Giustizia: adesso sul destino della legge “svuota-carceri”… c’è puzza di bruciato di Alessandro Pallaro www.periodicoitaliano.info, 17 maggio 2010 “Le vicende riguardo il piano carceri e le polemiche seguite alla discussione in commissione Giustizia dimostrano una cosa evidente: il carcere non interessa a nessuno e il destino dei detenuti è legato sempre più a una scelta di convenienza politica più per l’elettorato leghista che per il Paese intero”. A renderlo noto è stato il Segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, che interpellato dal web magazine www.periodicoitaliano.info ha dato una propria personalissima versione dei contrasti sorti tra il ministro Alfano e quello degli Interni, Roberto Maroni. “È strano: - ha spiegato il sindacalista - se i due ministri non si sono parlati in sede di Consiglio dei ministri prima che il provvedimento svuota carceri approdasse in parlamento, allora vuol dire che esiste una questione politica grave. Una questione ancor più grave se, invece, lo hanno fatto. È infatti evidente, a questo punto, quanta strumentalizzazione ci sia nell’aria e come la politica giochi con il destino di quasi 70 mila detenuti. È altresì evidente come su un provvedimento più volte annunciato e rimandato - quello del piano carceri - si stia scatenando una guerra, che non esitiamo a definire elettorale. C’è puzza di bruciato. Lo prova il fatto che Maroni ha aspettato fino ad adesso per dire la propria come ministro degli Interni circa il provvedimento sulla messa alla prova e sul carcere domiciliare, sulla possibilità cioè di far scontare a casa chi deve estinguere un periodo di detenzione residuale di un anno: perché, alla luce delle preoccupazioni espresse nei giorni scorsi dal Vice Capo della Polizia? Il sistema penitenziario è in sul punto di esplodere e c’è preoccupazione per la “liberazione” di 10 mila detenuti, considerati potenziali delinquenti benché in genere si conoscano benissimo le statistiche sulla recidiva di chi espia la pena fuori: per dirla in cifre, 19 su 100 sono i detenuti che tornano a delinquere una volta fuori. “E questi sono i dati ufficiali. Ma, a parte questo”, ha aggiunto Segretario generale dell’Osapp, “adesso la politica si sveglia e si pone quegli stessi interrogativi che la nostra categoria manifesta da un’eternità. Perché porre adesso la questione dell’ordine pubblico, della gestione delle forze sul territorio e dell’incremento degli organici? Perché di fronte a determinate criticità, che sono anche legittime, sollevate da un autorevole esponente della Polizia di Stato, si è pronti a discutere? Ma prima, dov’era il ministro degli Interni? Sono argomenti, questi, che noi, poliziotti penitenziari, da tempo rappresentiamo a ogni ministro della Giustizia e presidente del Consiglio che si avvicendi, a dimostrazione che i problemi legati al carcere sono ormai atavici”. Giustizia: Pm Borraccetti; basta tossicodipendenti in carcere. Sottosegretario Casellati: ci pensiamo di Michela Nicolussi Moro Corriere Veneto, 17 maggio 2010 Circolare sui reati minori, il sottosegretario al procuratore: “Nessuna ispezione, il ministro è con lei”. E sul Due palazzi: “Peggio di Poggioreale”. Dopo la circolare emanata dal procuratore capo di Venezia, Vittorio Borraccetti, che ha sollevato il problema del sovraffollamento delle carceri, il Corriere del Veneto ha voluto organizzare un forum per approfondire il tema della sicurezza e della giustizia. Sabato in redazione, oltre al procuratore, il sottosegretario alla Giustizia Elisabetta Casellati (Pdl), il consigliere regionale Piero Ruzzante (Pd), il segretario nazionale del Sap Michele Dressadore e l’ex generale dei carabinieri Eduardo Sivori. Procuratore la sua circolare sta facendo molto discutere. Ne è pentito o sempre convinto? Vittorio Borraccetti: “Non ritengo di aver fatto niente di originale. La direttrice del carcere di Santa Maria Maggiore (Irene Iannucci, ndr) mi aveva ripetutamente segnalato una situazione di emergenza, con note che mi arrivavano tutti i giorni: diceva non che non c’erano più posti in carcere, ma che non c’erano più materassi per mettere le persone a dormire nei luoghi diversi dalle celle, quelli di socializzazione e non destinati a ospitare i detenuti. Ho fatto l’unica cosa che era nelle mie possibilità, ho cercato di agire sul turn-over, cioè su quel numero di detenuti che va in carcere, ci sta pochi giorni e poi esce perché il giudice o assolve o concede i benefici della condizionale oppure non emette la misura cautelare. Ho ricordato due norme vigenti. La prima sugli arresti in flagranza per i reati di competenza del giudice monocratico prevede che la polizia giudiziaria presenti direttamente l’arrestato davanti al giudice e lo porti in carcere solo se lo ordina il pm. La seconda dice al pm: se non trovi ragioni per chiedere la misura cautelare al giudice, libera. E io l’ho ricordata ai sostituti. Negli anni passati avevo già fatto una cosa del genere, la questione era stata affrontata più volte in sede di Comitato per l’ordine e la sicurezza, sempre con questa impostazione. Mi pare che gli altri procuratori facciano la stessa cosa, è conforme alle norme di legge”. Elisabetta Casellati: “La circolare non era nota al ministero ma quando l’ho vista non ho avuto nulla da eccepire, è un’applicazione delle norme vigenti, il mio punto di vista e quello del governo è che sia corretta. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, non ha nessuna intenzione di inviare gli ispettori, perché il provvedimento fa riferimento a un problema che anche per noi costituisce un’urgenza sociale. Tant’è che abbiamo dichiarato lo stato di emergenza per le carceri, scegliendo forse la strada più difficile per farvi fronte, la ristrutturazione edilizia, e non la via che negli ultimi sessant’anni è sempre stata percorsa, quella degli atti di clemenza. Abbiamo visto che comunque le carceri poi si ripopolano, optando dunque per un progetto strutturale che potesse reggere nel tempo. Ogni mese c’è un ingresso di circa 700 carcerati, la situazione è drammatica, anche sul fronte della funzione rieducativa. Chiunque deve scontare il proprio debito nei confronti dello Stato, ma il carcere deve svolgere anche un compito di reinserimento: se c’è sovraffollamento è molto più difficile espletarlo”. Aspettando le nuove carceri, cosa si può fare per gestire l’emergenza? “C’è il disegno di legge sull’ultimo anno da scontare ai domiciliari in discussione alla Camera, che dovrebbe portare fuori dagli istituti di pena italiani almeno 5 mila detenuti (700 in Veneto, ndr). La valutazione la faranno i magistrati di sorveglianza, che però su questa norma mi hanno molto sollecitata e questo la dice lunga sul fatto che verrà applicata. E poi ci sarà la messa in prova, oggi stralciata perché necessita di maggiori approfondimenti, infine confido in una revisione dei codici penale e di procedura”. Quali misure contempla per il Veneto il piano carceri? “Padova soffre molto, sono preoccupata, dobbiamo ampliare il circondariale. Sono andata di recente a visitare Poggioreale, considerato l’esempio negativo delle carceri italiane, e devo dire che il reparto “Napoli”, il più disagiato, è messo meglio del reparto padovano che ho visto io. Il direttore di Poggioreale mi ha accolta dicendomi: “Qui è un disastro”. Quando ho visto sette letti al massimo in celle abbastanza capienti, ho risposto: “A Padova siamo messi peggio”. E così ho chiesto al governo 10 milioni di euro per finire il Due Palazzi. Il piano prevede poi posti in più a Rovigo e un carcere nuovo a Venezia”. La stessa problematica vista dal centrosinistra? Piero Ruzzante: “La circolare di Borraccetti è perfettamente in linea con quanto prevede la Costituzione, che dice: la pena non sia inumana e soprattutto il carcere tenda alla riabilitazione del detenuti, restituisca non dei laureati del crimine ma persone migliori, che non delinquino più. Dobbiamo partire da questo presupposto, altrimenti avremo fallito. Il 69% dei reclusi usciti di cella dopo l’ultimo giorno di pena tornano a compiere reati. È invece recidivo solo il 19% di coloro che nella fase finale della detenzione vengono affidati in prova a servizi, inseriti in contesti educativi, lavorativi e culturali”. Quali errori ha commesso, in tema di sicurezza, il centrosinistra? “Su questi temi non c’è uno spartiacque tra centrodestra e centrosinistra, tanto è vero che io e la senatrice Casellati abbiamo votato insieme l’ultimo indulto”. Elisabetta Casellati: “Sì, un errore”. Piero Ruzzante: “Vabbè, un errore, però l’abbiamo votato”. Vittorio Borraccetti: “No l’errore è come l’avete concepito, non l’indulto in sé, perché vi sono stati inseriti reati molto gravi, come l’omicidio, e ne sono stati esclusi altri meno gravi”. Piero Ruzzante: “Il problema non si risolve semplicemente costruendo nuove prigioni. Non basteranno mai se continuiamo a produrre leggi che portano in cella gente che non ha commesso reati, come i clandestini. Bi sogna poi considerare il reato e la pericolosità sociale del suo autore, perché molti detenuti possono essere avviati a misure alternative, in quanto non rappresentano una minaccia per la comunità”. I sindacati di polizia dicono che la circolare-Borraccetti delegittima il lavoro delle forze dell’ordine. In che senso? Michele Dressadore: “Ha una ricaduta negativa sotto l’aspetto che a noi interessa, quello pratico: in attesa della direttissima, l’arrestato non associato al carcere dev’essere sorvegliato dalla pattuglia che l’ha preso, così sottratta al controllo del territorio. A cascata il problema delle carceri ce lo troviamo in mano noi e la cosa ci mette in grave difficoltà”. Vittorio Borraccetti: “Una pattuglia che compie l’arresto non può tornare subito sul territorio, deve portare il soggetto preso in flagranza in questura e adempiere a tutti gli atti che servono”. Michele Dressadore: “Questo fa emergere in maniera ancora più eclatante i difetti del sistema che stiamo lamentando da tempo. Non c’è un’altra persona che possiamo richiamare per fare la vigilanza, anche completati gli atti il personale deve rimanere a vigilare l’arrestato o il compito passa ai colleghi del turno successivo, distolti dal controllo del territorio. Questi sono gli organici e poi dagli anni ‘90 c’è stata una specie di dismissione delle celle di sicurezza, già brutte prima, perché l’idea era che gli arrestati in flagranza dovessero andare in carcere. Adesso le celle di sicurezza, circa due per questura, vanno riadattate, ma resta una soluzione per la quale non siamo attrezzati, non siamo in grado di dare i pasti. O li pagano gli agenti, come succede nel 99% dei casi, oppure si dovrebbe farli arrivare dall’amministrazione penitenziaria, ma per poche ore di permanenza non vale la pena”. Vittorio Borraccetti: “Parliamo di arrestati in flagranza per reati minori, assistiti dalla presunzione della non colpevolezza, quindi il punto è di non mandarli in carcere se non è necessario. Abbiamo da anni un sistema nato per evitare che vadano in cella se il pm non dispone in tal senso, con un duplice scopo: non far provare il trauma della prigione a persone che potrebbero essere scarcerate due giorni dopo, perché assolte o condannate a pena minima o arrestate in assenza dei requisiti, e di non intasare le case circondariali. Qui parliamo di diritti delle persone, di norme di legge: tutto il resto, comprese le rivendicazioni sindacali e la difficoltà di avere celle di sicurezza e personale necessario alla vigilanza, vengono dopo. Dovete mettervi in testa questo, perché questo è lo stato di diritto. Non potete dire non osservo la legge perché mi dà fastidio o mi crea problemi, non accetto che qualcuno possa dire la legge c’è ma non la osservo perché non ho le camere di sicurezza. Io rispondo: fatele. Dopodiché non ho mai detto che dobbiamo fregarcene della difficoltà della polizia, tutt’altro, tanto che i pm hanno istruzioni che se l’arresto si fa di venerdì pomeriggio non si può accollare una persona a una struttura di polizia fino al lunedì. Se però tutto si risolve nelle 24 ore si può fare, dobbiamo dare una gerarchia alle cose, prima viene la legge”. Il problema diventa politico, ci sono problemi di organico e di fondi. Elisabetta Casellati: “Abbiamo previsto l’assunzione di 2 mila poliziotti penitenziari e 600 milioni di euro per l’edilizia, e deciso di avviare accordi bilaterali con i Paesi di origine dei detenuti perché possano scontare la pena a casa loro. Occorre però il consenso del detenuto e finora non ce n’è stato nemmeno uno: nonostante il sovraffollamento, nessuno se ne vuole andare dall’Italia. Comunque la soluzione al dramma carceri deve contemplare più interventi: nuove carceri, potenziamento degli agenti, accordi bilaterali, ddl Alfano, messa in prova, rivisitazione di alcune norme e differenziazione tra carceri pesanti e leggere, queste ultime dedicate a chi è in attesa di giudizio. Io sono poi molto favorevole, e le Regioni dovrebbero darci una mano con gli stanziamenti, al fatto che i tossicodipendenti scontino la pena nelle comunità. È allo studio un progetto che rende questo passaggio automatico”. Eduardo Sivori: “Il problema è gravemente strutturale. A fronte di 2 mila nuovi agenti, perché nessuno dice che l’Arma sta scendendo di organico per il blocco del turn-over e nel 2013, quando compirà 200 anni, avrà 83 mila carabinieri contro i 120 mila di alcuni anni fa? Ma intanto le incombenze sono raddoppiate. Stesso discorso per la polizia. Mandare i detenuti stranieri nei loro Paesi a scontare la pena? Da noi ogni recluso costa 350 euro al giorno, se a grande sorveglianza fino a mille, il poliziotto penitenziario 100. Gestito come in albergo a 5 stelle a Bucarest costa 100 euro, se noi ne diamo 200 alla Romania ci guadagniamo, il detenuto torna a casa sua e il cittadino è più tranquillo. È l’uovo di colombo?”. Piero Ruzzante: “Dobbiamo uscire dalla caratteristica italiana di affrontare i temi sempre e solo se legati all’emergenza. Quando la politica capirà che forse si può da un lato depenalizzare i reati minori e dall’altro avviare i detenuti non socialmente pericolosi a misure alternative, avrà imboccato la strada giusta”. Vittorio Borracetti: “Il problema di fondo è la riforma del diritto penale. Se vogliamo dare una risposta strutturale è una sola la strada possibile: dobbiamo mandare in carcere il meno possibile. Limitarci a farlo laddove non è configurabile ai fini di difesa della società nessun altro tipo di sanzione, sia per efficacia deterrente sia perché non hai altro modo di difenderti dall’aggressione che la persona ha portato all’interesse della collettività o del singolo. Tutto il resto deve essere trattato con pene diverse, bisogna non solo ridurre l’area del diritto penale ma anche evitare le penalizzazioni. Negli ultimi anni abbiamo avuto un’estensione enorme del diritto penale, spesso con norme che applichi poco e male, come la clandestinità, reato che dal punto di vista pratico non ha nessuna efficacia. In cella devono andare solo le persone davvero pericolose per reati molto gravi”. Elisabetta Casellati: “Non possiamo non punire più chi delinque perché le carceri sono piene, dobbiamo trovare una soluzione che coniughi la certezza della pena alla riabilitazione. Sulla depenalizzazione dei reati bagatellari va fatta una riflessione, che non è semplicissima”. Vittorio Borraccetti: “Lei prima ha espresso un concetto importantissimo: per i tossicodipendenti non carcere ma comunità. Basterebbe già questo”. Elisabetta Casellati: “Ci stiamo pensando, l’ho detto. Quanto al reato di clandestinità va perseguito. Il povero disgraziato arriva da noi senza lavoro, senza casa, è già indebitato in partenza perché deve pagare i traghettatori, se non trova un’occupazione che fa? È costretto a delinquere e, le donne, a prostituirsi. Gli irregolari vivono ai margini della società, in condizioni precarie e noi vogliamo evitarlo, offrendo alla gente concrete possibilità di vivere dignitosamente. Sennò è falsa solidarietà, ipocrisia. Comprendiamo chi arriva in condizioni disperate in Italia, ma non possiamo per questo giustificare la delinquenza. Dobbiamo punire chi sbaglia”. Vittorio Borraccetti: “Si può punire in modo diverso dal carcere. Invece di costruire un reato in cui scrivo chi viola la legge è punito con l’arresto da sei mesi a tre anni, una pena cioè che nessuno farà mai, scrivo una sanzione diversa, patrimoniale, ti porto via la possibilità di avere un’autorizzazione, ti faccio perdere un diritto, ti obbligo a fare dei lavori. I reati puniti col carcere sono tanti, perché tante sono le aggressioni ai beni fondamentali della collettività e della persona, però nel corso dell’esecuzione si possono trovare misure alternative. Escluso il campo dei reati gravi, quelli per esempio di violenza alle persone. Per esempio hanno funzionato bene i provvedimenti che impediscono ai tifosi violenti di andare allo stadio, molto più efficaci dei sei mesi con la condizionale per aggressione a pubblico ufficiale. Io poi sono sensibile ai gesti vandalici su edifici pubblici: gli autori possono essere condannati a lavori socialmente utili. Se la misura alternativa non funziona, c’è il carcere”. Cosa crea allarme oggi, in Veneto? Vittorio Borraccetti: “La droga. Le forze di polizia hanno un buon controllo del territorio in generale, ma c’è una grande diffusione del consumo di sostanze stupefacenti, alla base di tanti procedimenti per reati correlati. La Direzione distrettuale antimafia di Venezia fa soprattutto indagini per narcotraffico, che riguardano tutta la regione. Un’altra piaga è lo sfruttamento violento della prostituzione, derivata dalla tratta di esseri umani e dalla riduzione in schiavitù. Terzo tasto dolente il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che crea le condizioni per cui l’irregolare possa delinquere o essere sfruttato. Va allora favorita l’emersione. Non è che tutti i clandestini delinquino, ma sono esposti al ricatto di chi li ha portati illegalmente in Italia e possono essere sfruttati, in nero e dalla criminalità marginale. Diventano vittime due volte”. Giustizia: Vespa; arresti domiciliari per i detenuti meno pericolosi, è l’unica soluzione di Bruno Vespa Panorama, 17 maggio 2010 La sera di giovedì 6 maggio, rientrando in aereo a Roma con Gianfranco Fini da Tirana, dove avevamo partecipato a un dibattito sull’immigrazione, gli mostrai dall’alto il mostro edilizio di Corviale, frutto dell’edilizia “democratica” degli anni Settanta e che il nuovo assessore alla Casa della Regione Lazio, Teodoro Buontempo, vuole abbattere. “Sarebbe un carcere perfetto” gli dissi. Fini annuì al paradosso. Facciamo un passo indietro di otto mesi. L’Aquila, 15 settembre 2009: dopo aver inaugurato a Onna l’asilo costruito coi soldi raccolti da Porta a porta, Silvio Berlusconi si fermò a vedere le prime costruzioni di case antisismiche alla periferia dell’Aquila. “Costano poco e le abbiamo costruite in tre mesi” mi disse. “Penso di farne di simili per tamponare l’emergenza carceraria”. Non ha senso, infatti, ospitare nelle stesse strutture assassini incalliti, pericolosi rapinatori, spacciatori professionali di droga e detenuti per reati minori, prossimi alla scarcerazione. E meno che mai i detenuti in attesa di giudizio (salvo i casi di oggettiva pericolosità) che sono presunti innocenti. I detenuti oggi sono in Italia 67.450 (25 mila stranieri), di cui soltanto 35 mila condannati. Trentamila non hanno ancora avuto un processo. Bene, che fine ha fatto il progetto di Berlusconi? Il 29 aprile Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha presentato il piano al ministro Angelino Alfano: 11 nuove strutture simili a quelle realizzate all’Aquila per 5 mila posti. Parte saranno nuovi padiglioni da costruire in penitenziari esistenti, parte saranno strutture autonome che richiederanno minori spese per sicurezza e sorveglianza. In un tempo ragionevole dovrebbero essere agibili. Basteranno? Tra 1991 e 2006 i detenuti crebbero di 30 mila, da 31 mila a 61 mila. Il condono li riportò a 38 mila, ma in tre anni e mezzo sono cresciuti di nuovo di 30 mila, come nel quindicennio precedente, e aumentano di 2 mila unità all’anno. In attesa di avere nuove celle, Alfano alleggerirà le carceri in vista dell’estate, quando il caldo può creare molte tensioni. Le leggi premiali hanno annullato le rivolte degli anni Settanta, ma se i posti regolamentari in carcere sono 44 mila e a stipare le celle se ne possono aggiungere altri 20-22 mila, siamo fuori dai limiti di guardia. Di qui la proposta di mandare agli arresti domiciliari i detenuti che hanno meno di un anno da scontare, aumentando le pene per l’evasione. Roberto Maroni, ministro dell’Interno, all’inizio favorevole, si è poi opposto: gli servirebbero troppi uomini per i controlli e poi la gente non vuole i delinquenti ai domiciliari. Trattativa faticosa e alla fine, martedì 11 maggio, il compromesso: sarà il giudice di sorveglianza ad avere l’ultima parola sui domiciliari al detenuto, mentre resta fissato a un anno il periodo di pena da scontare in casa. Quanti usciranno? Forse 2 mila persone, il turnover per stabilizzare il numero di detenuti e chiudere l’emergenza con l’apertura delle nuove carceri “flessibili”. Giustizia: violenza di Stato e dibattito sul reato di tortura, una questione ancora aperta di Loredana Biffo Aprile on-line, 17 maggio 2010 Sembrano lontani gli anni 70, ma fu proprio in quegli anni che qualcuno iniziò a parlare di forze dell’ordine al servizio del cittadino, di smilitarizzazione della P.S. In qualche modo pareva essersi avviato un nuovo percorso più democratico, per quanto fragile fosse. Poi i fatti di Napoli 17 marzo 2001 prima del G8 a Genova, e Genova stessa poco dopo giovani manifestanti furono illecitamente arrestati, picchiati, vessati e torturati. Questi fatti hanno avviato il paese ad una regressione repentina dello stato di diritto. Quello di Stefano Gugliotta, il venticinquenne arrestato il 5 maggio scorso, dopo essere stato percosso dalle forze dell’ ordine, in seguito al quale ha riportato ferite sulla testa, ematomi sulle gambe, lividi da manganelli sulla schiena e un dente rotto, oltre ovviamente uno stress psicologico, non è che l’ennesimo episodio di violenza da parte dello Stato su un cittadino. Tuttavia non è superfluo ricordare i casi di Federico Aldrovandi, un ragazzo di 18 anni morto a causa delle percosse degli agenti di polizia, Giuseppe Uva, Il recente caso di Stefano Cucchi massacrato quando era in stato di detenzione, impossibile non ricordare la struggente vicenda di Giuliana Masi uccisa a Roma il 12 maggio 1977 a soli 19 anni. Sembrano lontani gli anni 70, ma fu proprio in quegli anni che qualcuno iniziò a parlare di forze dell’ordine al servizio del cittadino, di smilitarizzazione della P.S. In qualche modo pareva essersi avviato un nuovo percorso più democratico, per quanto fragile fosse. Poi i fatti di Napoli 17 marzo 2001 prima del G8 a Genova, e Genova stessa poco dopo giovani manifestanti furono illecitamente arrestati, picchiati, vessati e torturati. Questi fatti hanno avviato il paese ad una regressione repentina dello stato di diritto. Domandiamoci che Stato è quello che permette tali violenze abiette, offensive della dignità e dell’incolumità della persona, oltre che delle pubbliche istituzioni, alimentate soprattutto dalla loro impunità, a sua volta conseguente dalla loro più o meno tacita legittimazione politica e culturale. Si pensi a tal proposito al Ministro Vito che ha tentato di spostare il focus gettando discredito su Stefano Gugliotta, un cittadino, che di fatto si trovava sequestrato dallo Stato dopo averne subito la violenza. Il Ministro ha fatto riferimento a segnalazioni e denunce nei confronti di una persona che al casellario giudiziario risulterebbe incensurata e senza carichi penali pendenti. È utile ricordare che una delle forme di habeas corpus, è proprio l’immunità da torture e da pene corporali. Si badi bene, che non si tratta di un problema puramente di carattere teorico e appartenente alla tradizione classica, settecentesca, del garantismo penale, ma di un problema di grande attualità, drammaticamente attuale, considerato che le sevizie su arrestati e detenuti in un paese di democrazia avanzata come il nostro, sono numerosi. Infatti le torture, come nel caso della Bolzaneto e della Diaz di Genova, nonché questi ultimi casi di ragazzi aggrediti e picchiati anche fino a causarne la morte, sono il frutto di esplicite direttive, rese possibili dal disprezzo assoluto per il diritto e per la la persona, e dalla logica di potere e violenza che in questi anni la politica ha volutamente e colpevolmente riportato in auge, come nelle migliori tradizioni illiberali e dittatoriali, siamo in presenza di una velocissima corrosione dei diritti umani. Non a caso negli Stati Uniti si era, tempo fa, aperto un dibattito sull’ammissibilità della tortura per casi “eccezionali” , come ad esempio ottenere informazioni importanti da un terrorista. Attenzione però, perché i casi di scuola sono sempre eccezionali, contrariamente ai casi pratici, dove una volta legittimata eccezionalmente la violenza, essa rischia di diventare un pratica ordinaria. È proprio per non consentire deroghe al principio, che le “eccezioni” sono state escluse dal diritto come cause di giustificazione della violenza che, secondo l’art. 2 secondo comma della Convenzione del 10 dicembre 1984, “nessuna circostanza eccezionale, di qualsiasi natura, compresi lo stato di guerra o la minaccia di guerra, la instabilità politica interna o qualunque altra pubblica emergenza, potrà giustificare la tortura. Né può essere invocato a tal fine, aggiunge il comma 3 medesimo art., l’ordine di un superiore o di una pubblica autorità”. La prima difesa della civiltà della nostra civiltà giuridica, è la riaffermazione che nel senso comune debba essere sempre rinnegata la violazione della persona, questo soprattutto contro i cedimenti demagogici della ragione, perché l’ interazione che sussiste tra diritto e senso comune che può preservarci contro il ripetersi di tali pratiche vergognose, la cui esistenza va ben oltre le aperte denunce, di fatto scoraggiate dal rischio che corrono i denuncianti di essere perseguiti per calunnia. È necessaria una stigmatizzazione e punizione, come delitto di “tortura”, di qualunque atto consistente, secondo la definizione all’art. 7 comma 2 lett. e dello Statuto della Corte penale internazionale adottato a Roma il 17.7.1998, “nell’infliggere intenzionalmente gravi dolori o sofferenze, fisiche o mentali, a una persona di cui si abbia la custodia o il controllo”. È evidente che in Italia è venuta a mancare questa garanzia, in quanto si applicano ai casi di vera e propria tortura, figure di reato del tutto sproporzionate alla loro gravità, come il generico “abuso di autorità” previsto dall’art. 608 del codice penale, o le comuni percosse e lesioni personali che sono punibili se lievi, a querela di parte, in contraddizione con l’indisponibilità dei diritti e la natura pubblica degli interessi lesi. Siamo di fronte ad una inaccettabile lacuna, non solo su un piano teorico, quale violazione della garanzia positiva dell’obbligo di punire come delitto la tortura, in Italia, contemplata dall’ art. 13 comma 4 della Costituzione, in base al quale si afferma che “punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà” . Da sottolineare che in poche materie come questa è peculiare la stigmatizzazione penale che ha un esplicito valore preformativo del senso comune e della deontologia professionale delle forze di polizia. Ha il valore di rimuovere eventualmente la cattiva coscienza del legislatore, dei giudici, e non meno della pubblica opinione non disposi a riconoscerla, riconoscere l’orrore e sollecitarne il rifiuto come vergogna indegna di uno stato di diritto, di un paese che abbia la pretesa di definirsi civile e democratico che contempli la sacralità e la inviolabilità del corpo e della psiche di una persona privata della libertà personale, alla quale non dovrebbero mai venire a mancare queste garanzie, chiunque l’abbia in custodia. Dire che siamo di fronte ad una inquietante retrocessione del grado di civiltà e democraticità di questo paese che sempre più tutela i forti e penalizza i deboli, mi pare davvero un eufemismo. Giustizia: Quinti (Fp Cgil); nelle carceri un doppio dramma, dei detenuti e degli agenti di Pasquale Giordano www.dazebao.org, 17 maggio 2010 Le carceri italiane stanno per esplodere. La situazione è caldissima sia per le condizioni di sovraffollamento delle carceri, ma anche per le condizioni in cui sono costretti a lavorare gli agenti di polizia penitenziaria. “Chi è al governo del Paese e ha precise responsabilità istituzionali non può più continuare a ignorare la realtà, ha il dovere e il potere di indagarne le ragioni e attuare immediate misure di contrasto al fenomeno. “Scriveva Francesco Quinti, Responsabile nazionale Comparto Sicurezza Fp Cgil, denunciando la morte di un giovane poliziotto in servizio presso il carcere di San Vittore. Lo abbiamo intervistato chiedendo di parlarci di questo giovane che si è suicidato, un episodio gravissimo quasi ignorato dai media. Cosa può aver spinto un giovane agente a togliersi la vita? Le ragioni non sono ancora chiare. Stiamo parlando di un ragazzo di 28 anni, che non aveva mai lasciato trasparire nessun sintomo di disagio. Purtroppo non è un caso isolato. Settanta poliziotti penitenziari in 10 anni hanno scelto di rivolgere la pistola contro se stessi per uccidersi. Ci interroghiamo di continuo sui motivi che possono spingere i colleghi a tanto. Proprio per questo, circa due anni fa, insieme con il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Ettore Ferrara, abbiamo cominciato a lavorare per creare dei punti d’ascolto. Voleva essere un modo per rendere questo lavoro meno pesante. Si possono ritrovare motivi tali da portare al suicidio nella situazione in cui il personale delle carceri deve operare? È una situazione insostenibile, soprattutto per chi lavora 24 ore al giorno in strutture sovraffollate. Il personale non è sufficiente a coprire tutti i turni, tanto da costringere i colleghi in servizio a turni sfiancanti, arrivando ad accumulare un monte straordinari anche di 60 ore ciascuno. Ci sono situazioni in cui è difficile osservare il riposo settimanale. Secondo le nostre stime servono più di 2000 uomini. In più deve tener presente che è molto difficile dialogare con i detenuti non italiani che non conoscono bene la nostra lingua. Ci sono delle situazioni complicate dei detenuti tossicodipendenti. C’è una difficoltà oggettiva a lavorare nelle carceri. Quando passi 8 o 10 ore di lavoro in queste condizioni, per più giorni consecutivamente, puoi essere preda dello stress da lavoro, che può diventare una patologia. Non possiamo escludere che questa condizione possa portare anche a compiere un gesto estremo. La priorità è quindi l’aumento del numero dei poliziotti? Implementare l’organico della Polizia Penitenziaria è una misura che va presa non per risolvere una situazione di emergenza, ma per permetterci di lavorare nella normalità. Non ha senso, però, pensare di poter risolvere il problema con il ddl Alfano, per altro emendato in alcune parti. Potrebbero usufruire della misura deflattiva (scontare l’ultimo anno agli arresti domiciliari, ndr) appena 1.500 - 2.000 persone. È una goccia nell’oceano. Come si è arrivati a questa situazione? Ci sono tre leggi che secondo noi hanno contribuito a creare l’emergenza aumentando le presenze nelle carceri. Stiamo parlando della Bossi-Fini sull’immigrazione, della Giovanardi-Fini sulla droga e della ex Cirielli sulla recidiva. Bisognerebbe avere il coraggio di ridiscutere queste leggi. Bisognerebbe mettere mano al codice per ridisegnare lo sconto della pena, per alcuni reati, in maniera diversa dalla carcerazione. Ci vuole coraggio di sperimentare nuove soluzioni come fu per la sperimentale “messa alla prova” che oggi è usata dal tribunale minorile. Il problema non si risolve di sicuro costruendo nuove carceri. Il piano carceri (Nuove carceri, nuovi padiglioni nelle carceri esistenti) necessita di almeno 4-5 anni. Mentre aspettiamo, però, dove potremo sistemare gli oltre 850 nuovi detenuti che ogni mese fanno il loro ingresso negli istituti di pena? Oggi ci sono 67700 detenuti in 206 carceri italiane che potrebbero contenere circa 20mila in meno. Il piano carceri non risolve il problema. Qual è la condizione dei detenuti? La loro condizione è altrettanto esasperante. Ci sono delle carceri in cui i detenuti sono costretti a dormire sui tavoli degli interrogatori, ci sono carceri in cui i detenuti dormono con i materassi per terra perché non c’è spazio nelle celle. Ma anche dove c’è spazio, vengono sistemati letti a castello che arrivano fin quasi al soffitto. Questo genera inevitabilmente tensione ed esasperazione. Stiamo andando incontro all’estate e la tensione è destinata a salire. Molte volte i colleghi sono riusciti a salvare dei detenuti prima che quest’ultimi riuscissero a farsi del male. Non appena un collega si rende conto della situazione di pericolo in cui si trova un detenuto fa partire subito una segnalazione alla Direzione del carcere e ai diretti superiori. Questa condizione di precarietà la viviamo al pari dei detenuti anche noi poliziotti. Ma tutte le carceri italiane hanno questi problemi? Assolutamente si! La situazione è grave nelle carceri di Piacenza e Bologna, ma anche a Pavia, ad Ancona e a Monte Acuto. In Sardegna, a Cagliari, dove i colleghi non riescono a riposare o a fare le ferie accumulando ferie pregresse da far spavento. Ci sono carceri in cui è difficile organizzare la traduzione dei detenuti fuori dal carcere. Non dovremmo limitarci solo a sorvegliare i detenuti, ma anche garantire la rieducazione e la reintroduzione dei detenuti nella società. Ma è solo teoria perché nella pratica diventa impossibile anche solo pensarlo. Cosa il sindacato per rivendicare i diritti di chi lavora in condizioni così disastrose? Cerchiamo di sensibilizzare l’opinione pubblica lavorando in collaborazione con associazioni che tutelano i diritti dei detenuti. Il Ministro e il capo del Dap conoscono molto bene la situazione. Il problema è che non riescono a mettersi d’accordo. Lo dimostra il fatto che “la messa alla prova”, inizialmente prevista anche per i detenuti maggiorenni, è stata successivamente stracciata in Commissione giustizia. Bisogna che ci si renda conto che l’emergenza carceri è un problema serissimo. O si interviene strutturalmente con un’azione che metta d’accordo l’intero parlamento, oppure si prendono dei provvedimenti seri per deflazionare le carceri. Nell’immediato anche a fronte di tante proteste, delle iniziative sindacali, della Funzione pubblica della Cgil, qualcosa si muove per affrontare i problemi di cui abbiamo parlato? L’amministrazione ha fatto una circolare indirizzata alle direzioni degli istituti di pena per evidenziare la necessità di tenere gli spazi aperti, quanto più possibile e nei limiti della detenzione carceraria, per evitare che i detenuti passino la maggior parte del tempo in celle sovraffollate. Questa misura, per quanto condivisibile, crea disagi ulteriori a noi poliziotti. Stiamo parlando di istituti vecchissimi, non c’è automazione e i colleghi sono costretti ad aprire e chiudere personalmente ogni cella. Devono seguire e sorvegliare i detenuti. È evidente che il compito diventa ulteriormente gravoso, ma sappiamo che è necessario percorrere una strada. Il ministro ha assicurato che avrebbe provveduto all’assunzione di circa 2000 agenti. Noi ci aspettiamo che mantenga gli impegni presi, ma non ci contiamo più di tanto. Sappiamo che mancano i fondi che possono permettere questo passo. Occorre un investimento all’altezza dei drammatici problemi che dobbiamo affrontare se non vogliamo che la situazione si aggravi sempre più diventi fino a non essere più gestibile. Giustizia: domani Festa della Polizia Penitenziaria; sindacati divisi, il Sappe non partecipa per protesta Ansa, 17 maggio 2010 Il sovraffollamento in crescita esponenziale che ha portato a oltre 67 mila i detenuti quando la capienza regolamentare delle 204 carceri italiane supera di poco i 44 mila posti; l’allarme provocato dai suicidi tra i detenuti (26 dall’ inizio dell’ anno) e tra il personale di sorveglianza (70 dal 2000); le polemiche sul piano di edilizia straordinaria messo in campo dal Governo, ma ancora al palo, per creare 20 mila posti in più. Cade in un momento molto particolare la festa della Polizia Penitenziaria. Martedì prossimo a Roma alla cerimonia per i 193 anni di fondazione del Corpo ci saranno il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il ministro della Giustizia Angelino Alfano, il capo del Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta. Non sarà compatto, invece, il fronte dei sindacati: il Sappe, il più rappresentativo, ha deciso di disertare la cerimonia in programma all’ Arco di Costantino, all’ ombra del Colosseo. “Non c’è nulla proprio nulla da festeggiare - ha spiegato il segretario Donato Capece -. Le carceri scoppiano e la classe politica assiste inerte all’implosione del sistema penitenziario”. La defezione punta a richiamare l’attenzione su una situazione che tutte le organizzazioni di categoria del personale denunciano da tempo: “Gli unici a pagare lo scotto di questo dramma sono gli agenti”, sempre più spesso vittime di aggressioni nei penitenziari dove, tra l’altro, molti detenuti hanno malattie infettive gravi. Il Sappe chiede al Guardasigilli e al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi “gesti concreti”, a cominciare dalla scelta di affidare ad un decreto urgente e non a un ddl l’ assunzione dei duemila nuovi agenti previsti per accompagnare il piano. Eugenio Sarno, segretario della Uil penitenziari, ha spiegato che solo “per il doveroso rispetto verso i nostri colleghi caduti e di quanti ogni giorno affrontano l’indicibile condizione penitenziaria” non si è deciso di boicottare la celebrazione. Anche l’Osapp ci sarà ma non nasconde le critiche: “È la nostra festa - dice il segretario Leo Beneduci -. Se le carceri scoppiano non è colpa della polizia penitenziaria ma della politica che sceglie vertici inadeguati”. La Polizia penitenziaria ha un organico di poco superiore alle 45 mila unità; le persone effettivamente in servizio sono circa 40 mila. I detenuti sono 67.500, 25 mila dei quali (il 37 per cento) stranieri. Il limite tollerabile è di 66.905. In conseguenza del sovraffollamento, la tollerabilità è stata sforata negli istituti di pena di 12 regioni. Tutte le altre, comunque, hanno superato la capienza regolamentare. Lettere: psicologi penitenziari; per il ddl Alfano necessario assumere educatori e psicologi di Anna Fasulo Lettera alla Redazione, 17 maggio 2010 Governo e deputati approvino emendamento di Donatella Ferranti sul Ddl Alfano per il rafforzamento del personale civile Dap necessario a completare i percorsi di recupero (educatori e psicologi). L’on. Donatella Ferranti, capogruppo del Pd nella commissione Giustizia della Camera,ha ragione da vendere quando dichiara che stanno adesso valutando se aderire o meno alla richiesta di un voto in sede legislativa sul testo modificato del ddl Alfano nel corso dei lavori in commissione e che ci sono ancora troppe questioni aperte fra le quali l’adeguamento del personale del comparto civile dell’amministrazione penitenziaria”necessario a completare i percorsi di recupero (educatori e psicologi). Riteniamo infatti che il Ddl Alfano non possa passare in sede legislativa senza l’approvazione dell’emendamento proposto dall’Onorevole Donatella Ferranti al Comma 8 bis , in quanto detto emendamento, inerente appunto all’adeguamento del personale civile dell’Amministrazione Penitenziaria, è indispensabile per l’attuazione dell’art. 1 comma 3 dello stesso Ddl Alfano. Infatti, alla luce degli emendamenti presentati dal governo e già approvati in Commissione Giustizia sul Ddl in questione, il Magistrato di Sorveglianza decide sulla relazione di comportamento inviatagli dall’istituto penitenziario che ospita il detenuto. Pertanto a fronte di una popolazione detenuta che ha raggiunto ormai le 67.500 unità, e secondo i dati resi noti dall’Amministrazione Penitenziaria, riferiti al mese di marzo 2010, a fronte di una carenza nazionale di educatori penitenziari del 44,61% senza l’incremento di organico degli educatori non sarà possibile rispondere tempestivamente all’aumento delle incombenze del personale pedagogico direttamente interessato alla stesura di dette relazioni comportamentali. Ricordiamo che secondo la vigente normativa penitenziaria, infatti, l’educatore è colui che osserva il comportamento del detenuto, utilizza i dati di conoscenza ed esperienza che altre persone a contatto con i soggetti in osservazione avranno modo di rilevare (Circ. Dap n. 2598/5051), è colui che coordina la propria azione con quella di tutto il personale addetto alla rieducazione ( art. 82 O.P.), formula le indicazioni in merito al trattamento del detenuto (art. 82 P.P., Circ. n. 2625/5078 del 1.8.79, D.P.R. 1219 del 29.12.84, Circ. 3337/5787del 07.02.92), compila e revisiona i programmi di trattamento rieducativo, invia i programmi di trattamento al Magistrato di Sorveglianza per l’approvazione, stende il rapporto di sintesi ( Circ. 3337/5787e Circ. 2598/5051). La Magistratura di Sorveglianza, dunque, si avvale proprio delle diagnosi e della prognosi dell’educatore, ovvero quella figura professionale definita “tecnico del comportamento”, il quale sollecita e promuove - nella materia della tossicodipendenza e alcool dipendenza - la collaborazione e la partecipazione di Regioni Province e Comuni, Asl Comunità Terapeutiche enti e associazioni (Circ. Dap n. 3337/5787), attua ai sensi del T.U. 309 del 1990 il trattamento socio-sanitario e gli interventi di cura e riabilitazione in favore di detenuti e internati sia tossicodipendenti che alcooldipendenti al fine del loro recupero e reinserimento sociale. Quando il terzo comma del Ddl Alfano parla della relazione dell’istituto da inviare al Magistrato di Sorveglianza intende proprio quella relazione di sintesi redatta dall’educatore. Con l’attuale rapporto tra numero di educatori presenti nelle nostri carceri e numero di detenuti, (stando a quanto emerge da uno studio condotto da Carcere Possibile Onlus, ad oggi il rapporto educatore/detenuto è di circa 1 a 1.000) non è, e non sarà, mai possibile una corretta applicazione delle previsioni della legge. Attività di osservazione, formulazione di programmi di trattamento, applicazione di questi, valutazione e correzione dei medesimi, raccolta dei dati per l’applicazione delle misure alternative, ecc., senza l’approvazione dell’emendamento citato sono destinate a rimanere sostanzialmente sulla carta se non si arriva a rapporti numerici meno proibitivi, né tantomeno sarà possibile stendere relazioni comportamentali da inviare alla Magistratura di sorveglianza la quale non potendo decidere sul nulla, sarà costretta a rinviare la decisione e a non poter concedere la misura alternativa a cui il Ddl suddetto fa riferimento. Senza l’incremento di unità di personale pedagogico la situazione del sovraffollamento carcerario non potrà essere risolta, né potrà trovare soluzione la drammatica situazione in cui versano le carceri italiane. Pochi educatori significa poche relazioni da inviare al Magistrato di Sorveglianza. Pochi educatori significa impossibilità di attuare l’Ordinamento Penitenziario. Inoltre, l’affermazione del sottosegretario Caliendo sulla mancanza di copertura finanziaria per l’incremento del personale del comparto civile Dap, ed in particolare degli educatori, appare in palese contraddizione con l’emendamento già presentato dal governo relativo all’adeguamento di organico della polizia penitenziaria. Non si capisce infatti, quali siano queste ragioni tecniche ostative all’aumento di organico del comparto civile del Dap né perché le stesse considerazioni non valgano anche per il Corpo di Polizia Penitenziaria. Si evidenzia, per di più, che il “decantato” vulnus di copertura finanziaria può essere sanato attingendo dai fondi della Cassa delle Ammende che secondo quanto disposto dall’art. 129, III comma del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, devono essere destinati ai programmi che tendono a favorire il reinserimento sociale dei detenuti e degli internati anche nella fase di esecuzione di misure alternative alla detenzione e non all’edilizia penitenziaria. Qualora il Governo non intenda attingere i fondi necessari dalla Cassa delle Ammende potrebbe, altresì, ricavarli dalle risorse del Fondo Unico Giustizia, visto che il Presidente del Consiglio dei Ministri ha firmato il decreto che assegna per la prima volta le quote delle risorse sequestrate alla mafia e i proventi derivanti dai beni confiscati al Fondo Unico Giustizia, nella misura del 50% al Ministero dell’Interno e del 50% al Ministero della Giustizia. Grazie all’uso di questi fondi non vi sarebbe alcun onere aggiuntivo in quanto gli stessi sono già previsti in bilancio, mentre le imprescindibili ragioni su esposte evidenziano la necessità di un piano straordinario di assunzione di nuove unità di educatori penitenziari, sino alla copertura delle reali esigenze degli uffici ed al completamento della reale pianta organica prevista, da attingersi dagli idonei della vigente graduatoria risultata dal concorso pubblico per esami a 397 posti nel profilo professionale di Educatore, Area C, posizione economica C1, indetto con PDG 21 novembre 2003, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 30 del 16 aprile 2004. Per le ragioni suesposte riteniamo che l’emendamento presentato dall’on. Donatella Ferranti e Schirru sia una vera proposta “bipartisan” che debba necessariamente trovare accoglimento da parte di tutti i deputati a prescindere dal partito politico di appartenenza, senza distinzione fra destra e sinistra, e dallo stesso governo per un chiaro e ben preciso impegno di responsabilità. Anna Fasulo Membro del Comitato vincitori e idonei concorso educatori penitenziari Siracusa: suicida in cella nel carcere di Cavadonna, a togliersi la vita un detenuto napoletano di 45 anni di Sergio Molino Giornale di Siracusa, 17 maggio 2010 I sindacati tengono il conto degli assordanti numeri che documentano la silenziosa strage consumata dietro le sbarre degli affollati penitenziari italiani. La 26ma vittima dell’anno è un uomo di 45 anni, Domenico Franzese, originario di Afragola, condannato ad una pena definitiva che avrebbe terminato di espiare a ottobre del prossimo anno, che si è impiccato ieri mattina all’interno del carcere di Cavadonna. La notizia è stata diffusa da un comunicato stampa emesso dalla Uil Pa Penitenziari. L’uomo era stato trasferito, da pochi giorni, a Siracusa proveniente dal carcere di Poggioreale e si trovava rinchiuso in una cella del reparto accettazione. “Non potremo mai abituarci a questi rintocchi delle campane a morto che, purtroppo, stanno diventando la colonna sonora che accompagna il nostro agire quotidiano. Appena ieri - ricorda Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Pa Penitenziari - abbiamo accompagnato nell’ultimo viaggio un nostro giovane collega suicidatosi, ed è il terzo in quindici giorni. Tra qualche ora si celebrerà a Roma l’Annuale della Polizia Penitenziaria. Abbiamo deciso di partecipare in segno di rispetto ai nostri caduti e verso coloro che ogni giorno prestano, con dovere silente e sofferto, servizio nelle frontiere della civiltà, in quelle discariche umane che sono le nostre prigioni. Parteciperemo in silenzio. Un silenzio che accusa più di ogni protesta, più di ogni manifestazione. Siamo davvero curiosi di ascoltare le parole del Presidente Napolitano e del Ministro Alfano. La straordinarietà del momento, sono certo, impedirà loro di pronunciare discorsi effimeri, vuoti, demagogici, inutili. Speriamo - conclude il Segretario della Uil Pa Penitenziari - di ascoltare parole di conforto, di speranza, di vicinanza. Soprattutto auspichiamo che i soliti annunci e le solite promesse siano sostituiti da fatti concreti ed utili a risolvere, sebbene parzialmente, gli annosi, gravissimi, problemi dell’universo carcerario. La politica e i politici hanno il dovere morale e politico di indicare un percorso e offrire soluzioni”. In ambito locale la precarietà della condizione carceraria è stata più volte evidenziata dalle organizzazioni sindacali di categoria. È di alcuni giorni fa la proclamazione dello stato di agitazione indetta dall’Ugl Polizia Penitenziaria del personale operante all’interno della casa di reclusione di Augusta con la sospensione di tutte le attività extra quali palestra, campo, scuola e passeggio, che costringe gli agenti, in carenza di organico, a sopportare turni estenuanti con grave pregiudizio per la sicurezza e l’incolumità di poliziotti e detenuti. Il vice segretario nazionale, Sebastiano Bongiovanni, ha inoltre sollecitato un incontro con il prefetto per trattare la spinosa vicenda che riguarda anche l’indebolimento strutturale dell’istituto di pena megarese. Torino: maxi-rissa tra detenuti extracomunitari nel carcere delle Vallette, feriti anche cinque agenti Ansa, 17 maggio 2010 Una maxi-rissa tra i detenuti extracomunitari del carcere torinese delle Vallette: è avvenuta ieri, nel cortile della prigione, durante l’ora d’aria. Cinque agenti della polizia penitenziaria, in servizio al carcere torinese delle Vallette, sono rimasti feriti nel sedare la maxi rissa scoppiata oggi all’ora di pranzo. Ricoverati in ospedale per le cure del caso, sono stati dimessi con prognosi di dieci giorni. Tre di loro, inoltre, dovranno sottoporsi nei prossimi giorni alla profilassi per evitare l’eventuale contagio di malattie come la tubercolosi. Nella rissa erano rimasti feriti anche alcuni detenuti stranieri. Protagonisti dello scontro un gruppo di marocchini e alcuni senegalesi. Solo l’intervento tempestivo della polizia penitenziaria è riuscito a riportare la calma. Sono diversi i feriti, che sono poi stati curati in infermeria. Tra loro anche cinque agenti. Tre di loro dovranno sottoporsi nei prossimi giorni alla profilassi per evitare l’eventuale contagio da malattie come la tubercolosi. L’episodio è stato rivelato da alcuni agenti che si trovavano nel carcere al momento della rissa. Calci, pugni e colpi che hanno costretto la polizia penitenziaria ad un intervento in massa per riportare la calma. A scatenare la violenza sarebbe stato il trasferimento di un marocchino da una sezione all’altra. “Ancora una volta la polizia penitenziaria ha dato prova di grande professionalità e senso del dovere”, ha sottolineato il segretario regionale dell’Osapp, Gerardo Romano. “Da mesi gli agenti - ha aggiunto il sindacalista - lavorano in situazioni estreme, causate dalla carenza di mezzi e organici e dall’ormai insostenibile sovraffollamento. Ora più che mai - ha sottolineato - è necessario un intervento tempestivo delle autorità competenti”. Oristano: impresa incaricata di costruire il nuovo carcere verso il fallimento, opera a rischio La Nuova Sardegna, 17 maggio 2010 L’inchiesta nazionale sugli appalti pubblici non ha toccato il nuovo carcere di Oristano. La magistratura sta indagando, per ora, solo sull’appalto del carcere di Sassari, che il Provveditorato per le opere pubbliche del Lazio e Sardegna ha affidato al gruppo Anemone. L’appalto del nuovo carcere di Oristano è stato affidato invece alla società di costruzioni del gruppo Intini di Bari, per un importo di circa 40 milioni di euro. C’è comunque poco di cui gioire perché se la nuova struttura che sta sorgendo a Massama, non è finita nel mirino della Procura di Roma, c’è invece il rischio che possa rimanere invischiata in seri problemi di natura economica e finanziaria. Indiscrezioni e voci sempre più insistenti confermerebbero che la Società barese verserebbe in una grave crisi finanziaria. Non solo, le difficoltà economiche avrebbero coinvolto in un fallimento altre piccole società, una anche locale, che attraverso il sistema dei sub appalti, stanno realizzando i servizi e le infrastrutture secondarie. Secondo le indiscrezioni la Società del gruppo Intini avrebbe accumulato sino ad oggi un debito di oltre 18 milioni di euro, per i ritardi nella erogazione degli stati di avanzamento. Sino ad oggi sarebbero addirittura ben otto le procedure tecniche di aggiornamento avviate dall’inizio dei lavori. Per poter proseguire i lavori, secondo quanto si è appreso da ambienti del ministero delle Infrastrutture, la Società del gruppo di Angelo Intini avrebbe ceduto i propri crediti all’Unicredit Banca. Un’operazione finanziaria che inciderà comunque pesantemente sulle esposizioni bancarie. Sulla intera operazione le bocche sono rimaste cucite, con la speranza che il Ministero faccia fronte agli impegni presi. Le nuove carceri sarde vennero finanziate dal Ministero delle infrastrutture con i fondi Fas, delle aree sottosviluppate. Ma una buona parte di quei finanziamenti, come si sa, e come è stato accertato anche dalle recenti indagini della magistratura, sono stati utilizzati per i lavori del G8 della Maddalena. La crisi finanziaria, intanto, ha già creato i primi problemi ad alcune società impegnate nella costruzione del nuovo carcere di Oristano. Sarebbe infatti fallita, a causa di una esposizione di 800 mila euro, la società che ha realizzato tutti gli impianti elettrici del nuovo complesso carcerario. Altre aziende locali, vista la situazione, avrebbero invece già dato forfeit. Tra queste anche le società che avrebbero dovuto fornire gli arredi e le attrezzature interne. Il nuovo carcere di Oristano dovrebbe ospitare, a pieno regime una popolazione carceraria di oltre 300 unità. Non solo, il nuovo carcere permetterà sopratutto di chiudere l’attuale Casa circondariale di piazza Manno, inadeguata e invivibile, sia per i detenuti che per lo stesso personale. Milano: per le bombe carta contro il carcere di San Vittore, un arresto e tre denunce Adnkronos, 17 maggio 2010 Nella notte, intorno alle 4, un gruppo di quattro o cinque persone ha lanciato un paio di bombe carta all’interno del cortile del carcere milanese di San Vittore. L’esplosione non ha provocato feriti, né ha danneggiato la struttura. A comunicarlo è Urso Angelo segretario nazionale della Uil Pa Penitenziari. È il secondo episodio che si verifica a distanza di poco tempo. L’esplosione ha fatto scattare l’intervento degli agenti della polizia penitenziaria che, dopo una breve colluttazione, sono riusciti a bloccare uno degli autori del gesto, mentre gli altri sono riusciti inizialmente a fuggire. Il fermato è stato arrestato e sarà processato per direttissima. “Sembra che i ragazzi fuggiti - spiega il sindacalista - si siano poi costituiti presso altre autorità di polizia”. Il bilancio conclusivo, spiegano dalla Questura, è di un arresto e di tre denunciati. A finire in manette è stato E.P., 20 anni, bloccato dopo una colluttazione da due agenti della penitenziaria. Uno dei poliziotti è rimasto ferito in modo lieve. Medicato in ospedale la prognosi è di quattro giorni. Gli altri tre complici, invece, sono stati fermati dagli agenti del reparto Volanti chiamati da un passante, un uomo di 59 anni, allarmato dall’esplosione. Per il trio, due ragazzi di 25 e 26 anni, e per una ragazza di 26 anni, fuggiti in direzione del parco Solari, l’accusa è di danneggiamento e interruzione di pubblico servizio. Il 22enne arrestato, invece, dovrà rispondere anche di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. Sull’episodio indaga la Digos guidata da Bruno Megale. I quattro amici, tutti residenti a Milano e nell’hinterland, sono già noti alle forze dell’ordine ma, da quanto trapela, non appartengono ai centri sociali. Ancora troppo presto per dire se i quattro amici siano responsabili dell’episodio avvenuto il 31 marzo scorso quando due petardi furono lanciati all’interno del cortile dell’istituto penitenziario. Gli artificieri hanno recuperato i due petardi esplosi. Si tratta, spiegano gli esperti, di due semplici fumogeni contenenti polvere da sparo. Un quantitativo che non ha provocato né danni, né feriti. Firenze: Garante dei detenuti da domenica in sciopero della fame, se non si sblocca situazione a Empoli Apcom, 17 maggio 2010 Un appello al ministro della Giustizia Angelino Alfano affinché risolva il problema della destinazione del carcere di Empoli, che dal 4 marzo scorso avrebbe dovuto ospitare il primo esperimento di carcere transgender, poi bloccato. A farlo è il garante dei diritti dei detenuti di Firenze Franco Corleone, che in una nota spiega come la situazione delle carceri in Toscana e a Firenze “continui a rimanere nello stato di gravità denunciato più volte, vanamente”. Quanto al carcere di Empoli, “sono passati inutilmente molti giorni e nessuna risposta è giunta. Circola la voce - annuncia Corleone - che il carcere sarà nuovamente destinato alla detenzione femminile, non transessuale. Se in questa settimana non interverranno decisioni che cancellino la vergogna di un istituto vuoto in tempo di intollerabile sovraffollamento - conclude - da domenica 23 maggio inizierò uno sciopero della fame, in vista anche della festa del corpo della polizia penitenziaria, che si terrà giovedì 27 maggio alla Badia Fiesolana”. Spagna: detenuti dissociati dall’Eta per il riconoscimento e la riparazione dei danni causati Ansa, 17 maggio 2010 Otto detenuti ex-membri dell’Eta, allontanati dal gruppo armato basco per essersi dissociati dalla violenza, hanno chiesto in un documento congiunto che si “riconoscano e si riparino” i danni subiti dalle vittime degli attentati, riferisce oggi la stampa spagnola. “Occorre parlare delle vittime, del riconoscimento e della riparazione dei danni causati”, scrivono nel documento gli otto detenuti, alcuni dei quali ex-esponenti “storici” dell’Eta come Carmen Guisasola, José Luis Urrusolo e Kepa Pikabea. “Occorre - aggiungono - iniziare ad aprire spazi di intesa e di riavvicinamento fra le persone per facilitare la comunicazione e contribuire a un clima favorevole e alla chiusura delle ferite”. Gli otto indicano inoltre come esempi per la soluzione della crisi basca quanto avvenuto in Irlanda del nord con l’Ira e in Sudafrica nel dopo apartheid, invitando i 570 detenuti dell’Eta a premere in questa direzione. In 40 anni di lotta armata, l’Eta, iscritta sulla lista dei movimenti terroristici da Ue e Usa, è considerata responsabile della morte di 829 persone.