Giustizia: suicidi, affollamento, stranieri e niente nuove celle, il sistema carcerario al collasso di Renato Pezzini Il Messaggero, 13 maggio 2010 Vasiline aveva 37 anni, era bulgaro. Dall’inizio di marzo era a San Vittore in attesa di essere estradato in Spagna, l’altro giorno ha detto ai compagni di cella che non sarebbe sceso in cortile per l’ora d’aria: “Non sto tanto bene, non me la sento”. Quando è rimasto solo ha strappato un lembo di lenzuolo e si è impiccato in bagno. È il venticinquesimo detenuto (su 67 mila) che si ammazza dall’inizio dell’anno, nel 2009 furono 72 a scegliere la stessa “via di fuga”. E se a qualcuno sembra un numero accettabile o fisiologico provi a pensare che se nella società degli uomini liberi i suicidi avessero la stessa frequenza, dall’inizio dell’anno già 21 mila persone si sarebbero tolte la vita in Italia: e parlerebbero tutti - giustamente - di una strage da evitare in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo. Ma visto che si tratta di detenuti, la strage può continuare. L’ultimo censimento di quella che viene definita “popolazione carceraria” risale alla fine di aprile: erano più di 67 mila, quando invece i penitenziari ne potrebbero ospitare poco più di 43 mila. Con casi limite come quello della Casa Circondariale di Padova (90 posti, 252 reclusi) o di Forlì (115 posti e 273 detenuti). Un dato che da solo spiega come si vive oggi fra le mura di una galera. Ci sono celle a San Vittore - ma anche nelle altre grandi carceri d’Italia come l’Ucciardone a Palermo, o Poggioreale a Napoli - dove in meno di dieci metri quadri ci stanno sei detenuti “chiusi” 21 ore al giorno, con un’unica possibilità: stare sdraiati in branda e alzarsi a turno anche soltanto per andare in bagno. La Costituzione non lascia dubbi circa il trattamento da riservare ai detenuti: dice che il carcere deve servire esclusivamente alla “rieducazione”. Ma quale rieducazione può esserci per un condannato costretto a passare giorni, mesi, anni sdraiato su un letto a castello a tre piani in una stanza insieme con altri cinque sconosciuti? Quasi la metà dei detenuti (trentamila) è in attesa di giudizio. Non hanno ancora avuto una condanna definitiva, e per la legge italiana sono dunque ancora innocenti. Ma nelle carceri italiane, evidentemente, si tollera che degli innocenti rimangano blindati in una cella dove non ci si può nemmeno lavare. O dove la burocrazia frena anche i diritti più elementari, come quello di essere curati in visto che nelle infermerie mancano persino le aspirine. Tre giorni fa il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ha diramato una circolare per far sapere che la telefonata a casa a cui alcuni detenuti hanno diritto (una ogni quindici giorni, e naturalmente ascoltata) può essere fatta anche verso un telefono cellulare. Sembra una banalità, ma fino a oggi uno che dal carcere chiamava il numero fisso di casa e non trovava nessuno doveva rinunciare anche a quel piccolo frammento di calore umano: il regolamento infatti non prevede che si possa chiamare la moglie, o il figlio, o il padre sul cellulare. Perché? Nessuno l’ha mai saputo spiegare. Nella circolare del Dap era anche scritto che i detenuti al loro arrivo devono essere informati sui loro diritti. Altra cosa ovvia, che ovvia invece non è. Soprattutto per gli stranieri che entrano in cella e non sanno neppure che (almeno in linea teorica) possono avere un colloquio la settimana con i parenti, o fare dei lavori retribuiti, o chiedere di essere curati se sono affetti da malattie più o meno gravi. Non è certo un problema che riguarda pochi: su 67 mila ospiti, gli stranieri sono 25 mila, più di uno su tre. In genere vengono messi in cella insieme, suddivisi per etnia e abbandonati a sé stessi, privati di assistenza, esclusi: il modo migliore per alimentare la formazione di bande che appena possono si scontrano fra loro e che accendono climi di tensione intollerabile anche per tutti gli altri. Non a caso a Fossano (Cuneo) dopo molti anni di apparente pacificazione si è sfiorata la rivolta nelle scorse settimane. Qualcuno, ogni tanto, salta fuori con la proposta di rimandare ai loro Paesi tutti gli stranieri detenuti: “Così risolviamo il problema del sovraffollamento in un colpo solo”. Col piccolo problema che però bisognerebbe mandare a casa anche quelli in attesa di giudizio (e quindi “presunti innocenti”), o quelli col permesso di soggiorno (e che quindi hanno il pieno diritto di rimanere in Italia), o - tanto per fare un esempio - i 3.255 detenuti romeni che essendo cittadini comunitari non possono essere rispediti proprio da nessuna parte. Qualcuno altro dice che la soluzione sta nella costruzione di nuovi istituti penitenziari. Ma non ci sono soldi, né progetti, e intanto i detenuti seguitano a crescere di numero anche grazie a leggi che hanno ridotto drasticamente la possibilità di accedere a misure alternative (arresti domiciliari, affidamento ai servizi sociali, inasprimento delle pene per i recidivi) senza tenere conto delle conseguenze che avrebbero avuto. Conseguenze che, come se non bastasse, gravano in modo pesante anche sugli agenti di custodia, altre vittime di una situazione al limite del collasso: non ci sono soldi neanche per loro, i sindacati della Polizia Penitenziaria hanno calcolato che all’organico minimo mancano seimila uomini, ci sono casi in cui un solo agente deve tenere sotto controllo reparti con cento detenuti. Ma la sicurezza, in carcere, non sembra essere una priorità. Giustizia: governo della politica e governo del territorio vivono nella schizofrenia di Susanna Marietti (Antigone) Aprile on-line, 13 maggio 2010 Governo della politica e governo del territorio vivono nella schizofrenia. Gli ordini di polizia dicono il contrario di quel che Alfano tenta di realizzare con il suo inutile provvedimento. È il tiro alla fune tra chi ci crede e chi non ci crede, tra Maroni e Alfano, tra la destra fascista e l'individualismo del "Silvio c'è". E sul terreno della sicurezza sempre più stanno vincendo i primi Supponiamo - e non si tratta di un grande esercizio di fantapolitica - che Berlusconi sbandieri ai quattro venti un qualche provvedimento adottato dal suo governo per ridurre le tasse ai cittadini. Gli analisti economici del centrosinistra - che da vario tempo, chissà perché, alle tasse si sono disaffezionati anch'essi - ci mostrano dalle poltrone di Ballarò, con tanto di grafici mandati in onda dalla redazione, che no, non è vero, quel provvedimento non avrà gli effetti auspicati, le famose "tasche dei cittadini" continueranno a essere vessate quanto prima se non di più, Berlusconi voleva solo farsi bello di un risultato che non ha raggiunto e aumentare o fortificare il proprio consenso. Tutto fila. Il ministro Alfano propone un disegno di legge per fare fronte all'affollamento penitenziario. Smette di puntare tutto sulla solita favola delle carceri costruite a tempi da record e senza fondi a disposizione e punta sull'introduzione di una nuova misura che permette di scontare in luogo privato l'ultimo anno di detenzione. Il provvedimento viene subito battezzato "svuota carceri" e Alfano è accusato dall'asse dell'estremo giustizialismo di destra e di sinistra di voler mettere in piedi un indulto mascherato. Dall'altra parte invece - seppur a Ballarò nessuno ci invita - si fa notare come il ddl abbia una portata molto limitata e certo non possa raggiungere i risultati auspicati. Ma qui non tutto fila. I due scenari, ovviamente di diverso contenuto, non ripropongono nemmeno la medesima forma. Al contrario del premier con le tasse, qui Alfano non ha alcun interesse a farsi fautore di una misura considerata lassista nei confronti dei delinquenti, a farsi etichettare come il ministro dalla clemenza facile. Non è su questo che hanno vinto le elezioni. L'interesse del ministro della Giustizia non è in questo caso propagandistico, bensì assai legato alla effettiva buona riuscita di quanto messo in campo. Da responsabile del sistema penitenziario, Alfano è ben spaventato dalla sua possibile implosione, dallo scenario che si potrebbe verificare se non si trova subito una soluzione un tantino più realistica di quella del piano edilizio. E allora, perché sventolare un provvedimento così poco incisivo? E perché accettare di renderlo ancor meno incisivo con gli emendamenti che abbiamo visto nei giorni scorsi, in primo luogo ammettendo una decisione discrezionale da parte dei giudici nella concessione della detenzione domiciliare, che nella prima versione del testo non c'era? Non certo per convenienza, non certo per disinteresse nei confronti della buona riuscita a fronte di un interesse esclusivamente propagandistico. Tutt'altro. La politica governativa è davvero impazzita. Non può trattarsi di propaganda, ma di effettiva incapacità ad agire altrimenti. Alfano ha a cuore lo sfollamento carcerario, non vuole essere ricordato come il ministro che ha mandato le galere al definitivo sfascio. Con le promesse di pugno di ferro e tolleranza zero lui e il suo partito vincevano le elezioni, ma senza affezionarvisi più di tanto. La sola cosa che li affeziona sono i loro interessi. Le ideologie le lasciano alla sinistra. Oppure alla vera destra del nostro Paese, la Lega. Ecco ovviamente da cosa è bloccato Alfano: da chi ci crede davvero nella tolleranza zero. La prima formulazione del disegno di legge, già estremamente cauta e molto contraddittoria, viene svuotata ancor più di efficacia dalla discrezionalità dei magistrati. Cosa cambia rispetto a prima? Volendo, i magistrati non potevano già mandare a casa i detenuti che dovevano scontare un anno di pena? Ci sarà forse più mano libera con i recidivi, ma che numeri si potranno mai coinvolgere da essere determinanti? Ed ecco che, mentre lo "svuota carceri" è in Parlamento, fuori si arrestano - malmenandoli, ma questa è un'altra storia - dei ragazzini attorno allo stadio, disponendo immediatamente la custodia cautelare. Governo della politica e governo del territorio vivono nella schizofrenia. Gli ordini di polizia dicono il contrario di quel che Alfano tenta di realizzare con il suo inutile provvedimento. È il tiro alla fune tra chi ci crede e chi non ci crede, tra Maroni e Alfano, tra la destra fascista e l'individualismo del "Silvio c'è". E sul terreno della sicurezza sempre più stanno vincendo i primi. Giustizia: perde Alfano e vince Maroni, il carcere e la violenza “istituzionale” per ogni occasione di Susanna Marietti (Associazione Antigone) Il Manifesto, 13 maggio 2010 Due cose ci dice la vicenda di Stefano Gugliotta: dell’uso della violenza e di quello del carcere. La violenza è uno strumento privo ormai di alcun fine specifico. Non se ne fa un uso politico, come già in altri tempi. Sotto i suoi colpi non finiscono categorie determinate di persone, come si sarebbe potuto immaginare all’indomani del solo G8 genovese. È indiscriminata e indeterminata, la si rivolge al tossicodipendente trovato in un parco con pochi grammi di hashish in tasca così come al presunto tifoso o anche, se già in quella vogliamo riconoscerne i prodromi, ai detenuti oggetto di uno sfollamento nel carcere ormai dieci anni fa. E non vale troppo la pena di sforzarsi a rintracciarne le origini attraverso analisi un tantino complesse. Chiunque nella storia abbia mai voluto governare dando un segnale di autoritarismo ha utilizzato genericamente la violenza. Non c’è molto più di questo. Le mele marce che oggi si vogliono invocare sono ben legittimate dall’intero albero sul quale vivono. L’unico possibile segnale di discontinuità sarebbe oggi l’introduzione del crimine di tortura nel codice penale. Il carcere lo si usa ormai per ogni occasione. È in assoluto l’ambito nel quale le leggi vengono meno rispettate. Le leggi penitenziarie, per l’illegalità della condizione delle nostre galere. Le leggi procedurali, per come viene utilizzata la custodia cautelare in carcere. Abbiamo incontrato Stefano Gugliotta a Regina Coeli con gli altri ragazzi arrestati a seguito della partita Roma-Inter. Abbiamo visto le ferite sul suo corpo e su quello di un altro giovane. Deciderà la magistratura se sono un gruppo di facinorosi o quel che apparivano a un incontro superficiale quale il nostro: normalissimi ragazzi, perfino un tantino miti. Ma certo non sono persone cui l’applicazione della custodia cautelare si giustifichi in punta di diritto. E qui salta agli occhi la schizofrenia delle politiche governative. Nei giorni in cui il ministro Alfano si batte per un disegno di legge qualificato come “svuota carceri”, gli ordini di polizia sono quelli di riempire le galere di ragazzetti innocui. Ma Alfano alle grida sulla sicurezza non ci ha creduto mai troppo. Oggi teme solo che il sistema penitenziario di cui è responsabile non esploda. Tutto il suo “partito dell’amore” non ha creduto mai a niente, se non a se stesso e ai propri interessi. La sicurezza serviva per vincere le elezioni. Diverso è invece per la Lega, la vera italica destra - il vero fascismo - dei giorni nostri. La Lega ci crede veramente. E, su questo terreno, è lei che ha vinto. Tra Alfano e Maroni è oggi decisamente il primo ad avere la peggio. Giustizia: l’Anm apprezza gli emendamenti del governo al ddl sulla detenzione domiciliare Ansa, 13 maggio 2010 L’Associazione nazionale magistrati apprezza gli emendamenti del governo al ddl sulla detenzione domiciliare, soprattutto la cancellazione dell’automatismo nella concessione della misura. “Prendiamo atto con favore - dice il presidente Luca Palamara - che gli emendamenti recepiscono le osservazioni formulate dall’Anm in sede di audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera”. “Se le cose stanno così sono stati accolti i nostri suggerimenti”, dice anche il presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, Pasquale Nobile De Sancits. E fa notare che si tratta proprio di alcune delle modifiche che erano state chieste da lui e dai suoi colleghi. Giustizia: polizia violenta; non è questione di “mele marce” ma di una involuzione culturale di Giuliano Pisapia Il Manifesto, 13 maggio 2010 Stefano Gugliotta è libero. Un sospiro di sollievo per lui, i suoi familiari e tutti coloro che ancora si indignano di fronte all’ingiustizia e alle ingiustizie. Ma, anche, un senso di angoscia e di rabbia se solo si pensa che Stefano, colpito da una violenza gratuita, mai avrebbe dovuto essere privato della libertà. Si affollano mille domande, una tra tutte: cosa sarebbe accaduto se, di fronte all’ennesimo episodio di “macelleria cilena”, non vi fosse stato quel filmato che ha potuto ripristinare una verità che si voleva dolosamente nascondere. È tragico doverlo dire, ma è ancora più angosciante non poterlo negare. Di fronte alle parole di più poliziotti, e a un probabile verbale falso, per l’ennesima volta l’impunità della violenza avrebbe sopraffatto la verità della ragione. L’esperienza ci è maestra: di fronte alla prepotenza del potere, chi ne è testimone - impaurito o intimidito - si volta, troppo spesso, dall’altra parte o, guarda e poi sparisce. Di fronte a un filmato oggettivamente incontestabile, il Ministro dell’Interno intende costituirsi parte civile contro il poliziotto fellone. Una scelta di per sé apprezzabile, se non rasentasse la sfrontatezza, dal momento che quanto accaduto è l’effetto proprio delle leggi volute da questo governo; è il risultato di una cultura di cui è intrisa questa maggioranza, che ha creato consenso proprio sull’ostilità verso gli emarginati, i deboli, i diversi, gli extracomunitari, i soggetti deboli, chi non può difendersi, perché la sua colpa è di essere su un motorino, senza casco e “con la maglietta rossa”. Stefano è vivo e libero; così non è per Federico Aldovrandi, Stefano Cucchi, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva e tanti altri. Storie diverse, ma simili per la violenza subìta da chi, per conto dello stato, aveva il dovere di garantire la loro libertà, la loro vita e, invece, ha usato la divisa per violentare il diritto e calpestare i diritti. Certo, non bisogna generalizzare, ma non sono tollerabili il silenzio e l’omertà che dilagano anche tra le forze dell’ordine, con la progressiva emarginazione di chi ancora si batte per la democratizzazione delle forze dell’ordine. E la responsabilità è, innanzitutto, di chi ha approvato misure quali il prolungamento del periodo di permanenza nei C.I.E. (dove l’abuso, la violenza e la sopraffazione sono quotidiani), le ronde, il far-west penale ed ha ripristinato reati, quali l’ oltraggio a pubblico ufficiale che la Corte Costituzionale, decenni fa, aveva definito “il prodotto della concezione dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipici dell’ideologia fascista e quindi estranei alla coscienza democratica instaurata dalla costituzione democratica”. Ecco perché non si può più parlare solo di “mele marce” ma, piuttosto, di una involuzione culturale che muove dall’alto, da chi ci governa. Ecco perché la nostra denuncia deve essere continua, ecco perché dobbiamo usare tutti gli strumenti della democrazia per opporci a un abisso che ci sta avvicinando a un passato che speravamo tramontato. La storia ce lo ha insegnato: non si è mai troppo attenti alla difesa della garanzie democratiche; ogni cedimento di fronte alla difesa di un diritto determina un abuso maggiore che alla fine incide irreversibilmente sulle regole della democrazia. E di ciò, non dobbiamo dimenticarlo, è responsabile anche chi si è opposto in Parlamento a leggi - quale quelle sull’identificazione delle forze dell’ordine o del Garante delle persone private della libertà - che sarebbero determinanti per porre un freno a condotte vili, quale quelle di chi usa la forza per calpestare i diritti e massacrare i corpi di chi non è in grado di difendersi. Giustizia: questo nostro stato di diritto… che sta lentamente degradando a stato di polizia Patrizio Gonnella (Presidente Associaizone Antigone) Terra, 13 maggio 2010 Ho incontrato Stefano Gugliotta a Regina Coeli. Ho incontrato anche gli altri suoi sfortunati colleghi di sventura giudiziaria. Non mi parevano facinorosi ultras, anzi. A me pare che siamo di fronte a un atto arbitrario (nonché violento) di polizia legittimato in prima istanza dalla magistratura. La teoria delle mele marce non regge più. Dopo una, due, tre, quattro mele marce il problema non è più la mela ma l’intero albero e tutte le sue radici. Fuor di metafora non siamo di fronte all’ennesima mela marcia dell’ultimo decennio ma a un sistema che è diventato marcio. Un marciume pericoloso perché mette in discussione conquiste secolari della nostra democrazia e del nostro stato di diritto: in primo luogo l’habeas corpus. Dal Global Forum di Napoli nel 2000 ai fatti che riguardano Stefano Gugliotta sono trascorsi dieci anni. Nel frattempo ci sono state le violenze gratuite al carcere San Sebastiano di Sassari, i pestaggi alla Diaz e a Bolzaneto, decine e decine di casi meno noti, le morti di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. La difesa delle forze dell’ordine - parole analoghe le abbiamo però sentite dire anche dal leader dell’Idv Antonio Di Pietro - è sempre la stessa: “se ci sono mele marce le puniremo”. I sindacati di polizia - non tutti a dir del vero - si stringono intorno ai loro uomini assecondando un pericoloso spirito di corpo. Le violenze subite da Stufano Gugliotta - i cui segni ho visto di persona sul suo corpo - vanno risarcite con una rapida inchiesta e una altrettanto rapida condanna del poliziotto colpevole. Quella violenze vanno, però, risarcite anche politicamente. Se ciò non dovesse accadere sarà avallata la tesi che è il sistema a essere marcio e non il singolo operatore di polizia. Tre cose si possono fare nel mondo della politica in tempi stretti per dare un segnale culturale simbolico e significativo: 1) introdurre il crimine di tortura nel codice penale; 2) istituire una figura indipendente di controllo di caserme, commissariati, carceri e centri di identificazione per stranieri; 3) prevedere, attraverso un numero, un codice o un nome l’identificabilità di tutti i poliziotti che svolgono funzioni di ordine pubblico. Così finalmente quando un bambino, un ragazzo che manifesta, un tifoso per strada ha paura si potrà dire per incoraggiarlo: “stai tranquillo, ora chiamo la polizia per proteggerti”. Quelle che chiediamo sono poche cose, in assenza delle quali potremo tristemente affermare che il nostro stato di diritto sta lentamente degradando a stato di polizia.” Giustizia: giovani e carcere; sei su dieci ne sanno poco, sovraffollamento e rieducazione sono le priorità Ansa, 13 maggio 2010 Indagine Gpf per il Forum Nazionale Giovani: solo il 14,3% ha una buona conoscenza dei dati essenziali sul sistema carcerario del nostro paese. Atteggiamento aperto e nessuna preclusione, ma sovrastimato il dato sugli indultati tornati in carcere. La maggior parte dei giovani italiani ha una scarsa conoscenza della situazione delle carceri del nostro paese ma nonostante questo l’atteggiamento di massima nei confronti dei detenuti non è caratterizzato né da preclusione né da chiusura nei confronti dei detenuti. È il risultato di un’indagine voluta dal Forum Nazionale dei Giovani e realizzata dall’istituto di ricerca GPF su mille giovani italiani dai 18 ai 34 anni. Solo il 14,3% degli intervistati ha dimostrato una conoscenza buona della situazione delle carceri italiane, con riferimento particolare alle strutture presenti sul territorio, al numero dei detenuti, alle loro condizioni igienico-sanitarie, alle principali cause di morte tra di essi, alla tipologia di reati più diffusa, alla composizione etnica della popolazione carceraria, alle varie opportunità di reinserimento nel contesto sociale fornite dal sistema carcerario e alla presenza di misure alternative al carcere. Per sei giovani su dieci (il 60,1%) la conoscenza di queste tematiche è definita “scarsa”: percentuale concentrata soprattutto fra coloro con un livello di istruzione e di occupazione basso, che non partecipano ad alcun movimento associativo e si informano principalmente attraverso la televisione. Fra chi invece ha una buona conoscenza del sistema carcerario italiano, più alta è la percentuale degli iscritti ad associazioni politiche e di volontariato e di giovani che utilizzano quotidiani e internet come mezzi di informazione. Fra i singoli dati, il meno conosciuto è quello relativo alla consistenza numerica degli istituti di pena presenti sul territorio, con solo il 4,7% ha dato una risposta che si avvicina al dato reale, mentre quello più noto è il problema del sovraffollamento, citato dall’81,2% dei giovani. La consapevolezza della propria scarsa informazione è riferita da oltre il 60% degli intervistati, con un 59,8% che ritiene che la tematica sia trattata poco dai mezzi di informazione. Se la conoscenza della situazione carceraria risulta scarsa, i risultati dell’indagine evidenziano un atteggiamento positivo nei confronti dei detenuti: in particolare, i giovani non mostrano preclusione o chiusura nei loro confronti. Al contrario, sembrano essere sensibili alle tematiche inerenti la detenzione. L’interesse e la sensibilità sono manifestate dall’accordo rilevato con la funzione rieducativa della pena (l’87,1%) e confermate dall’elevata percentuale convinta dell’esigenza di dover intervenire per migliorare la condizione dei detenuti (84,3%). I giovani, poi, non sembrano avere preclusioni sostanziali all’inclusione degli ex-detenuti nel contesto sociale: solo il 16,7% degli intervistati ha risposto che non assumerebbe un detenuto. Interessanti i dati sulla recidiva: più dell’80% degli intervistati ritiene che chi ha avuto esperienza del carcere tenda a commettere di nuovo reati. In particolare, riguardo agli detenuti che hanno usufruito dell’indulto di tre anni fa, circa l’85% dei giovani ritiene che la maggioranza di essi sia tornata a delinquere in seguito. Il dato reale è invece inferiore al 50% e si attesta su un 30% degli indultati: i curatori ritengono che l’attenzione posta dai mass media su alcuni casi di recidiva abbia contribuito ad alimentare la percezione del fenomeno, fino a sovrastimarlo rispetto alla sua portata reale. Per migliorare la situazione delle carceri, una parte degli intervistati (il 64,9%) è convinta dell’esigenza di intervenire con investimenti (costruire nuovi penitenziari e assumere più agenti di polizia penitenziaria), mentre il 22,7% propone alternative alla pena detentiva o miglioramenti nella vita quotidiana dei detenuti e il 24,9% indica come proposta migliorativa quella di trasferire nei paesi di origine i detenuti stranieri. Giustizia: un supplemento di indagine sulla morte di Carmelo Castro nel carcere di Catania di Stefano Anastasia e Simona Filippi (Associazione Antigone) Terra, 13 maggio 2010 Poco più di un anno fa, Carmelo Castro, diciannove anni, incensurato, moriva nel carcere di Catania. Il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti ne segnala il decesso tra i casi di suicidio del 2009. Tutto tragicamente chiaro, sembrava, nella consumata ritualità dei suicidi in carcere. Poi, tre mesi fa, ci scrivono i genitori: quella morte, invece, sarebbe avvenuta in circostanze poco chiare. Torniamo indietro: il 24 marzo dell’anno scorso Carmelo Castro viene fermato insieme ad altri due ragazzi ritenuti responsabili di una rapina subita da un tabaccaio. Viene portato nella caserma dei Carabinieri di Paternò e da lì in carcere. Dopo l’arresto, ci raccontano i genitori, i tre giovani sarebbero stati “massacrati di bastonate” così come rivelerebbero le foto segnaletiche in cui il figlio “aveva gli occhi neri, l’orecchino strappato e le labbra ferite”. Al momento del suo ingresso in carcere, Carmelo si trova in un evidente stato di agitazione, tanto che a seguito del colloquio di primo ingresso gli viene prescritto un tranquillante e viene sottoposto al regime di “grandissima sorveglianza”, la cui funzione primaria è proprio quella di prevenire il verificarsi di gesti autolesionistici in soggetti a rischio e che comporta - essenzialmente - che la persona venga osservata 24 ore su 24. In quella cella, guardato a vista 24 ore su 24, Carmelo si sarebbe impiccato la mattina del 28 marzo dell’anno scorso. L’allarme, un passaggio in infermeria e quindi il trasporto con un auto di servizio all’Ospedale più vicino (5 minuti di viaggio), dove Carmelo però arriva senza vita. Domani, venerdì 14 maggio, il giudice per le indagini preliminari decide sulla richiesta di archiviazione avanzata dal Pubblico ministero. Il legale della famiglia si oppone, e sciorina un lungo di mancanze nelle attività di indagine svolte dalla Procura. Per tacere dei dettagli, avvolte nel mistero restano le condizioni in cui Carmelo è arrivato nel carcere di Piazza Lanza, così come i buchi nella “grandissima sorveglianza” alla quale avrebbe dovuto essere sottoposto e, infine, l’assistenza che gli è stata prestata dal momento in cui è scattato l’allarme fino alla certificazione del decesso. Ridotta all’osso, come nel “caso Cucchi” la sequenza è sempre la stessa: c’è un prima (l’arresto), un fatto (la detenzione) e un epilogo (il precipitare della situazione). Cosa è successo in questi tre momenti? Cosa hanno fatto e cosa non hanno fatto i funzionari dello Stato che avrebbero dovuto portare quel ragazzo integro e nella pienezza dei suoi diritti davanti al giudice che avrebbe dovuto decidere della fondatezza delle accuse che gli erano rivolte? Domande, come sempre, inquietanti, che meritano ogni possibile supplemento di indagine. Puglia: Sappe; la situazione nei penitenziari della regione è sempre più difficile Il Velino, 13 maggio 2010 “Noi del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) lo stiamo denunciando da mesi ormai, poiché la situazione all’interno del carcere di Lecce e di quelli pugliesi, sta diventando sempre più difficile”. Lo dichiara il segretario regionale Federico Pilagatti. “Proprio per questi motivi nei prossimi giorni effettueremo un’ispezione all’interno del carcere leccese dopo quella effettuata presso il carcere di Taranto e a breve in altre carceri della regione. Il Sappe ritiene che la situazione si stia degradando sempre di più e crescono le nostre preoccupazioni sia per quanto riguarda le condizioni igienico sanitarie - continua Pilagatti -, la situazione strutturale del carcere nonché per la grave carenza di Poliziotti penitenziari che ormai non c’è la fanno più. Il mix composto dal sovraffollamento di detenuti che, lo ricordiamo, ha superato il cento per cento dei posti a disposizione (quasi 1.400 detenuti a fronte di 660 posti), dalle condizioni igienico-sanitarie drammatiche derivanti dalla promiscuità, potrebbe scatenare con l’arrivo della prossima stagione estiva a causa della calura, (con le celle in cemento che superano i 50 gradi di temperatura) nonché della grave carenza d’acqua che lascia a secco i detenuti già dalle prime ore del pomeriggio, delle epidemie. Già le proteste dei detenuti, per ora pacifiche (sbattono le padelle contro le sbarre), diventano sempre più numerose e temiamo che presto possano diventare più dure e pericolose. Ciò perché nel carcere di Lecce sono presenti moltissimi detenuti affetti da patologie varie, anche infettive, per cui chiediamo una controllo sanitario più concreto e attento da parte dell’Asl al fine di tenere sotto controllo tali fenomeni che creano disagio e malessere a tutto il carcere”. “A causa della tensione presente nel carcere, varie sono state le aggressioni nei confronti degli operatori penitenziari e non si contano più le minacce quotidiane rivolte ai Poliziotti penitenziari. I sintomi della degenerazione del fenomeno sono individuabili analizzando il numero di Poliziotti penitenziari (quasi cento) che sono assenti dal lavoro poiché allo stremo delle forze, in quanto sottoposti a turni di lavoro massacranti senza che si intraveda la possibilità di una via di uscita. Che dire poi dei Poliziotti penitenziari addetti al nucleo traduzione che portano in giro i detenuti pericolosi sempre sotto scorta in automezzi sporchi e fatiscenti e che aspettano il pagamento delle indennità di missione (anticipate con soldi loro) da parecchi mesi? Il Sappe denuncia l’esorbitante aumento delle visite ambulatoriali, quasi il 50 per cento presso strutture mediche esterne al carcere dovute proprio al passaggio della sanità penitenziaria a quella pubblica. Tale situazione sta creando allarme sociale poiché decine di detenuti, anche pericolosissimi, lasciano il carcere per patologie che in passato venivano curate all’interno del penitenziario. Si vuole poi denunciare che il carcere di Lecce nonostante sia relativamente nuovo, a causa della mancata manutenzione, è diventato un colabrodo poiché, quando piove l’acqua, si infiltra ovunque dai reparti detentivi ai vari posti di servizio ove opera la Polizia penitenziaria, con effetti deleteri anche sulla staticità della struttura che potrebbe creare problemi all’incolumità di tutti. Il Sappe si chiede come sia possibile che il carcere di Lecce, costato centinaia di miliardi delle vecchie lire, possa ridursi in una situazione di degrado così forte”. “La mancanza di manutenzione può essere un elemento, ma riteniamo che non sarebbe male andare a fondo della vicenda. Il sindacato, alla luce di quanto denunciato, ritiene che a Lecce, per evitare la paralisi, sia necessario l’invio immediato di almeno cento Poliziotti penitenziari nonché l’utilizzo di militari sul muro di cinta, al fine di liberare personale da impiegare all’interno delle sezioni detentive. Si vuole ricordare che un solo agente deve controllare oltre 70 detenuti, anche pericolosissimi. Noi riteniamo che la ricetta per decongestionare le celle superaffollate e per ridare dignità a persone che vivono situazioni igienico-sanitarie da terzo mondo potrebbe essere quella di costruire negli enormi spazi a disposizione all’interno del muro di cinta, sezioni modulari che, oltre a essere più economiche di quelle in muratura, offrono maggiori confort, pulizia, sicurezza e non necessitano di alcuna manutenzione. Tale soluzione potrebbe venire dall’unica società italiana che su licenza americana costruisce da anni carceri modulari supersicure in mezzo mondo, ma non in Italia; carceri che costano meno, che non hanno pressoché manutenzione, che possono essere costruite in pochi mesi? Quali interessi hanno finora bloccato una verifica di fattibilità che risulterebbe più economica e veloce in un momento così drammatico in cui la popolazione detenuta a Lecce sta arrivando alle 1.400 unità a fronte di 660 posti disponibili - conclude il segretario regionale pugliese -. Basterebbero sei mesi di tempo e meno di 20 milioni di euro per approntare delle sezioni detentive modulari che potrebbero ospitare oltre 600 detenuti con tutti i risvolti positivi per il carcere di Lecce. I fondi per il piano straordinario per le carceri sono disponibili, non si accettano più scuse”. Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; detenuto tenta suicidio, salvato dai compagni di cella Agi, 13 maggio 2010 Drammatico episodio la notte scorsa nel carcere cagliaritano di Buoncammino dove un detenuto, che ha tentato di togliersi la vita, è stato salvato dal provvidenziale intervento dei compagni di cella. La notizia è stata data da Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che da tempo si occupa delle condizioni di vita dei detenuti sardi e che ha sottolineato come l’uomo si professi innocente. Il pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria e dei medici ha permesso di ristabilire la normalità. Il detenuto che è stato trasferito in osservazione nel Centro Diagnostico Terapeutico è in buone condizioni . “È evidente che il carcere - ha messo in evidenza Caligaris - crea uno stato di costante tensione anche per chi ha maturato la consapevolezza del reato. L’isolamento e l’allontanamento dal proprio ambiente è di per sé un evento traumatico. Chi ritiene ed è profondamente convinto di essere innocente, soprattutto quando è in attesa di giudizio, non sempre è in grado di mantenere il proprio equilibrio psichico. In questo caso particolare, l’attenzione dei compagni di cella è stata determinante. Ovviamente casi come questi - ha concluso Caligaris - non possono essere previsti, ma la vicinanza degli Agenti di Polizia Penitenziaria e la presenza dei Medici riesce a contenere i danni. È fondamentale tuttavia creare condizioni di migliore vivibilità all’interno delle strutture rafforzando l’area della sicurezza ma anche quella trattamentale, altrimenti l’esposizione ai rischi cresce specialmente con l’arrivo della bella stagione”. Napoli: Moretto (Pd); no all’ampliamento di Poggioreale, sì alla delocalizzazione Asca, 13 maggio 2010 “Il governo nazionale va contro una propria decisione quando dice di volere investire sull’ampliamento del carcere di Poggioreale, decisione che prevedeva grossi investimenti per la realizzazione di un nuovo istituto di pena nell’area napoletana”. È quanto dichiara il vice presidente del Consiglio Comunale di Napoli, Vincenzo Moretto. “Il ministero della Giustizia, - prosegue la nota - così come ha riferito agli organi di stampa il sottosegretario Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha deciso di ampliare il carcere di Poggioreale, per dare più spazio ai detenuti quando incontrano i loro familiari, raddoppiando i locali destinati ai colloqui, istituendo un call-center per prenotare le visite, oltre che ad ampliare il padiglione Genova, per creare più posti all’interno dello stesso Carcere”. “Tale decisione - aggiunge Moretto - dal punto di vista umano mi rallegra visto che, finalmente, si tratta di azioni sollecitate dal sottoscritto, sia al sindaco che all’assessore competente, attraverso interrogazioni e lettere. La decisione, però, dal punto di vista logistico, mi lascia alquanto sconcertato”. I motivi dello “sconcerto” espresso da Moretto sono due: “il primo è che il governo va contro una propria decisione, assunta all’atto del proprio insediamento, in quanto ha deciso di investire sull’attuale istituto di pena, mentre, precedentemente aveva deciso di investire nella costruzione di un nuovo istituto di pena nell’area napoletana, in modo da rendere possibile la chiusura del carcere di Poggioreale nell’ambito di un massiccio e rapido intervento di edilizia carceraria: una decisione che fu accolta con il plauso dal sottoscritto”. Il secondo motivo, aggiunge Moretto, “é che il cambio di rotta va contro la volontà espressa dal consiglio comunale il 27 gennaio 1998 (Giunta Bassolino) che approvò all’unanimità un ordine del giorno, presentato dal sottoscritto, in cui era prevista la delocalizzazione dell’istituto di pena e la destinazione dell’area, su cui insiste attualmente il carcere, ad area a verde attrezzato”. “La delocalizzazione - conclude Moretto - con la costruzione di un nuovo carcere più ampio, in una zona non centrale della città, favorirebbe lo sviluppo economico della zona, la costruzione di un polmone di verde, di cui la zona è carente e che si andrebbe ad integrare con il centro direzionale in continua espansione. Favorirebbe sia i detenuti che i loro familiari, i quali avranno maggiore spazio in cui muoversi, eliminando l’attuale sovraffollamento dell’istituto di pena, oltre ad eliminare una struttura progettata per essere temporanea e diventata, invece, uno dei maggiori carceri detentivi del Paese. Una struttura in grado di creare anche difficoltà e pericolosità, nel trasferimento dei detenuti al Tribunale, per i processi”. Milano: San Vittore; una guerra senza vincitori né vinti, dove perde solo la responsabilità di Giulio Cavalli (Gruppo Consiliare Idv) Agora Vox, 13 maggio 2010 Martedì 11 maggio insieme ai miei compagni del Gruppo Consiliare Gabriele Sola, Francesco Patitucci e Stefano Zamponi sono stato in “visita” al carcere di San Vittore di Milano. Me lo ero ripromesso in modo ancora più forte dopo il recente suicidio di un detenuto a Como. Rientra nei diritti (o meglio doveri) di un consigliere regionale potere (o meglio dovere) entrare in qualsiasi carcere della regione per compiere un’ispezione sulle condizioni ambientali di lavoratori e ospiti. Un doveroso privilegio da praticare con regolarità e senza spese a piè di lista. Entrare in un carcere con in tasca il diritto della visita breve è un distacco che non basta per non lasciarci dentro un pezzo di testa che ti rimbalza per i giorni successivi. A San Vittore ci sono circa 1.400 detenuti: il doppio di quelli che ci dovrebbero stare, ma si sa gli uomini come tutti i branchi sono capaci di stringersi se è l’unico modo di starci. Celle tre metri per tre: un fazzoletto di pavimento che all’Ikea si arreda con un mazzetto di 10 euro. Dentro i tre metri per tre qui a San Vittore ci vivono in sei. Con i letti aggrappati che arrivano ad un soffio dal soffitto. Ci accolgono con sommessa gratitudine e la buona educazione del nodo in gola. Gli agenti della Polizia Penitenziaria hanno le chiavi che ti aspetti per aprire castelli e parlano dei colleghi e dei detenuti. Ogni tanto gli scappa un “noi”. Come un recinto di guardie e ladri che si mettono insieme almeno per salvarsi. Se i detenuti sono doppi di quello che dovrebbe, le guardie circa la metà. A San Vittore i numeri non tornano mai: eppure la vivibilità è fatta di numeri, spazi e fondi. Qui lo sanno bene che il bluff non funziona. In una cella con un ventilatore tenuto insieme dal nastro da pacchi, un ospite con il piglio esperto del residente si stacca dal fornello a tre passi dalla turca e dice indicando l’agente “se fate stare bene loro, loro possono fare stare bene noi”. L’emergenza sa costruire solo estremi: alleanze impensabili o odi profondi. Mi arrivano in testa Stefano Cucchi e a tutti gli altri che non si sono nemmeno meritati di essere stati nominati. Penso all’agente di Polizia Penitenziaria aggredito pochi giorni fa nel carcere di Opera. Questa è una guerra senza vincitori né vinti dove perde solo la responsabilità. Nei prossimi giorni insieme ad alcune associazioni stilerò un programma per visitare tutte le carceri della regione. Stabilendo insieme le priorità per una relazione più completa possibile. Intanto stanno finendo i nuovi servizi igienici: il lavoro ce lo mettono i detenuti lavoratori, i materiali, le porte, i sanitari e gli arredi il Gruppo Consiliare dell’Italia dei Valori. È poco ma è qualcosa. Almeno per provare a tenere anche il rispetto sotto osservazione. Roma: esponenti del Pd incontrano detenuti e agenti a Regina Coeli Dire, 13 maggio 2010 “Anche questa mattina ci siamo recati in visita al carcere di Roma Regina Coeli. Il nostro impegno non si ferma la caso Gugliotta”. Lo hanno dichiarato Emanuele Fiano, presidente forum Sicurezza del Partito Democratico, e Sandro Favi, responsabile Carceri. “Nel corso della visita - aggiungono - abbiamo incontrato tra gli altri detenuti i ragazzi arrestati fuori dello stadio Olimpico al termine della partita di calcio Roma Inter. In particolare abbiamo verificato le condizioni di salute del giovane Luca Daniele, che ha una vertebra fratturata ed è ancora in attesa del busto ortopedico così come prescritto dai medici. “Laddove, come ci pare possibile, possano emergere evidenti estraneità ai fatti contestati- spiegano- ci auguriamo che la magistratura possa disporre quanto prima la contestuale scarcerazione. Ci pare necessario, a margine di questa nostra visita, sottolineare l’alta professionalità e la qualità del rapporto umano di tutto il personale presente a Regina Coeli, che opera, ogni giorno, in condizioni di difficoltà oggettive e con grande deficit di personale rispetto alla prevista pianta organica”. Genova: Uil; un pomeriggio di violenza, quello vissuto ieri al carcere di Marassi Il Velino, 13 maggio 2010 “Un pomeriggio di violenza pura quello vissuto ieri al carcere di Marassi. Nel primo pomeriggio, infatti, due detenuti sono venuti alle mani nel cortile passeggi della prima sezione. L’altro episodio, quasi in contemporanea, è avvenuto al quarto piano della seconda sezione. Li alcuni detenuti al rientro dal campo sportivo se le sono date di santa ragione e il personale in servizio ha fatto fatica a sedare la rissa. A farne le spese è stato un agente di polizia penitenziaria F.M. che ha dovuto far ricorso alle cure del pronto soccorso di un ospedale genovese. La prognosi, per le contusioni e slogature riportate alla mano destra, è di 15 giorni salvo complicazioni”. “Ancora una volta la Uil Pa Penitenziari attraverso il Segretario Generale, Eugenio Sarno, è costretta a dare comunicazione di atti di violenza perpetrati in danno di poliziotti in servizio nelle carceri “Informiamo e continuiamo ad informare per non abbassare la soglia dell’attenzione sulle criticità del sistema penitenziario. Intanto si aggrava il bilancio dei poliziotti penitenziari feriti dall’inizio dell’anno. Nelle ultime ore il numero complessivo è lievitato a 74, nel silenzio e nell’indifferenza della politica, della stampa e della società. Questi continui atti di violenza- sottolinea il Segretario Generale - non possono non scalfire il morale di quanti cercano, in completa solitudine e nel più completo abbandono, di garantire l’ordine all’interno delle nostre prigioni. È uno stillicidio che debilita, affligge, demotiva e di cui non si intravede la fine. Non è un caso se il gruppo FB - Solidarietà ai poliziotti penitenziari feriti in carcere - registra oltre 2300 adesioni” Questi episodi di violenza testimoniano, secondo la Uil Pa Penitenziari, lo stato di tensione che si vive negli affilatissimi istituti penitenziari d’Italia. “Ribadiamo che nessuna forma di violenza, da qualsiasi parte provenga, può essere tollerata e giustificata. Non possiamo però non esternare tutta la nostra motivata preoccupazione per l’evolversi della situazione. Siamo di fatto al blocco di qualsiasi iniziativa utile per deflazionare il sovrappopolamento. Nelle carceri si continuano stipare e a stoccare esseri umani pur non avendo più gli spazi fisici e materiali dove allocare i detenuti. Con l’approssimarsi della stagione estiva, notoriamente periodo delicato all’interno delle prigioni, c’è la probabilità che il sistema possa non reggere all’onda d’urto delle proteste e delle violenze. È facile pronosticare, quindi, che il dramma penitenziario che oggi è soprattutto sociale, umano e sanitario tra qualche settimana assumerà i contorni di un grave problema d’ordine pubblico. Allora - conclude Sarno - si chiederà ai poliziotti , a cui questo Governo propone un aumento di 20 euro, di gestire la situazione facendo finta di ignorare che mancano risorse, mezzi ed uomini”. Lanciano (Ch): sindacati agenti contro la direzione per il cosiddetto “Reparto Verde” Agi, 13 maggio 2010 Un attacco frontale al direttore dell’istituto di pena, che avrebbe portato avanti “una gestione assolutamente leggera, permissiva e unilateralmente orientata, che ha creato i presupposti affinché gli eventi precipitassero fino a sfociare in numerose e pressappoco impunite aggressioni ai danni di poliziotti penitenziari”. È di nuovo scontro sindacale nel carcere di Lanciano (Chieti) dove gli agenti di polizia penitenziaria sono in stato di agitazione dal 28 settembre dello scorso anno per protestare contro la carenza della pianta organica, che ha causato - oltre a turni massacranti per gli operatori per garantire la sorveglianza dei 317 detenuti, la gran parte in regime detentivo di alta sicurezza - anche una serie di incidenti in cui sono rimasti coinvolti 6 poliziotti malmenati dai detenuti stessi. In una nota a firma dei sindacati Uil, Cgil, Sappe, Osapp, Sinappe, Ugl e Cnpp, le sigle criticano l’operato della direzione della casa circondariale che, a loro dire, non si sarebbe occupata di sostenere il personale in questa battaglia. “Anzi - si legge nel documento - ha fortemente voluto e incoraggiato un ampliamento strutturale, quando al contrario avrebbe dovuto sconsigliarlo fortemente, magari porgendo maggiore attenzione a quanto palesato proprio dalle organizzazioni sindacali negli ultimi mesi”. Il riferimento è alla istituzione del cosiddetto “Reparto Verde”, in cui vengono trasferiti detenuti ritenuti meritevoli dalla direzione, ma in cui si sono registrati già numerosi disordini. “Sarebbe stato auspicabile - continuano i sindacati - migliorare le condizioni detentive dei reparti già esistenti, invece di orientare migliaia di euro dei contribuenti italiani per ripristinare un repartino di effimera utilità ma che, in compenso, contribuisce a distogliere diverse unità di poliziotti penitenziari quotidianamente”. Ad una situazione già complicata si aggiunge anche l’interruzione dell’assistenza sanitaria ai detenuti ogni sera alle 22, che costringe gli agenti ad occuparsi anche di prestare le prime cure ai reclusi che dovessero averne necessità. “Una situazione insostenibile - concludono i rappresentanti del personale - per questo chiediamo, oltre all’avvicendamento del direttore, anche l’impegno delle istituzioni a farsi carico della soluzione di questa vicenda, prima che la situazione finisca all’attenzione della magistratura”. Ancona: Cgil; presidio di protesta domani davanti al carcere di Montacuto Ansa, 13 maggio 2010 “In riferimento ai recenti episodi accaduti presso il carcere di Montacuto ed alla grave e critica situazione in cui si trova ad operare il personale Penitenziario in servizio a causa dell’importante sovraffollamento denunciato sulla stampa locale - viene riportato in una nota della Fp Cgil di Ancona, la Fp Cgil ritiene che sia improcrastinabile un intervento volto a porre rimedio immediato, sia per quanto riguarda la capienza della struttura sia, soprattutto, per la sicurezza degli operatori. A tale proposito la Fp Cgil sarà davanti al carcere di Montacuto Venerdì 14 maggio 2010 dalle 9.00 alle 12.00 per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle difficoltà tutt’ora esistenti presso la struttura carceraria di Ancona Montacuto che non è esente dai problemi che stanno interessando tutto il sistema carcerario Italiano. La legge Bossi-Fini sull’immigrazione, la Giovanardi-Fini sulle tossicodipendenze e la ex Cirielli sulla recidiva hanno nuovamente riempito le carceri dopo il recente indulto di qualche anno fa. Dall’intreccio tra rappresentazione mediatica e insicurezza sociale abbiamo assistito ciclicamente a norme “speciali” corrispondenti alla logica dell’emergenza. Pacchetti sicurezza, ordinanze dei sindaci di alcune città italiane contro lavavetri e mendicanti, fino all’inasprimento delle pene per i falsificatori di cd hanno di fatto abbassato la “tolleranza” contro la microcriminalità e contribuito, in modo determinante a riempire, fino ad altre la soglia di tolleranza, le carceri italiane. Ancona non sfugge alla realtà del paese e soffre pesantemente di sovraffollamento e di carenza di Agenti di Polizia Penitenziaria che non sono stati assunti nonostante le leggi introdotte avrebbero dovuto far prevedere un consistente aumento della popolazione carceraria. Le difficoltà sono trasversali e toccano direttamente anche il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e lo stesso Direttore: difficile organizzare turni di servizio adeguati alla popolazione carceraria se mancano gli Agenti che stanno facendo ormai da troppo tempo sacrifici enormi per poter garantire la migliore sorveglianza possibile, nonostante le presenze di detenuti siano ormai quasi raddoppiate. Il Parlamento sta cercando di varare, ormai da mesi, il Ddl “svuota carceri”. Purtroppo però, a meno di improbabili cambiamenti, il provvedimento rischia di svuotare ben poco, sia perché la detenzione domiciliare nella parte terminale della pena esiste già esattamente con le stesse modalità contenute nell’ipotesi di Ddl, sia perché si chiederebbe al Tribunale di Sorveglianza di valutare la possibilità di concessione dei domiciliari in base al possesso di requisiti rispetto alla possibilità di vivere in modo legale. Il rischio è di creare un provvedimento che risponde solamente ad esigenze mediatiche specie se si considera che per accedere a queste misure la persona dovrebbe essere idonea dal punto di vista soggettivo, ed avere risorse socioeconomiche fuori dal carcere, con ricadute sull’operatività degli educatori e degli assistenti sociali che si troverebbero improvvisamente un carico di lavoro esorbitante rispetto agli organici esistenti. Si legge anche di emendamenti su assunzioni di Carabinieri e Agenti di Polizia di Stano - conclude la nota, ma non ancora, clamorosamente, di assunzione di Agenti di Polizia Penitenziaria”. Viterbo: al carcere Mammagialla, la polizia penitenziaria sul piede di guerra Viterbo News, 13 maggio 2010 Di seguito una nota a firma Cgil, Uil, Osapp, Sappe e Ugl. “A seguito dell’assemblea tenuta nella casa circondariale di Viterbo (Mammagialla) dal personale di polizia penitenziaria è stato votato e deciso di intensificare lo stato di agitazione, promovendo una manifestazione accolta da tutte le organizzazioni sindacali presenti, per il giorno 21 maggio in concomitanza della festa del corpo in sede locale, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla gravità, già ampiamente documentata in precedenza, in cui versa il personale di Polizia penitenziaria di Viterbo. Le problematiche più gravi evidenziate dal personale sono: poca attenzione della direzione alle continue sollecitazioni sia del personale singolarmente che delle organizzazioni sindacali a farsi carico, per quanto possibile, delle soluzioni risolvibili in sede locale, dove la creazione di uno strumento come una commissione per il controllo e evidenziazione delle problematiche e la valutazione delle possibili soluzioni sui posti di servizio; la limitazione e l’organizzazione degli ingressi di tutte le figure che a vario titolo fanno ingresso in istituto dalla mattina a tardo pomeriggio impegnando il personale a garantire quella sicurezza necessaria a farli operare all’interno, cosa che nelle condizioni organiche attuali non è più possibile, anzi si rischia il collasso, delle attività e la sicurezza stessa delle persone. Poca attenzione del Prap per le precedenti segnalazioni da parte delle organizzazioni sindacali locali e regionali, nonostante le proteste e le manifestazioni del personale, non ha varato un piano d’integrazione di personale gestibile entro la regione, facendo rientrare tutti i distacchi in uscita dalla casa circondariale di Viterbo; anzi deve ancora inviare circa 9 unità per l’apertura del reparto di medicina protetta di Belcolle, alle quali sopperisce l’organico di Viterbo. Trovare soluzione all’annoso problema, delle scorte viterbesi che presso il tribunale di Roma vengono utilizzate a supporto per l’esigenze dei detenuti di altri istituti. Poca attenzione da parte del Dap nella valutazione della distribuzione di personale in assegnazione agli istituti, soltanto circa 12 unità per Viterbo a fronte delle 200 mancanti situazione che non si verifica neanche nei carceri del nord Italia, inoltre nessuna posizione nel valutare la possibilità del rientro presso l’istituto di Viterbo da parte del personale impiegato presso la Uepe di Viterbo dove operano circa nove unità. A causa della situazione gravissima parzialmente evidenziata, sia per il limite di sopportazione ormai raggiunto dal personale: manifestiamo, se pur con rammarico, il giorno della festa del corpo davanti all’istituto, come prima fase dell’ulteriore inasprimento dello stato di agitazione che se disatteso dai vertici dell’amministrazione penitenziaria, vedrà il personale, organizzato da tutte le organizzazioni sindacali in epigrafe, a porre in essere ulteriori e più eclatanti forme di protesta”. Messina: detenuto gravemente ammalato di cuore deve essere operato, o rischia di morire Apcom, 13 maggio 2010 Un ragazzo di 37 anni, Antonino Caruso, detenuto nel carcere di Messina e affetto da “gravissime ed altamente invalidanti patologie da molto tempo”, rischia di morire se non sarà trasferito in un ospedale e sottoposto “quanto prima possibile ad intervento chirurgico specialistico”. A rendere nota la vicenda è il legale del detenuto, Giuseppe Lipera, che ha presentato una istanza per il ricovero urgente del giovane in ospedale. Caruso, originario di Belpasso, nel catanese, avrebbe segnalato più volte tramite il suo legale sia al carcere sia alla magistratura competente la sua situazione clinica, che nell’ultimo periodo è peggiorata e il 10 maggio è stata redatta una consulenza chirurgica da uno specialista in chirurgia generale e vascolare che suggerisce “il ricovero urgente presso una struttura ospedaliera dove si pratica chirurgia laparoscopica avanzata, per essere sottoposto quanto prima possibile ad intervento chirurgico specialistico”. Il legale chiede quindi l’immediato ricovero del suo assistito spiegando che una sua ulteriore permanenza in carcere “porta con sé una paventata responsabilità morale, giuridica e soprattutto umana”. Perugia: la Fondazione Italia-Usa dona 10 computer al carcere di Capanne Ansa, 13 maggio 2010 La Fondazione Italia-Usa, presieduta dal deputato Rocco Girlanda, ha donato al carcere di Capanne dieci computer, completi di monitor e tastiere, per la creazione di un centro informatico per i detenuti. I computer - è detto in una nota - saranno installati in un’area del carcere affinché i detenuti possano seguire una serie di lezioni sull’uso dei pacchetti windows e office, con esercitazioni pratiche. “Dalle numerose visite ispettive che ho effettuato alla casa circondariale - ricorda Rocco Girlanda nella nota - ho constatato che il carcere di Perugia, pur potendo vantare una gestione ispirata a criteri di efficienza e funzionalità, anche se all’interno dei più generali problemi della condizione penitenziaria nazionale, fa rilevare situazioni per la popolazione carceraria a cui la professionalità dei funzionari dell’amministrazione non può oggettivamente sopperire. Nel principio di recupero dei detenuti, ho quindi ritenuto necessario contribuire direttamente con la creazione di un centro informatico che possa garantire una formazione ed alfabetizzazione informatica ai detenuti e alle detenute”. “Credo che le istituzioni no-profit e di volontariato come la Fondazione che mi onoro di presiedere - conclude Girlanda - possano e debbano intervenire soprattutto in questo momento di particolare criticità del sistema carcerario del nostro Paese”. Droghe: cacciatori di semi di Franco Corleone Fuoriluogo, 13 maggio 2010 Franco Corleone scrive sulla vicenda dei due titolari di Semitalia per la rubrica settimanale di del 12 maggio 2010. Nell’anno di grazia 2010 in Italia si può finire in galera per un reato d’opinione. La cronaca di questi giorni parla da sé. Da quindici giorni due giovani imprenditori di Vicchio, storico paese del Mugello, sono imprigionati a Sollicciano, il carcere di Firenze, su ordine del pubblico ministero di Bolzano per violazione dell’articolo 82 della legge antidroga, il Dpr 309 del 1990, che punisce l’istigazione, il proselitismo e l’induzione all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope. Nella realtà Marco Gasparrini e Luigi Bargelli titolari di una società, la Semitalia, da sette anni a questa parte si sono limitati a vendere semi di canapa utilizzando un sito on line. L’attività è perfettamente legale in quanto la legge italiana punisce la detenzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti in relazione alla quantità e alla presenza di principio attivo. Le Convenzioni internazionali che sono alla base della legislazione proibizionista non contemplano tra le sostanze vietate i semi in quanto sono un prodotto neutro, che non può essere assimilato alla droga. Il pm titolare dell’inchiesta, Markus Mayr, ha candidamente affermato che infatti l’arresto non è per il commercio di semi di canapa ma per l’istigazione all’uso. A sua detta, il reato procederebbe per deduzione, sulla base dei numerosi sequestri di piante coltivate con i semi provenienti dalla ditta toscana (sic!). Ho denunciato la presenza in carcere di due detenuti “abusivi”, nel senso che occupano due posti in un carcere sovraffollato senza alcun titolo, ma come vittime di un vero e proprio abuso. Il magistrato di Bolzano ha utilizzato un articolo che già di per sé trasuda ideologia e rappresenta un oltraggio al diritto per come è scritto. Ma ha fatto di peggio: ha forzato la lettera della legge che indica l’istigazione quale attività pubblica con un dettaglio dei luoghi tutelati (scuole, caserme, carceri, ospedali). Oltretutto, in quel famigerato articolo della Iervolino-Vassalli non si parla di istigazione alla coltivazione. La persecuzione giudiziaria dei due commercianti fiorentini fa emergere gravi contraddizioni e disparità nell’applicazione della legge. Nel febbraio scorso, in questa stessa rubrica commentavo una fondamentale sentenza del giudice Salvini del tribunale di Milano che ha assolto un cittadino accusato di aver coltivato in giardino sette piante di marijuana. Allora, facciamo il punto. Secondo Giovanardi, la legge non punisce col carcere il semplice uso di droga, ma solo con sanzioni amministrative; secondo l’autorevole magistrato Giorgio Salvini, la coltivazione domestica è equiparata al consumo personale e non sanzionabile con misure penali; invece per la scuola giuridica di Bolzano tutti devono essere messi in galera, consumatori e coltivatori, iniziando da Marco Gasparrini e Luigi Bargelli per il non- reato di vendita di semi. Il codice Rocco, emblema del diritto etico, rivive nel Sud Tirolo! A pochi chilometri da Vicchio si trova Scarperia, paese produttore di coltelli: suggeriamo al pm di Bolzano di accusare di istigazione all’omicidio tutti i venditori di lame che abbiano fornito l’arma a uxoricidi. Per la par condicio, naturalmente. Mentre il procuratore della repubblica di Venezia Vittorio Borraccetti raccomanda di arrestare solo per i casi estremi per non aggravare inutilmente il sovraffollamento delle carcere, i pm di Bolzano incarcerano allegramente, anche in assenza delle condizioni della custodia cautelare previste dal codice. Magari per soddisfare il protagonismo di esponenti della polizia giudiziaria locale che non hanno di meglio da fare che vantarsi di essere “cacciatori di semi”. Oggigiorno molti attaccano i principi sacri dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, mettendo in discussione che il giudice sia soggetto solo alla legge. Per difenderli, mi aspetto che l’Associazione Nazionale Magistrati non copra per spirito di corpo i magistrati che si inventano la legge per pregiudizio ideologico. Venerdì il Tribunale della Libertà di Bolzano deciderà sulla sorte di due giovani incensurati, impegnati nella loro comunità (uno è vice presidente del consiglio comunale) e che hanno ricevuto la solidarietà di tutto il paese. Senza scomodare Berlino, ci basta che ci sia un giudice a Bolzano! India: Angelo Falcone e Simone Nobili hanno riavuto i passaporti, presto rientro in Italia Ansa, 13 maggio 2010 Angelo Falcone, di Rotondella (Matera), e Simone Nobili, di Piacenza - due giovani italiani detenuti in India dal 9 marzo 2007 al dicembre scorso - hanno riavuto oggi i passaporti e presto potranno tornare in Italia. Lo si è appreso dal padre di Falcone, Giovanni, che stamani ha parlato al telefono con il figlio: “Oggi è un giorno felice, finalmente, dopo tanta sofferenza”, ha detto all’Ansa Giovanni Falcone. Angelo Falcone e Simone Nobili si trovano ancora a Mandi, una città a circa 700 chilometri da Nuova Delhi, la capitale dell’India che essi dovranno raggiungere forse già domani per ritirare un altro documento. Solo così potranno poi, con l’aiuto dell’ambasciata italiana, presentarsi in aeroporto e tornare in Italia. La data del rientro non è ancora stata stabilita. Falcone e Nobili furono arrestati con l’accusa, sempre respinta dai due giovani italiani, di detenzione di circa 18 chilogrammi di droga. Nel 2008 furono condannati a dieci anni di reclusione ciascuno, ma nel dicembre 2009 sono stati assolti in appello e rimessi in libertà. Norvegia: porte aperte, bici e passeggiate nel carcere paradiso dell’isola di Bastøy La Repubblica, 13 maggio 2010 La libertà è a un tiro di schioppo. Per raggiungerla basta una decina di minuti in barca o, l’inverno, quando il mare gela in superficie, meno di un’ora di marcia. Eppure, negli ultimi dieci anni, dei centotrenta detenuti che ospita il carcere dell’isola di Bastøy solo tre hanno tentato la fuga. Già, da qui non si evade. Non si lascia il paradiso per l’ignoto. “Non gli conviene”, spiega il direttore della prigione, Arne Kvernvik Nilsen. “Se vengono riacciuffati difficilmente potranno tornare qui”. Nel carcere ideale ci sono uomini che hanno compiuto delitti efferati: rapinatori, stupratori e omicidi seriali, che provengono quasi tutti da istituti di massima sicurezza. Sull’isola sono liberi di passeggiare nei boschi. Vedono crescere i fiori, volare gli uccelli. Durante i mesi estivi possono pescare o perfino fare il bagno a mare. Le loro celle sono colorate casette di legno dove vivono autonomamente in cinque o sei. “L’unica restrizione è quella di farsi trovare ai tre appelli della giornata, e di non uscire di casa dopo le 23”, dice Nilsen. Questa Alcatraz senza sbarre né lucchetti si raggiunge in traghetto dal porticciolo di Horten, un centinaio di chilometri a sud di Oslo. Due settimane fa, un detenuto ha rubato una barca di servizio, ma è stato ripreso pochi giorni dopo. “Gli daremo un’altra possibilità, perché ha rispettato il patto che avevano fatto. Ossia che quando uno fugge, una volta raggiunta la terra ferma, ci chiama per avvertirci che non s’è perso in mare, che non è annegato”. Bastøy era una volta conosciuta come l’Isola del Diavolo, perché fu la sede di un severo riformatorio. “Ma dal 2000 è la prima prigione umana ed ecologica del pianeta”, racconta il suo direttore. Umana perché ai detenuti viene offerta la possibilità di vivere la simulazione di una vita normale. Ecologica perché sull’isola l’uso delle auto è ridotto al minimo a vantaggio delle bici, perché la terra viene lavorata con i cavalli e perché i rifiuti sono riutilizzati come concime. “Credo che sia difficile ottenere un buon risultato opprimendo e castigando un uomo. Al contrario, se lo rispetti, lui ricambierà”. Già, sembrano dottrine di un utopista ottocentesco, eppure il modello Bastøy funziona. Quanto costa? Poco, o comunque molto meno di un carcere di massima sicurezza. Il cibo è prodotto quasi interamente da detenuti e con la vendita delle pecore e dei vitelli, il penitenziario è quasi autosufficiente. “Per accudire 130 detenuti lavorano circa 70 persone, che la sera rientrano quasi tutte a casa con l’ultimo traghetto. Sull’isola restano solo 5 guardie carcerarie, che non hanno neanche una pistola. Negli altri istituti penali il rapporto è di uno a uno”. Quando arrivano a Bastøy, ai detenuti si chiede di comportarsi in modo responsabile. Le prime settimane viene insegnato loro a cucinare, lavare i panni, pulire la casa. Per scontare la pena in questo carcere unico al mondo, basta non infrangere le regole: devi alzarti alle 8 e preparare il breakfast, poi o vai a lavorare la terra o a scuola. Dalle tre del pomeriggio sei “libero”. “I primi giorni, aspettavo che il secondino mi portasse il caffè e mi aprisse la porta per l’ora d’aria. Non riuscivo a capacitarmi che la porta era sempre aperta e che io potevo uscire a mio piacimento”, racconta Joaquim, 36 anni, condannato per rapina a mano armata e spaccio di droga. Gli chiediamo se a Bastøy funziona tutto davvero così bene. “Non proprio”, risponde Joaquim. “A me spaventa la promiscuità con alcuni detenuti. È vero, qui sei libero, ma devi condividere la tua libertà con killer seriali e stupratori di bambini. Spesso ho paura. E poi mi mancano le ragazze che trovavo in città”. C’è un altro problema. La droga, quella che portano i famigliari quando vengono in visita sull’isola. Dice il direttore del carcere: “Ogni giorno, vengono analizzate le urine di un paio di detenuti a caso. Chi risulta positivo, viene invitato a recarsi il pomeriggio da uno psicoterapista”. Tra gli ottanta edifici dell’isola ci sono una chiesa, una scuola, una biblioteca, un studio dentistico. Tutto ciò nel tentativo di rendere questo posto il più simile possibile a un piccolo villaggio di campagna. Perciò, quando avranno scontato la loro pena, sarà per loro più facile reintegrarsi nella società. In Norvegia, se vieni sorpreso al volante con un tasso di alcolemia nel sangue appena superiore al consentito, finisci in galera per tre settimane. Ma non esiste l’ergastolo, e solo raramente viene inflitta la pena massima che è di 21 anni. “Prima o poi, il detenuto esce di prigione, e potresti ritrovartelo vicino di casa. Che te ne fai di un uomo che ha vissuto come un cane in gabbia per anni? Cercare di renderlo un cittadino per bene è nell’interesse di tutti”. Per Arne Kvernvik Nilsen è lecito immaginare questo sistema carcerario altrove che in Norvegia, che è diventato il paese più ricco del mondo e che conta migliaia di isole deserte, dove poter costruire altrettante prigioni modello. “Basta esportare la filosofia con cui è gestito Bastøy”. Algeria: boy scout impegnati nel sostegno all’inserimento nella vita sociale degli ex detenuti Agi, 13 maggio 2010 I boy scout algerini si sono impegnati in un settore nuovo per l’associazione: il sostegno all’inserimento nella vita sociale degli ex detenuti. Nel 2009 sono stati 129 gli ex detenuti assistiti, di cui 13 donne e in maggior parte minorenni. “Hanno potuto proseguire gli studi, continuare un corso di formazione che ha assicurato loro i mezzi per vivere e sottrarsi alla tentazione del crimine”, ha spiegato in una conferenza stampa il comandante in capo degli scout musulmani algerini (SMA), Noureddine Benbraham. Nello stesso programma rientrano anche periodiche visite alle prigioni per approfondire la conoscenza dell’universo carcerario. “Nel corso di queste visite”, ha detto Benbraham, “i giovani scout ascoltano le ansie e le aspirazioni dei detenuti e danno loro consigli su come reinserirsi nella vita sociale, una volta usciti dal carcere”.