Giustizia: quanta ipocrisia sul ddl svuota carceri, alla fine usciranno poche centinaia di detenuti di Alessandro Gerardi Terra, 20 maggio 2010 In Italia, tra i detenuti che stanno scontando una condanna definitiva, il 32,4% ha un residuo pena inferiore ad un anno, addirittura il 64,9% inferiore a tre anni, soglia che rappresenta il limite di pena per l’accesso alle misure alternative della semilibertà e dell’affidamento in prova al servizio sociale. Si tratta di numeri impressionanti che dimostrano inequivocabilmente come nel nostro Paese il sistema delle misure alternative si sia sostanzialmente inceppato; il che continua ad accadere nonostante le statistiche abbiano dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che il detenuto che sconta la pena in misura alternativa ha un tasso di recidiva molto basso (circa il 28%), mentre chi la sconta in carcere torna a delinquere con una percentuale addirittura del 68%. Prendendo atto di questa semplice realtà, la mozione sulle carceri presentata alla Camera dei deputati dalla radicale Rita Bernardini ha impegnato il governo ad attuare una profonda riforma delle norme sulla esecuzione delle pene prevedendo, tra l’altro, “l’applicazione della detenzione domiciliare quale strumento centrale nell’esecuzione penale relativa a condanne di minore gravità”. È appena il caso di ricordare che questo passaggio della mozione è stato approvato a larghissima maggioranza sia alla Camera che al Senato, anche dai deputati e senatori della Lega e dell’Italia dei valori. Coerentemente con quanto stabilito in quella mozione, e dopo un digiuno di dialogo condotto sempre da Rita Bernardini, il ministro della Giustizia ha presentato un disegno di legge rubricato “Esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad un anno”. L’iniziativa del ministro appare subito coraggiosa e senza precedenti, in quanto per la prima volta viene previsto che la detenzione domiciliare possa essere applicata anche ai recidivi, il tutto attraverso una procedura di concessione praticamente automatica, e quindi sottratta alle valutazioni discrezionali della magistratura di sorveglianza. L’obiettivo dichiarato è quello di compiere un primo importante passo verso il lento e graduale deflazionamento dell’attuale popolazione carceraria. Tutto bene, dunque? Macché. Appena approdato in Commissione Giustizia della Camera, il disegno di legge è stato sottoposto ad un fuoco incrociato di critiche da parte della Lega, dell’Italia dei Valori e del Partito democratico, i quali si sono subito opposti con forza alla richiesta del Governo di trasferire l’esame del provvedimento alla sede legislativa. Contro questo atteggiamento ostruzionistico Rita Bernardini ha deciso di intraprendere, insieme ad altri compagni e dirigenti radicali, un ulteriore sciopero della fame (durato quasi un mese), il che però non ha evitato che le misure (positive) originariamente contenute nel provvedimento del ministro Alfano venissero completamente stravolte dagli emendamenti presentati dal governo su impulso dei deputati della Lega, dell’Idv e del Pd. In pratica, l’impostazione originaria del disegno di legge è stata stravolta laddove viene stabilito che la detenzione presso il domicilio non si possa applicare “quando vi è la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga ovvero sussistano specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato ossa commettere altri delitti”. La nuova disposizione abroga ogni sorta di automatismo nell’applicazione della detenzione domiciliare e ai fini della concessione del beneficio - richiede la verifica di un requisito soggettivo del condannato di delicata interpretazione: è necessario, infatti, che il magistrato di sorveglianza esprima un giudizio prognostico positivo sulla idoneità della misura alternativa ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. Il legislatore però non si è soffermato sui criteri che dovranno regolare questa valutazione dell’organo giudicante, lasciando così alla magistratura di sorveglianza l’arduo compito di provvedere in merito. Stando così le cose, è facile prevedere che per supplire alla lacuna normativa la prognosi circa l’idoneità della detenzione domiciliare ad evitare il pericolo di consumazione di altri reati verrà basata, nel caso di concessione della misura prima dell’inizio della esecuzione della pena, sul comportamento tenuto dal condannato successivamente e antecedentemente al reato, con la conseguenza che se il soggetto è persona recidiva, con significativi precedenti penali e carichi pendenti sulle spalle, difficilmente potrà usufruire di questo beneficio. E quindi, pur essendo vero che in teoria questa nuova forma di detenzione domiciliare potrà essere concessa anche ai recidivi, di fatto, non venendo più applicata in via automatica, il numero dei condannati con precedenti penali che riuscirà a scontare la pena nel proprio domicilio senza transitare per il carcere sarà davvero modesto. Se invece il condannato si trova già in carcere, il pericolo di ricaduta nel reato da parte del detenuto andrà valutato sulla base della relazione di sintesi delle attività di osservazione scientifica della personalità. Il problema è che questo tipo di relazione non viene quasi mai prodotta secondo i tempi prescritti dalla normativa, e questo a causa della forte carenza degli educatori penitenziari. È facile dunque prevedere che anche il numero delle persone recluse negli istituti di pena che riuscirà a beneficiare della detenzione domiciliare sarà limitato a non più di qualche centinaio di unità. In conclusione, le nuove disposizioni sulla detenzione domiciliare lasceranno la situazione carceraria sostanzialmente invariata, il che renderà sempre più drammatica la condizione dei quasi 68mila detenuti ristretti all’interno dei 205 istituti di pena italiani. Di tutto questo la Lega, l’Italia dei valori e il Partito democratico saranno presto chiamati ad assumersi le proprie responsabilità di fronte all’intera comunità penitenziaria. Giustizia: una campagna e un appello per la tutela dei diritti e della dignità delle persone detenute di Anna Pizzo Carta, 20 maggio 2010 Antigone, A Buon Diritto e Carta lanciano, sul settimanale in edicola venerdì 21 maggio, una campagna comune e un appello per la tutela dei diritti e della dignità delle persone detenute nelle 205 carceri italiane. Nonostante non sia tra gli argomenti più “gettonati”, il carcere è finito poche sere fa al Tg3 con un ottimo servizio di Santo Della Volpe. A spingere la testata della Rai deve essere stato il combinato disposto delle imminenti decisioni del governo sul disegno di legge cosiddetto “svuotacarceri” e la lotta contro il tempo in vista di una estate che si preannuncia bollente. Non stiamo parlando di previsioni meteo, o non solo, ma - si potrebbe tranquillamente dire - umanitarie. Nell’ultimo anno il numero delle persone in carcere aumenta di circa mille detenuti al mese, e non è difficile prevedere che i 67 mila di oggi toccheranno ad agosto il record dei 70 mila. Non è neppure assurdo pensare che i centodue suicidi negli ultimi diciotto mesi [ancora un record] non siano un caso. Le carceri si stanno riempiendo come mai in passato di tossicodipendenti e di “borderline”, cioè di persone con una soglia di fragilità molto alta. E il quaranta per cento sono stranieri [nella stragrande maggioranza detenuti per reati di lieve o media entità] senza un soldo, senza parenti che li possano aiutare, spesso senza conoscere la lingua e le abitudini del nostro paese. Questo nuovo popolo di senza diritti a volte non ce la fa, a restare per anni in celle che potrebbero contenere poco più della metà di coloro che invece vi vengono stipati, spesso in condizioni di isolamento pratico, dal momento che il numero di agenti di custodia è largamente insufficiente [ne mancano seimila] e quindi le relazioni possibili con il mondo esterno spesso vengono a mancare o sono ridotte a elemosina. Così come i cosiddetti “spazi di socialità”, le attività che pure il regolamento carcerario contempla, l’”ora d’aria”. Tutto questo, per chi vive in cubicoli con letti a castello perfino a tre piani, diventa il discrimine tra la vita e la sospensione della vita. Tutto è legato a una “domandina” che magari molti non sanno scrivere. Tutto è scandito dall’umore di una guardia a cui dall’inizio dell’anno non viene pagato lo straordinario. Tutto è appeso alla possibilità di lavorare, magari in cucina o nelle pulizie, ma il ministero ha da poco deciso di tagliare di un terzo la “mercede”, con ciò decretando la fine degli spiragli di sopravvivenza fatti della possibilità di comperare un pacchetto di sigarette o una scatola di biscotti o una crema da barba. Ecco, le 205 carceri italiane restituiscono questa immagine catastrofica, anche se in alcuni si riescono ancora a fare cose buone, a studiare, a fare teatro, a imparare un mestiere. L’immagine è quella di un inesorabile gorgo dentro il quale un numero di persone sempre più ampio viene risucchiato. E tutto questo nella generale indifferenza delle istituzioni e [duole dirlo] della società. Talmente grave, la situazione, da spingere il presidente Napoletano ad esigere azioni e investimenti urgenti. Sfidando l’indifferenza o l’assuefazione, ora le associazioni Antigone e A Buon diritto, assieme a Carta, hanno deciso di passare dalla denuncia all’apertura di una vera e propria “vertenza”. Nel settimanale in edicola a partire da venerdì 21 maggio, un testo comune dice: “In carcere non si rispettano le leggi. Chi non le rispetta fuori viene messo dentro, chi mette dentro, le istituzioni democratiche, non le rispetta e basta. Quasi niente, nelle carceri, è come dovrebbe essere, funziona come dovrebbe funzionare”. E ancora: “È trascorso quasi un anno dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani che ha condannato l’Italia per aver detenuto persone in meno di tre metri quadri. Una violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea, un’ipotesi di tortura o trattamento inumano o degradante. Oggi la situazione generale è ancor peggiore di allora. Il prossimo 20 settembre saranno dieci anni dall’entrata in vigore dell’attuale Regolamento penitenziario, che guardava a condizioni più dignitose di detenzione. Nella metà del tempo, cinque anni, era fissato il termine per adeguare le strutture carcerarie ad alcuni parametri strutturali. Che ci fosse l’acqua calda, per fare solo un esempio. Ne sono passati dieci e quasi ovunque gli edifici sono ancora fuori legge. Noi, da oggi, ci riteniamo in vertenza contro le istituzioni. Utilizzeremo ogni strumento legale a disposizione per far sì che lo Stato paghi il prezzo della propria illegalità”. Chi vuole unirsi, può aderire all’appello inviando una mail a carta@carta.org. Bisogna fare in fretta. Giustizia: Sbriglia (Sidipe); contro il sovraffollamento carceri galleggianti e caserme dismesse Ansa, 20 maggio 2010 Puntare su carceri galleggianti e caserme dismesse per contrastare il sovraffollamento degli istituti penitenziari in Italia: lo ha chiesto Enrico Sbriglia, segretario nazionale del Sindacato direttori penitenziari (Sidipe). A margine della cerimonia per il 193/mo anniversario della Polizia penitenziaria, oggi, a Trieste, Sbriglia ha detto che “si potrebbe prendere in considerazione la realizzazione di piattaforme galleggianti che, in 20 mesi, alleggerirebbero la pressione”, ha detto. “Si tratterebbe di strutture che al termine dell’emergenza penitenziaria - ha sottolineato Sbriglia - potrebbero essere riutilizzate, ad esempio, dalla Protezione civile”. Sbriglia ha suggerito anche l’utilizzo di caserme dismesse da trasformare in istituto penitenziario a basso livello di pericolosità. Una sorta di carcere comunità dove ospitare detenuti tossicodipendenti”. Ma Sbriglia ha anche evidenziato che “servono modifiche che innovino il codice penale e l’ordinamento penitenziario, che non sembrano saper più distinguere tra reati minimi e reati massimi lì dove la misura sia la detenzione”. Sbriglia ha annunciato la prossima realizzazione di un Forum di confronto, probabilmente a Roma, in una comunità, dove riflettere: perché oltre alla realizzazione di nuove strutture penitenziarie - ha evidenziato - serve una modifica normativa che preveda una più ampia possibilità d’accesso a misure alternative della pena”. Giustizia: un libro in cella, finestra sulla libertà; un viaggio nelle biblioteche delle carceri Redattore Sociale, 20 maggio 2010 Libri donati e raccolte fondi selezionati da personale qualificato e prestiti che coinvolgono le biblioteche “esterne”: così è cambiata la realtà italiana. La vista di un detenuto non può spaziare sull’orizzonte. L’uomo che ha perso la libertà deve imparare a guardare oltre con la mente, a superare le barriere fisiche con l’immaginazione. “Sia le onde, sia i fiori e l’amico toccherei con mano!! Ah, se potessi, con il pensiero, abbattere questo muro che mi tiene così… lontano!!!”, scrive Nunzio dalla sua cella. La lettura contribuisce a demolire le pareti della prigione, aiuta a sentirsi più vicini alla propria casa, anche se molto lontana, ai propri affetti e a una realtà “esterna” che un giorno, in qualche caso, sarà di nuovo lì. La biblioteca all’interno degli istituti penitenziari svolge un ruolo fondamentale nella vita dei detenuti, tanto che già nel 1975 una legge obbligava tutte le carceri italiane a possederne una. Tuttavia, a causa della mancanza di fondi, le biblioteche, laddove presenti, permanevano in una condizione di totale abbandono o, nei casi più rosei, somigliavano a polverosi magazzini in cui “persone che volevano svuotare la soffitta, riversavano libri obsoleti, sporchi e rovinati”, specifica Marina Menni, responsabile dell’ufficio biblioteche di Brescia, “ non consoni, in ogni caso, alle richieste dei detenuti: libri in latino o trattati di filosofia avanzata e matematica”. Un’indagine promossa nel 1997 dall’Istituto di biblioteconomia e bibliografia dell’Università di Milano fotografava una realtà precaria e disorganizzata. A fronte di 205 istituti penitenziari, solo 79 avevano risposto al questionario e di questi, meno di 10 disponevano di una struttura bibliotecaria, spesso gestita da volontari privi di qualsiasi competenza. In seguito, un lungo percorso lavorativo ha coinvolto le amministrazioni locali, supportate dalle biblioteche civiche, da cooperative sociali e da volontari per il recupero e la corretta gestione di questa importante risorsa. “Il primo passo compiuto sette anni fa” afferma Marina Bolletti, volontaria della biblioteca Tommaso Campanella del carcere di Padova “è stato quello di lavorare molto sullo scarto, con i criteri standard usati nelle biblioteche civiche. Il secondo, poi, è stato quello di creare un catalogo nuovo, seguendo regole ben precise”. Stesso procedimento per la casa di reclusione di Canton Mombello di Brescia. “Abbiamo operato una ripulitura prima del 2005” afferma Marina Menni “su 10.000 volumi presenti se ne sono salvati solo 2.500. Lo scarto è stato effettuato da persone del mestiere che sanno a quali canoni rispondono i libri da tenere in una biblioteca”. Imprescindibile, dunque, la presenza di personale qualificato - non ancora inserito a tutti gli effetti nel sistema carcerario italiano - per la selezione e la catalogazione del materiale presente e di quello in arrivo grazie ai lasciti. Libri donati, raccolte fondi per riuscire a esaudire le richieste letterarie dei detenuti, e, talvolta, prestiti interbibliotecari che coinvolgono le biblioteche “esterne”, sono frutto di una realtà che si sta evolvendo. Tuttavia, per creare un sistema che tenga conto dei vari interessi culturali e della provenienza delle persone recluse in carcere - commentano molti operatori del settore - è necessario che le biblioteche degli istituti penitenziari divengano biblioteche civiche a tutti gli effetti, interconnesse stabilmente con le istituzioni bibliotecarie presenti sul territorio. Detenuti stranieri: si legge in arabo, francese, rumeno. E oggi anche in cinese La forte presenza di immigrati negli istituti italiani fa crescere la domanda di libri in lingua. Nella casa di reclusione di Padova reading in arabo, nei due carceri di Brescia c’è richiesta anche di grammatiche italiane. Stringe tra le mani una vecchia rivista sgualcita inchiostrata di lettere arabe, legge lentamente ogni parola, la pesa e la pondera, e nel cuore ha tutta la serenità di chi si sente a casa. Quei pochi centimetri di carta hanno un potere magico, quello di riaccendere il ricordo della patria, della libertà e della speranza di uscire un giorno dal carcere. Nei luoghi di detenzione gli stranieri sono circa il 37%, ma in alcune province italiane si toccano punte di oltre il 70%, come al carcere di Verziano di Brescia o alla Casa di Reclusione di Padova (60%). Per questo le biblioteche hanno dovuto fare i conti con una richiesta di letture in lingua straniera, soprattutto in arabo, francese e portoghese, mentre al carcere Dozza di Bologna c’è anche l’esigenza di leggere il cinese. La cooperativa AltraCittà di Padova gestisce la biblioteca all’interno della Casa di reclusione locale: “Vi sono delle sezioni di libri in lingua (araba, rumena, albanese, inglese e spagnola) - dice Valentina della cooperativa -. La maggior parte dei libri presa a prestito è in arabo, dato direttamente proporzionale al numero di detenuti provenienti dal medio oriente e dal nord Africa. Inoltre, una volta la settimana, portiamo all’interno i quotidiani in lingua araba, che girano all’interno delle sezioni dell’Istituto”. Due volte al mese si tiene un gruppo di lettura in lingua araba, a leggere è una studentessa ventisettenne palestinese, Fidaa Abuhamdiya: “La Cooperativa aveva bisogno di qualcuno che catalogasse i libri in lingua araba, così ho iniziato a lavorare all’interno del carcere. E mentre me ne stavo lì a parlare con i carcerati stranieri mi sono resa conto di quanto avessero bisogno di ascoltare la lingua dell’infanzia, per potersi distrarre dalla loro situazione, per poter volare con l’immaginazione fuori dalle sbarre, per tornare indietro nel tempo, a quando la prigione non c’era ancora. Da qui l’idea dei reading in arabo”. Sono gli stessi detenuti stranieri a scegliere i testi: “Amano moltissimo l’inno tunisino (“La volontà di vivere”: Se un giorno il popolo vorrà vivere, il destino allora dovrà assecondarlo. La notte deve dissiparsi e le catene devono spezzarsi. Chi non è stato baciato dall’amore per la vita si è dissolto nel nulla”, ndr) , ma anche le poesie che parlano d’amore, libertà e religione”. Nei due carceri di Brescia i libri in lingua più richiesti sono in arabo, romeno, albanese, russo, ispanoamericano e francese, ma i testi stranieri sono di difficile reperimento: “Così si sopperisce alla carenza attraverso le riviste in lingua o con libri ricchi di immagini. Inoltre gli stranieri chiedono spesso di poter leggere grammatiche italiane, per imparare la nostra lingua”, dice Marina Menni, responsabile ufficio biblioteche di Brescia. E l’esigenza di avere volumi in lingua straniera è particolarmente sentita alla casa circondariale di Cantonmonbello di Brescia, dove il 71% dei detenuti è di origine straniera. Gli scaffali della biblioteca del carcere Sanquirico di Monza ospitano la più vasta raccolta di testi in lingua straniera presente in Brianza. In carcere invece si trovano romanzi, raccolte di poesie e libri di religione scritti in arabo, albanese e rumeno, le tre lingue straniere maggiormente parlate all’interno del carcere. E tra i libri stranieri il più gettonato è certamente il Corano, richiesto in continuazione e molto spesso mai restituito. Una radio su web per raccontare le storie dei detenuti Il progetto partirà a fine maggio nel carcere di San Michele di Alessandria in collaborazione con la Web Radio “Radio Gold” , che settimanalmente mette a disposizione uno spazio nel palinsesto per raccontare la realtà del carcere. Una trasmissione radiofonica per raccontare le vite e la realtà del carcere. Questo è il progetto che partirà a fine maggio realizzato dai detenuti del carcere di San Michele di Alessandria in collaborazione con la Web Radio “Radio Gold” , che settimanalmente mette a disposizione uno spazio nel palinsesto per raccontare le storie dei detenuti. Prima esperienza di questo genere in Piemonte e una delle prime in Italia. La storia di questo progetto inizia nel 2003, quando il giornalista Giovanni Rizzo, grazie alla collaborazione con Rosaria Marino, direttrice del carcere di Alessandria, apre l’edizione di “Altrove”, il periodico interno del carcere. Inizia così un lavoro mirabile di racconto, dove i detenuti non solo riportano le loro storie, ma si interrogano sui tanti problemi che comporta la vita in carcere. Non solo: nell’ultimo numero infatti si è parlato di un tema difficile, come la morte. Non solo quella “anomala”, senza spiegazioni (mente sono tanti i suicidi, cresciuti esponenzialmente proprio in questi ultimi mesi), ma anche la morte “normale” che in carcere rimane comunque diversa, e ancor più dolorosa. Dal giornale il passo alla radio web diventa semplice e forse naturale come spiegano i detenuti che sono coinvolti nel progetto. Abdelaim uno dei fondatori del giornale racconta: “Prima di entrare a far parte di questo mondo, quando ancora ero in libertà, per me il carcere era come se non esistesse. Quando però mi hanno arrestato, volevo che qualcuno si interessasse al mondo carcerario. Nostro obiettivo è dare voce al carcere. Per questo la radio è per noi un ottimo mezzo per comunicare, uno dei più semplici. Anche se l’esperienza è cominciata da poco, spero faccia conoscere la realtà carceraria. Cercheremo di raccontare nella prima trasmissione il passaggio dalla libertà alla detenzione. Ma non solo, nelle prossime puntate approfondiremo la vita del carcere: cosa si fa e che persone ci sono e i loro percorsi rieducativi”. E di percorsi rieducativi parla anche Elchimmi, un altro detenuto del carcere San Michele di Alessandria, che lavora al progetto radiofonico: “È un’esperienza positiva che ti permette di tenere allenata la mente. Perchè scrivi e rifletti su argomenti che riguardano non solo il carcere, ma anche la società. Gli articoli e la radio in qualche modo mettono in contatto il detenuto con l’esterno”. Un esperienza innovativa, dove il carcere non solo si racconta tramite il giornale, ma si fa sentire, dando corpo e sostanza a pensieri che fino ad ora erano solo scritti. Come racconta Daniele: “La radio è un modo per farci sentire fuori dalle mura del carcere. Cerchiamo di portare avanti questa esperienza nella maniera migliore possibile. Di solito quando in una città ci sono realtà come quella del carcere, spesso questa viene dimenticata, considerata un tabù. La radio ci permette di ricordare alla gente che il carcere esiste e che fa parte della città, quindi non deve essere dimenticato”. Gomorra bestseller anche tra le sbarre Il gusto dei detenuti “lo orienta la tv”. Furoreggiano Dan Brown, Wilbur Smith e Larsson. A Brescia si preferisce Yunus, il banchiere dei poveri, a San Vittore il malavitoso serbo legge la Divina Commedia. A Padova si sceglie tra 10 mila. Passioni da lettori di bestseller generalisti e desideri insospettabili. Chi pensa che i gusti letterari dei detenuti siano pieni di cliché, sbaglia. Amano il giallo, il noir, la fiction d’evasione certo, ma anche la poesia, la saggistica di divulgazione, la manualistica per l’orticultura e la cucina, ideale per reinvestire le competenze acquisite nell’ambito stesso del carcere. Il gusto letterario dei detenuti, sondato nelle carceri di Milano, Bologna, Padova e Brescia, rivela un comune denominatore da manuale di sociologia: il gusto lo orienta la tv, con annessa propensione ai campioni da classifica. “Gomorra” domina anche tra le sbarre e non si fatica ad immaginare perché. Furoreggiano Dan Brown, Robin Cook, John Grisham, Wilbur Smith come attestano i dati della Sala Borsa, istituzione civica bolognese che presta i libri al carcere della Dozza, grazie ai volontari di Ausilio per la cultura di Auser e Coop Adriatica. I prestiti sono mirati a soddisfare i bisogni culturali dei detenuti, sondati in precedenza con questionari ad hoc. Una dinamica, quella tra educatori, volontari e reclusi, innovativa: a un’impostazione basata su lasciti e “classici”, subentra un sistema di preferenze e desideri, modellato su esigenze intellettuali, linguistiche, religiose. Lo dimostra l’elenco dei libri richiesti dai detenuti alla rete bibliotecaria bresciana che assiste le carceri di Canton Mombello e Verziano: “Intelligenza ecologica” di Daniel Goleman, “Un mondo senza povertà” di Mohammed Yunus, corsi di lingua inglese e italiana. Richieste atipiche che si affiancano a titoli recenti e molto mediatici: “Caduta Libera” di Nicolai Lilin e “Cella 211” di Francisco Perez Gandul. Le vicende descritte da Lilin e Gandul, ambientate nel mondo della malavita e del carcere, dimostrano che i detenuti cercano un rispecchiamento letterario delle proprie vicende? Difficile da dire, alcuni educatori lo negano. A San Vittore, dove la lettura appare un’esperienza residuale, non mancano eccezioni clamorose: il malavitoso serbo che legge la Commedia dantesca, il volontario che regala i Dialoghi di Platone, in un contesto non privo di contraddizioni, come l’impossibilità di leggere il Corano o libri in arabo, per motivi politici. Una scelta discutibile che altre realtà, come Padova, hanno superato con successo. Attingendo a un catalogo di 10 mila titoli, i detenuti spaziano dalla Trilogia di Larsson, must scandinavo, alla poesia. Si ricorre alla Musa per scrivere Alla donna amata, confortare la madre lontana, innalzare il livello della scrittura, chiedere in prestito le rime, le immagini, gli stilemi. A Padova la lettura non è solo godimento individuale, ma collettivo: si legge insieme, si fanno reading e poi si dibatte. Verrebbe da dire alla Moretti: no, il dibattito no! Ma poi pensi alla forza delle parole, alla loro capacità di fare legame e pensi: il dibattito, anche sì. Sara Occhipinti, Gloria Riva, Salvatore Filippone, Maria Rosaria Iovinella Master in giornalismo Iulm, Milano Lettere: i servizi sociali non danno risposta, al detenuto domiciliare manca anche il cibo Lettera alla Redazione, 20 maggio 2010 Se i servizi sociali non danno risposta, quale altra strada è percorribile per una persona in detenzione domiciliare così indigente da non riuscire a procurarsi nemmeno il cibo? Qualcuno, lo so, potrebbe suggerire che ritorni in carcere, lì almeno potrebbe mangiare. Ma questo cinico consiglio fa a pugni con il preannunciato decreto Alfano, che affida proprio alla detenzione domiciliare una funzione strategica per ridurre il non più sostenibile affollamento penitenziario. Paradossi di una logica che assume sempre più l’aspetto di darwinismo sociale, per il quale al detenuto indigente non resta altro che morire di fame in compagnia della sua anziana madre. Sì, perché il detenuto indigente esiste davvero, ha nome e cognome, Cristoforo Ferro, e sopravvive, o forse nemmeno, ad Orta di Atella, provincia di Caserta, con la madre pensionata settantenne i cui 500 euro mensili risultano così impegnati: 350 euro per l’affitto, 120 per le utenze e 30 per medicinali salvavita. Nessun algoritmo finanziario, per quanto sofisticato, assegna loro una possibilità di sopravvivenza. Per la modesta entità dei reati commessi, il Giudice di Sorveglianza ha ritenuto la persona in oggetto meritevole della detenzione domiciliare. Sconta cioè il suo residuo di pena in casa, una misura in linea di principio certamente preferibile al carcere, anche se nelle condizioni date rischia di tramutarsi in una misura ben più punitiva, non contemplata dal nostro ordinamento, ossia la condanna a morte per fame. La persona del nostro esempio concreto non sa più a quale autorità civile o religiosa chiedere aiuto. Scrive, sollecita, implora, ma non riceve risposte. Improvvisamente sono, siamo, divenuti tutti sordi. Ognuno si trincera dietro la propria sfera di competenza istituzionale, per sussurrare alla propria coscienza che non può farci nulla. Credo invece che sia ora di svegliarsi: quel detenuto sta scontando la giusta pena che la giustizia gli ha comminato, né chiede sconti o trattamenti di favore. Chiede solo di poter mangiare, chiede di sopravvivere. Ma abbandoniamo le emozioni: un detenuto in carcere costa allo Stato, e cioè a tutti noi, circa 157 euro al giorno. È coerente tollerare che chi si trova in detenzione domiciliare (si badi non in semilibertà, e dunque con possibilità di lavorare), detenuto perciò a tutti gli effetti, improvvisamente non costi più niente? È così che il ministro Alfano pensa di risolvere l’emergenza sovraffollamento, con la morte per inedia? Ragionevolmente, mantenendo il 90% del risparmio per le casse dello Stato, dunque per le tanto citate “tasche” del cittadino, basterebbe dotarlo della decima parte di questa somma (15 euro al giorno) per garantirgli quanto basta per il minimo di sussistenza quotidiana. Le soluzioni a costo zero non solo non sono accettabili e credibili, ma rischiano di diventare davvero la famigerata “soluzione finale”. Adriana Tocco Garante regionale dei detenuti della Campania Reggio Emilia: suicida detenuto tossicodipendente di 44 anni, era in carcere da tre giorni Ansa, 20 maggio 2010 Ennesimo suicidio nelle sovraffollate carceri italiane: Aldo Caselli, 44 anni, detenuto nel carcere di Reggio Emilia, si è tolto la vita stanotte. L’uomo, secondo quanto si è appreso, avrebbe annodato le lenzuola alle sbarre della cella per impiccarsi. Quello di oggi, secondo le stime del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è il 26° suicidio dall’inizio dell’anno. Aldo Caselli era in carcere da pochi giorni, ma era stato arrestato altre volte per reati vari. Il fatto è avvenuto tra le 22.30 e le 23. Nel carcere di Reggio Emilia, il 27 marzo si era suicidato un altro detenuto, inalando il gas delle bombolette usato per cucinare e riscaldare cibi e bevande. Sempre a Reggio Emilia, nello stesso periodo, due internati avevano tentato il suicidio nell’ospedale psichiatrico giudiziario, dove ci sono più di 300 persone, ed erano stati salvati dalla polizia penitenziaria. In un comunicato, il segretario generale aggiunto del Sappe - Sindacato autonomo polizia penitenziaria, Giovanni Battista Durante ha sottolineato che l’agente della polizia penitenziaria in turno ieri sera nel carcere ‘è intervenuto prontamente, soccorrendo l’uomo che è stato visitato dai sanitari, ma non c’è stato niente da fare. A quell’ora c’era un solo agente che controllava due reparti a causa della cronica carenza di personale della polizia penitenziaria. A Reggio Emilia, dice ancora Durante, è prevista la presenza di 144 agenti, ma ce ne sono circa 110, mentre i detenuti sono circa 350, a fronte di una capienza di 160 posti detentivi. Osservatorio: ogni 2 giorni muore un detenuto Con il suicidio di Aldo Caselli, avvenuto ieri nel carcere di Reggio Emilia, salgono a 76 i detenuti morti da inizio anno: 21 si sono impiccati, 6 sono morti per avere inalato gas, 49 per malattia. Lo rileva l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. Dall’inizio dell’anno sono trascorsi 130 giorni: in questo periodo 21 detenuti si sono impiccati, altri 6 sono morti dopo aver inalato del gas dalla bomboletta da camping (potrebbe trattarsi di suicidi, ma più probabilmente si tratta di “incidenti” accaduti mentre il detenuto ricercava lo “sballo”) e 49 sono morti per malattia: in totale 76 persone decedute in cella, con una media superiore a 1 ogni due giorni. Tra i 21 suicidi “certi” 5 avevano meno di 30 anni, 8 tra i 30 e i 40 anni, 4 tra i 40 e i 50 anni, 3 tra i 50 e i 60 anni, 1 più di 60 anni (39 anni l’età media). 17 erano italiani e 4 stranieri. Lo scorso anno, dal 1° gennaio al 20 maggio i detenuti suicidi furono 22, nello stesso periodo del 2008 furono 15, nel 2007 furono 13, nel 2006 furono 20, nel 2005 furono 18. Radiocarcere: ennesima vittima del sovraffollamento Aldo Caselli, morto suicida nel carcere di Reggio Emilia, è “l’ennesima vittima del sovraffollamento e del collasso carcerario”. A sostenerlo è Riccardo Arena dalle colonne di wwww.radiocarcere.com. “La notte in cui si è ucciso - ricorda Arena - era di guardia un solo agente di polizia penitenziaria. Un solo agente che avrebbe dovuto sorvegliare ben 2 piani del carcere, ovvero circa 100 detenuti. Quell’agente, appena ha potuto, ha cercato di soccorrere Aldo, ma, essendo l’unico in servizio, è arrivato (non per colpa sua) troppo tardi”. “Le ultime notizie - aggiunge Arena - dicono che Caselli era stato da poco riportato in carcere dalla detenzione domiciliare perché accusato di un nuovo reato. Ma ciò che colpisce maggiormente è altro, ovvero che Aldo era tossicodipendente con conseguenti e gravi problemi di equilibrio psicologico. Chi lavora a Reggio Emilia riferisce che Aldo ‘Era un ragazzo che non stava bene”. Maisto: una vicenda complessa, non c’entra il sovraffollamento “Sicuramente il sovraffollamento nelle carceri è drammatico ma il suicidio di Aldo Caselli è una vicenda più complessa e che va ben al di là del numero di detenuti reclusi o degli organici penitenziari ridotti”. A spiegarlo è il presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, Francesco Maisto. Il detenuto che si è suicidato in cella a Reggio Emilia era tornato in carcere, dopo un periodo agli arresti domiciliari, solo tre giorni fa, il 17 maggio scorso. Era stato fermato dai carabinieri perché sospettato di aver compiuto una rapina, armato di una mannaia, ad un ristorante di Castelnuovo di sotto (Reggio Emilia). Caselli, con precedenti di tossicodipendenza, un lungo via vai dal carcere, era malato da tempo. Per questo nell’aprile 2009 il tribunale di sorveglianza di Bologna gli aveva concesso i domiciliari presso una struttura specialistica, la comunità terapeutica “Bellarosa” di Reggio Emilia, il suo stato di salute era stato giudicato, infatti, incompatibile con la detenzione. Oristano: la denuncia dei detenuti; condizioni invivibili nel carcere di piazza Manno La Nuova Sardegna, 20 maggio 2010 Una toccante lettera dal carcere per denunciare il mancato rispetto dei più elementari diritti. Il carcere di piazza Manno viene descritto come invivibile. Nella lettera si parla di medicine negate, celle sovraffollate, docce con acqua fredda, ispezioni e perquisizioni sempre in aumento. Il carcere come luogo di mera detenzione o, come prevede la nostra Costituzione, di recupero e reinserimento, sembra essere un modello ancora lontano. L’ultima visita di una commissione parlamentare nel carcere di Oristano aveva messo in evidenza un sovraffollamento delle celle (114 persone a fronte di 92 posti), una carenza di personale e la riconferma di un edificio vetusto e inadatto ad ospitare un carcere. La casa circondariale di Oristano come modello negativo nel pur negativo panorama delle carceri italiane. Questo il quadro disegnato nella lettera. Una lettera di una pagina appena, che descrive una situazione critica. I detenuti lamentano anche che spesso non gli viene recapitata neppure la corrispondenza dei loro familiari. Il nostro detenuto, che chiameremo Antonio, non solo per la sua riservatezza, ma anche per rispetto, dice di parlare a nome di altre decine di detenuti rinchiusi da anni nell’ex reggia giudicale di piazza Manno. “Voglio che quanto scritto venga reso noto all’opinione pubblica per fare sapere come siamo costretti a vivere e a sopportare la nostra detenzione - scrive Antonio -. La cosa peggiore che può toccare ad uno come noi purtroppo è la prevaricazione. Una mattina si svegliano improvvisamente, ci cambiano di stanza, solo perché altri fanno casino. Chiediamo una pastiglia per il mal di testa e ti rispondono che il medico di turno sta dormendo. Ti rendono la vita difficile, ti accusano di cose mai fatte e ti disturbano anche senza motivo - ha denunciato ancora Antonio. La mattina, alle sette, inizia l’inferno: sbattono i ferri sulle sbarre come se fosse la sveglia. Le perquisizioni sono sempre di più ogni settimana, la doccia la facciamo con l’acqua fredda. Mentre vi scrivo ho beccato l’influenza perché la cella è sempre umida e malsana. L’umidità è tanta che l’intonaco cade a pezzi solo a sfiorarlo. Molte delle lettere che ci scrivono i nostri familiari e i nostri cari - ha aggiunto Antonio - non ci arrivano. Così non si può vivere: qui il detenuto chiede solo di scontare la sua pena con dignità - conclude Antonio - e non di essere trattato come un cane, in modo disumano e tanto meno usando l’abuso di potere. Forse ora capite anche perché un detenuto si toglie la vita in carcere”. Oristano: la direzione; carcere affollato e obsoleto, ma la denuncia non trova riscontro nella realtà La Nuova Sardegna, 20 maggio 2010 La situazione denunciata da alcuni detenuti è sostanzialmente in linea con il resto delle carceri isolane: affollate, obsolete, inadeguate, invivibili e da chiudere al più presto. Ma alcune segnalazioni - secondo fonti della direzione della Casa circondariale, non troverebbero riscontro nella realtà. Viene, ad esempio contestata la situazione legata ai servizi igienici. Le docce - secondo quanto viene reso noto - funzionano regolarmente e non risponderebbe al vero che l’acqua è sempre fredda. Vengono respinte al mittente anche le carenze relative alle prestazioni sanitarie. In carcere non sarebbe negata l’assistenza medica o la distribuzione di farmaci. Nella struttura di piazza Manno - come confermano le fonti interne - è presente sempre la guardia medica e quando si è verificata una emergenza sono state fornite le relative prestazioni sanitarie. Viene smentita anche la censura della corrispondenza. Sarebbe limitata ad solo eventuali prescrizioni imposte dal magistrato. Rispetto ad altre carceri isolane, infine, Oristano, ha il record di permessi premio, con una percentuale superiore al 30 per cento. Risulterebbe discreta anche l’attività di aggregazione e di integrazione all’interno dell’istituto con una serie di laboratori che impegnano quotidianamente i detenuti con importanti attività finalizzate al suo reintegro nella società e nella comunità locale. I dettagli di queste attività saranno rese note dalla direzione dell’istituto nel corso della festa della polizia penitenziaria che si svolge il prossimo 25 maggio anche ad Oristano. Treviso: l’insegnante denuncia; al carcere minorile mancano gli spazi per poter fare lezione La Tribuna di Treviso, 20 maggio 2010 Al carcere minorile di Treviso mancano gli spazi per poter fare lezione. A denunciare il fatto è Roberto Franzin, docente all’Ipm di Treviso. Ieri, insieme ad Afro Groppo, ex dirigente scolastico del centro di formazione territoriale e fondatore della scuola dell’istituto penale, e Paolo Lucchi, dirigente del Ctp Treviso 2, Franzin ha presentato il convegno che si terrà domani alle 18.30 a palazzo Bomben proprio sull’esperienza dell’insegnamento in carcere. “Siamo in una situazione di pericolosità estrema - dice il docente - Manca personale di polizia, gli spazi sono minimi. C’è nervosismo. I detenuti fumano molto, cosa che dovrebbe essere vietata”. Nel carcere ci sono 20 persone, due terzi sono stranieri. Dal 2000 sono iniziati i corsi per permettere ai ragazzi di conseguire il diploma di scuola media e superiore (la sperimentazione è delle medie Coletti, si sono poi uniti Giorgi, Palladio, Turazza, Alberini e Rosselli). Mancano però le aule adatte a ospitare i ragazzi. Le lezioni si svolgono in posti di fortuna, come la mensa. “Le proposte di spostare l’istituto in altra sede sembrano solo auspici - dice Franzin - Nel carcere si sta creando una camera di prima accoglienza più grande di quella esistente. Ma un locale di quel tipo non dovrebbe nemmeno esistere dentro il carcere. Dovrebbe stare fuori la struttura. Non c’è nessuna programmazione”. Prato: Enzo Brogi (Pd) in visita al carcere della Dogaia; situazione al limite della tollerabilità Asca, 20 maggio 2010 Enzo Brogi (Pd) in visita al carcere della Dogaia a Prato: “Situazione abbastanza positiva ma anche qui siamo al limite della tollerabilità e mancano almeno 100 agenti. Presto una mostra di pittura di un detenuto albanese in Consiglio Regionale”. “Il carcere della Dogaia di Prato vive una situazione meno negativa di altri carceri della Toscana, ma come ormai anche questa realtà è vicina al confine della tollerabilità. I detenuti sono 659 e il limite per il sovraffollamento è di 713. Inoltre mancano molti addetti e agenti, ne servirebbero altri 100”. Così Enzo Brogi, consigliere regionale del Pd, descrive la visita alla casa circondariale della Dogaia di Prato. Nel corso della visita alle diverse aree di alta e media sicurezza del carcere il consigliere Brogi è tornato a trovare un detenuto albanese, iscritto all’accademia delle Belle Arti, che passa molto del suo tempo dedicandosi alla pittura, molte delle pareti del carcere hanno suoi affreschi dal puro stile realistico: “Presto - aggiunge Brogi - organizzeremo una sua mostra in Consiglio Regionale. È importante dare opportunità e punti di riferimento a queste persone che altrimenti si ritrovano persi al rientro in società e rischiano, in altro modo, di tornare ad affollare le carceri. La mostra può essere anche l’occasione per dare risalto alle condizioni dei detenuti nei carceri della Toscana e al lavoro dei direttori e degli agenti all’interno di queste strutture che spesso pagano tagli e scelte infelici del livello nazionale”. “Dopo la visita a Sollicciano con il presidente Enrico Rossi e Severino Saccardi dello scorso aprile per la consegna dei nuovi materassi, e questa al carcere di Prato - conclude Brogi - mi sembra giusto continuare ad incentrare l’attenzione sulla “questione carcere”. È importante analizzare problemi e contraddizioni, dialogare con i detenuti, il personale di custodia ed il personale volontario che, in situazioni di grande disagio, portano avanti un lavoro di grande rilevanza”. Imperia: protesta dei detenuti per il sovraffollamento, intervengono polizia e carabinieri Asca, 20 maggio 2010 Protesta dei detenuti, questa notte presso il carcere di Imperia. Come in quasi tutte le case circondariali del paese, i detenuti hanno protestato contro il sovraffollamento e lo hanno fatto in modo piuttosto rumoroso, tenendo svegli molti residenti, attorno al carcere imperiese. La prima “rivolta” è stata registrata tra mezzanotte e le 2 del mattino e, la seconda, tra le 4 e le 6. Classico il “modus operandi” della protesta, ovvero battendo le stoviglie contro le sbarre. Nulla di preoccupante, per fortuna, anche se la Polizia prima ed i Carabinieri poi, hanno provveduto insieme agli agenti della Polizia Penitenziaria, a tenere a bada la situazione. Qualche disagio, ovviamente per i residenti vicini al carcere. Napoli: omicidio nel quartiere di Poggioreale, vittima un detenuto 21enne in permesso Ansa, 20 maggio 2010 È un giovane di 31 anni, Emanuele Saulino, la vittima dell’omicidio avvenuto ieri a Napoli, nel quartiere di Poggioreale. Secondo quanto si apprende il ventunenne era un detenuto del carcere di Sulmona, che aveva ottenuto un permesso. Il trentunenne ucciso in un agguato ieri sera, a settembre del 2006 fu ferito dopo aver reagito, come denunciò alla polizia, a un tentativo di rapina di un rolex. L’uomo era stato da poco scarcerato grazie all’indulto. Agli agenti del drappello di polizia dell’ospedale Loreto Mare, Saulino raccontò che, mentre si trovava in piazza Mercato, era stato avvicinato da due giovani a bordo di un ciclomotore che gli avrebbero chiesto di consegnare il rolex. Di fronte al suo rifiuto, da uno dei due giovani era partito un colpo che lo ha ferito alla gamba. Ad aprile del ‘99, invece, era stato arrestato insieme ad altri tre complici, con l’accusa di far parte di una banda di rapinatori di negozi di telefonia della zona Vicaria Mercato. I quattro, in più di una circostanza, secondo l’accusa, entrarono negli esercizi armi in pugno e dopo la rapina scapparono su veloci moto. Immigrazione: permesso a punti per gli stranieri, sarà espulso chi ne ha zero Il Messaggero, 20 maggio 2010 Non scatterà subito, ma 120 giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Non dovranno sottoscriverlo tutti gli immigrati, ma soltanto quelli che entreranno per la prima volta nel territorio nazionale, presentando domanda di permesso di soggiorno. Se minorenni, con l’assistenza dei genitori: il regolamento si applica infatti allo straniero di età compresa fra 16 e 65 anni. E, infine, non sarà l’incubo che molti temevano: i crediti necessari a superare la prova sono 30, ma l’espulsione scatta soltanto per chi rimane a quota 0, ma basta scegliersi un medico di base iscritto nei registri delle Asl per ottenere 4 crediti. È finalmente pronto il testo finale dell’accordo di integrazione, volgarmente detto “permesso a punti”, e Roberto Maroni, ministro dell’Interno, sta facendo di tutto perché il Consiglio dei ministri lo approvi nella seduta di oggi pomeriggio. O quanto meno, ne avvii la discussione. Ne è passato di tempo, infatti, da quando, il 15 luglio del 2009, l’accordo è stato approvato all’interno del cosiddetto “pacchetto sicurezza”. È in gioco la credibilità dell’iniziativa, che ha visto lavorare per mesi i funzionari della Presidenza del Consiglio, del ministero del Lavoro, dell’Istruzione, oltre a quelli dell’Interno, e che è stata più volte annunciata in dirittura d’arrivo. Ma vediamo cosa prevede il regolamento, che è in quindici articoli con tre allegati, e che dopo il sì del Consiglio dei ministri passerà, come Dpr, alla firma di Napolitano. Lo straniero che vuole un permesso di soggiorno di durata superiore a 1 anno, dovrà recarsi allo “sportello unico dell’immigrazione”, presso la prefettura, e sottoscrivere l’impegno ad acquisire, nell’arco di due anni, un’adeguata conoscenza della lingua italiana: almeno il livello parlato A2, secondo la classificazione del Consiglio d’Europa, indispensabile per comunicare nella vita di tutti i giorni. Dovrà poi acquisire una conoscenza sufficiente della Costituzione e della vita civile in Italia, mandare a scuola i figli minori e sottoscrivere la Carta dei valori su cittadinanza e integrazione del 2007. Lo “sportello unico” entro un mese dalla domanda sottoporrà lo straniero a un breve corso di educazione civica, di durata da 5 a 10 ore, con test finale. Non organizzerà invece corsi di lingua, ma soltanto test: per studiare lo straniero dovrà rivolgersi, a quanto è dato capire, ad associazioni, enti locali, consigli territoriali per l’immigrazione. L’accordo di integrazione, infatti, non ha una dotazione finanziaria. Se lo straniero non riesce a raggiungere nell’arco di due anni i 30 crediti previsti otterrà un anno di proroga. Alla fine riceverà un attestato, e con più di 40 punti otterrà agevolazioni per la fruizione di specifiche attività culturali e formative. Se rimane senza attestato, con punteggio da 1 a 29, niente paura. Potrebbe solo incontrare qualche ostacolo se un giorno richiedesse il permesso permanente o carta di soggiorno, perché la legge prevede che si valuti anche l’inserimento sociale dello straniero, così come nella richiesta di cittadinanza per naturalizzazione. La lettura del testo ridimensiona anche il timore che bastasse una semplice multa di un vigile per vedersi decurtare il credito: la sanzione deve essere di almeno 10 mila euro, e bisogna attendere l’esito dell’eventuale ricorso. Curiose, poi, alcune valutazioni: appena 6 crediti per un’onorificenza, magari la medaglia d’oro per aver salvato dall’annegamento un bagnante, più o meno gli stessi previsti per la scelta del medico. Infine: ce la faranno gli sportelli unici, già oggi oberati di lavoro per il rilascio dei permessi di soggiorno, a curare la regia dell’accordo? E per fortuna che non si applica ai rinnovi.