotta. Sono arrivati sei poliziotti con la visiera abbassata, mi hanno detto: "Togliti gli occhiali". Io ho chiesto: "Perché?". E loro: "Perché adesso ti pestiamo" Mi hanno dato un calcio al ginocchio e bastonate alle braccia, poi un colpo sulla testa e sono svenuto. Mi sono svegliato in infermeria".

Said ha denunciato il pestaggio, anche se non può identificare ì suoi aggressori. A sua volta è stato denunciato, da uno dei poliziotti, per danneggiamento (i vetri rotti) e resistenza a pubblico ufficiale. Purtroppo l’unico testimone oculare dell’aggressione è stato liberato lo scorso giovedì, al termine dei sei mesi di detenzione. La sua avvocata, Simonetta Geroldi, due volte ha fatto richiesta di permesso di soggiorno per motivi di giustizia alla Questura di Gorizia, per il momento nessuna risposta. E il pm che segue l’inchiesta ha negato anche il nulla osta alla permanenza in Italia. Geroldi ha anche richiesto il filmato che testimonierebbe del pestaggio, girato dalle telecamere del Cie di Gradisca. Secondo la polizia, quelle immagini sono "impossibili da estrapolare". Nelle foto scattate per i rilievi in seguito alle botte si vede una macchia scura sul pavimento. Per gli agenti "non si sa cosa sia" e nessun accertamento è stato eseguito. Per Geroldi "è chiaramente il sangue di Said".

Le indagini sul presunto danneggiamento e la resistenza a pubblico ufficiale sono concluse, a breve Said saprà se dovrà affrontare un processo. Said vorrebbe, soprattutto, uscire dal Cie. Le speranze sono appese ad un ricongiungimento famigliare che riporterebbe l’uomo in Italia, accanto alla moglie, ai bambini e al resto della famiglia che vivono con il fratello Ali. "Sono davvero allibita", dice l’avvocata Geroldi commentando il caso: "Said non ha mai avuto guai con la giustizia eppure viene trattato peggio di un criminale. Una tortura psicologica indegna persino di un carcere".

Cina: candidato al Nobel per la pace in carcere per sovversione

 

Agi, 16 marzo 2010

 

L’avvocato cinese candidato al premio Nobel per la pace e scomparso nel 2009, Gao Zhisheng, è stato condannato con l’accusa per sovversione. Lo ha riferito il ministro degli Esteri cinese, Yang Jiechi. Gao, 43 anni, fu arrestato nella sua provincia natale, Shaanxi (nel centro della Cina) il 4 febbraio 2009 e da allora solo una volta gli è stato consentito di mettersi in contatto con il fratello, al quale ha detto di essere stato arrestato. Il ministro ha negato che Gao sia stato torturato e ha aggiunto che è stato condannato a tre anni di carcere. L’accusa di sovversione in Cina è quella che abitualmente viene usata contro i dissidenti del regime comunista. Gao da anni è impegnato nella difesa dei diritti umani, delle libertà religiose e si batte contro la corruzione. Il suo avvocato, Mo Shaoping, ha detto che la cosa più importante ora è "sapere dove sta e perché è scomparso" per tutti questi mesi.

 

 

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