Giustizia: carceri in condizioni vergognose, a cui la politica non sa dare risposte convincenti Messaggero Veneto, 14 maggio 2010 A quanto ammontano i posti disponibili nelle carceri italiane? A 44.218. E quanti sono i detenuti? 67.473. Dovrebbero bastare queste due cifre per farci capire che la situazione è ormai fuori controllo. Anzi, il ministro della Giustizia Angelino Alfano l’ha definita, giustamente, “fuori dalla Costituzione”. E se l’Unione europea non è ancora intervenuta drasticamente, dopo un’infinità di avvisi, ci auguriamo che dipenda dal fatto che ha altre drammatiche questioni da risolvere. Perché è difficilmente concepibile che in certi istituti di pena (e non sono pochi), nelle celle, che misurano 3 metri per 2, siano rinchiuse 6 persone. Il che significa, come è stato già scritto, che non possono stare contemporaneamente in piedi tutte e 6 e che perciò, per consentire qualche movimento, alcune sono costrette a rifugiarsi nei letti a castello sistemati su tre piani. Quanto ai servizi igienici e a tutto il resto, le condizioni sono tali che già qualche tempo fa il cardinale Tettamanzi, in visita a un istituto milanese, si è dichiarato “inorridito” (come riportato sul “Corriere della Sera”). Oltre a ciò, il personale delle carceri è in misura pericolosamente insufficiente; non esistono, se non in pochi istituti, spazi dedicati al sociale; le strutture mediche sono carenti e manca qualsiasi politica di recupero dei detenuti, attraverso il lavoro, l’istruzione, il confronto. Infine, manca anche qualsiasi iniziativa, pur annunciata parecchie volte, che contempli la ricerca di forme alternative di detenzione, tese a una riabilitazione che abbia come scopo il reinserimento del detenuto nel tessuto sociale. Ciò che sorprende sgradevolmente è altresì il fatto che questi problemi esistono ormai da parecchi anni, che di quando in quando se ne discute, che si propongono o si preannunciano interventi e che alla fine non se ne fa niente. Dovremmo davvero vergognarci. Ora, è vero che già in gennaio il consiglio dei ministri ha votato all’unanimità una bozza di decreto legge che prevede il passaggio agli “arresti domiciliari” per i detenuti che sono arrivati all’ultimo anno da scontare. Una misura che potrebbe far uscire dal carcere una decina di migliaia di detenuti. Ma all’improvviso è intervenuto il ministro dell’Interno Roberto Maroni, appoggiato anche da Di Pietro, per affermare che non lo voterà mai, in quanto si tratterebbe di una sorta di indulto mascherato, vale a dire un provvedimento per lui concettualmente inaccettabile. Sostenitore della “tolleranza zero”, niente sembra convincerlo a ricredersi, neanche il fatto, di cui bisognerebbe pur tener conto, che, per esempio, il 30% circa dei detenuti è in custodia cautelare e che per un’altra buona parte si tratta di tossicodipendenti e di spacciatori extracomunitari. Senza contare che ogni mese entra negli istituti di pena un migliaio di nuovi detenuti. Non solo, c’è anche un’altra ragione di cui bisognerebbe tener conto: del fatto cioè che questa situazione, che non è esagerato definire socialmente ripugnante, ha finito per aumentare drammaticamente il fenomeno dei suicidi in carcere. Dall’inizio dell’anno sono già 24 (l’ultimo dei quali, un uomo impiccatosi con i lacci delle scarpe, che tra l’altro non avrebbe dovuto avere) e un centinaio nei passati 18 mesi, in parte giovani, spesso tossicodipendenti, che sarebbe stato più giusto fossero ricoverati in strutture adeguate, come vuole la legge. Ora, il 17 di questo mese, salvo rinvii, il decreto Alfano, definito “svuota-carceri”, dovrebbe andare in aula: ma cosa succederà non possiamo saperlo, perché il ministro dell’Interno Maroni, che, come abbiamo visto, è nettamente contrario, gode in questo momento di un notevole credito, anche da sinistra, per i suoi successi in fatto di lotta alla mafia e per aver ridotto gli arrivi via mare degli extracomunitari attraverso un drastico quanto legalmente discutibile respingimento dei natanti con i quali sbarcavano sulle coste delle nostre isole del Sud. Ma d’altra parte, del problema si era fatto carico, oltre al promotore Alfano, anche Berlusconi, che lo aveva annunciato con entusiasmo. Purtroppo di questo tema, che più che una questione politica dovrebbe essere un problema di coscienza per tutti, si preoccupano in pochi. Tolti i soliti radicali, in particolare Rita Bernardini e altri iscritti, ormai da parecchi giorni in sciopero della fame per sollecitare un intervento, se ne parla magari sulla stampa, pochissimo in televisione e ancor meno nei partiti, compresi quelli all’opposizione. Non sono tempi facili, certo, ombre minacciose avanzano all’orizzonte, la disoccupazione dilaga e così via, ma non si può dimenticare per questo che la giustizia non si risolve con l’ingiustizia, con la disumanità, con l’estraniazione, perché anche chi ha infranto le leggi ha diritto di essere trattato senza crudeltà. Ecco tra l’altro un’occasione per Berlusconi di dimostrare (anche a Fini) che non è succube della Lega e che ha a cuore un problema di vera giustizia. Ora, per vincere la netta opposizione del ministro Maroni al decreto Alfano sarebbero stati proposti alcuni emendamenti, quali la sua decadenza nel 2012 (prevedendo per quella data la messa in opera di nuove carceri), l’obbligo del parere del giudice di sorveglianza, l’esclusione dei condannati per mafia e terrorismo, un domicilio idoneo e altre limitazioni. Aggiustamenti in parte condivisi anche dall’Anm, ma che, secondo gli esperti, ridurrebbero talmente il numero di chi potrebbe goderne da vanificarne lo scopo. Giustizia: tra Alfano e Maroni un accordo sulla detenzione domiciliare che non cambia nulla di Fabrizio Dentini Nuova Società, 14 maggio 2010 L’accordo per il disegno di legge svuota carceri fra il Guardasigilli Alfano e il Ministro dell’interno Maroni si è trovato. Almeno per adesso e sulla pelle dei carcerati, in barba ad una decisione umanitaria sana e di buon senso, il governo si ricompatta chiaramente, aprendo le carceri,ma non è un indulto, e provando a smaltire all’esterno quell’umanità schiacciata che è la popolazione carceraria italiana. Ma cosa prevede di svuotare concretamente questo disegno legge? Se per chi non mastica il problema si sembra essere arrivati ad una soluzione, per chi invece conosce la realtà del sistema penitenziario italiano l’atmosfera appare peggiore di quello che potrebbe essere, e cioè intrisa di fumo di propaganda e di mancanza di volontà di portare avanti decisioni che sarebbero teoricamente scontate se si tenesse conto almeno del dettato costituzionale. Ma se la Costituzione si calpesta fuori, ci si figuri in carcere. E in fondo all’italiano medio che gli interessa? Tutto in effetti parte da qui. Dal disinteresse pressoché totale del popolo italiano per la condizione di vita dei carcerati. Troppo sottile il nesso che la libertà altrui vale la propria, troppo risibile di conoscenza e approfondimento: i problemi della vita reali più contingenti di un rimorso civile che difficilmente si prova verso chi, secondo l’attuale legislazione, ha sbagliato percorso. Veniamo ai fatti, perché con tutti i problemi del paese, questo governo si è messo a pensare a un disegno di legge svuota carceri? Semplicemente perché con l’attuale mole di leggi repressive introdotte recentemente, dal Pacchetto Sicurezza che criminalizza l’immigrazione, al testo sugli stupefacenti che aumenta le pene detentive, alla ex Cirielli che mentre abbassa i tempi per la prescrizione, alza le pene per i recidivi, le prigioni d’Italia sono colme, anzi, stracolme come non lo sono mai state dal dopoguerra ad oggi. Si arriverà a 70 mila detenuti nel prossimo anno molto probabilmente. E se ci si ricorda di quel detenuto slavo che l’anno scorso aveva ottenuto un rimborso perché la sua detenzione era stata espiata ledendo la propria umanità, con un risarcimento di 1.000 simbolici euro, verrebbe da domandarsi ma tutti gli altri non avrebbero diritto al medesimo risarcimento? La risposta è senz’altro si. Sarebbero in effetti circa 70 milioni di euro di multa e un bell’esempio nei riguardi della comunità internazionale per un paese che si considera Stato di diritto. Senza pensare al fatto che la metà dei carcerati sono in attesa di giudizio. Allora si vara un piano carcere, ma si sa, con la campagna anti indulto che si è fatta al tempo di Prodi, per poi firmare appena vennero inseriti i reati dei colletti bianchi, bisogna andare cauti a svuotare le galere per non sentirsi rinfacciare quello che si è rinfacciato senza scrupolo nel 2006. Secondo quanto riportato ieri dal Giornale: “L’ultimo anno di pena potrà essere scontato a casa, ma senza alcun automatismo: deciderà il magistrato di sorveglianza, caso per caso, sulla base di una relazione sulla condotta del detenuto presentata dall’istituto penitenziario, il magistrato deciderà se concedere la detenzione a casa. Nella valutazione peserà anche l’idoneità del domicilio dell’imputato.” Senza automatismo, insomma il Magistrato di Sorveglianza, che è quello incaricato di giudicare gli eventuali sconti di pena finalizzati al reinserimento, continuerà a fare quello che ha sempre fatto e cioè giudicare quanto il carcere sia servito a modificare le predisposizioni criminali dell’individuo per poterlo rimandare fra i cittadini. Sottolineo anche il fatto dell’idoneità del domicilio: innanzitutto sarà difficile trovare persone che domicilio lo hanno, verificare che sia anche idoneo significa resettare un provvedimento di svuotamento verso un’azione irrisoria di semplice scarcerazione di quei carcerati già più fortunati degli altri per avere all’esterno una rete solidale. E gli stranieri che sono la metà dei detenuti? Per loro normalmente le pene alternative non valgono proprio per lo stesso motivo, perché anche se ne avessero diritto, senza una casa dove si può andare agli arresti domiciliari? Quanto si parla di discriminazione legislativa. Il Giornale poi prosegue: “ E viene stralciato l’articolo che prevedeva la sospensione del processo, con la “messa in prova” presso i servizi sociali, per gli imputati di reati minori, puniti con la pena pecuniaria o con pene detentive non superiori a tre anni.” Questo significa seguire la linea della Tolleranza Zero, verso persone che per reati minori finiscono in carcere e magari lì imparano a fare il salto di qualità nel mondo della delinquenza. La messa alla prova sarebbe invece uno di questi dispositivi ( attualmente usato solo nella giustizia minorile) che se adottato con buon senso potrebbe davvero essere il cardine di future politiche penali meno repressive e più solidali. Anche perché nessuno può sostenere che il carcere rieduchi e i tassi di recidiva di chi è uscito alla prova sono nettamente inferiori a chi si trova libero da un giorno all’altro. E i motivi sono scontati. Ultima citazione: “ La Lega, infatti, contesta il fatto che la possibilità di scontare l’ultimo anno ai domiciliari sia permanente. E tra le ipotesi di nuove modifiche ci sarebbe quella di prevedere solo una misura “a tempo”, valida fino al 31 dicembre del 2012. Il governo avrebbe così il tempo di realizzare la costruzione di nuovi edifici e padiglioni per 21.479 posti, di cui 11.500 entro la fine del 2011. Il ddl, spiega Caliendo, “avrà un effetto ridotto, ma va letto in relazione al Piano carceri”.” Il Piano carceri con la P maiuscola che concrete possibilità ha di essere perseguito dal punto di vista economico e politico? Come si è fallito nel 2006 dopo l’indulto nel prevedere misure idonee per evitare un naturale e fisiologico sovraffollamento, visto le leggi repressive in vigore, quegli 11.550 posti entro il 2011 saranno solo un altro po’ di fumo negli occhi? Il problema carcere e sovraffollamento non si risolve costruendo nuovi istituti per chi viola la legge, si risolve assumendo un impianto legislativo meno severo con i deboli e più intollerante coi forti. Ma questo in Italia sembra essere impossibile. Giustizia: la polizia ti pesta e nelle carceri si muore… tutto in nome della sicurezza dei cittadini di Alessandro Cardulli www.dazebao.org, 14 maggio 2010 La sicurezza dei cittadini: parola d’ordine usata e abusata dalla destra che governa questo Paese. Berlusconi e Bossi, ministri come Maroni e Calderoli, sindaci come Alemanno, ne hanno fatto il cavallo di battaglia di campagne elettorali, hanno preso di mira i “diversi”, chi ha la pelle di un colore diverso dal bianco, indicandoli come delinquenti o, comunque, potenzialmente tali, che mettevano in forse la sicurezza. A Rosarno si è data la caccia all’immigrato. Addirittura si sono inventate le “ronde”, cittadini volonterosi che a noi ricordavano tanto le imprese del ku klux klan, sponsorizzate perfino ministro dell’Interno. Loro, sceriffi da strapazzo, in camicia verde magari, benedetti dall’acqua del Po, avrebbero vegliato sulle nostre vite. Sicurezza in primo luogo per le donne, preda di stupratori venuti da altri paesi, dimenticando che le violenze contro di loro avvengono fra le quattro mura delle nostre case. Qualche giorno fa la Moratti, sindaco di Milano, senza alcun ritegno, ha definito criminali tutti i clandestini. La stampa e la tv berlusconiana ci hanno ricamato sopra. Anche nel centrosinistra, invece di affrontare i problemi reali, si è seguita l’onda. La dignità e i diritti della persona Si è dimenticato che la prima sicurezza che un paese civile, moderno, democratico, deve garantire è la dignità della persona, con tutte le garanzie che la Costituzione prevede, senza distinzione di sesso, di razza, diritto, di cui devono godere tutti, anche chi ha commesso reati e si trova nelle carceri per espiare la pena. Tanto più chi, senza aver commesso alcun reato, viene pestato dalla polizia, accusato ingiustamente, chiuso in carcere per diversi giorni. Se poi sta male, si fa di tutto per ritardare, evitare il ricovero in ospedale che metterebbe in luce il pestaggio. Capita anche che medici e personale sanitario non mostrino grande premura nei confronti del carcerato. E capita così che di carcere si muore, come è avvenuto per Stefano Cucchi. Ormai la misura è colma: ogni giorno vengono alla luce nuovi casi di persone che hanno subito pestaggi dalle forze dell’ordine. Dazebao, proprio mentre Stefano Gugliotta usciva dal carcere, raccoglieva l’intervista di un giovane cronista sportivo, picchiato dai poliziotti all’uscita dello stadio di Battipaglia. Manganellate alla testa, trauma cranico, punti di sutura, un video prova la sua innocenza, ma viene rinviato a giudizio. Sarebbe stato lui ad aggredire ben sette agenti. A Roma un altro giovane viene picchiato e investito da un’auto civetta. Il capo della polizia, Antonio Manganelli, dopo ogni pestaggio annuncia l’apertura di una inchiesta che sistematicamente si perde nel porto delle nebbie. Ci sono, fortunatamente, i cittadini che con il telefonino girano video e che, forse per la prima volta, protestano apertamente contro la brutalità di certi agenti. Le inchieste senza esiti di Manganelli Anche la polizia riprende le manifestazioni. Manganelli e i suoi questori potrebbero usare i video che raccontano la verità. Ma non lo fanno. Perché? Qual è il loro concetto di sicurezza? Forse pensano, come chi ci governa, che ogni manifestante commette comunque un reato e lo commette anche chi non manifesta ma si trova a passare vicino ad una manifestazione o ha un giubbetto rosso come un tizio che verrebbe ricercato? Neppure la polizia scelbiana si macchiava di tante menzogne. Picchiava, uccideva e basta. Non solo si colpisce fisicamente, si provocano lesioni, gravi, talvolta mortali. Si ferisce la dignità della persona, il suo diritto alla libertà, si viola la Costituzione che all’articolo 27, comma 3, recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, devono tendere alla rieducazione del condannato”, come già nel 1763 scriveva Cesare Beccaria nel suo saggio “Dei diritti e delle pene”. Il piano carceri fantasma di Alfano Di carcere si muore: nell’anno passato hanno tentato il suicidio circa ottocento carcerati. Nei primi tre mesi di questo anno siamo già arrivati a 250 casi con 23 morti. Le nostre carceri sono affollate da 67 mila 671 persone quando ne possono contenere solo 43 mila. Nelle celle non c’è neppure lo spazio per muoversi. Mancano circa seimila agenti penitenziari, non ci sono psicologi, educatori, operatori sanitari. Il governo illustra ormai da lungo tempo un piano carceri che non andrà mai a regime. Si discute un disegno di legge che può far uscire dalla prigione chi ha da scontare solo un anno ancora. Certo, il testo predisposto dal ministro Alfano è pieno di lacune, come fanno rilevare le opposizioni che propongono emendamenti migliorativi. Ma il provvedimento sembra fatto apposta per dar modo alla Lega di porre un veto a tutto campo. Ora si rimanda la decisione su chi può uscire, ai giudici di sorveglianza. Ma quanti sono questi giudici in tutta Italia? Senza dubbio si contano sulle dita di qualche mano. Quanto tempo impiegheranno a emettere il loro verdetto? Intanto ci sono ben 25 mila detenuti che scontano pene per piccoli reati legati alla tossicodipendenza. Come dice Angiolo Marroni, Garante dei detenuti del Lazio, il loro posto non dovrebbe essere nelle celle ma in qualche comunità. Elementare! Direbbe Sherlock Holmes al fido Watson. Già ma vorrebbe dire applicare la Costituzione. Proprio il contrario di quello che voglio Berlusconi e Bossi. Giustizia: il carcere come extrema ratio? ma se la metà dei detenuti per la legge è innocente! di Maria Lucia Di Bitonto Il Riformista, 14 maggio 2010 “Intanto, ogni mese le carceri segnano il record storico delle presenze” (5 maggio 2010, ministro Alfano). È questa l’ennesima denuncia della cronica situazione di sovraffollamento carcerario nel nostro Paese, suggellata perfino sul piano internazionale nella scorsa estate, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione del divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti in relazione alla posizione di un detenuto che dal gennaio all’aprile del 2003 aveva condiviso con altre cinque persone una cella di 16 metri quadrati. Al riguardo la linea dell’esecutivo, affidata ad una delibera del consiglio dei ministri risalente allo scorso gennaio, è imperniata sulla costruzione di nuovi istituti di pena e sull’assunzione di nuovi agenti di polizia penitenziaria. A ciò si accompagnano alcune misure deflative della reclusione in carcere: l’introduzione dell’esecuzione in luogo esterno (domicilio, luogo di cura pubblico o privato, altro luogo di assistenza e accoglienza) delle pene detentive non superiori ad un anno, anche se parte residua di maggior pena; e la sospensione del procedimento penale con messa alla prova in caso di reati per i quali la reclusione non ecceda i tre anni (proprio ieri, però, l’articolato relativo a tale sospensione è stato stralciato dall’originario disegno di legge, e così destinato a più lunghi tempi di approvazione). Secondo le stime del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria l’espiazione dell’ultimo anno di pena in forma custodiate ma non detentiva consentirebbe una riduzione della popolazione carceraria di circa 10.000 unità. Tuttavia, le ultime modifiche apportate anche su tale fronte paiono rimodulare in senso riduttivo la previsione. E lo stesso Dap ad aver evidenziato come gran parte di queste diecimila persone siano attualmente in vinculis a causa delle preclusioni alle misure alternative già previste dall’ordinamento penitenziario, introdotte da una legge del 2005 (la n. 251, più nota come la ed. ex Cirielli). In altre parole, l’esecuzione in luogo esterno al carcere, ove effettivamente introdotta, costituirebbe il necessario correttivo per rimediare ai guasti di una legge approvata proprio dall’attuale maggioranza nella XIV legislatura. Siamo di fronte, quindi, ad un saggio di schizofrenia legislativa che non rappresenta certo un caso isolato in materia di giustizia penale. Tradizionalmente, la legislazione penale sostanziale e processuale costituisce l’istituzionale sede di componimento e contemperamento di esigenze in antitesi e irriducibili tra loro. Ma il legislatore pare avere abdicato a tale compito: piuttosto che mettere a punto regole capaci di esprimere un’accettabile sintesi tra valori opposti, finisce per fomentare le contrapposizioni attraverso una produzione normativa disorganica e di corto respiro, che dà esclusivo o preminente rilievo all’emergenza del momento. Salvo poi correre ai ripari, dando prevalenza all’istanza politica ignorata prima. Superfluo rilevare quanto ciò risulta particolarmente inaccettabile se il bene in gioco è la libertà personale. Sarebbe necessario che il problema del sovraffollamento carcerario venisse affrontato con una riforma di sistema, ampiamente meditata in tutte le sue implicazioni. Il sovraffollamento non è solo una relazione quantitativa tra il numero dei detenuti e quello degli istituti penitenziari disponibili, ma è la spia di una molteplicità di problemi irrisolti e lasciati incancrenire. C’è un abuso del carcere riconducibile all’eccessivo impiego della criminalizzazione in luogo di altre forme sanzionatone non penali parimenti efficaci. C’è un abuso del carcere dovuto al mancato impiego di pene alternative alla detenzione, in casi in cui queste ultime potrebbero sortire i medesimi risultati di prevenzione del reato. Soprattutto, ed è questo l’aspetto più scottante, c’è un abuso del carcere nel corso del procedimento penale. La custodia cautelare è uno dei punti nevralgici dell’ingiustizia del carcere, in quanto riguarda individui che la nostra Costituzione vieta di trattare come persone condannate. Secondo i dati statistici consultabili sul sito del Ministero della giustizia, a fine marzo il numero dei detenuti in attesa del giudizio di primo grado era superiore al 40% del numero di condannati. Se ad essi aggiungiamo quanti sono in attesa del giudizio di appello e di Cassazione la percentuale aumenta quasi al 50%. Si tratta di quantità che smentiscono il carattere di extrema ratio che il codice di procedura penale assegna all’applicazione della più afflittiva delle misure restrittive della libertà personale. L’eventuale introduzione dell’esecuzione in luogo esterno al carcere delle pene detentive non superiori ad un anno è una misura tampone che affronta - nemmeno in maniera soddisfacente - solo il secondo dei tre aspetti sopra evidenziati. Non resta che auspicare, quindi, che la rapida approvazione del relativo disegno di legge, utile solo a fronteggiare l’emergenza, offra al legislatore i tempi necessari per quella riforma organica di cui si sente tanto il bisogno. Giustizia: Uil; agente suicida a Frosinone, negli ultimi due anni 16 suicidi in polizia penitenziaria Il Velino, 14 maggio 2010 “È davvero difficile trovare le parole non solo per commentare l’ennesima tragica notizia, quant’anche per esprimere la nostra solidarietà alla famiglia e a tutti i colleghi. Oggi è un altro giorno di dolore e di lutto che investe la polizia penitenziaria. In sole due settimane due suicidi (Frosinone e Brescia) e un omicidio-suicido (Avola). Troppo. Davvero troppo per non chiedere con forza che si attivi, finalmente, quel tavolo di confronto sul disagio del personale che l’amministrazione penitenziaria ci ha sempre negato. Non intendiamo strumentalizzare queste tragedie, ma è pur vero che l’incidenza di suicidi nel Corpo è davvero anomala e pertanto ne vanno investigate le cause. Ricordiamo che in due anni sono 16 gli appartenenti al Corpo che si sono suicidati”. È quanto dichiara il segretario generale della Uil Pa Penitenziari Eugenio Sarno, commentando il suicidio, a Campoli Appennino (Fr), dell’agente penitenziario in servizio a Milano San Vittore presso il nucleo traduzioni. “Ho sentito in prima mattinata i colleghi di San Vittore che lavoravano a stretto contatto con il collega suicida. Sono increduli, addolorati e scioccati - continua Sarno. Tiziano Ramponi mi è stato descritto come una persona perennemente sorridente, allegro, gioviale. Era in congedo ordinario dal 3 maggio e avrebbe dovuto riprendere servizio martedì 18. Si stentano a capire le ragioni di questo gesto. Chi lo conosceva molto bene esclude problemi economici o affettivi. “Se è vero, come è vero, che è scientificamente provato che la sindrome da Burnout ha grande incidenza nel corpo (tanto che sono centinaia le unità che riportano patologie da stress e depressione) è consequenziale affermare che il lavoro e le condizioni di lavoro sono patogene. Abbiamo cercato, invano, di sensibilizzare il ministro Alfano e il capo del Dap sulle afflittive e infamanti condizioni di lavoro dei poliziotti penitenziari di prima linea. Il loro silenzio sul tema offende e indigna. La Uil Pa Penitenziari non manca di ribadire la necessità di nuove assunzioni Vogliamo sperare che le liti, le baruffe e i riti della politica, dopo aver vanificato la prospettiva di deflazionare le carceri dall’incredibile sovrappopolamento, non vanifichino anche le prospettive di nuovi assunzioni in polizia penitenziaria. Si abbia coscienza che dal 1 gennaio sono 75 i poliziotti penitenziari finiti in ospedale per le ferite riportate a causa di aggressioni da parte dei detenuti. Inoltre i diritti soggettivi sono quotidianamente calpestati. Speriamo che di questo qualcuno prima o poi cominci a interessarsi e a preoccuparsi. Noi siamo stanchi di porgere solidarietà e formulare condoglianze. Non sarà un caso se in tutte le regioni italiane i focolai di protesta da parte degli agenti aumentano di giorno in giorno. L’insensibilità e l’indifferenza ai nostri disperati appelli favoriscono la depressione, alimentano la demotivazione e aumentano l’angoscia. In occasione della Festa annuale del corpo, che si terrà il prossimo 18 maggio a Roma, la Uil Pa Penitenziari lancia un appello al presidente Napolitano e al ministro Alfano. In ragione del doveroso rispetto che nutriamo nei confronti dei nostri colleghi caduti e di quanti ogni giorno affrontano l’indicibile condizione penitenziaria, non boicotteremo l’annuale e saremo presenti alle celebrazioni. Auspichiamo, però, che dato il drammatico momento che attraversa il sistema penitenziario il presidente Napolitano e il ministro Alfano sappiano non solo trovare le giuste parole per rimotivare e ridare speranza, ma soprattutto portare notizie di atti concreti propedeutici a superare le gravi difficoltà. Siamo stanchi - conclude il segretario della Uil Pa Penitenziari - di annunci dal vago sapore pubblicitario”. Giustizia: alla società civile chiediamo un impegno collettivo contro il neoautoritarismo di Salvatore Palidda Il Manifesto, 14 maggio 2010 Un’analisi pur approssimativa della cronaca di questi ultimi dieci anni mostra senza equivoci che le violenze praticate da dirigenti e agenti delle polizie si riproducono continuamente e con sempre maggiore frequenza e gravità. Dalle botte ai manifestanti contro il Global forum di Napoli nel 2001 alle violenze al G8 di Genova tre mesi dopo, fino ai pestaggi nelle carceri, per strada, nelle caserme, nei commissariati di Ps, nelle stazioni dei carabinieri, nelle postazioni delle polizie locali, e perfino in alcuni ospedali e infermerie. E ancora, alle violenze contro No Tav, No Dal Molin, No discariche, No Ponte e quanti dimostrano in piazza per lotte sindacali o per la casa. Non si corre il rischio di fare un unico calderone. Al contrario l’errore, se non l’imbroglio politico più grave, sta appunto nel nascondere il fatto che le pratiche violente e la tortura sono un continuum che lega i comportamenti ormai abituali di una parte del personale delle polizie a quelli di caporali, capiufficio, cittadini “zelanti”, giovinastri neofascisti e persino di qualche insegnante e operatore sociale convertito al compito di ausiliario dei rambisti delle polizie. Non si tratta di strani rigurgiti autoritari di un’effimera congiuntura, ma siamo di fronte all’esito prevedibile del successo del dominio liberista. Un dominio che non può e non vuole lasciare spazio a mediazioni e che deve imporre con la violenza le sue scelte: dalla iper-produttività per la massimizzazione ad oltranza dei profitti alla neo-schiavizzazione. Si pensi alla condizione delle donne, degli immigrati e anche dei bambini nelle economie sommerse o semi-sommerse (call center, laboratori clandestini). Questo tipo di subalternità può essere imposta solo con la forza e non certo con il “patto sociale” o il contratto di lavoro. È il livello microsociologico del frame della guerra che prevale sulla diplomazia, cioè sulla politica. È vero che oggi nelle polizie la componente liberista ubriaca di frenesia securitaria sembra dominante e che i democratici sono isolati e spesso anche perseguitati. Ma questo è possibile perché lo stesso avviene nei diversi segmenti della società e nelle diverse istituzioni. Non deve stupire che la maggioranza degli omicidi avviene in ambito familiare o di vicinato: la violenza è la cifra della gestione liberista di tutte le componenti della società. E non è affatto un caso che l’abuso della discrezionalità insita in tutti i poteri si possa trasformare facilmente in discriminazione e libero arbitrio, che spesso sconfinano nella corruzione. Ma perché tanta impotenza? In quali rappresentanze dovrebbero sperare le vittime delle continue violenze e torture? Quanti sono i politici disposti a impegnarsi a un monitoraggio delle violenze e a mobilitarsi? E quanti gli intellettuali, i giornalisti, gli avvocati, i magistrati, gli insegnanti e altri operatori sociali e delle forze di polizia? Tutti sanno che i casi svelati sono solo una piccola parte di quanto avviene e che chi riesce a renderli noti fa molta fatica e spesso rischia in prima persona perché i carnefici si sentono impunibili e le vittime assolutamente prive di qualsiasi protezione. Qualche fatto emblematico: i cosiddetti sondaggi di vittimizzazione che l’Istat realizza periodicamente non prevedono domande sulle violenze delle polizie e di altri attori sociali forti. Peggio: il campione dei “sondati” è composto soltanto da persone che hanno il telefono fisso. Sono quindi escluse proprio quelle persone che sono più suscettibili di subire violenze (rom, immigrati, marginali e persino studenti fuorisede). E, mentre si producono statistiche sulla criminalità degli immigrati, non ne esiste alcuna sui reati degli operatori delle polizie, che spesso la fanno franca o addirittura vengono premiati e promossi. Un’altra perla del delirio securitari è che in Italia si spende sempre più per i cosiddetti controlli “postmoderni” (video-sorveglianza, braccialetti per “rassicurare i turisti, gli anziani, le donne”) senza mai valutarne “costi e benefici” e senza discuterne neanche nelle giunte. Invece non si fa quasi nulla contro gli incidenti sul lavoro (quasi un milione all’anno). Le polizie locali sono distratte dai loro compiti istituzionali per raddoppiare la persecuzione dei rom, degli immigrati e dei marginali e ciò si traduce nell’assenza di qualsiasi contrasto alla proliferazione delle economie sommerse e dei loro effetti collaterali. Negli anni ‘70 Camilla Cederna pubblicò Sparare a vista: come la polizia del regime DC mantiene l’ordine pubblico, e un forte impegno collettivo contro le violenze riuscì a contrastare l’ascesa del neo-autoritarismo. Le pratiche violente dei poteri di oggi sono forse più gravi proprio perché sembrano annichilire le capacità di resistenza. Eppure la ricetta liberista mostra palesi segni di esaurimento e fallimenti a ripetizione. Per ora i soliti noti sembrano addirittura approfittare dello sfascio finanziario; allo stesso modo, i vati della tolleranza zero non demordono nonostante il fatto che i moderati stessi siano allarmati per la criminalizzazione diffusa dei giovani, per reati spesso solo presunti o ridicoli (come i graffiti o lo spinello). Ma gli operatori delle carceri e delle polizie dotati di un minimo di buon senso si rendono conto che si è “tirata troppo la corda”, che chi crede di dominare con la violenza è destinato al peggio. È possibile che tutto ciò rischi di trascinare la società intera verso una crisi drammatica. E saranno sempre i soliti a pagarne i costi, cioè chi oggi resiste ma spera si possa riuscire a ridurre il danno. Giustizia: il Garante dei detenuti di Reggio Calabria; bisogna costruire speranze, non muri di Anna Foti www.strill.it, 14 maggio 2010 È una voce unanime quella che unisce il garante per i diritti delle persone private della libertà personale, Giuseppe Tuccio, il suo consigliere giuridico Agostino Siviglia, la direttrice del carcere di San Pietro Maria Carmela Longo, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Paolo Quattrone intervenuti presso la casa circondariale in occasione della presentazione della terza relazione annuale dell’Ufficio del Garante. Dura e lucida l’analisi del garante Giuseppe Tuccio che con fermezza e chiarezza spiega il rischio di implosione del sistema penitenziario nazionale, e dunque anche calabrese, in assenza di politiche di interventi che affrontino la questione non esclusivamente sotto il profilo securitario ma soprattutto sotto il profilo sociale e umano. L’edilizia penitenziaria non risolverà il problema dei tagli finanziari ricorrenti, della carenza di personale e di attività ricreative, di sovraffollamento in assenza di una diversa normativa che consenta un ricorso già in fase di cognizione delle misure alternative alla reclusione e che si incentri sull’effettiva funzione rieducative della pena come la Costituzione Italiana espressamente prevede. Da più parti, infatti, anche denunciati l’abbandono da parte della politica, l’assenza di interventi non emergenziali ma strutturali del governo centrale, avaro anche di progetti, che mostra di essere assolutamente miope sulla questione, come dichiarato dal garante Giuseppe Tuccio. La denuncia investe anche la deficienza della pubbliche amministrazioni cui spesso si sopperisce con amministrazioni penitenziarie locali illuminate, capitale sociale e umano straordinario e progettualità di notevole spessore. Dunque con input che sopraggiungono direttamente dal territorio. Questa la formula con cui si amministra una struttura pur con dei limiti ma ponendo il necessario accento sulla dignità umana, la rieducazione e il lavoro, basti pensare che ogni intervento al suo interno è stato realizzato dai detenuti medesimi. Come quello cui si è proceduto per realizzare la struttura che è stata inaugurata e benedetta dall’arcivescovo Vittorio Mondello e che accoglierà i familiari, soprattutto i bambini, in attesa di visitare il congiunto detenuto. Colori e calore, grazie alla collaborazione dell’Accademia delle belle arti, per non aggravare una situazione già di per sé dolorosa quale la separazione da una persona cara in stato di restrizione della libertà personale. La sensibilità dimostrata dall’assessorato comunale alle Politiche Sociali, nella persona di Tilde Minasi, che ha finanziato questo progetto affidato all’associazione “Il Ponte” che si occuperà di promuovere animazione e accoglienza per bambini e familiari, oltre che uno sportello di ascolto e orientamento al lavoro per i detenuti. Nuovi servizi, a lungo richiesti dalla direttrice Longo, che assicurano dignità e attestano civiltà. Le condizioni di difficoltà in cui versano le carceri italiane rimane una questione ancora aperta. Se è vero come scriveva Voltaire che dalle carceri si misura il grado di civiltà di una nazione, allora l’Italia non offre proprio una bella immagine di sé con istituti penitenziari sovraffollati, in cui il fenomeno drammatico dei suicidi è ormai una realtà. Sono state 146 le persone decedute in carcere; 60 sono stati suicidi. Un allarme nazionale dettato dai numeri atteso che vi sono oltre 67 mila persone detenute a fronte di strutture che ne possono ospitare 23 mila in meno. A tutto ciò consegue che spesso i posti letto siano recuperati in locali inizialmente adibiti ad altro come le palestre e che le condizioni di vivibilità siano fortemente compromesse. La politica pare rispondere solo con interventi di edilizia penitenziaria che per nulla incidono sulla dimensione profondamente umana della questione e che non intaccano il sistema giustizia che di fatto anche determina il sovraffollamento con oltre 30 mila persone ancora in attesa di giudizio. In Calabria la situazione paga lo scotto del sovraffollamento, dei tagli finanziari, della carenza di personale penitenziario e di quelle figure professionali necessarie per un volto umanizzante e socializzate di una struttura che, non si deve dimenticare, dovrebbe essere volta principalmente alla rieducazione e al reinserimento delle persone detenute. Questo è il quadro su scala nazionale che si ripercuote a livello locale, anche se ancora non si sono raggiunti livelli esasperati ed esistono delle prospettive di intervento e ristrutturazione concrete. “Presto neppure il posto letto potrà più essere garantito”, ha dichiarato direttrice del carcere di San Pietro Maria Carmela Longo. A Reggio Calabria, infatti, nel carcere di San Pietro i detenuti, esclusivamente di alta e media sicurezza, sono in tutto 340, in una struttura che potrebbe ospitarne 260 ma dovrebbe ospitarne 160; si tratta prevalentemente tossicodipendenti e cittadini extracomunitari. Dunque un’umanità fortemente emarginata. A ciò si aggiunga che rimane solo un’idea, l’agenzia dell’inclusione sociale che da tempo avrebbe dovuto essere istituita e che esiste ad Arghillà un carcere fantasma, ultimato nel 2003 e mai entrato in funzione. “Anche sul fronte regionale, il sovraffollamento è una realtà con 1100 detenuti in più”, come dichiarato dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Paolo Quattrone. Ma esistono in Calabria anche realtà virtuose come l’Istituto di Laureana di Borrello, dove è in corso un progetto sperimentale rivolto alle persone al primo reato e con meno di 35 anni e che attraverso la responsabilizzazione della persona detenuta e il cosiddetto patto trattamentale è riuscita ad abbassare, quasi abbattere , la percentuale di recidiva. Dunque, in assenza di uno Stato attento autenticamente e non emergenzialmente al detenuto, tutto si rimette alle singole realtà territoriale e alle risorse umane e professionali che in una comunità civilmente impegnata, come la Calabria, emergono. Ma la domanda è: ciò può bastare? Giustizia: Cassazione; in caso di rigetto l’indulto può essere richiesto una seconda volta Italia Oggi, 14 maggio 2010 Il cambio di orientamento delle Sezioni unite della Suprema in senso più favorevole al condannato gli dà diritto a presentare nuova istanza di indulto dopo che la prima richiesta è stata respinta. Lo ha stabilito la Cassazione che, con la sentenza n. 18288 di ieri, ha risolto un contrasto di giurisprudenza nato all’interno della prima sezione penale. 16 pagine di motivazioni per arrivare a formulare il nuovo principio di diritto secondo cui “il mutamento di giurisprudenza intervenuto con decisione delle Sezioni Unite, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell’indulto in precedenza rigettata”. Secondo le Sezioni semplici andava risolta la questione relativa alla portata “della nozione di medesime elementi di diritto”, di cui parla l’articolo 666 del codice di procedura penale, “ai fini dell’ammissibilità di una seconda richiesta da parte del condannato di applicazione dell’indulto, dopo il rigetto di altra analoga e precedente”. Già la Procura generale della Suprema corte, nella requisitoria scritta illustrata nell’aula Magna del Palazzaccio lo scorso 21 gennaio, aveva sostenuto la proponibilità della seconda istanza e dunque aveva sollecitato le Sezioni unite penali di Piazza Cavour a respingere il ricorso della Procura di Milano. In particolare la pubblica accusa si era opposta alla decisione della Corte meneghina di concedere a un condannato per rapina, resistenza a pubblico ufficiale e violazioni delle norme sulle armi e gli stupefacenti, di ritenere ammissibile la seconda istanza di indulto, alla luce del nuovo orientamento giurisprudenziale sancito dalle Sezioni unite penali secondo cui il condono poteva essere chiesto anche in caso di sentenza di condanna straniera (su persone condannate all’estero ma trasferite in Italia per l’espiazione della pena). Ciò perché, aveva sostenuto, la seconda istanza era basata sugli “stessi presupposti di fatto e di diritto”. Le Sezioni unite, con motivazioni rese note soltanto oggi, ha aderito alla requisitoria della Procura generale della Cassazione e ha respinto il ricorso del pm milanese. Dunque le sezioni unite penali hanno abbandonato un indirizzo interpretativo, assolutamente prevalente, secondo cui “il mutamento di giurisprudenza, in quanto non assimilabile al mutamento del dato normativa, non rappresenta un “elemento nuovo di diritto” idoneo a rendere ammissibile la riproposizione dell’istanza già in precedenza respinta dal giudice dell’esecuzione e a rimuovere la preclusione del c.d. giudicato esecutivo”. Contrapposto a questo c’è quello secondo cui “la mutata interpretazione di una norma, specie se cristallizzata in una pronuncia delle Sezioni Unite, può integrare una nuova motivazione giuridica che legittima la riproposizione al giudice dell’esecuzione di una richiesta precedentemente rigettata”. Giustizia: Sappe; non parteciperemo alla Festa nazionale della Polizia Penitenziaria Il Velino, 14 maggio 2010 “Non parteciperemo alla Festa nazionale della Polizia Penitenziaria che si terrà a Roma il prossimo 18 maggio, alla presenza del Presidente della Repubblica. Riteniamo non vi sia proprio nulla da festeggiare. Le carceri scoppiano per il pesantissimo sovraffollamento e la classe politica tutta assiste inerte all’implosione del sistema penitenziario, che con l’avvicinarsi dell’estate renderà certamente roventi le carceri italiane. Gli unici a pagare lo scotto di questo dramma sono le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria, che è l’unica rappresentante dello Stato che sta fronteggiando concretamente questa emergenza anche mettendo a repentaglio l’incolumità fisica dei suoi Baschi Azzurri, come certificano le decine e decine di gravi ed inaccettabili aggressioni avvenute fino ad oggi a nostri Agenti un pò in tutta Italia. Agenti che stanno lavorando logorati dallo stress generato da condizioni particolarmente difficili come quella di essere gli unici esposti a malattie come l’HIV, la tubercolosi, la meningite e altre malattie che si ritenevano debellate in Italia e che invece spopolano nelle celle delle carceri italiane. E devono far riflettere anche i numerosi suicidi di Agenti di Polizia Penitenziaria, l’ultimo dei quali proprio ieri sera a Campoli Appennino (Fr). Per l’assenza di provvedimenti concreti a tutela dei poliziotti penitenziari che lavorano ogni giorno in precarie condizioni di sicurezza ed in Istituti di pena sovraffollati oltre ogni misura, il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, non parteciperà alla Festa del Corpo il 18 maggio a Roma. Non ha proprio senso presenziare ad una cerimonia che allo stato tutto può essere meno che una Festa per coloro che ogni giorno, 24 ore su 24, vivono la tensione nella prima linea delle sezioni detentive delle sovraffollate carceri italiane. Perché qualcosa si faccia, subito e concretamente, ci appelliamo al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E, per farlo nella maniera più diretta e visibile possibile, organizzeremo un presidio davanti alla sua residenza di Arcore”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. “Per quello che sta avvenendo all’interno degli istituti penitenziari della Repubblica Italiana, la situazione è ogni giorno sempre più allarmante. La capienza detentiva degli istituti penitenziari di ben 12 Regioni italiane è stata superata oltre il limite tollerabile, l’indice cioè che individua il limite massimo per la stessa amministrazione penitenziaria di vivibilità delle carceri: stiamo parlando di realtà importanti, anche sotto il profilo della criminalità organizzata, come la Calabria, la Campania, la Puglia e la Sicilia che insieme all’Emilia Romagna, al Friuli Venezia Giulia, alla Liguria, alla Lombardia, alle Marche, al Trentino Alto Adige, alla Valle d’Aosta ed al Veneto registrano il ‘tutto esauritò. Tutte le altre Regioni hanno superato comunque di gran lunga la capienza regolamentare degli istituti, il numero di posti letto previsti. Più dell’84% delle carceri in Italia, dunque, ospita più detenuti di quanti ne prevede la capienza regolamentare: e più del 51% supera addirittura quella tollerabile. Dal 13 gennaio 2010 ad oggi, è cresciuta di 163 posti la capienza regolamentare delle carceri italiane (429 quella tollerabile), mentre nello stesso periodo i detenuti presenti sono aumentati di 2.475 unità. In 57 istituti penitenziari su 204 rilevati dal Dap (quasi il 28%) il numero degli stranieri è superiore a quello degli italiani mentre in 106 carceri si registra una presenza di stranieri detenuti superiore alla media nazionale del 37%. Solo 11 dei 98 restanti istituti che ospitano una percentuale di stranieri inferiore alla media nazionale, inferiori, sono situati al Nord. Insomma, l’analisi penitenziaria nazionale è impietosa ed imporrebbe l’adozione di urgenti provvedimenti. Ma la classe politica sta a guardare, ed allora non ha proprio senso presenziare ad una cerimonia che allo stato tutto può essere meno che una Festa per coloro che ogni giorno, 24 ore su 24, vivono la tensione nella prima linea delle sezioni detentive delle sovraffollate carceri italiane.” Giustizia: Ionta (Dap); ho consegnato il Piano carceri a Alfano, ma bisogna anche far diminuire reati Agi, 14 maggio 2010 “Questa è una cosa che è rimasta molto sui giornali. Io ho già preparato un piano che ho consegnato al ministro Alfano, ma non posso dire se c’è o no una misura del genere”. Così a CNRmedia Franco Ionta, capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, sulla proposta per la realizzazione di carceri galleggianti. “Ci sono molte cose, naturalmente, da fare - prosegue Ionta, intervistato al Salone del Libro a Torino - come costruire altre carceri e assumere personale; bisogna anche far diminuire i reati. Bisogna lavorare in queste tre direzioni per ottenere un risultato”. Giustizia: Serracchiani (Pd); parere operatori penitenziari per concedere detenzione domiciliare Ansa, 14 maggio 2010 Non solo la magistratura: anche operatori ed educatori delle carceri “abbiano una voce” nel processo che definirà la possibilità, per molti detenuti, di passare gli ultimi sei mesi di pena agli arresti domiciliari, come previsto dal disegno di legge cosiddetto svuota-carceri attualmente in discussione alla commissione Giustizia della Camera. La proposta è dell’europarlamentare del Pd Debora Serracchiani, che oggi a Trieste ha visitato l’istituto carcerario. “Se proprio si andrà verso la concessione del permesso di andare fuori dal carcere - ha sottolineato -, deve contare anche la voce degli operatori, e degli educatori che conoscono nello specifico la situazione dei detenuti, e non solo quella della magistratura. Gli operatori - ha continuato Serracchiani - devono avere una voce nella decisione”. “Ho pagato per regalare 100mila libri. Ma lo rifarò” Il Giornale Marilena Ferrari, natali a Soncino, nel Cremonese, già fondatrice di Art’è e ora presidente del gruppo MarilenaFerrari-FMR, è donna concreta. Quindi, per raccontare la sua ultima impresa, partiamo dai numeri: un regalo di 100mila volumi della prestigiosa casa editrice Franco Maria Ricci alle scuole e alle biblioteche delle carceri italiane. Valore dell’operazione, calcolando il prezzo di copertina dei libri: 13 milioni di euro. Fra i testi donati, spiccano quelli delle collane “Gran Tour”, con volumi di grande formato sulle città italiane meno note, e “Le Quadrerie”, sontuosa serie libraria che svela tesori dimenticati di collezioni private, depositi e archivi museali. Dal quartier generale bolognese della sua azienda, che è casa editrice, casa d’arte e fondazione culturale, Marilena Ferrari rilancia: “Ne regalerò altri 150mila in autunno”. Signora Ferrari, perché questa donazione? “Nel 2002 ho acquisito la FMR di Franco Maria Ricci, casa editrice fondata da un uomo geniale ma mosso da incredibile ottimismo quando andava in stampa tanto da pubblicare a profusione titoli splendidi ma molto elitari”. Lei è più accorta con le tirature? “Certo. Pubblichiamo prodotti di alta qualità e dunque anche di costi non adatti a tutti: bisogna tenerne conto. Faccio stampare mille, al massimo duemila copie per volume”. Torniamo a Franco Maria Ricci. “Al momento dell’acquisizione mi sono trovata con un magazzino di 360mila titoli. Per qualche anno li ho semplicemente guardati, ammirati. Avevo però necessità di ammortizzare il magazzino e ho deciso di donarli. In Italia anche regalare non è facile perché vige sempre una cultura del sospetto, ma grazie all’aiuto del ministro Renato Brunetta e al ministero dell’Istruzione, abbiamo individuato circa 500 scuole tra licei e istituti d’arte cui donare i volumi”. Lei ha poi voluto allargare l’iniziativa alle carceri. “Abbiamo coinvolto oltre 200 penitenziari e carceri minorili. Non voglio essere ipocrita: sono consapevole di pubblicare prodotti raffinati, ma so anche che possiedono un forte impatto visivo, possono educare alla bellezza. Se anche solo uno dei ragazzi in carcere si innamorasse di un monumento ritratto nei nostri volumi, vorrebbe dire che questa iniziativa ha avuto senso”. Quanto tempo ha impiegato per realizzare la donazione? “Un paio di mesi, pagando regolarmente le spedizioni. Se avessi portato i volumi al macero mi avrebbe reso di più: non avrei pagato l’Iva, avrei pagato meno tasse e magari ricavato anche qualche euro dalla carta. Ma non è così che si comporta un imprenditore di cultura”. Imprenditoria e cultura non sono termini che l’Italia ama mettere a braccetto. “Lo so bene, ma fare l’editore significa non piegare la cultura alle ragioni della speculazione e nemmeno permetterle di crogiolarsi in un’inutile autoreferenzialità. In ecologia si parla di senso di responsabilità e della misura: servirebbe un pò di “ecologia culturale” anche contro gli snobismi dell’editoria italiana”. Posti di lavoro ai detenuti nasce l’ Agenzia regionale Repubblica — 12 maggio 2010 pagina 8 sezione: BARI RIPARATORI di pannelli solari a Lecce e fornai ad Altamura: la Puglia mette all’ opera i detenuti. È nata ieri a Bari l’ Agenzia regionale per la promozione del lavoro penitenziario. La Puglia è la seconda regione in Italia, dopo la Lombardia, a mettere in pratica le linee guida per l’ istituzione del nuovo organismo voluto dal governo. A presentare la nuova agenzia è stato ieri il capo del dipartimento per l’ Amministrazione penitenziaria Franco Ionta: “Oltre alla custodia delle persone pericolose, le istituzioni devono lavorare al loro reinserimento al quale devono contribuire gli enti locali. Adesso - ha spiegato - grazie a questa agenzia, in Puglia, i detenuti con una professionalità potranno lavorare anche all’ esterno delle carceri, in attività socialmente utili per gli altri cittadini e per se stessi: è evidente, infatti, che chi ha commesso un crimine si trovi in una situazione svantaggiata nella ricerca di lavoro. Per questo - ha concluso Ionta - sia l’ amministrazione penitenziaria che gli enti locali devono contribuire con istruzione e formazione”. Il primo ente in Pugliaa raccogliere l’ appello lanciato dal capo dipartimento per l’ amministrazione penitenziaria è stato il Comune di Bari che ha annunciato ieri uno stanziamento da 23mila euro da destinare all’ impiego di alcuni detenuti del carcere cittadino. Allo studio del Comune c’ è un progetto per incrementare la raccolta differenziata. “Vogliamo garantire a chi ne ha la voglia l’ opportunità di cambiare vita” ha sintetizzato il sindaco Michele Emiliano, durante la presentazione della nuova agenzia. Ma l’ emergenza numero uno delle carceri pugliesi resta quella del sovraffollamento: “In Puglia - ha ammesso Ionta - la situazione è particolarmente difficile ma presto partirà un piano straordinario per la ristrutturazione e l’ ampliamento delle carceri”. Una possibile e più rapida soluzione è stata ieri suggerita dal Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria che ha segnalato lo strano caso del carcere di Spinazzola: mentre le altre prigioni scoppiano questa struttura ha 130 posti ma solo 30 di questi sono occupati. “Basterebbero poche migliaia di euro per rendere pienamente agibile la struttura e dare sollievo alle altre case circondariali pugliesi” ha denunciato il Sappe. © RIPRODUZIONE RISERVATA - PAOLO RUSSO (ER) CARCERI. CGIL: AGENTI TAPPABUCHI, FANNO EDUCATORI-PSICOLOGI MANCANO 626 POLIZIOTTI (26,5%): CE N’È UNO OGNI 2,6 DETENUTI (DIRE) Bologna, 13 mag. - In Emilia-Romagna mancano all’appello 626 agenti di Polizia penitenziaria e quelli che ci sono fanno in realtà “anche gli educatori, i contabili, gli psicologi e gli assistenti sociali, con grande risparmio economico da parte dello Stato”. È l’ennesima denuncia sul problema della carenza di personale nelle carceri che arriva dal sindacato della Cgil: “Siamo senza incentivi e senza contratto, dovremmo anche domandarci come, in questa regione, gli ex detenuti verranno restituiti alla società“ attacca in una nota Marco Martucci, coordinatore regionale della Polizia penitenziaria della Fp-Cgil Emilia-Romagna. Martucci ricorda che, secondo i dati forniti dall’Amministrazione penitenziaria (e aggiornati a marzo 2010) la carenza in Emilia-Romagna è del 26,5%, pari a 626 uomini e donne. Si tratta di un dato, scrive la Cgil, “decisamente peggiore di quello rilevato a livello nazionale, dove la carenza è del 15,22%, corrispondente a 6.280 uomini e donne”. A peggiorare la situazione in regione è il fatto che manchino “il 76,39% degli educatori, a fronte di una carenza nazionale del 44,61%”. Tutto ciò, insiste Martucci, a fronte di sovraffollamento altissimo: “I detenuti presenti nella nostra regione sono 4.569 al 31 marzo 2010, ovvero il 91,65% in più della capienza regolamentare che ne prevede 2.384”. Questo significa, prosegue Martucci, che “un poliziotto sorveglia 2,6 detenuti contro una media nazionale di 1,9 e un educatore ‘educà 269 detenuti contro gli 88 della media nazionale”. Tra le criticità maggiori, poi, ricorda la Cgil ci sono l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia (con 3,9 detenuti per poliziotto penitenziario) e il carcere di Piacenza (con 3,2 detenuti per poliziotto penitenziario e 415 per educatore). “Servono nuove assunzioni” chiede la Cgil. Carcere sovraffollato e fatiscente, la denuncia del Sappe . Venerdì 14 Maggio 2010 09:22 . .Lecce (Salento) – Lo stato delle carceri pugliesi versa in condizioni aberranti: è questa la denuncia del Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria, attraverso le parole del segretario nazionale Federico Pilagatti. Da un’ispezione nei principali penitenziari della regione emerge, infatti, una condizione di degrado dovuta principalmente al sovraffollamento e alle strutture fatiscenti che ospitano i detenuti. Secondo il Sappe la situazione sta diventando allarmante sia per quanto riguarda le condizioni igienico sanitarie, sia per la grave carenza di poliziotti penitenziari che ormai non c’è la fanno più: “Il mix composto dal sovraffollamento di detenuti, che ha superato il 100% dei posti a disposizione (quasi 1400 detenuti a fronte di 660 posti), dalle condizioni igienico-sanitarie drammatiche derivanti dalla promiscuità, potrebbe scatenare epidemie con l’arrivo della prossima stagione estiva a causa della calura, (con le celle in cemento che superano i 50 gradi di temperatura) nonché della grave carenza d’acqua che lascia a secco i detenuti già dalle prime ore del pomeriggio”. A fronte di questa situazione si cominciano a far sentire le prime proteste dei detenuti, per ora pacifiche (sbattono le padelle contro le sbarre), ma che si teme che presto possano diventare più dure e pericolose. “Inoltre, nel carcere di Lecce sono presenti moltissimi detenuti affetti da patologie varie, anche infettive e per cui chiediamo – continua il sindacato - un controllo sanitario più concreto ed attento da parte dell’ASL, al fine di tenere sotto controllo tali fenomeni che creano disagio e malessere a tutto il carcere”. Un’altra piaga che affligge le carceri pugliesi è la carenza di personale: “I sintomi della degenerazione del fenomeno sono individuabili analizzando il numero di Poliziotti Penitenziari (quasi 100) che sono assenti dal lavoro poiché allo stremo delle forze, in quanto sottoposti a turni di lavoro massacranti senza che si intraveda la possibilità di una via di uscita”. “Il Sappe denuncia l’esorbitante aumento delle visite ambulatoriali quasi il 50% presso strutture mediche esterne al carcere dovute proprio al passaggio della sanità penitenziaria a quella pubblica. Tale situazione sta creando allarme sociale poiché decine di detenuti, anche pericolosissimi lasciano il carcere per patologie che in passato venivano curate all’interno del penitenziario”. La soluzione proposta dal Sappe, per evitare la paralisi nel carcere di Lecce, consiste “nell’invio immediato di almeno cento poliziotti penitenziari, nonché l’utilizzo di militari sul muro di cinta, al fine di liberare personale da impiegare all’interno delle sezioni detentive”. “Noi riteniamo – continua Pilagatti - che la ricetta per decongestionare le celle superaffollate per ridare dignità a persone che vivono situazioni igienico-sanitarie da terzo mondo, potrebbe essere quella di costruire negli enormi spazi a disposizione all’interno del muro di cinta, sezioni modulari che oltre ad essere più economiche di quelle in muratura, offrono maggiori comfort, pulizia, sicurezza, e non necessitano di alcuna manutenzione. “Basterebbero – conclude il segretario nazionale del sindacato - 6 mesi di tempo e meno di 20 milioni di euro per approntare delle sezioni detentive modulari che potrebbero ospitare oltre 600 detenuti con tutti i risvolti positivi per il carcere di Lecce. I fondi per il piano straordinario per le carceri sono disponibili, non si accettano più scuse”. Apc-Carceri/ Garante Lazio: Critiche le condizioni di Angela Strangio Sorella del boss di Duisburg, Marroni: “Ha deciso di suicidarsi” Roma, 13 mag. (Apcom) - Sono critiche le condizioni di Angela Strangio, 30 anni, sorella del boss considerato autore della strage di Ferragosto nella di Duisburg in Germania, Giovanni Strangio, dal 13 febbraio in sciopero della fame e da sabato scorso anche della sete. Lo rende noto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, spiegando che questa mattina i suoi collaboratori hanno incontrato la donna e i sanitari che la stanno seguendo all`interno dell`ospedale ‘Gorettì di Latina, dove è stata trasferita dalla sezione di Alta Sicurezza del carcere di Latina. Angela Strangio è apparsa lucida, ma la sua decisione di proseguire lo sciopero della fame e della sete sta esponendo a rischio concreto di danni irreparabili i suoi organi vitali. In tre mesi è già scesa da 55 chilogrammi di peso a 42, ma fin quando la Strangio sarà considerata capace di intendere e volere, non sarà possibile, per i medici, praticare un trattamento sanitario obbligatorio con l`alimentazione forzata. “Una donna ha deciso di porre volontariamente fine alla sua vita - dice Marroni - e lo sta facendo non nell`indifferenza ma fra la preoccupazione dei medici e degli operatori penitenziari in queste drammatiche ore alle prese con il dubbio, che è anche in noi, se debba prevalere il dovere di salvare comunque una vita o la volontà di una donna di suicidarsi”. Tentato stupro al Cie Tentato stupro, ieri, al Cie di Modena. Vittima un giovane nigeriano. Subito arrestati gli aggressori, tre uomini magrebini. Un giovane nigeriano, trattenuto nel centro di identificazione e di espulsione di Modena da appena una settimana, ha subito un tentativo di stupro da parte di tre uomini magrebini, due marocchini e un tunisino, trattenuti invece al Cie da più di 2 mesi. Il fatto, gravissimo, è avvenuto ieri pomeriggio, intorno alle 17 nella stanza di una delle sezioni abitative del Cie. L’uomo era già stato immobilizzato dai suoi tre aguzzini quando è stato soccorso dal personale della Misericordia e dai poliziotti in servizio nella struttura di via Lamarmora, intervenuti immediatamente alle grida e alle richieste d’aiuto della vittima. La violenza non è stata consumata, per il giovane nigeriano tanta paura e alcune escoriazioni che sono state medicate direttamente nell’astenteria del Cie, dove si trova ancora attualmente. Gli aggressori sono invece stati arrestati e trasferiti al Sant’Anna. L’episodio ha preoccupato gli stessi operatori del Cie: ‘Non ci sono dubbi che l’aggressione fosse a scopo sessuale, c’è un testimone che ha confermato tuttò – commenta il presidente della Misericordia Daniele Giovanardi che conclude ribadendo quello chge ormai va dicendo da tempo: “nelle carceri e nei luoghi di contenimento in genere bisogna separare chi ha una lunga fedina penale da chi invece non è un malavitosi, il rischio è che i capi bastone cerchino di dominare i più deboli”. Del caso si occupa il sostituto procuratore Claudia Natalini; domani verrà fissata l’udienza di convalida. di Sabrina Ronchetti SALONE LIBRO: SCRIVERE IN CARCERE? È TORNARE A VIVERE/ANSA CONCORSO ‘RACCONTI DAL CARCERÈ, SCRITTI DEI DETENUTI (ANSA) - TORINO, 13 MAG - ‘Sono molto contento di partecipare a questo concorso. Però sono certo di una cosa: non racconterò la mia storia. Perché è solo mia, e ne sono geloso. Non perché mi vergogni: io non mi vergogno di niente. Ma non amo fare troppo spettacolo sulle storie individualì. A parlare è Marco, 33 anni, da 10 detenuto al carcere ‘Lorusso e Cotugnò di Torino, uno dei tanti carcerati italiani che ha partecipato al concorso ‘Racconti dal carcerè presentato oggi a Torino. Promosso dalla Siae e dal Ministero di Grazia e Giustizia, il premio ha come madrina Dacia Maraini. ‘La scrittura in carcere - scrive la Maraini in una nota di presentazione dell’iniziativa - è un importante veicolo per il reinserimento socialè. Marco, che questa sera, come sempre, rientrerà in carcere alle 22, ha ancora due anni da scontare. Di giorno lavora come bibliotecario alla scuola Holden di Torino, e studia all’Università. ‘Penso che un progetto come questo sia utile per chi in carcere vuole scrivere e non può frequentare un corso che lo indirizzi. Si dice che in carcere si scriva molto, ma non è vero. La scrittura in prigione è un lavoro come gli altri - aggiunge Marco - permette di avere autonomia, un pensiero indipendente e di combattere l’alienazionè. Secondo Marco ‘per scrivere la tecnica serve, certo, ma prima di tutto ci vuole la sostanza. È come imparare a maneggiare il fuoco. Scrivere in carcere è un pò come fare l’amore in un parco. Un gesto eversivo, che aiuta a riappropriarsi del diritto di parolà. Al concorso partecipano solo racconti scritti da detenuti. I 20 migliori saranno selezionati, e a ciascuno verrà affidato un ‘tutor’ tra i maggiori scrittori italiani, tra cui - il numero delle adesioni è stato molto alto - ci sono Barbara Alberti, Gianni Bisiach, Vincenzo Consolo, Maurizio Costanzo, Erri De Luca, Gianni Minà, Federico Moccia, Susanna Tamaro, Marcello Veneziani e Renato Zero. La giuria che visionerà i lavori sarà presieduta da Elio Pecora. ‘I detenuti - sostiene la Maraini - nella loro vita hanno dato la precedenza all’azione, mentre in carcere hanno il tempo di riscoprire la loro vita interiore, con la riflessione, la lettura, la scrittura. E così lavorare dal profondo per il loro ritorno nella societa”. Tra coloro che hanno inviato i propri racconti c’è chi ha preso la licenza media in carcere, chi ha cominciato la sua opera dedicandosi alle lettere d’amore; c’è l’extracomunitario che lì ha imparato l’italiano, c’è anche chi, dopo essere passato da esperienze eversive, ha maturato la voglia di raccontare la propria vita iniziata in una famiglia borghese e apparentemente senza problemi. (ANSA). “IL GRANDE FRATELLO” TRA I RECLUSI DEL CARCERE DI VASTO = (AGI) - Vasto (Chieti), 14 mag. - Alberto Baiocco, il vastese protagonista del reality televisivo il “Grande Fratello”, incontrerà domani i detenuti del carcere di Vasto (Chieti). Alle ore 15, Baiocco parlerà della sua esperienza ai reclusi che, nei giorni della sua permanenza nella casa più spiata d’Italia, lo hanno seguito dal carcere. La manifestazione, organizzata da Miranda Sconosciuto, insegnante presso la casa circondariale di Torre Sinello e già promotrice, in più occasioni, di eventi educativi e ricreativi in carcere, vedrà la partecipazione anche del gruppo musicale dei Marron Glacès (Simone Altieri alle percussioni, Nicola Cedro alla chitarra e Fabio Falcone a piano e basso). “Lo spettacolo - spiega Miranda Sconosciuto - vuole essere un incontro tra il ‘dentrò e il ‘fuorì, con il contributo di Alberto Baiocco, bravo ragazzo, attento alle problematiche sociali, ancor prima dell’esperienza al ‘Grande Fratellò. Un esempio positivo - conclude la Sconosciuto - di bontà, altruismo e generosità d’animo per chi, con scelte sbagliate, non ha dato valore alla propria libertà personale”. TERRORISMO:GRECIA,SOLIDARIETÀ A DETENUTI LA BOMBA A CARCERE (ANSA) - ATENE, 14 MAG - La potente bomba ad orologeria esplosa ieri sera nei pressi del carcere di Korydallos, ad Atene, è secondo la polizia un attentato per esprimere appoggio ai capi della principale organizzazione armata greca, Lotta Rivoluzionaria (EA) recentemente arrestati e detenuti nella prigione di massima sicurezza. L’attentato, avvenuto poco dopo le 22.00 ora locale (21.00 italiane) dopo una telefonata al quotidiano Eleftherotypia e alla rete televisiva Alter ha provocato danni a numerosi edifici circostanti il carcere e il ferimento non grave di una donna. L’anonimo interlocutore aveva avvertito che un ordigno sarebbe esploso dopo 30 minuti. La polizia è intervenuta e ha fatto in tempo ad evacuare parte della zona, prima che si producesse la potente esplosione udita in buona parte della capitale e che ha danneggiato finestre ed esterni di numerosi edifici circostanti. Una donna di 23 anni è rimasta ferita alla gamba da frammenti di una finestra ed è stata ricoverata e poi dimessa dall’ospedale. L’esplosivo, almeno 10 chilogrammi, era stato posto secondo la polizia in un contenitore di immondizia a ridosso di uno dei muri esterni della parte vecchia del carcere. Gli inquirenti, considerando la forza dell’ordigno e le modalità dell’attentato, ritengono che si tratti di un’azione compiuta dalla principale organizzazione armata, EA oppure da altre formazioni insurrezionaliste come Cospirazione dei Nuclei di Fuoco (Fsp) o Volontà di Popolo. L’obiettivo sarebbe un messaggio di solidarietà per alcuni capi di EA arrestati nei mesi scorsi e detenuti a Korydallos. L’arresto di sei persone appartenenti a EA e la scoperta dell’arsenale del gruppo armato che nel 2007 lanciò un missile contro l’ambasciata americana ad Atene, avevano fatto pensare che esso fosse stato di fatto smantellato. (ANSA).