Giustizia: il “piano carceri” annunciato a gennaio 2009 già vanificato, ancor prima di iniziare di Claudia Farallo Voce Repubblicana, 21 maggio 2010 Mentre vengono approvati piani e decreti, le carceri italiane continuano inesorabilmente a gonfiarsi e minacciano un’esplosione che sembra sempre più vicina con l’aumentare della temperatura. tanto da rendere vani gli stessi piani e decreti mano a mano approvati. C’è da interrogarsi, quindi, sulla validità di tali provvedimenti e sulla capacità che oggi si ha di prevederne gli effetti. Ogni misura presa contro il sovraffollamento sembra perdere credibilità ancor prima di essere messa in atto. Prima c’è stato il “Piano Straordinario per l’Edilizia Penitenziaria”, meglio noto come “Piano Carceri”, a cui ora sembra aggiungersi con accordo bipartisan anche il decreto legge Alfano sulle “disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno”, giornalisticamente noto come “svuota-carceri”. Il “Piano Carceri” annunciato agli inizi del 2009 non è ancora stato attuato ed ha, cosa più grave, ormai perso parte della sua attualità: i circa 20mila nuovi posti detenuto da ricavare dalla costruzione e dall’ampliamento dei penitenziari non bastano più. All’epoca i detenuti erano 58mila, e i 14mila che superavano la capienza regolamentare sarebbero stati così collocati nei nuovi spazi. Ma ora i reclusi sono più di 67mila, ovvero circa 23mila in più del consentito, e quindi anche in eccesso di 4mila rispetto alla capienza indicata come “tollerabile”. A questi ritmi, tra un anno, il “Piano Carceri” sarà completamente vanificato e i 750 milioni di euro già spesi per i lavori, ancora non iniziati, risulteranno sprecati. Con l’avvicinarsi del caldo, si è assistito ad un accordo bipartisan sul disegno dì legge Alfano recentemente modificato in alcune parti (sono contro solo i Radicali, che premono per un ritorno al testo originale), che mira ad “alleggerire” il sovraffollamento delle carceri per scongiurare possibili disordini: l’ultimo anno di pena detentiva potrà quindi essere scontato agli arresti domiciliari, ma per evitare un “indulto mascherato” (e per limitarne l’impopolarità a scapito della ragionevolezza), la commissione Giustizia della Camera ha approvato una serie di modifiche che restringono la portata della legge. La temporaneità del ddl, che infatti sarà in vigore solo fino al 31 dicembre 2013, unita alla valutazione dell’idoneità del domicilio e all’assenza di “automatismo”. limiterà il risultato della misura. Degli 11.460 detenuti potenzialmente coinvolti, saranno molti meno quelli che usciranno dal carcere. Certamente non è responsabile applicare una misura che non tenga conto della pericolosità sociale rappresentata da ciascuno, ma è altrettanto vero che tale misura non sembra rispondere alle istanze da cui era partita. La paura di un’estate bollente rimane. Giustizia: per la morte di Marcello Lonzi c’è la vergogna dell’ennesima archiviazione di Giulia Torbidoni www.innocentievasioni.net, 21 maggio 2010 Che tipo di malore fisico è quello che fa morire un uomo in una pozza di sangue, gli provoca segni di bruciature sul corpo, ferite, ecchimosi, traumi al cranio e lividi al volto? L’uomo è Marcello Lonzi, di 29 anni. Morto l’11 luglio 2003 nella cella numero 21, sezione sesta, padiglione D, del carcere delle Sughere, a Livorno. Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Livorno, Rinaldo Merani, due giorni fa (19 maggio) ha archiviato l’inchiesta sul decesso del ragazzo. Per il gip, si è trattato di “un malore”. Nonostante che la riesumazione del cadavere, avvenuta ad agosto 2006, abbia dimostrato che Marcello aveva anche 8 costole rotte, il polso sinistro fratturato e alcune ferite non compatibili con la versione dell’arresto cardiaco per “cause naturali”. Questa è la seconda volta che il caso Lonzi viene chiuso e spiegato con le “cause naturali”. Il 10 dicembre 2004, infatti, il pm Roberto Pennisi chiese l’archiviazione perché tutti gli atti di indagine “doverosamente eseguiti escludono ipotesi diverse da quelle che riconducono la morte di Lonzi a cause naturali”. E il gip, sempre Rinaldo Merani, accolse la richiesta di archiviazione, sostenendo che il ragazzo era morto per “aritmia maligna instauratasi su una ipertrofia ventricolare sinistra”. Alle cause naturali, però, non ha mai creduto la madre di Marcello, Maria Ciuffi. “Sono convinta che mio figlio sia stato picchiato da qualche guardia penitenziaria”, ha detto più volte la signora Ciuffi che è riuscita in questi anni a fare riaprire il caso. Dopo l’archiviazione del 2004, infatti, Maria Ciuffi ha denunciato alla procura di Genova tre persone: il pm Pennisi che era di turno la notte in cui Marcello è morto; il medico legale Bassi Luciani che fece l’autopsia e un agente di polizia penitenziaria, il cui nome non è chiaro, che avrebbe firmato il verbale. All’udienza, inoltre, è stata presentata una contro-perizia medico-legale che per il gip di Genova conteneva elementi di “una qualche rilevanza ai fini della riapertura delle indagini”. In questa seconda indagine c’erano anche degli indagati: due agenti di polizia penitenziaria, accusati di omessa vigilanza, e il compagno di cella di Marcello, accusato di omicidio preterintenzionale. Lo scorso marzo, però, la Procura della Repubblica aveva chiesto l’archiviazione. Accolta due giorni fa. Marcello era stato rinchiuso a marzo del 2003 nel carcere livornese con l’accusa di tentato furto. Quando è morto, doveva ancora scontare 4 mesi. Secondo alcune testimonianze raccolte in questi anni dalla signora Ciuffi, Marcello era stato picchiato più volte dalle guardie carcerarie. I buchi neri della vicenda sono diversi e la madre di Marcello è intenzionata ad andare avanti nella ricerca della verità. Due giorni fa, piangendo davanti all’ultima decisione del gip, ha detto che presenterà ricorso in Cassazione. Intanto, fuori dal tribunale, una ventina di persone manifestavano contro la richiesta di archiviazione e l’insabbiamento delle responsabilità del pestaggio. Quando la signora Ciuffi ha letto la l’esito dell’udienza, si sono alzate grida contro il tribunale: “Vergogna!”. Giustizia: la classe politica che assiste inerte all’implosione del sistema penitenziario Il Carcere Possibile Onlus, 21 maggio 2010 Mentre aumentano le morti in carcere e le condizioni igienico-sanitarie peggiorano di giorno in giorno, non si prendono concreti provvedimenti per affrontare radicalmente l’emergenza e porre fine ad una situazione di disperata illegalità. Nonostante i ripetuti appelli del Capo dello Stato. Siamo stanchi di contare le morti in carcere. Ieri l’ennesimo suicidio. A Reggio Emilia un uomo di 44 anni si è tolto la vita. Nell’Istituto erano presenti 350 detenuti, a fronte di una capienza per 160 posti. Prima di lui a Siracusa, un altro detenuto di 45 anni si era impiccato. Il Capo dello Stato, l’altro giorno, in occasione della Festa (!?) della Polizia Penitenziaria, ha ribadito quanto già affermato nel discorso di fine anno: è necessario intervenire subito per ridare dignità alla persona detenuta. Il Sappe, il Sindacato più rappresentativo della Polizia Penitenziaria ha disertato la Festa, perché ritiene che non c’è nulla da festeggiare. Insieme ai detenuti anche gli agenti soffrono. Anche tra le loro fila si contano le morti per il disagio quotidiano. Intanto il Governo si appresta a varare il c.d. “decreto sfolla carceri” che, in realtà, dopo le modifiche apportate, non sfollerà un bel niente. Il decreto prevedeva, per alcuni reati, l’immediato passaggio ai domiciliari nel momento in cui il detenuto iniziava a scontare l’ultimo anno di pena. Stesso discorso per i condannati a un solo anno di reclusione. Ma l’automatismo è stato eliminato, introducendo un “filtro”: il giudice. Secondo il nuovo testo, quindi, la richiesta dei domiciliari dovrà essere valutata dal giudice di sorveglianza, che prima di dare il consenso in base alle modifiche presentate dall’esecutivo, valuterà caso per caso l’assegnazione delle misure cautelari a domicilio, valutando la “pericolosità sociale del detenuto” e se l’alloggio in cui dovrà risiedere sarà idoneo per scontare il termine della pena. Ma non è così già ora: art. 47 ter dell’Ordinamento Penitenziario. Si è voluto evidentemente ribadire un sistema già esistente. Con un altro emendamento si è fissato il termine per la durata della legge. Sarà infatti una norma “a tempo” e durerà fino all’approvazione del piano Carceri! che prevede la riforma della disciplina complessiva delle norme sulle misure alternative alla detenzione e la costruzione di nuovi penitenziari. Data di scadenza: 31 dicembre 2013. Una norma “a tempo”, francamente inutile, come inutile è la costruzione di nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento. Nuovi Istituti vanno costruiti - prima ancora vanno resi funzionanti quelli già completati e chiusi per mancanza di risorse - ma per eliminare quelli fatiscenti, oggi irrecuperabili. Il sovraffollamento si può debellare solo con il ricorso a pene alternative al carcere (che creano meno recidiva) e con una sostanziale ed organica riforma del codice di procedura penale per processi più rapidi (il 50% dei detenuti sconta una misura cautelare). Giustizia: Ciampi; nelle nostre carceri viene annientata la dignità di migliaia di uomini e di donne Il Detenuto Ignoto, 21 maggio 2010 Ciampi risponde all’invito di Marco Pannella a partecipare all’assemblea degli operatori carcerari. Il messaggio verrà letto in occasione dell’apertura dell’assemblea. Il Presidente emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, invitato da Marco Pannella a partecipare all’Assemblea degli operatori carcerari convocata per domani, sabato 22 maggio, presso la sede del Partito Radicale, a Roma in via di Torre Argentina 76, ha fatto pervenire oggi il seguente telegramma: “Caro Pannella, come ti ho anticipato nel corso della nostra conversazione, l’età mi “impone” regole severe, che non posso trasgredire. Un’obbedienza che questa volta, molto più che in altre circostanze, mi pesa. Considerami presente, insieme con tutti quei cittadini - numerosi mi auguro - che hanno raccolto il tuo disperato appello, che con la loro presenza intendono rappresentare alle Istituzioni, ai mezzi di informazione, all’opinione pubblica la reale natura di quello che pudicamente continuiamo a chiamare “problema carcerario”, ma il cui vero nome è “dramma”. Il dramma che si consuma nelle nostre carceri è nel numero dei suicidi, ma lo è anche nelle condizioni in cui vivo no i detenuti. I numeri che contano le “vittime” e quelli che misurano gli indici di affollamento sono dati che turbano la nostra coscienza di uomini, di cittadini di uno stato di diritto. Nelle nostre carceri viene annientata la dignità di migliaia di uomini e di donne, regredisce la civiltà di una società. Le condizioni prevalenti nelle nostre carceri sono l’ostacolo principale alla messa in opera di trattamenti di riabilitazione. Quei luoghi offendono la nostra stessa dignità di uomini liberi, sollevando dubbi sul nostro grado di civiltà. Con questi sentimenti, rinnovo il mio incondizionato sostegno alla tua iniziativa e ti invio un cordiale saluto. Carlo Azeglio Ciampi Lettere: per la Giornata Nazionale di Studi “Spezzare la catena del male”… di Sandro Padula Lettera alla Redazione, 21 maggio 2010 La Giornata Nazionale di Studi “Spezzare la catena del male” del 21 maggio 2010 nella Casa di Reclusione di Padova è stata organizzata per discutere sui temi della giustizia in Italia. Oltre a persone detenute e a loro familiari, al convegno partecipano anche i parenti di alcune vittime di omicidi: Silvia Giralucci, figlia di Graziano, ucciso nel 1974 dalle Br a Padova; Giorgio Bazzega, figlio di Sergio, maresciallo di polizia ucciso nel 1976 dal brigatista Walter Alasia; Sabina Rossa, figlia di Guido, operaio dell’Italsider di Genova e militante del Pci ucciso dalle Br nel 1979; Agnese Moro, figlia di Aldo, leader della Democrazia Cristiana ucciso dalle Br nel 1978; Lorenzo Clemente, marito di Silvia Ruotolo, la donna di 39 anni uccisa a Napoli nel 1997 per errore, nel corso di una sparatoria fra gruppi rivali della camorra. Di fatto questi parenti di vittime hanno affiancato al proprio dolore il desiderio di non essere ingabbiati entro logiche disumane e irrispettose dei diritti delle persone detenute e condannate. Un saggio edito da Ristretti Orizzonti, dal titolo omonimo alla Giornata Nazionale di Studi e nato in sua preparazione, fa capire d’altro canto che molti di loro non hanno intenzione di proferire parole di perdono. Nessuno può comunque criticarli per questo. Bisogna sempre rispettare le sensibilità dei parenti delle vittime e per poterle rispettare davvero bisogna conoscerle complessivamente e nelle loro diverse sfaccettature. Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi ucciso nel 1972 da un gruppo armato che sarebbe sorto nell’ambito di Lotta Continua, ha scritto un libro, intitolato Spingendo la notte più in là, in cui - ad esempio - afferma delle idee condivise da una non piccola parte dei parenti delle vittime: “Abbiamo sempre provato fastidio quando ci veniva chiesto di dare o meno il via libera a una scarcerazione o una grazia, perché rifiutiamo questa idea medievale che i parenti di una vittima decidano della sorte di chi è ritenuto colpevole”. Volendo perciò rispettare le sensibilità dei parenti delle vittime è doveroso mantenere una distinzione fra due cose molto diverse come la giustizia e il perdono. La giustizia fa parte dell’amministrazione della società ed è regolata da determinate leggi scritte. Il perdono riguarda invece la sfera intima e si basa su leggi non scritte. È impossibile che qualcuno lo dia se prima non emerge spontaneamente dal proprio animo. Nella sua connotazione autentica, non va preteso e, nei casi in cui viene concesso, non deve neppure essere usato come una merce da sbandierare ai quattro venti da chi lo riceve. Noi detenuti condannati all’ergastolo e tuttora in carcere anche dopo 28 o 30 anni di effettiva detenzione, sappiamo bene che può risultare offensivo chiedere il perdono a chi ha ricevuto dei dolori lancinanti e irrimediabili. Al tempo stesso siamo dispiaciuti in maniera sincera per aver provocato, anche solo indirettamente o per concorso morale, la morte ad altre persone. Per questi motivi, che nulla hanno a che vedere con i mercanteggiamenti assai di moda negli ultimi tre decenni, ci sentiamo uniti nel dolore dei parenti delle vittime e dei nostri stessi familiari. La mia testimonianza parte dalla consapevolezza che bisogna far emergere in tutte le relazioni sociali una cultura da un lato critica verso le diverse forme di ipocrisia e dall’altro comprensiva dell’immenso valore di ogni singola vita umana. Non è forse misera la filosofia, come quella di Martin Heidegger, secondo cui l’uomo sarebbe un “essere-per-la morte”? Non è forse ricca, al contrario, la filosofia di Hannah Arendt secondo cui ogni uomo nasce ed esiste per dare inizio a qualcosa di nuovo? E allora, proprio per contribuire alla costruzione di qualcosa di nuovo, vorrei entrare in maniera più diretta nel merito del convegno. La Giornata Nazionale di Studi ha per argomento lo “spezzare lo catena del male” e rimanda perciò a riflessioni che, sia pur sinteticamente, dovrebbero essere connesse alla concreta situazione esistente. La “catena del male”, intesa come produzione dell’altrui sofferenza, costituisce un fenomeno diffuso su scala planetaria e profondamente radicato a livello sociale. Nasce dalla sacralizzazione del Denaro, dalla fame, dalle miserie, dalle guerre e dall’ignoranza. È gigantesca rispetto alla catena dei reati denunciati e ancor di più in riferimento ai reati condannati. Nella “catena del male” prodotto, su scala industriale o artigianale, le sproporzioni sono la norma e si manifestano anche attraverso il grande squilibrio esistente nel rapporto fra i reati denunciati e quelli condannati. Secondo statistiche elaborate da Ristretti Orizzonti su dati ufficiali del Ministero della Giustizia, nell’Italia del 2004 - tanto per fare un esempio - i reati denunciati sono stati all’incirca 10 volte di più rispetto ai reati condannati e tale rapporto quantitativo è in sostanza, salvo leggere variazioni, quello ancora esistente. Le persone detenute non sono dunque i massimi o gli unici responsabili della produzione dell’altrui sofferenza. Non sono nemmeno tutte colpevoli. Ci sono infatti quelle in attesa di giudizio, a decine di migliaia, che poi nel 50% circa dei casi risultano innocenti. Ci sono infine quelle condannate in via definitiva, non di rado con scarse prove. Questi dati di fatto portano a fare delle considerazioni anche sulla validità o meno di certe leggi scritte e vigenti perché nel tempo variano le conoscenze e le definizioni di ciò che è reato e di ciò che non lo è, così come le modalità di sanzionare le trasgressioni. Diverse leggi dello Stato, emanate nel secolo scorso o nell’ultimo decennio, domani possono essere considerate nocive. Un tempo la pena di morte era qualcosa di normale; adesso se ne chiede l’abolizione su scala planetaria. Un tempo l’ergastolo era considerato legittimo quasi ovunque; oggi molti paesi, compresi diversi paesi dell’Unione Europea, l’hanno già abolito. L’argomento in discussione è vasto. Se ne potrebbe parlare per giorni, mesi o anni, ma è urgente e necessario lanciare delle proposte concrete sulla base di quanto finora si è capito. Nell’immediato sembra utile condividere le idee che puntano a far applicare l’articolo 27 della Costituzione, ad esempio il disegno di legge (primo firmatario Sabina Rossa) per la modifica dell’articolo 176 del codice penale affinché la concessione della libertà condizionale sia basata, come prevede la carta costituzionale, sul criterio della conclusione positiva del percorso rieducativo. È opportuno anche sostenere l’operato di coloro che cercano di rendere meno dure le condizioni di vita nelle carceri, ad esempio facendo in modo che le celle restino aperte di giorno e ci siano più possibilità di formazione professionale, studio, colloqui e rapporti con l’esterno per le persone detenute. Più in generale, per i prossimi anni, sembra invece importante prospettare l’adozione degli standard dell’Unione Europea. Diventa perciò necessario che nasca un Osservatorio per conoscere meglio il funzionamento dei sistemi sanzionatori nei diversi paesi di tale area geopolitica: le condizioni di vita e di colloqui per i prigionieri, la proporzione esistente fra misure alternative e pene detentive e, in ultimo ma non per importanza, il grado di automatismo e di formazione professionale per la risocializzazione delle persone detenute che abbiano mantenuto un buon comportamento inframurario. L’importante, sia per l’immediato che per il prossimo futuro, è partire da un ricco e diverso paradigma culturale, cioè dalla volontà di difendere e valorizzare i beni comuni e i poteri-qualità di ognuno e perciò di ogni vita umana! Lettere: carceri al di fuori della Costituzione o, per meglio dire, contro la Costituzione… di Giancarlo De Cataldo L’Unità, 21 maggio 2010 Il sovrappopolamento delle carceri è un dato terribile, e a tutti noto. E a tutti note ne sono le cause ultime. La produzione legislativa negli ultimi anni (aumento della recidiva, compressione delle attenuanti generiche, limitazione dell’Ordinamento Penitenziario, amplificazione delle ipotesi punitive, creazione di reati di “status”) ha determinato il ricorso massiccio allo strumento penale con particolare riferimento alla devianza “di strada”. Le statistiche, che descrivono i fatti per come accadono nella realtà, sono state ignorate e discreditate, a vantaggio della demagogia, che racconta i fatti per come convengono ai demagoghi. La cosiddetta “insicurezza percepita” ha sostituito i rischi reali del crimine. Il tutto accompagnato da altri interventi che hanno trasformato il processo (la sede naturale dell’accertamento dei reati) in una corsa a ostacoli contro il tempo. Per quanto impopolare possa apparire il richiamo, conviene ricordare che l’articolo 27 della Costituzione impone che la pena non possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debba tendere alla rieducazione del condannato. La pena costituzionale, dunque, non prevede né la tortura, né la cosiddetta “sentenza esemplare”, e sin dal momento in cui viene applicata si pone l’obbiettivo di migliorare/cambiare il condannato. Nel complesso, il sistema penale, così come lo idearono i Costituenti, non chiede tributi di sangue, non mira a trasformare la democrazia in un’estesa prigione e dovrebbe, idealmente, garantire giustizia in tempi rapidi. Tanto premesso, ventisei suicidi in carcere dall’inizio dell’anno - contando anche, fra le vittime , giovani agenti della Polizia Penitenziaria - sono, di là dalla pietà umana, già di per sé un segnale manifesto di pena al di fuori della Costituzione o, per meglio dire, contro la Costituzione. Lettere: nel carcere di Termini Imerese siamo veramente nei guai, aiutateci! www.radiocarcere.com, 21 maggio 2010 Cara Radiocarcere, qui nel carcere di Termini Imerese la situazione è terribile. Il carcere non solo è vecchissimo, ma è anche molto sovraffollato. Infatti potrebbe ospitare solo 60 detenuti, mentre noi oggi siamo più di 175. Di fatto viviamo in 8 o in 9 detenuti dentro piccole celle, i letti a castello sono alti anche quattro piani e in tantissime celle c’è qualcuno di noi che è costretto a dormire per terra. Nelle celle non abbiamo nulla. Né sgabelli dive sederci, né tantomeno i cuscini per dormirci e anche l’acqua calda ci hanno tolto! Il cesso poi, oltre ad essere piccolissimo, è anche rotto, tanto che la tazza si stacca dal muro con estrema facilità. Rimaniamo chiusi in queste celle per 24 ore al giorno, in quanto il cortile per fare l’ora d’aria è troppo piccolo per ospitarci tutti. Considera che le nostre celle sono anche moto rovinate e sporche. Le mura sono luride e quando piove l’acqua ci cade nelle celle perché, per evitare che il tetto del carcere crollasse con il peso della pioggia, ci hanno fatto dei buchi sopra. Per il resto siamo abbandonati da tutti. Dal direttore, dagli educatori e dai medici che qui non vediamo mai. La disperazione qui si potrebbe tagliare con un colpetto, e non a caso ultimamente hanno cercato di uccidersi ben 4 detenuti. 4 tentativi di suicidio di cui nessuno però ha detto nulla. Insomma qui nel carcere di Termini Imerese siamo veramente nei guai, aiutateci. Ciao e grazie per averci dato voce Alessandro, Franco, Bernardo, Antonio, Domenico, Mico e Rosario dal carcere di Termini Imerese Emilia Romagna: nelle carceri situazione non più tollerabile, Alfano intervenga con misure urgenti Dire, 21 maggio 2010 Una situazione, quella delle carceri di Bologna e dell’Emilia-Romagna, “gravissima, non più tollerabile”. Queste le parole dell’assessore regionale alla Promozione delle politiche sociali Teresa Marzocchi, che ha visitato il carcere bolognese della Dozza. “Qui - ribadisce - la situazione è drammatica, ancora più che altrove. Ricordo che la nostra Regione, tramite il presidente Errani, esattamente un anno fa aveva scritto al ministro Alfano, chiedendo di intervenire. Stiamo ancora aspettando”. Al 30 aprile 2010 (dati del ministero della Giustizia), i detenuti presenti nelle carceri dell’Emilia-Romagna risultano essere 4.567, di cui 2.404 stranieri; questo a fronte di una capienza regolamentare di 2.408 posti. L’indice di sovraffollamento ha superato quindi il 189%. Un indice, peraltro, in costante crescita negli ultimi tre anni: 168 nel 2007, 171 nel 2008 e 186 nel 2009. Al carcere bolognese della Dozza i detenuti attualmente sono 1.150, mentre la capienza massima è di 502 posti. Per quanto riguarda il personale, gli agenti effettivamente operanti in tutta l’Emilia-Romagna (dati al 31 dicembre 2009) sono complessivamente 1.620, ma in pianta organica dovrebbero essere 2.359: manca un 31%. Ventisei invece gli educatori, per tutta la regione. “Queste cifre, dietro cui ci sono storie e persone - aggiunge l’assessore Marzocchi -, al di là dell’ultimo caso specifico, e mi riferisco al suicidio avvenuto stanotte nel carcere di Reggio Emilia, dimostrano che la situazione non è più sostenibile”. Al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, “diciamo che siamo favorevoli alla proposta di far scontare l’ultimo anno di detenzione ai domiciliari, a patto che ci sia un’effettiva collaborazione nel territorio tra istituzioni e servizi, per il reinserimento delle persone. Siamo pronti a discutere di questo”. Ma adesso, insiste Marzocchi, “servono interventi per tamponare l’emergenza, subito. Quello del carcere- conclude l’assessore- è un ambito su cui siamo impegnati con continuità: la nostra attenzione non verrà meno”. Firenze: Casellati; a Sollicciano condizioni “molto buone”… ma detenuti protestano Redattore Sociale, 21 maggio 2010 Il sottosegretario alla Giustizia, in vista al carcere fiorentino, non rileva particolari urgenze. Ma i detenuti si lamentano: “Aiutateci, qui si soffoca”. Nell’istituto circa 500 detenuti in sovrannumero. “Le celle sono ampie, le condizioni di vivibilità sono molto buone in tutti i reparti, la struttura è tenuta molto bene, non ci sono particolari urgenze”. Si conclude con queste parole la visita al carcere fiorentino di Sollicciano del sottosegretario alla giustizia Maria Elisabetta Casellati. “Un buon carcere” spiega il sottosegretario, nonostante i dati indichino che nella struttura siano ospitati circa il doppio dei detenuti rispetto alla capienza regolamentare. Attualmente, infatti, i detenuti a Sollicciano sono 964, a fronte di una capienza regolamentare di circa 500. Le considerazioni di Casellati, per certi aspetti, colgono di sorpresa anche il direttore del carcere, Oreste Cacurri: “Abbiamo molte difficoltà a Sollicciano, forse il sottosegretario è abituata alle condizioni di altri istituti italiani che stanno peggio del nostro”. Se per il sottosegretario Casellati le cose non vanno poi così male, i detenuti incontrati durante il tour nel carcere raccontano una realtà praticamente opposta: “Qui si soffoca” urlano dalle celle del reparto maschile. “Non credete alle parole delle istituzioni, scrivete le cose come stanno: stiamo stretti in celle sovraffollate, aiutateci per favore”. E ancora: “Abbiamo materassi vecchissimi, qualche giorno fa alcuni sono stati cambiati, ma soltanto una piccola parte”. La situazione del carcere non è certo disastrosa ma ci sono alcune evidenti problematiche che degradano l’intera struttura, rendendola poco vivibile: dalla muffa agli angoli delle celle all’acqua grondante da alcuni soffitti, dai materassi sporchi e obsoleti agli spazi troppo stretti in alcune celle, specialmente in quelle che ospitano sei detenuti. Nel reparto femminile, alcune detenute lamentano anche l’inadeguatezza degli spazi doccia: “Quelli del nostro reparto sono rotti da quattro mesi e siamo costrette a farci la doccia al freddo”. Trento: il nuovo carcere sarà consegnato a fine giugno, è stato costruito in meno di quattro anni Ansa, 21 maggio 2010 La consegna del nuovo carcere di Trento alla direzione della casa circondariale avverrà tra fine giugno e i primi di luglio, con circa un anno d’anticipo rispetto ai tempi previsti dall’appalto. A renderlo noto è la Provincia autonoma di Trento, che ricorda come i lavori siano iniziati il 25 ottobre del 2006. Le residenze per la polizia penitenziaria, in totale 66 alloggi, distribuiti in cinque palazzine, sono state invece ultimate nell’aprile 2009, con 120 giorni di anticipo circa rispetto alle previsioni; una ventina sono già occupate. Entro l’autunno sarà infine appaltato il parco con le attrezzature ludico-sportive. Il costo complessivo è di 112,5 milioni di euro. Il nuovo carcere è stato realizzato a Spini di Gardolo, in seguito all’intesa istituzionale tra il Governo e la Provincia autonoma di Trento, stipulata a Roma il 24 aprile 2001 e al successivo accordo di programma relativo agli interventi per la razionalizzazione delle sedi e delle strutture statali e provinciali nella città di Trento. I traslochi sono previsti nel periodo estivo e l’utilizzo dall’autunno. Assieme al complesso del nuovo carcere sono state realizzate alcune opere di urbanizzazione, fra cui circa 1,5 km di nuove strade per garantire l’accesso all’area carceraria e migliorare la viabilità della zona. Una visita alla nuova struttura carceraria è stata intanto programmata dalla stessa Provincia autonoma per il 24 maggio, con il presidente, Lorenzo Dellai, il vicepresidente, Alberto Pacher, e l’assessore alla Salute, Ugo Rossi. Roma: il Garante dei detenuti; a Regina Coeli serie difficoltà per detenuto di 200 kg Asca, 21 maggio 2010 A 63 anni è stato arrestato il 27 aprile per scontare quattro mesi di reclusione per un reato di associazione commesso quindici anni fa e ora, con i suoi 205 chilogrammi di peso, sta creando non pochi problemi a chi deve gestirne la detenzione. Protagonista della vicenda, segnalata dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, Antonio D. Originario di Villa Santa Lucia (Fr) dove abitava con il figlio, Antonio ha problemi cardiaci, un’ernia ed è costretto a muoversi con le stampelle. Condotto dopo l’arresto nel carcere di Cassino, è stato successivamente trasferito nel Centro Clinico del carcere di Regina Coeli dove, per ogni atto della vita quotidiana, deve ricorrere all’aiuto degli altri reclusi. La sua mole crea, infatti, oggettive difficoltà: non riesce a lavarsi da solo, non ha una sedia a rotelle della sua misura che possa aiutarlo negli spostamenti ed ha sofferto di due collassi e un principio di infarto. L’uomo ha presentato, l’8 maggio, istanza per la sospensione della pena per motivi di salute ma non ha ottenuto risposte. “Quello di Antonio è l’emblema delle difficoltà in cui si dibatte la giustizia italiana - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - dopo 15 anni passati senza commettere altri reati, a un uomo in queste condizioni di salute forse poteva essere evitato il carcere per scontare, in condizioni più umane, la sua pena. Abbiamo segnalato il caso al PRAP affinchè si trovi celermente una soluzione che garantisca la certezza della pena e il legittimo diritto alla tutela della salute di quest’uomo”. Firenze: il Garante dei detenuti; carcere di Empoli chiuso da oltre un anno e il ministro tace Asca, 21 maggio 2010 Dopo la mia denuncia sulla situazione del carcere di Empoli chiuso da oltre un anno, il silenzio ufficiale continua in maniera provocatoria. Ieri in Toscana si è presentata per rassicurare sulla situazione penitenziaria, la Sottosegretaria alla Giustizia Casellati e non ha ritenuto di fornire spiegazioni del divieto del Ministro Alfano all’apertura del carcere di Empoli destinato alle detenute transessuali. Si rincorrono voci generiche su una prossima apertura dell’istituto di Pozzale destinato alla detenzione femminile. Ma l’arroganza offensiva del potere dell’Amministrazione Penitenziaria, si rifiuta di spiegare perché si è cancellata l’esperienza della custodia attenuata per detenute tossicodipendenti e le ragioni per impedire il nuovo esperimento di carcere transgender. È sempre più diffusa la voce che la ragione moralista e perbenista è dovuta alle concezioni della sessualità del Ministro. A noi questo interessa poco. Ci turba invece che in piena crisi dovuta al sovraffollamento un istituto venga non utilizzato. Confermo quindi l’inizio da domenica sera di uno sciopero della fame di protesta contro l’insipienza di una gestione superficiale e per affermare il diritto di conoscere le motivazioni di decisioni così gravi. Perugia: un corso di formazione per i volontari che faranno servizio nelle carceri La Voce, 21 maggio 2010 “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. L’articolo 27 della Costituzione italiana esplicita bene anche quello che dev’essere lo spirito con cui un volontario si avvicina al carcere. Ed è una delle prime cose che Feliciano Ballarani, ha spiegato ai 40 aspiranti volontari che si sono presentati al corso di formazione “Ero carcerato e mi avete visitato”, promosso dall’Associazione perugina di volontariato, e che è iniziato nel corso di questa settimana. Perché promuovere un corso di volontariato rivolto specificatamente all’ambiente carcerario? “La principale motivazione è che siamo talmente pochi che si è cominciata a sentire l’esigenza di incrementare il numero di volontari, perché attualmente siamo 5 persone a fare visita ai detenuti, che a Perugia sono 500. Non possiamo occuparci di tutti, anche se effettivamente non siamo la sola associazione di volontariato. Un’altra circostanza che ci ha stimolato è stata la visita nel periodo pasquale di alcuni frati francescani che hanno trascinato un bel gruppo di persone dall’esterno, che poi si sono appassionate alla cosa e ci hanno chiesto di potersi avvicinare al mondo del volontariato con i mezzi adeguati. Oggi siamo qui ad iniziare questa avventura, sperando di formare un bel gruppo in modo da coprire ogni richiesta che ci viene fatta dai carcerati”. Vista la sua esperienza ultra-ventennale come volontario nel carcere, umanamente come affronta tutto questo? “Non è un’esperienza facile: trovarsi lì dentro è un’emozione forte. Specialmente la prima volta l’impatto non è semplice perché, quando varchi il cancello e la guardia lo chiude dietro di te, senti il tintinnio delle chiavi nel chiavistello e questo ti fa provare un senso di “prigionia”. Poi, continuando ad andare, pian piano le cose si superano. Dall’esterno uno pensa che un detenuto sia chissà chi, un animale feroce, mentre standogli vicino la realtà è un’altra cosa. Sono persone come noi, persone che hanno sbagliato che però si possono redimere, possono riconoscere i propri errori e rientrare nella società in una maniera diversa. Queste persone hanno necessità di avere qualcuno vicino, che li guidi, che faccia capire loro che gli errori fanno parte del passato e che si può vivere tranquillamente senza commettere reati. La maggior parte sono persone giovani, tossicodipendenti che non hanno più la famiglia, ed è questo il grande motivo di instabilità che provano all’interno del carcere”. E come li aiutate? “A prescindere dall’aiuto spirituale che ricevono dai religiosi, noi li sosteniamo dal punto di vista morale e nel reinserimento nella società. Cerchiamo di porci in modo naturale con loro, senza oltrepassare quel limite che spesso i carcerati pongono prima di confidarsi, perché devono potersi fidare di chi hanno di fronte. Dal canto nostro ci mettiamo all’ascolto, non chiediamo mai nulla della loro storia, non vogliamo invadere la loro sfera personale. Normalmente sono loro che fanno richiesta di incontrarci e noi ci mettiamo a loro disposizione. Spesso ci chiedono qualche spicciolo per comprare le sigarette, degli indumenti o il detersivo, ci frughiamo nelle tasche e li accontentiamo per quanto ci è possibile, ma la cosa che li rende più sereni è la possibilità di parlare e confrontarsi con qualcuno. Quando ci vedono arrivare il loro cuore si allarga: si possono sfogare della loro situazione o ricordare la loro famiglia lontana, i loro affetti”. Che consigli darà durante il corso? “Il volontario che si affaccia sulla strada del carcere deve avere una grossa forza interiore, sia a livello spirituale che umanitario, perché è un’esperienza difficile da affrontare, bisogna essere ben consapevoli. E soprattutto non si può varcare la soglia del carcere pensando che chi è lì ha sbagliato, deve pagare e sta bene dove sta. Noi lavoriamo con la struttura penitenziaria, sempre con la speranza di recuperare qualcuno. Quella dev’essere la nostra missione”. Immagino che le sia capitato di vedere qualcuno che, uscito dal carcere, si è rifatto una vita… “Sì, spesso capita. E quando riusciamo a salvare una persona per noi è una conquista. Non sono molti, ma anche fosse solo uno, è importante. Con diverse persone sono tuttora in contatto; ora che si sono formati una famiglia e hanno un lavoro ci sentiamo per Natale e Pasqua, ci scambiamo gli auguri. Non è vero che è tutto negativo, qualcosa di positivo viene, bisogna credere in ciò che si fa”. Roma: a Rebibbia oggi “Porte aperte allo sport”, la manifestazione podistica dell’Uisp Ansa, 21 maggio 2010 Per “Porte aperte allo sport”, la manifestazione podistica dell’Uisp che porta la corsa e il movimento negli istituti penali e minorili di tutta Italia, oggi si corre a Roma, nella casa circondariale Nuovo complesso di Rebibbia che ospita circa 1.700 detenuti. La partenza di Vivicittà è prevista per le ore 16 del pomeriggio dalla piazzetta interna al carcere, e adiacente all’area verde dove generalmente si svolgono i colloqui con i familiari. Sono attesi al via 60 detenuti e 60 atleti esterni. Due i percorsi allestiti per l’occasione: quello canonico di 12 km e uno più breve da 4 km. Si corre lungo le mura interne dell’istituto su un tracciato ad anello che quest’anno è percorribile in 2 giri per la 4 km, e in 6 per la 12 km. Saranno presenti all’evento Angelo Marroni, garante dei diritti dei detenuti, e il direttore del carcere Carmelo Cantone. L’appuntamento romano con Vivicittà “Porte Aperte” è stato preceduto mercoledì 19 maggio dall’incontro tra Filippo Fossati, presidente nazionale Uisp con i ragazzi del circolo “La Rondine” affiliato all’Uisp e costituito all’interno della casa circondariale di Rebibbia Nuovo complesso. Nella sezione G12 Alta sicurezza, alle ore 16 del pomeriggio, i rappresentati del circolo, hanno presentato il programma 2010-2011 delle attività sportive. Libri: “Il Gambero nero” (Derive & Approdi)… un libro che parla di cucina. In prigione Redattore Sociale, 21 maggio 2010 Il libro edito da Derive & Approdi parla di cucina. In prigione. Un ricettario per raccontare la vita quotidiana nel carcere piemontese di Fossano. L’autore è Michele Marziani, giornalista free-lance. Il fotografo è Davide Dutto. “Il Gambero nero” (Derive & Approdi), è un libro che parla di cucina. In prigione. Un ricettario per raccontare la vita quotidiana dei detenuti del carcere piemontese di Fossano. L’ha scritto Michele Marziani, giornalista free-lance, assieme al fotografo Davide Dutto, che ha curato la parte iconografica. Era il 2005. Marziani, com’è nata l’idea del libro? L’idea è nata per caso. “Il Gambero nero” è un libro fotografico sul carcere di Fossano, nato dalla collaborazione col fotografo Davide Dutto, che stava già tenendo lì dei corsi di fotografia. Parlando al telefono, Davide mi ha raccontato una cosa che non sapevo: in quasi tutti i penitenziari d’Italia, i detenuti la sera non mangiano i pasti forniti dall’amministrazione carceraria (che anzi, si guarda bene dal passare la cena). Il carcere, infatti, a causa della mancanza di fondi, garantisce solo il pranzo, che viene preparato per tutti nella cucina centrale da alcuni carcerati, che lavorano e vengono pagati come cuochi dall’amministrazione della struttura. La sera, invece, per una sorta di accordo non scritto, i detenuti devono arrangiarsi da soli e si cucinano nelle celle con dei fornellini da campeggio. Come si procurano il cibo? In generale, quando un grossista alimentare vince la gara di appalto per provvedere al vitto del carcere, automaticamente si aggiudica anche la fornitura del sopravvitto, cioè del cibo che il detenuto può comprare con i propri soldi. Il meccanismo funziona così: il carcerato compila una sorta di lista della spesa. Il giorno dopo arriva in cella quanto ordinato. Il costo dell’acquisto viene scalato da un conto corrente, che ognuno ha in carcere. I soldi provengono o dai versamenti dei parenti oppure dallo stipendio che l’amministrazione carceraria dà per i lavori svolti nel penitenziario. Chi non ha soldi vive della solidarietà della cella (i compagni che hanno possibilità di acquistare cibo, in genere, offrono sempre qualcosa da mangiare). Altrimenti, se proprio non hanno niente, la struttura gli allunga una fetta di formaggio e dell’insalata. Perché succede questo? Non dovrebbero essere garantiti due pasti al giorno? Dovrebbe. Ma l’importo base d’asta per far mangiare un detenuto è di appena un euro al giorno, con cui pagare colazione, pranzo e cena. Ecco perché il cibo è sempre stato al centro delle rivolte carcerarie negli anni 70. Rappresentava una forma di autodeterminazione. Quando a un certo punto nella gestione delle carceri si è capito che per l’amministrazione della struttura era persino più conveniente che i detenuti si arrangiassero per la cena, la pratica è diventata paradossalmente tollerata e addirittura auspicata. In teoria, i fornellini da campeggio si potrebbero tenere in cella solo per prepararsi il caffè. Ma nella maggior parte delle carceri si usano per cucinarsi il pasto serale. Al di là del lato economico, che effetto ha sui detenuti il doversi preparare la cena? Cucinare ha un risvolto molteplice. Innanzitutto, si crea una mescolanza di sapori e di saperi. Di origini. Di solito, la cella è condivisa da minimo 5-6 persone. In genere, si dividono gli italiani dagli stranieri. Ma gli stranieri non sono distinti per provenienza o etnia. Di solito sono messi tutti insieme. Quindi è inevitabile che cucinare porti a convivialità e condivisione. È un bel modo di entrare in relazione. Così, da un lato, hai la durezza della situazione e un fai-da-te al limite del regolamentare, dall’altro un’occasione di scambio. La cosa affascinante è che queste persone mettono nella cucina una creatività immensa. In che senso? È la vita in carcere che è, al tempo stesso, orribile ma creativa. Lo dico anche nel libro, con ironia, ma un’ironia amara. Vedendoli preparare il pasto si potrebbe scrivere un manuale di cucina per sopravvivenza . Quello che stupisce è che il carcere è un luogo di non regole. O meglio, ci sono ma sono aggirabili. Per fare un esempio, non si possono detenere coltelli, come fanno i carcerati a tagliare il cibo? Si inventano “coltelli” alternativi: anche il coperchio della scatola dei pelati può bastare. Poi però, siccome può essere considerato un’arma in caso di ispezione, bisogna schiacciarne i bordi perché non sembri un coltello. È proprio dalla povertà di mezzi e risorse che nasce la loro creatività. Mettono nella cucina un’inventiva e una ricerca di soluzioni incredibile. Con dei risultati ottimi. Ho visto cuocere la pizza in forni fatti da due padelle sovrapposte. O preparare le lasagne con tre fornellini, una teglia sopra e carta stagnola ad avvolgerla, mentre un quarto fornello mandava aria calda da sopra attraverso un barattolo che fungeva da grill. Il fatto che il libro sia fotografico rende la cosa più interessante. Sono le immagini a dargli forza. Quali sono state le difficoltà nel realizzare il progetto? Il primo problema è stato ottenere il permesso dall’amministrazione del penitenziario di svolgere il lavoro all’interno delle celle. Avevamo già tentato in altre carceri più grandi ma il nostro ingresso non era tanto gradito, perché volevamo raccontare una cosa che sta quasi al limite della legalità. Il secondo passo è stato l’incontro con i detenuti del piccolo carcere di Fossano per spiegare il progetto. È stata per me un’esperienza dura e, allo stesso tempo, mortificante. Ero così entusiasta nello spiegare cosa avevo in mente che non mi ero accorto che a loro non interessava. Siamo stati accolti con occhiate curiose e un po’ d’ironia. E come siete riusciti a conquistare la loro fiducia? A un certo punto, il mio parlare quasi inutile si è interrotto quando ho detto loro: “Se volete proviamo questa esperienza insieme. Al peggio, avrete perso del tempo con due imbecilli”. Al che, si alza un detenuto e mi dice “Dottore, lei quella parola se la deve dire da solo. Se gliela diciamo noi rischiamo di essere puniti. Siamo in carcere!”. Allora mi sono reso conto di dove ero veramente e ho chiesto loro cosa volessero. Con sorpresa la risposta è stata: “Qui viene un sacco di gente. Fanno cucina, fanno teatro, fanno corsi vari. Ma, alla fine, se ne vanno e noi siamo sempre qua”. Ho capito che avevano bisogno di passare del tempo con qualcuno. Ecco che ci abbiamo messo un anno per un progetto, che nella mia mente, richiedeva al massimo tre pomeriggi. Per un anno siamo andati là tutti i lunedì pomeriggio. Questa è stata la nostra forza. Ne è venuto fuori un libro molto denso, proprio perché siamo stati “costretti” a stare per un anno con queste persone. Quindi si sono creati dei legami personali con i detenuti? Si è creato un legame forte, con tutti i rischi dei legami forti. Un giorno, tre persone mi hanno preso e portato in un angolo, chiedendomi un favore. Sul momento mi sono preoccupato, in testa mi stavo già immaginando tutte le richieste possibili. Alla fine mi dicono: “Avremmo bisogno di carta stagnola per il forno. Il ministero non ce la lascia più comprare e non sappiamo come trovarla”. Di nascosto, l’ho portata. E ora? Adesso il legame non c’è, perché grazie a Dio, sono usciti dal carcere. Qualcuno mi è capitato di incrociarlo ed è stato un bell’incrociarsi. Una persona ci ha perfino seguito nelle varie presentazioni del libro ma poi ci si è persi. È naturale. Le ultime persone che vuoi vedere fuori dal carcere sono proprio quelle che hai visto in carcere. Cosa ti è rimasto di questa esperienza? Fondamentalmente mi sono rimaste due cose, che pensavo già prima e che adesso sono diventate per me delle certezze. Innanzitutto, in carcere in Italia ci vanno sono gli sfigati, quelli che non hanno un bravo avvocato, quelli che non sanno bene l’italiano e non conoscono le regole dei giochi giudiziari e come aggirare le leggi. Poi ho capito che il carcere è una struttura assolutamente inutile, che, in realtà, si basa su norme diverse da quelle che dice di avere. Se si pensa di mettere delle persone in un luogo di detenzione per dargli delle regole, quello è il luogo in cui le regole sono meno rispettate. È un luogo tremendo, dove vai perché hai commesso dei reati, non voglio giustificare nessuno, ma resta un luogo terribile. Scrivere questo libro mi ha permesso di raccontare e parlare di una realtà che resta un tabù. Ho potuto parlare di carceri perfino all’Accademia del Barolo, o comunque un luoghi in cui, di solito, non si affrontano questi argomenti. Ho raccontato un mondo che con cui si fa finta di non avere contatti, si fa finta che non esista. Il carcere è come la morte. È ancora un grande tabù che si cerca di evitare. Clarissa Gigante, Valentina Sorci, Master in Giornalismo Iulm, Milano Immigrazione: “Nella tua città c’è un lager”, un appello contro tutti i Cie in Italia di Rossella Anitori Terra, 21 maggio 2010 “Nella tua città c’è un lager”. È questo lo slogan che accompagna l’appello lanciato dalla Rete Antirazzista per chiedere la chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione che sono in Italia. La rete punta il dito contro i Cie, definendoli “un’istituzione illegale, risultato di abusi giuridici e leggi razziali”, e aggiungendo che rappresentano “buchi neri del diritto nazionale e internazionale”. Passati alla cronaca per gli interminabili scioperi della fame che i migranti reclusi hanno fatto per protestare contro le inumane condizioni in cui vivono, per i ripetuti tentativi di fuga dei detenuti, per gli atti di autolesionismo, ormai all’ordine del giorno, per i tentati suicidi e per i pestaggi, i Centri di identificazione ed espulsione pullulano di storie spezzate. Storie come quelle di chi ha lasciato il proprio Paese nella speranza di un futuro migliore ed è stato intercettato dalla polizia di frontiera, oppure di chi viveva in Italia da anni e ha perso il lavoro e non si è visto rinnovare il permesso di soggiorno, o ancora di chi, vittima di tratta, da una strada è finito dietro le sbarre. Costretti a vivere tra l’acciaio e il cemento per un lasso di tempo che arrivare fino a sei mesi, solo perché sprovvisti di un permesso di soggiorno, gli uomini e le donne rinchiusi nei Centri sono abbandonati a se stessi. Le condizioni igieniche di questi luoghi lasciano spesso a desiderare e per facilitare lo scorrere della giornata non è organizzata alcuna attività. Nei Cie il tempo è sospeso. “I Cie sono irriformabili” recita l’appello. Chiunque ha avuto modo di conoscere queste realtà, continua il documento, “può affermarlo”. I promotori dell’appello chiedono dunque ai sottoscriventi “non una firma di circostanza, ma un impegno duraturo per la chiusura dei Cie”. Una causa che da Nord a Sud sta coinvolgendo molte persone. La trasmissione radiofonica “Silenzio assordate” di radio Onda Rossa continua a far ascoltare le denunce e le testimonianze delle lotte antirazziste che si svolgono dentro e fuori i Cie. Per sostenere la petizione della rete Antirazzista domani a Roma inizia una settimana di mobilitazione: giovedì 27 maggio è previsto un presidio davanti al ministero dell’interno, mentre il 29 è stata indetta una manifestazione di protesta sotto il Cie di Ponte Galeria. “Scegliendo oggi di disobbedire al consenso di cui gode il razzismo istituzionale - conclude l’appello -. Un giorno, speriamo non lontano, luoghi infami come i Cie diventeranno simboli di una verg ogna passata, da visitare per non dimenticare, per non ripetere”. Stati Uniti: seconda condanna a morte eseguita in 2 giorni nel Mississippi Ansa, 21 maggio 2010 Lo Stato del Mississippi ha eseguito la seconda condanna a morte in altrettanti giorni. Questa volta, a morire è stato un uomo condannato per lo stupro e l’uccisione di una ragazza di 15 anni. Un’iniezione letale ha messo fine alla vita di Gerald James Holland alle 18.14 di ieri. A 72 anni, era il più anziano nel braccio della morte dello Stato. Era stato arrestato nel 1986, per lo stupro e l’assassinio di Krystal King. L’uomo ha ammesso di aver ucciso la ragazza, ma mai di averla stuprata. Mercoledì, era stata eseguita la condanna a morte di Paul Everette Woodward, in carcere dal 1987 per lo stupro e l’assassinio di una donna di 24 anni. L’ultima volta che il Mississippi aveva eseguito due condanne in due giorni era stata nel 1961. Cuba: la Chiesa è ottimista; si è aperto un percorso per liberare i detenuti politici Il Velino, 21 maggio 2010 “Il cammino per la libertà dei detenuti politici a Cuba “è stato aperto” e ci sono “speranze e prospettive”. Così il cardinale cubano Jaime Ortega. Arcivescovo di L’Avana, ha definito l’incontro tra il “lider maximo” cubano Raul Castro e i vertici della Chiesa cattolica nazionale nel quale è stato avviato un percorso di dialogo che potrebbe portare alla liberazione dei detenuti politici presenti nelle carceri dell’isola caraibica. Lo ha annunciato lo stesso Ortega al termine di una riunione di oltre quattro ore con il capo di Stato, rispondendo alle domande nel corso di una conferenza stampa presso l’Arcivescovado. “È in corso una trattativa per la libertà dei detenuti. Non posso anticipare nulla riguardo a date concrete, ma il cammino è stato aperto con prospettive e speranze”. Poche ore prima il presidente della Conferenza episcopale Dionisio Garcia, anche lui presente alla riunione, aveva parlato della “disponibilità ad agire e a prendere decisioni per risolvere la questio ne”. Nonostante la crescente pressione internazionale, finora il governo castrista si era sempre rifiutato di considerare la possibilità di liberare i detenuti. Per la Chiesa cattolica cubana l’incontro di ieri è stata la dimostrazione dello spazio e del peso crescente che sta assumendo nelle vicende politiche del Paese. Un concetto sottolineato da Ortega, secondo cui la riunione “ha il valore di riconoscere alla Chiesa il ruolo di interlocutore” e dimostrato anche dal fatto che la stampa di Stato cubana ha dedicato ampio spazio avvenimento. Il riavvicinamento tra il governo cubano e le istituzioni cattoliche si era evidenziato già nelle scorse settimane, quando la mediazione del cardinale aveva permesso di garantire che le manifestazioni delle “Damas blancas”, mogli e compagne dei detenuti politici, avvenissero senza le “interferenze” dei sostenitori del governo e delle forze dell’ordine. Perù: l’ex presidente Fujimori in carcere fa il “direttore dei lavori” Il Velino, 21 maggio 2010 L’ex presidente peruviano Alberto Fujimori, condannato a 25 anni di reclusione per delitti contro l’umanità, in carcere è diventato “direttore dei lavori” di ristrutturazione. Lo scrive la rivista Caretas che pubblica un video e alcune immagini che mostrano l’ex capo di Stato mentre dirige i lavori di realizzazione di un parcheggio all’interno della struttura della Direzione nazionale delle operazioni speciali della polizia, in cui è detenuto. Il particolare trattamento di cui gode Fujimori nella struttura penitenziaria è da tempo al centro di forti polemiche e proprio la rivista Caretas la scorsa settimana aveva pubblicato delle foto che testimoniavano come gli fosse permesso di ricevere anche decine di viste nello stesso giorno da parte di colleghi di partito e amici. Le stesse autorità penitenziarie erano state costrette ad ammettere che l’ex presidente era arrivato a incontrare 180 persone nello stesso giorno, impegnandosi a ridurre l’accesso ai visitatori a 15 al giorno in tre occasioni settimanali. Algeria: l’80% dei detenuti partecipa a corsi scolastici e di formazione Agi, 21 maggio 2010 Sono sempre più numerosi nelle carceri algerine i detenuti che decidono di frequentare corsi scolastici o di formazione professionale. In un’intervista all’agenzia di stampa APS, il direttore generale dell’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, Moktar Felioune, ha detto che circa l’80 per cento della popolazione carceraria beneficia, di corsi scolastici e di formazione, istituiti nell’ambito degli istituti di pena. Felioune ha affermato che sono 44.000 sui 58.000 detenuti in tutte le carceri del Paese. Ha precisato poi che, per questo anno scolastico, si prevede che saranno 1.857 i detenuti che parteciperanno agli esami di maturità, mentre l’anno scorso furono 1.830.