Giustizia: in Italia non c’è la pena di morte, ma il carcere è una “tortura moderna” di Piero Sansonetti Gli Altri, 9 luglio 2010 Ogni settimana un suicidio in cella. Regime speciale (41 bis) di tipo medievale. Sovraffollamento. Ha ancora un senso togliere la libertà alle persone? È legittimo? È civile? Non è ora di abolire la prigione? In Italia non c’è la pena di morte. Negli Stati Uniti c’è. La pena di morte è la ferita più grande, che sfregia il volto della democrazia americana. Però se facciamo qualche conto, ci accorgiamo che le cose - almeno nella sostanza - non stanno proprio così come sembra. In Italia un detenuto ogni mille muore suicida. Cioè paga con la vita la sua controversia con lo Stato (non necessariamente la sua colpa, perché la colpa non è detto che ci sia). Negli Stati Uniti, sommando condanne a morte, suicidi e omicidi in carcere, la percentuale è più bassa. Di quattro volte più bassa: un detenuto su quattromila muore di morte violenta. Questo non vuol dire che la giustizia americana sia più tenera, o più giusta, o più umana della nostra. No, in realtà il coefficiente basso di morte violenta dipende dal fatto che gli Stati Uniti dopo la Cina è, tra tutti i paesi del mondo, quello che sbatte in galera il maggior numero di persone. Quasi tre milioni di detenuti: uno ogni cento abitanti (mentre in Europa sono poco più di uno ogni mille abitanti). Nel 2009 in Italia è stato stabilito il record di suicidi. 69. Quest’anno, nei primi sei mesi, siamo a 34. Quindi sul filo del record. Negli ultimi dieci anni i suicidi sono stati 590, una media di sessanta all’anno, con un lieve miglioramento nel 2007 (“solo” 45) e cioè nell’anno dell’indulto. In questo decennio, oltre ai 590 suicidi ci sono stati altri 1.100 morti dietro le sbarre. Una strage. Naturalmente, siccome la vita è un diritto universale, non cambia niente se le vittime del carcere sono innocenti o colpevoli. Però forse è interessante la statistica sugli innocenti. Considerate che il 50 per cento circa dei detenuti nelle carceri italiane è in attesa di giudizio. E che i suicidi avvengono in maggioranza tra quelli in attesa di giudizio (nella proporzione di 60 a 40). E pensate che tra tutti gli arrestati, negli ultimi dieci anni, il 40 per cento è risultato innocente. Vuol dire che la statistica dichiara che il quaranta per cento del sessanta per cento dei suicidi era innocente. Cioè circa un quarto delle persone che si sono tolte la vita non aveva commesso alcun reato: in cifra assoluta fa quasi 150. Se invece facciamo il conto su tutti morti, allora superiamo la cifra di 400 vittime innocenti della malagiustizia. Né possiamo infuriarci immaginando che questa sia una particolarità tutta italiana. No, forse è una particolarità italiana il peso enorme della carcerazione preventiva; ma sul numero dei suicidi, se andiamo negli altri grandi paesi europei, le cose non vanno molto meglio. In Germania i suicidi sono appena un po’ meno che da noi. Ma in Gran Bretagna sono il doppio e in Francia quasi il triplo. Solo la Spagna sta meglio (decisamente meglio: i suicidi sono cinque volte meno che da noi). Ci sono due ragioni di questi suicidi. Cioè due fattori che spingono il detenuto a togliersi la vita. Il primo sono le condizioni indecenti nelle quali si vive in carcere. Determinate dal sovraffollamento, dalla mancanza dei mezzi economici, da una concezione puramente punitiva della carcerazione, del diritto, della repressione. E questa è la ragione più evidente e quella che richiederebbe le riforme più urgenti e più facili. Come è possibile ridurre l’affollamento, e dunque trovare anche il modo per distribuire meglio i soldi e realizzare delle politiche carcerarie moderne, umane e anche pedagogiche? Prima di tutto riducendo almeno del 90 per cento il carcere preventivo, che è ingiusto, dovrebbe essere una misura straordinarissima, invece ormai è usato come vera e propria “pena” da infliggere ai sospettati. Un modo per rovesciare il principio della presunzione di innocenza. Cioè di “asfaltare” lo stato di diritto. E poi depenalizzando alcuni reati minori legati soprattutto al consumo e al piccolo spaccio di droghe e all’immigrazione clandestina. Se si attuassero queste due misure il numero dei prigionieri si ridurrebbe tra il 50 e il 75 per cento. La seconda ragione dei suicidi è più profonda, e ha bisogno di una riforma più radicale. La ragione è questa: il carcere è incompatibile con una vita che contenga almeno alcuni elementi di felicità. E gli esseri umani non sono in grado di vivere decentemente rinunciando del tutto alla felicità o almeno alla prospettiva di felicità. Il carcere è un luogo che si fonda sull’idea che sia giusto privare della libertà alcune persone e che sia altrettanto giusto esercitare su di loro il massimo dell’oppressione possibile. Il carcere è lo strumento con il quale le società moderne hanno sostituito la tortura. Il carcere è tortura. E quindi la riforma radicale che oggi è all’ordine del giorno è l’abolizione del carcere. Perché la tortura è la negazione della civiltà. Ed è la più importante e la più urgente delle riforme civili che l’Occidente non ha ancora affrontato. Al momento non è riuscito neppure a prendere in considerazione il tema, ad aprire una discussione. Perché? Eppure, già trent’anni fa un paese come l’Italia ebbe la forza di affrontare il tema dell’abolizione dei manicomi. Li abolì. Quale differenza c’è tra allora e oggi? L’assenza di una intellettualità pensante è la prima differenza. Che in quegli anni produsse menti illuminate e moderne come quella di Franco Basaglia. E l’assenza della sinistra. Che allora, seppure “contorcendosi nei dubbi”, diede sponda a quella intellettualità e a quelle idee. Fece da interfaccia. Oggi la sinistra viaggia su idee opposte, repressive, legalitarie, oppressive. Questa è la causa vera del grigiore nel quale viviamo. Riusciremo a rompere questo grigiore? Riusciremo a scassinare il pensiero debole della sinistra? Cioè: riusciremo a evadere? Giustizia: strano a credersi, ma un tempo (non lontano) la sinistra era contraria al 41-bis di Andrea Colombo Gli Altri, 9 luglio 2010 A raccontarlo pare una favola, una leggenda, ma c’è stato un momento, non poi così lontano nel tempo, in cui la sinistra italiana in parte esitava e in parte francamente si opponeva all’idea di sacrificare il rispetto della Costituzione e la difesa di alcuni elementari diritti umani sull’altare della “sicurezza” e della “lotta contro la mafia”. Quando, nell’estate del 1992, fu introdotto il cosiddetto art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, quel “carcere duro” che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e la Corte europea dei diritti dell’uomo considerano, a ragione, una forma sofisticata di tortura, il Prc votò contro, il manifesto allestì una durissima campagna contraria, il Pds di Occhetto avanzò numerosissimi dubbi, persino la supergiustizialista Rete di Leoluca Orlando si astenne. Altri tempi. Oggi il Pd, per bocca di Lumia chiede casomai di irrigidire ulteriormente le già rigidissime norme, e ove il governo proponesse di attenuarle le organizzazioni e i giornali della sinistra più radicale insorgerebbero accusando Berlusconi di voler fare un favore ai suoi amici mafiosi. Ma non c’è da preoccuparsi. Il governo di centrodestra ha già provveduto, nel plauso generale, a rendere ancor più ferreo il regime di carcere duro, peraltro facendo proprio un progetto partorito dal guardasigilli del governo Prodi, Clemente Mastella. Il 41 bis è una delle poche aree bipartisan che la seconda repubblica possa vantare, e se qualcuno osa parlare di tortura e scempio dei diritti, facile che passi da mafioso e da scemo. Invece il 41 bis proprio questo è: una forma di tortura e un esempio vergognoso di scempio del diritto. Nonché un modello di misura emergenziale promossa col tempo, anche in via ufficiale, a norma permanente. Quando fu varata dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, poco dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, si trattava di un intervento dichiaratamente d’emergenza e transitorio, che, nel pieno della stagione delle stragi mafiose, nel ‘93, riguardava circa 300 detenuti. Dieci anni più tardi, nel 2002, è stato reso permanente e le fattispecie di reato passibili di “carcere duro” si sono moltiplicate. I detenuti in 41 bis, oggi, sono oltre il doppio che nel 1993: circa 700. In soldoni, il “carcere duro” consiste in un pressoché totale isolamento umano e affettivo. Celle singole, molto ristrette, con finestre coperte di strati multipli d’isolamento, che variano da carcere a carcere ma che, tutti, garantiscono una penombra permanente. Due ore d’aria al giorno, ovviamente in aree esigue e solo in cinque detenuti. Un colloquio al mese con i parenti, sempre col vetro divisorio e sotto strettissimo controllo. Unica eccezione, gli eventuali incontri con figli al di sotto dei 12 anni: quelli si possono persino toccare, ma solo per 10 minuti. Nessun accesso alle attività comuni o alle scuole interne alle prigioni: chi vuole studiare lo fa da solo, e fatica anche a ottenere i libri perché va da sé che l’invio dei pacchi è soggetto a rigorosissime restrizioni rispetto ai detenuti comuni. Nonché alle incomprensibile vessazioni delle diverse amministrazioni dei singoli penitenziari (sono 13 quelli che comprendono sezioni adibite al “carcere duro”: in uno sono vietati i fagioli, in un altro i sigari, in uno i libri non vengono contati nei 5 kg di pacco che i detenuti possono ricevere due volte al mese, in un altro invece sì). Sin qui, il “normale 41 bis”. Poi ci sono le “aree riservate”, il carcere superduro per i veri boss, dove le celle sono cubicoli soffocanti e l’aria si fa in due e non oltre, il che, di sfuggita, comporta la necessità di spedire al carcere durissimo qualche detenuto che boss non è mai stato e che finisce nelle aree riservate solo perché l’isolamento assoluto e permanente è proibito, così qualcuno per fare compagnia al superboss di turno bisogna pur capirlo, e mica può essere un altro pezzo da novanta! Una leggenda da sfatare, a proposito di boss e don, è che ad assaggiare i rigori del carcere tosto siano solo loro. Niente di più falso. In 41 bis finiscono (poco) tranquillamente anche malavitosi di piccola e piccolissima tacca, perché quel che conta non è il reato ma il sospetto di affiliazione mafiosa, e non è neppure vero che debba essere assodata la colpevolezza. Circa un terzo dei detenuti in 41 bis è in attesa di giudizio, ma la percentuale lievita tenendo conto del fatto che anche molti dei condannati sono entrati nel regime di rigore quando erano ancora presunti innocenti. Tutto legale, comunque: le norme preparate dal governo di centrosinistra e varate nel 2009 da quello di centrodestra, infatti, capovolgono per questi reietti della società l’abituale presunzione d’innocenza. Loro, e solo loro, sono sin dall’inizio “presunti colpevoli” e devono casomai provare la loro innocenza. Non ci riescono mai, in effetti. Anche perché la solita legge gli permette di incontrare i difensori solo tre volte al mese e per non più di un’ora. Ma soprattutto perché, dal 1998, non possono presenziare ai processi che li riguardano. Partecipano sì, ma in videoconferenza, e se qualcuno obietta che così i diritti della difésa vanno al macero, poco male. Tanto nessuno lo ascolta. Dal 41 bis non si esce mai per assoluzione, ma solo per delazione. Esce chi se la canta, ma deve essere una canzone benissimo intonata perché non basta un pentimento qualsiasi: bisogna che sia di caratura tale da mettere a rischio la vita del pentito, o almeno dei suoi famigliari. Ma questa è solo la situazione a tutt’og-gi. Cambierà presto. In peggio. Il ministro Alfano ha disposto la riapertura di Pianosa e dell’Asinara, e allora sì che l’isolamento sarà totale, il rigore degno di questo nome, tanto da soddisfare persino l’incontentabile piddino Lumia. Per Pianosa, purtroppo, rischia di fare ostacolo qualche vincono ambientale, ma per l’Asinara è solo questione di tempo. E in fondo c’è una intrinseca giustizia nel rendere un monumento al molto che la maggioranza e l’opposizione di questo paese hanno in comune quanto di più ignobile la storia patria vanti: il supercarcere dell’Asinara. Giustizia: quei 59 bambini condannati al carcere… troppo pochi per interessare a qualcuno di Benedetta Sangirardi Affari Italiani, 9 luglio 2010 Piccoli che vanno dalla settimana di vita fino ai 3 anni. Nascono e vivono in carcere. I più fortunati hanno un pupazzo, una macchinina, o addirittura una culla normale. Ma i più vengono trattati come gli adulti. Come le loro madri, condannate per diversi reati. Si abituano, immediatamente, agli “ordini” carcerari. “Andare all’aria”, oppure “Arriva la matricola”. Nascono condannati, anche se la loro unica colpa è essere nati quando la loro mamma ha compiuto un reato ed è stata arrestata. Condannata la madre, condannato il figlio. Ma poi, e qui è il paradosso, il giorno del loro terzo compleanno vengono tolti alle mamme (lo prevede l’attuale legge in vigore) e affidati alla famiglia, se c’è, oppure a qualche comunità che li ospiterà fino a quando la madre non avrà scontato la sua pena. Hanno difficoltà di parola, di comunicazione e di relazione, avendo vissuto a lungo dietro le barre e tra quattro mura. E l’aspetto più incredibile della vicenda è che non esiste un numero preciso di bambini sotto i tre anni presenti nelle carceri italiani. Il numero dei piccoli detenuti dovrebbe essere di 70-80, ma il dato è ufficioso. Quello ufficiale, fornito dal ministero della Giustizia e fermo al 30 giugno 2008 (vedi sotto), dice che sono 59. Il boom in Lombardia e Lazio. E tante le mamme in gravidanza. Da quasi 15 anni la Consulta penitenziaria del comune di Roma, l’associazione “A Roma insieme” e la Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con numerose organizzazioni del volontariato e del privato sociale, stanno portando avanti una battaglia per evitare qualsiasi forma di permanenza in carcere dei bambini da zero a tre anni, figli di madri detenute. Al fine di evitare il dramma delle separazioni tra mamme e figli, l’attuale normativa prevede infatti che le madri in attesa di giudizio o in esecuzione di pena possano portare con sé i propri piccoli, con l’aberrante conseguenza di un’infanzia e una crescita dietro le sbarre. E ora alle stesse associazione non piace affatto il progetto di legge in discussione in queste settimane in Parlamento. “Se il testo di legge che aspettiamo da tanti anni dovesse essere quello presentato in Commissione giustizia della Camera dall’onorevole Samperi del Pd, è meglio lasciare tutto come sta”, commenta Lillo Di Mauro, presidente della Consulta permanente per i problemi penitenziari del comune di Roma. Di Mauro è stato ascoltato negli scorsi giorni in Commissione giustizia in rappresentanza dei promotori delle varie campagne contro la permanenza in carcere dei bambini a proposito del testo unificato su “disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”: un progetto di legge che unifica e rielabora le tre proposte giacenti in Parlamento a firma Ferranti, Bruggher e Bernardini. “Il testo unificato prende il peggio di ogni proposta di legge - prosegue il presidente della Consulta penitenziaria -. Ne viene fuori un pasticcio”. Ma c’è un altro dato da considerare: la “qualità” della vita dei bambini detenuti varia a seconda dell’istituto di detenzione. A Milano c’è un istituto a custodia attenuata per le madri detenute, senza sbarre, con personale specializzato per l’infanzia e agenti della polizia penitenziaria in borghese; a Roma, Genova, Milano, Venezia e Torino i bambini possono frequentare l’asilo pubblico. Se ci si sposta ad Avellino, invece, l’istituto carcerario non ha stipulato nessuna convenzione con gli asili pubblici, nessuna convenzione che preveda periodicamente l’uscita dal carcere dei bambini, salvo sporadiche eccezioni; a Civitavecchia e a Bologna non è presente personale specializzato per l’infanzia. In molti istituti, nonostante la costante presenza di bambini, non esiste un nido e mancano le aree verdi; in nessun istituto sono state riscontrate iniziative di preparazione al distacco tra detenuta e infante che, categoricamente, avviene al terzo anno d’età. E, mentre Rebibbia, a Roma, vive il dramma del sovraffollamento anche nella sezione Nido (15 posti disponibili e 31 bambini presenti), in istituti come Bologna, Civitavecchia, Sassari e Teramo paradossalmente il dramma è spesso rappresentato dal fatto che sia presente un solo bambino, circondato solo da persone adulte. Giustizia: Osapp; la “manovra” affosserà ulteriormente la Polizia penitenziaria Il Velino, 9 luglio 2010 “Questo governo ci mette la pezza e all’immobilismo apparente del ministro della Giustizia oppone il pragmatismo di Tremonti, mandando letteralmente a pezzi la nostra categoria”. Lo dichiara Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma Polizia penitenziaria) in merito alla manovra che il governo si appresterebbe a varare e sullo stanziamento emendato ieri a favore del comparto difesa. “Dopo i tagli, il provvedimento proposto in ultima istanza da questo esecutivo rispecchia molto un detto popolare. Come si dice, il bastone e la carota, salvo però constatare quanto la carota non si avvicini minimante all’idea di soddisfazione per la categoria che rappresentiamo - continua Beneduci -. Come esponenti autorevoli delle forze dell’ordine, a cui lo stanziamento dei 160 milioni è indirizzato, arriveremo a prendere ogni anno 146 euro lordi, pari a sette euro al mese netti, e questo solo per compensare la specificità e i rischi della Polizia e delle Forze armate a cui tutti andiamo incontro ogni giorno. Con un contratto da rinnovare e fermo al 2007, questa manovra impedisce ogni possibilità di riscatto per noi. E questo per il principio che le retribuzioni dovranno mantenere il limite imposto del 2010 e ciò vorrà dire che il lavoro svolto in più (anche in relazione ai rischi e ai servizi notturni e festivi) non potrà essere adeguatamente remunerato se non limitatamente alle retribuzioni percepite in quest’anno. Per ciò che ci riguarda, questo stanziamento ci appare l’ennesima beffa, soprattutto per noi poliziotti penitenziari, per una categoria che sta andando letteralmente a pezzi: dopo il sovraffollamento, lo stato di abbandono delle strutture, la mancanza di una politica concertata in fatto di strategie detentive, la totale assenza di sicurezza per i colleghi, il rischio di continue aggressioni - oggi l’ennesima a Pesaro - e lo stato di completo abbandono in cui ci ha lasciato il nostro Guardasigilli”. Lettere: territorializzazione della pena, un diritto negato di Simona Filippi Terra, 9 luglio 2010 Davanti alla emergenza sovraffollamento, è sempre più difficile occuparsi di quelle migliaia di detenuti che chiedono garantito il Principio di territorializzazione della pena. Nonostante quanto previsto dalla legge penitenziaria, il trasferimento per avvicinamento familiare è sempre più “privilegio” di pochi spesso utilizzato come strumento disciplinare e in ogni caso rimesso alla totale discrezionalità dell’amministrazione penitenziaria. Centinaia di detenuti hanno scritto al Difensore civico di Antigone per chiedere di sostenere le loro istanze di trasferimento. Soltanto una piccola percentuale di queste viene rigettata dall’amministrazione con motivazioni realmente fondate. Generalmente, il detenuto che vede non accolta la sua istanza di trasferimento non ha altra strada che presentarne un’altra. Lo sa bene V. G. che oramai da anni chiede alle autorità competenti di poter trascorrere vicino ai suoi familiari il periodo di detenzione che gli resta: ancora tre anni dopo averne trascorsi più di dieci in molti istituti mai in quelli vicino ai suoi familiari. La sua storia è quella di molti detenuti che chiedono di stare in un carcere vicino alla famiglia. Non sono poche le conseguenze che derivano dalla lontananza da casa, sopratutto se protratta per molti anni: si deve affrontare il carcere in solitudine e i familiari, quando possono permetterselo, devono sostenere viaggi lunghi e costosi. Nel corso dei lunghi anni detenzione, V. ha presentato decine di istanze di trasferimento. Addirittura i medici del carcere hanno certificato la necessità di un suo avvicinamento alla famiglia. L’ultimo rigetto risale a qualche mese fa. Secondo l’amministrazione il periodo di osservazione di V. presso l’attuale istituto è “troppo breve”. Dinnanzi a queste ricorrenti risposte, offerte in poche righe di linguaggio burocratese, è difficile, o meglio impossibile, comprenderne il senso reale. Cosa c’entra il periodo di osservazione con l’avvicinamento familiare? E anche nell’ipotesi peggiore - e non è questa la storia - in cui il detenuto si sia comportato male o addirittura malissimo come e perché si deve legittimare la forzata lontananza dai familiari? La risposta non può che essere quella data all’inizio di questa breve riflessione: il trasferimento, in modo poco noto ma molto diffuso, viene utilizzato come strumento disciplinare. V. e sua sorella hanno presentato la ennesima istanza di trasferimento. Ci auguriamo, quindi, che l’amministrazione penitenziaria tenga conto che tra pochissimi anni (e, per la precisione, sono meno di tre) questa persona dovrebbe uscire dal carcere risocializzata. Lettere: la Fp-Cgil scrive al capo del personale del Dap sulle problematiche degli Uepe Comunicato stampa, 9 luglio 2010 Egregio dott. Turrini, nel corso dell’incontro che si è tenuto il giorno 21 giugno u.s. presso il Suo ufficio, questa O.S. ha avuto modo di rappresentarle il grave disagio operativo in cui versa il personale penitenziario del comparto ministeri e le motivazioni che ne determinano a tutt’oggi il malessere. Abbiamo evidenziato come la gravissima carenza di organico delle diverse professionalità penitenziarie risulta ad oggi una delle tante e serie problematiche non risolte che sta paralizzando il sistema dell’esecuzione penale e alle quali l’amministrazione non è riuscita nell’arco degli anni a far fronte in maniera determinante. Ma in particolar modo abbiamo portato alla sua attenzione le criticità inerenti la professionalità degli assistenti sociali, esclusi dall’interpello di mobilità di sede avviato lo scorso anno ai sensi dell’accordo del 22 ottobre 2009. Le abbiamo rappresentato la gravissima endemica carenza di organico e di risorse economiche in cui versano gli Uepe e abbiamo rappresentato la necessità di conoscere l’esito del monitoraggio finalizzato alla possibilità di consentire anche agli assistenti sociali, con apposito interpello, la mobilità di sede e/o a stabilizzare quelle mobilità già espletate con l’istituto del “distacco” in essere da molti anni. In tale ottica, e a sostegno, Le abbiamo chiesto un incisivo intervento riguardo lo sblocco della mobilità intercompartimentale in entrata che interessa in particolare la professionalità in questione soprattutto nelle regioni del nord Italia. La questione, infatti, più volte e da tempo rappresentata pare non trovi il necessario interesse e l’opportuno sostegno politico -amministrativo alla sua soluzione che, anche se in minima parte, consentirebbe al personale interessato il trasferimento a domanda, dopo anni di servizio, presso altra sede. Ebbene l’esito dell’incontro ci aveva fatto ben sperare, visto l’interesse mostrato, ad una possibile e fattibile apertura di un tavolo di confronto sulle questioni enunciate ma, a tutt’oggi, nulla di tutto ciò anzi, non senza perplessità e disappunto, apprendiamo dalla informativa dell’Ufficio per le relazioni sindacali che la Direzione Generale del Personale ha indetto un interpello per n. 2 assistenti sociali e n. 2 collaboratori per l’Uepe di Trento le cui problematicità, determinate dalla carenza di organico e di risorse, sono note e più volte denunciate dai lavoratori e dalle OO.SS.. Criticità, dott. Turrini, che risultano appartenere alla gran parte degli Uepe del territorio nazionale motivo per cui le RSU e le OO.SS. locali hanno dichiarato lo stato di agitazione dei lavoratori. Iniziative, comunque, ben note ai vertici dell’amministrazione. E allora, perché avviare un interpello straordinario per l’Uepe di Trento e non per Foggia piuttosto che per Roma, Milano o Ragusa e potremmo continuare all’infinito? Perché non si affronta, invece, il problema nella sua organica complessità come avevamo proposto e come sarebbe più naturale? Ci chiediamo e chiediamo come e se l’Amministrazione intenda definire la questione evidenziata considerando inoltre che sono in dirittura di arrivo interventi normativi che metteranno a dura prova l’operatività degli Uepe e dei lavoratori ad essi afferenti? Domande, e non solo, alle quali crediamo sia ora che l’amministrazione dia le dovute risposte. La Fp Cgil ritiene, pertanto, necessario e con urgenza l’apertura di un tavolo di confronto con tutte le componenti sindacali e della parte pubblica interessate e deputate alla definizione della questione comunicando che in attesa della data di convocazione questa O.S. sosterrà tutte le iniziative di prerogativa sindacale intraprese a livello locale mirate alla tutela dei lavoratori , dei loro diritti e del mandato istituzionale cui sono preposti. La Coordinatrice Nazionale Fp-Cgil Penitenziari - Ministeri Lina Lamonica Friuli Venezia Giulia: il Governatore; regione attenta alla formazione dei detenuti Adnkronos, 9 luglio 2010 “L’Amministrazione regionale continuerà a prestare una particolare attenzione ai progetti di formazione professionale rivolti ai detenuti nelle carceri del Friuli Venezia Giulia”. Lo ha confermato il presidente della Regione Renzo Tondo, durante una visita al carcere triestino del Coroneo, guidata dal direttore Enrico Sbriglia. All’incontro erano presenti il cappellano del carcere padre Silvio Alaimo, rappresentanti del corpo delle Guardie carcerarie ed esponenti della Cooperativa sociale Ida, che ha promosso e portato a termine, con il sostegno della Regione, un corso di formazione rivolto alle detenute della sezione femminile, l’unica presente in Friuli Venezia Giulia. Il percorso di formazione ha consentito alle detenute, in larga parte straniere, di apprendere le tecniche di lavorazione artistica della cera, con la prospettiva di poterle produrre e vendere. A conclusione del corso, a Tondo è stata donata una candela di grande formato raffigurante un capitello ionico della basilica di Aquileia. Questo lavoro, come ha rilevato Sbriglia, ha permesso alla detenute di acquisire manualità e senso artistico, ma anche di approfondire la conoscenza storica del territorio. Sardegna: Radicali in visita ispettiva nelle carceri di Cagliari, Isili, Oristano e Sassari Il Velino, 9 luglio 2010 Una delegazione Radicale composta da Rita Bernardini deputata e membro della Commissione Giustizia, Irene Testa Segretario dell’Associazione Radicale Il Detenuto Ignoto, insieme a Cristiano Scardella, fratello del giovane Aldo morto suicida da innocente nel carcere di Buon Cammino a Cagliari all’età di 24 anni nella totale indifferenza delle istituzioni, effettueranno, tra venerdì 9 e lunedì 12 luglio, delle visite di sindacato ispettivo in diversi penitenziari della Sardegna, partendo dal carcere Buon Cammino di Cagliari, e facendo tappa nella colonia penale di Isili, nel carcere di Oristano, per finire con il carcere San Sebastiano di Sassari. Lo comunica una nota dei Radicali. Al termine delle visite, saranno convocate delle conferenze stampa. Nella serata di sabato 10 luglio alle 18 presso la sala Cosseddu della casa dello studente di Cagliari in via Trentino, la delegazione prenderà parte ad un convegno dal titolo Le urla dal di dentro “Morte, Suicidio e Malagiustizia”. Napoli: scene da Poggioreale… di Rita Bernardini Gli Altri, 9 luglio 2010 E giorno di colloquio, e a centinaia i familiari dei detenuti, dopo una decina di ore passate in fila quasi sempre dalla notte precedente, raggiungono le salette delle perquisizioni. Tutto e tutti vengono controllati minuziosamente per impedire che passino droga, armi, telefonini e chissà che altro. Quando, dopo ore e ore, arriverà il momento dell’incontro, da una parte del lungo muretto divisorio fuorilegge ci saranno 10 detenuti e dall’altra un centinaio di parenti fra bimbi, genitori, nonni, zii, cugini e fratelli. Un caos incredibile di voci, pianti, mani che si raggiungono, mani che si tengono. Questa ulteriore mortificazione della legalità e dell’umanità dell’intera comunità penitenziaria - decine di migliaia di persone fra detenuti e loro familiari, agenti, educatori, psicologi e medici - costituisce una violenza che ha ben poco a che fare con quanto sancito dalle leggi. Gli agenti sono costretti non al loro lavoro ma a partecipare a una strutturale imposizione di una vera e propria tortura di massa, ai loro stessi danni. E se poi entriamo nei padiglioni di detenzione e nelle celle, troviamo che l’aggravamento del degrado umano cui si costringono persone - che all’80 per cento sono in attesa di giudizio e che al 30 per cento saranno riconosciute innocenti - raggiunge livelli intollerabili per uno Stato che pretende di definirsi democratico e civile. Poco più di due metri quadrati per ogni detenuto che passa nella cella fatiscente e sovraffollata all’inverosimile ventidue ore al giorno, vecchio wc e cucina nello stesso sgabuzzino, possibilità di fare la doccia solo due volte a settimana anche d’estate, il tutto in una situazione igienico-sanitaria letteralmente disastrosa, spesso causa principale di atroci sofferenze quando non della stessa morte di detenuti. Nel mese di aprile è accaduto un evento di straordinario significato quasi del tutto sottovalutato dagli organi di informazione, e dallo stesso ministro della Giustizia (che non risponde mai alle nostre interrogazioni parlamentari): Angelica Di Giovanni, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, ha disposto, attraverso un’ordinanza, che la direzione della Casa circondariale di Poggioreale “si attivi con pronta sollecitudine per eliminare ogni possibile situazione di contrasto con l’art. 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti Umani, informandone tempestivamente questo magistrato di Sorveglianza”. Quest’ordine che vale anche per gli altri istituti di competenza della Corte di Appello di Napoli - è quello “di disporre quanto necessario per eliminare l’evidente contrasto tra le condizioni di vita all’interno degli istituti partenopei e le norme vigenti”. L’ordine della presidente Di Giovanni rompe finalmente la generale omertà istituzionale con la sistematica violazione dei diritti umani oltre che del diritto comunitario e di quello italiano. C’è da chiedersi come mai ci siano voluti anni e anni di inosservanza delle leggi per arrivare a questa semplice disposizione che pone finalmente uno stop all’ignobile scaricabarile di responsabilità al quale chi si occupa di carceri e di diritti umani ha dovuto assistere fino ad ora. C’è da chiedersi cosa sarà di questo storico provvedimento a Napoli stessa e se gli altri tribunali di sorveglianza continueranno nella loro complice omertà a favore del (dis)ordine stabilito contro la lettera e lo spirito della legalità dell’ordinamento del quale sono espressione; c’è da chiedersi se seguiranno le orme di quello di Napoli, visto che il 99 per cento delle carceri italiane sono illegali come Poggioreale e che i tribunali stessi hanno per compito istituzionale quello di vigilare nel rispetto dei diritti dei detenuti e degli internati. Certo, c’è voluto il caso del bosniaco Sulejmanovic che ha fatto ricorso, vincendolo, alla Corte Europea dei Diritti Umani per smuovere un pi le acque limacciose della giustizia italiana, ma è indubbio che l’ordinanza su Poggioreale - se non verrà fatta cadere nel vuoto - dovrebbe poter aprire varchi fino ad oggi impossibili, ostruiti, inesistenti. Con 69.000 detenuti stipati in spazi che ne possono contenere 43.000 l’estate si preannuncia letteralmente esplosiva. Governo e Parlamento stanno dimostrando di non essere in grado di affrontare la situazione, basti pensare alla sorte che è toccata al Ddl Alfano che, in ottemperanza alla mozione radicale approvata alla Camera e al Senato, si proponeva di ridurre e contenere la popolazione penitenziaria facendo scontare ai domiciliari chi avesse meno di 12 mesi di pena residua e di estendere anche agli adulti l’istituto della messa alla prova già positivamente applicalo ai minorenni: una sorta di unità nazionale Pdl-Lega-Idv-Udc-Pd (tranne la delegazione radicale) lo ha prima svuotato di ogni contenuto di efficacia e, dopo averlo ridotto a strumento inutile, non è stata nemmeno capace di portarlo a casa per mancanza di copertura finanziaria! Un capolavoro di incapacità politica che non ha voluto far tesoro della lunga campagna nonviolenta che come radicali avevamo messo in campo. Ora, solo un miracolo della “comunità penitenziaria” potrà consentire di passare l’estate, come ‘a nuttata di Eduardo. Ciò che occorre fare - da subito - è farci forti delle contraddizioni che si verificano nelle istituzioni impantanate nella costante pratica dell’illegalità è il caso dell’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Napoli - e attivare, partendo da casi concreti di trattamenti disumani e degradanti, tutte le strade che ci sono offerte dalle giurisdizioni europee. È quanto ha deliberato il recente Consiglio Generale del Partito Radicale Nonviolento transnazionale e transpartito, avvalendosi dell’apporto professionale di esperti come i professori Cesare Romano e Tullio Padovani. Perché il problema è che - come ha detto Pannella anche nell’ultima conversazione domenicale con Massimo Bordin - istituzioni giurisdizionali come la Cedu e l’Onu non funzionano anche perché non sono “usate”, adite, interrogate sol perché le vittime di diritti umani non agiscono, non reagiscono e/o non sono aiutate ad agire e reagire. E ciò che dobbiamo fare per non essere tutti travolti dalla banalità del male di cui abbondantemente si nutrono, e sempre di più, gli stati nazionali delle democrazie occidentali. Rovigo: carcere sovraffollato e condizioni sanitarie precarie per i detenuti Rovigo Oggi, 9 luglio 2010 La denuncia del garante Livio Ferrari sulla vita in carcere. Oltre 130 detenuti in una struttura capace di ospitarne solo 60. Continua la costruzione del nuovo penitenziario di Rovigo, ma si attende il secondo stralcio lavori da 20 milioni di euro Rovigo - Anche il carcere di Rovigo, come molti altri in Italia sta attraversando un momento difficile, dovuto da una parte ai tagli subiti da parte del Ministero della Giustizia, dall’altra al sovraffollamento. A parlarne è Livio Ferrari, fondatore e direttore dal 1988 dell’associazione di volontariato Centro francescano di ascolto e da ottobre 2008 garante dei diritti dei detenuti. Il penitenziario di via Verdi si compone di due sezioni, quella maschile, con una capienza di 35 posti, tollerabile fino a 42 e quella femminile, che prevede 25 presenze. La media per gli uomini invece si attesta in media tra le 80 e le 100 persone, oltre il doppio quindi, “ma abbiamo toccato picchi anche di 110 durante l’inverno” spiega Ferrari, mentre sono circa 30 le presenze femminili effettive, nessuna con figli al di sotto dei tre anni. Alta la presenza di extracomunitari tra i detenuti: il 60% degli uomini e il 75% delle donne, molti dei quali non hanno commesso alcun reato. Si tratta di clandestini, arrestati perché privi di regolare permesso di soggiorno, mentre un altro 30% è tossicodipendente (arrestato con l’accusa di furto o spaccio). Il problema del sovraffollamento, quindi, è reale e difficile da gestire, causato in particolare dal transito per tre giorni delle persone in stato di fermo e rinchiuse nella cosiddetta “sezione degli isolati”, in attesa che il giudice convalidi o revochi l’arresto (una funzione che fino a poco tempo svolgevano le celle nel comando dei carabinieri o in Questura). Il via vai è pressoché continuo, tant’è che per ricavare spazio si è fatto ricorso a soluzioni di “emergenza”, come aggiungere letti a castello a quelli presenti, anche fino a tre. “Qualcuno è caduto, fratturandosi qualche osso - aggiunge Ferrari -. Addirittura quando avevamo 110 uomini, sono stati messi a dormire sui materassi per terra, una condizione di degrado tremenda”. Oltre alle persone in stato di fermo, il 50% dei detenuti a Rovigo è in attesa di giudizio, o, se condannate, in attesa del giudizio d’appello o della Corte di Cassazione. Tutti gli altri, hanno condanne al di sotto dei 4 anni di pena. “Non ci sono esponenti della criminalità organizzata - spiega il garante - perché non esiste la sezione 41 bis e la massima sicurezza, così come non c’è la sezione per i transessuali, che di conseguenza vengono portati a Belluno”. Non si sa ancora se il nuovo carcere, in costruzione e pronto nel 2012, ne sarà dotato. Un altro grosso problema che affligge i detenuti è la questione sanitaria, “da quando nell’ottobre 2008 la legge ha imposto che le competenze passassero dal Ministero della Giustizia alle Ulss locali. Le aziende sanitarie non si accollano le piccole cure che spettano ai detenuti e non c’è alcuna possibilità, al momento di far fronte al problema dato che c’è una divergenza di fondo: le aziende sanitarie ritengono che i carcerati abbiano pari diritti di quelle in libertà” chiarisce Ferrari. Emblematico il caso di un uomo che ha dovuto attendere oltre un anno per avere una dentiera, e che gli è arrivata grazie alla generosità di un dentista. E i tagli imposti dal Ministero non hanno certo aiutato, “c’è stato un periodo in cui ad ogni persona veniva dato un rotolo di carta igienica per un mese, e ad ogni donna un solo assorbente al mese”. Fortunatamente la nuova direttrice, Tiziana Paolini, ha provveduto a rimediare. Grande attenzione da parte del Centro francescano di ascolto alla formazione e all’inserimento lavorativo: un progetto decennale, finanziato annualmente dai i bandi del Csv con il contributo del Comune di Rovigo, prevede l’inserimento in una cooperativa da sei mesi ad un anno. Qui, i detenuti fanno piccoli assemblaggi e gestiscono il magazzino di una Ulss: “Si tratta di percorsi a bassa soglia - conclude Ferrari - validi anche per le persone agli arresti domiciliari. Qualcuno al termine del progetto è stato addirittura assunto”. Dentro al penitenziario, invece, le opportunità lavorative non sono molte, una cooperativa fa fare piccoli assemblaggi a 10 persone, un altro fa lo “spesino”, uno lo “scopino”, infine tre ragazze lavorano nelle cucine. Lucca: 120 posti e 210 detenuti, nel carcere manca anche lo spazio vitale Il Tirreno, 9 luglio 2010 Il carcere San Giorgio ha 120 posti e 210 detenuti, due zone chiuse, inagibili, e i carcerati non hanno a disposizione i 3 metri quadrati di spazio stabiliti come requisito minimo da una sentenza della Corte Europea per i diritti dell’uomo. Situazione grave, dunque, ma secondo il direttore del carcere Francesco Ruello quella di Lucca rientra nella normalità: è in linea con la media italiana. Non la pensano così i detenuti, che in alcune lettere (di cui pubblichiamo stralci) lamentano scarse condizioni igieniche e problemi con il cibo. Il direttore Ruello smentisce le critiche, anche se non nasconde delle preoccupazioni legate soprattutto al pericolo di un ulteriore aumento dei carcerati nel periodo estivo. Già oggi in S. Giorgio i detenuti sono troppi. Gli extracomunitari rappresentano circa il 60% (contro una media nazionale del 40-45%) e difficilmente possono essere mandati agli arresti domiciliari perché non hanno casa. Se aumentasse la popolazione carceraria (com’è successo la scorsa estate) la situazione diverrebbe insostenibile. Dottor Ruello, da cosa dipende la situazione di sovraffollamento di S. Giorgio? “Il sovraffollamento è un problema nazionale e non solo locale: la stessa percentuale di sovraffollamento che riscontriamo a Lucca è presente un po’ ovunque. Le ragioni sono molte, ma possono essere riassunte in una serie di scelte normative che tendono a ricorrere sempre di più al carcere e al generale rallentamento dei processi. Uno dei rimedi possono essere gli arresti domiciliari. Ma questo non è sempre possibile, soprattutto quando si hanno detenuti extracomunitari, che non sempre hanno i presupposti di legge per usufruire delle misure alternative”. Ha segnalato il problema a livello ministeriale? “Posso dire che a tutti i livelli territoriali il sovraffollamento, specie estivo, è monitorato ora per ora”. Come pensa di gestire la situazione? “Con un aumento dell’attenzione da parte di tutto il sistema, dalla polizia penitenziaria agli operatori, verso le emergenze che ci vengono segnalate dall’interno e con interventi burocratici per snellire il più possibile le procedure. Tutto questo per impedire che semplici disagi si trasformino in cose più gravi”. Parliamo di cifre: di quanti posti dispone la casa circondariale San Giorgio? Quanti i detenuti, e per quali reati? “Se parliamo di capienza, bisogna dire che una sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo nel 2009 ha stabilito per i carcerati tutta una serie di parametri, al di fuori di quali si può parlare di trattamento inumano. Tra questi, c’è uno spazio minimo di 3 metri quadrati per detenuto, e la garanzia di attività socializzanti. Il carcere di Lucca ha una capienza di 120-140 persone e oggi ne ospita 210. Se andassimo a verificare, probabilmente qui come altrove non raggiungeremmo i famosi 3 metri quadrati per detenuto. A differenza di altre realtà, però, il San Giorgio offre attività di socialità diffuse, in quanto i detenuti durante il giorno vengono ospitati in sezioni al di fuori delle celle. I reati sono quelli tipici di un carcere di media sicurezza: violazione della legge sull’immigrazione, reati legati alla persona, violazione del patrimonio e altro”. In quali periodi il carcere è più affollato? “In estate: il litorale viareggino porta parecchi arresti e fermi. Nel passaggio dalla primavera all’estate del 2009, i 180 carcerati a San Giorgio sono diventati 210. Oggi, la situazione di partenza è di 210 carcerati, e c’è motivo di credere che aumenteranno. La situazione promette di diventare molto critica”. Alcuni detenuti hanno segnalato situazioni molto gravi all’interno del carcere: locali sporchi, scarafaggi nel vitto. “Smentisco. Abbiamo un servizio sanitario efficiente, che dal 2008 è passato in carico alla Asl. Una commissione di detenuti e un mio delegato controllano costantemente i cibi che vengono serviti e se qualcosa non va gli alimenti vengono eliminati com’è giusto che sia. Le condizioni igieniche sono accettabili. Certo, in una situazione di sovraffollamento l’igiene ambientale ne risente”. Secondo i dati Sappe, a luglio e agosto il carcere lucchese rischierà di rimanere sotto i livelli minimi di sicurezza per mancanza di personale. Come affronterà l’emergenza estate? “Ho fatto un tentativo di calare il piano ferie, ma non è stato raggiunto un accordo con le organizzazioni sindacali. Per questo abbiamo optato per 5 turnazioni di ferie al posto delle 4 che c’erano nel 2009. In pratica ci saranno più turni ma con ferie più brevi. Quanto alla sicurezza sotto i livelli minimi, questa è un’affermazione del sindacato che non mi sento di condividere”. Cosa pensa dell’idea di spostare il carcere fuori dalle Mura? “Sono volutamente estraneo all’argomento. La struttura sicuramente presenta dei deficit evidenti, ma quella di un nuovo istituto è una scelta politica e tecnica la cui ampiezza e complessità va oltre le mie competenze”. I detenuti all’interno di San Giorgio lavorano? “Sì. Possono svolgere attività domestiche come la cucina, le pulizie, il servizio di porta-vitto nelle sezioni. In più possono occuparsi della manutenzione del fabbricato. Vorremmo creare una rotazione stretta delle mansioni più generiche per far lavorare tutti”. Con la legge Smuraglia le imprese possono assumere carcerati e godere di sgravi fiscali: quanti detenuti locali usufruiscono di questa possibilità? “A oggi nessuno. Il mercato del lavoro è difficile. Stiamo cercando di percorrere la strada aperta dalla legge, ma non sempre le ditte private assumono detenuti. Dobbiamo fare in modo che gli assessorati al lavoro fungano da filtro per trovare realtà disposte ad assumere detenuti”. Lei ha definito il San Giorgio una polveriera: un impiego all’esterno del carcere non può essere almeno in parte una soluzione al problema del sovraffollamento e del clima che si respira fra i detenuti? “Direi di no, per un discorso di numeri. Al massimo nel nostro caso potrebbero essere una decina i carcerati assunti in virtù della legge Smuraglia. In realtà gli strumenti sono altri: stiamo cercando di creare spazi aperti nei quali i detenuti possano incontrare le famiglie, e ripristinare spazi interni da adibire a palestra: quella che abbiamo è piccola e non può restare aperta tutti i giorni per mancanza di personale. Certo, si tratta di una linea di indirizzo, ma spero in qualche mese di trasformare queste idee in qualcosa di concreto”. Vitto scadente e topi di notte nelle celle Poco spazio nelle celle, cibo scadente, sovraffollamento. Insomma, una vita impossibile. Un gruppo di detenuti del reparto osservazione denuncia le carenze del carcere di San Giorgio e dice che l’unica forma di assistenza è data da un campanello: ma anche se si suona non vi è risposta immediata perché il personale scarseggia. Forti lamentele riguardano il vitto: “È scarso e cattivo, con carenze igieniche come scarafaggi nell’insalata e il vitto domenicale è unico: solo pranzo. Il cibo viene consegnato al reparto senza alcuna protezione e passa dal viale del giardino infestato da ratti e sporcizia. In caso di pioggia il vitto si bagna”. I detenuti dicono che il reparto è “composto da 4 celle per disabili e da due formato tugurio. Una delle disabili è sprovvista di sanitari, i materassi sono ormai scaduti dal 2003, i cuscini vengono ricavati ritagliando i materassi. Vi lasciamo immaginare come si dorme sul ferro. La notte essendo al pianterreno si ricevono visite da parte dei ratti che salgono sulla griglia della finestra. Inoltre nel reparto osservazione l’ora d’aria è disponibile nella zona isolamento la cui area calpestabili è di circa 15 metri quadri, chiusa in alto con una rete elettrosaldata, sprovvista di acqua e servizi igienici e senza neanche la sorveglianza di una guardia carceraria”. Ci sono poi, dicono i detenuti, problemi di sovraffollamento: “In un carcere con capienza massima di 90 persone, ci sono 220 persone. C’è carenza di personale e ciò grava sulle varie richieste tramite domandine fatte dai detenuti all’amministrazione: direttore, comandante, educatori e servizi sociali. Sono efficaci e tempestivi solamente in consigli disciplinari contro i detenuti. Tutto ciò - conclude la lettera - grava sull’umore dei detenuti che vogliono scontare la pena dignitosamente. Noi viviamo queste situazioni come abusi. Ma ascoltando Radio Carcere abbiamo saputo che sono state già denunciate alcune carceri per maltrattamento verso i detenuti”. La lettera dei detenuti: siamo ammassati come animali Ci sarebbero stati tentativi di suicidi da parte di detenuti, sventati da compagni di cella. E condizioni di vita inaccettabili. Questo è quanto denuncia, in una lettera firmata al nostro giornale, un carcerato rinchiuso a San Giorgio. “Da circa tre mesi - scrive - ci viene dato cibo crudo a causa di un forno che è rotto. Ci sono persone sole senza colloqui e senza soldi che non possono comprarsi neanche un fornello per cucinare ciò che gli viene dato. La situazione igienica è indescrivibile. Questo carcere può ospitare soltanto 110 detenuti e giorno per giorno aumentiamo. Abbiamo pulci e pidocchi ma nessuno dice niente. Più volte abbiamo fatto battiture e sciopero della fame, ma come al solito non ci ascoltano e se ne fregano di tutto ciò”. La lettera del detenuto continua con l’elenco di quello che non va: “Voglio denunciare questa situazione. Riconosco che abbiamo sbagliato ed è giusto che dobbiamo pagare ma così è veramente troppo. L’unica cosa che sono capaci di fare è darci tutta la terapia che vogliamo, così stiamo calmi. Abbiamo una sezione di 88 detenuti tutti ammassati come animali, continui autolesionismi da parte di reclusi che si tagliano con le lamette, altri che ingoiano pile stilo, per poi non parlare dei piccioni che hanno invaso l’area dove noi usciamo due ore al giorno a passeggiare nei loro escrementi”. Il detenuto aggiunge che di 4 sezioni solo 3 sono aperte perché una sta cadendo a pezzi ed è tenuta con dei ponteggi. Stessa situazione per la sala colloqui: “È giusto tutto questo? La posta la riceviamo ogni 5-6 giorni quando va bene, per poi non parlare dei pacchi mandati da casa, a volte passa anche più di un mese. Ci hanno tolto persino i pacchi alimentari portati dai nostri familiari al colloquio: era un grande desiderio gustare la cucina di casa almeno una volta la settimana”. Napoli: una giornata di “lutto dell’avvocatura”, per sensibilizzare sui suicidi dei detenuti Agi, 9 luglio 2010 Una giornata di lutto dell’avvocatura per sensibilizzare gli enti e l’opinione pubblica sui suicidi dei detenuti in carcere. Il coordinamento delle Camere Penali del distretto della Corte di Appello di Napoli, riunito il 18 giugno 2010, aveva accolto la proposta dell’associazione “Il carcere possibile onlus” d’indire la “giornata di lutto” e il prossimo 12 luglio gli avvocati porteranno, sulla giacca, un nastrino nero in segno di lutto durante la consueta attività all’interno degli uffici giudiziari. L’iniziativa è nata per richiamare l’ attenzione sui numerosi suicidi nelle carceri italiane e sulle “drammatiche condizioni igienico-sanitarie in cui sono costretti a vivere i detenuti, sull’ enorme disagio in cui la Polizia Penitenziaria svolge i propri compiti - si legge in una nota - e sulla complessiva situazione d’illegalità dell’esecuzione della pena, cui è necessario porre, senza indugio, rimedio”. Roma: Salvatore Di Maio, da spietato malavitoso a paladino dei diritti dei detenuti La Città di Salerno, 9 luglio 2010 Da spietato malavitoso a paladino dei diritti dei detenuti. La nuova vita di Salvatore Di Maio, dopo 30 anni di carcere, di cui diversi al 41bis, il regime carcerario più duro, quello riservato a mafiosi e camorristi, è fatta ora di “battaglie” volte a rivendicare il diritto ad un effettivo recupero sociale e morale dei detenuti. “Il carcere, così come è adesso, è una vera scuola del crimine - afferma Di Maio - ci sono tante situazioni anomale, di illegalità diffusa, di condizioni igieniche carenti, di sovraffollamento delle celle. Ci sono ex sale da ping-pong trasformate in grandi celle che ospitano anche 20 persone. Questo sistema carcerario è sbagliato, non lo dico certo solo io, ma anche molti direttori di penitenziari, alcuni dei quali con successo applicano sistemi meno restrittivi, tendenti ad aiutare il detenuto, agevolando il suo reale recupero. Il carcere, se è solo repressivo, porta rabbia, rancore, disperazione. A rimetterci sono sempre i più deboli, come si vede anche dall’aumento dei suicidi in carcere”. Di Maio, che dal 2000 lavora nelle cucine del carcere di Rebibbia come aiuto cuoco, fa da tempo parte dell’associazione Papillon, che si occupa dei diritti dei detenuti. “Ora mi impegno solo per spirito di giustizia - sottolinea. Il carcere deve essere un servizio per il cittadino che ha sbagliato, non una sottomissione. Così come gli ospedali servono a curare o ad alleviare le sofferenze dei malati il cui fine è la guarigione, il carcere deve dare concrete possibilità di recupero ai detenuti. Penso che il sistema penitenziario dovrebbe puntare innanzitutto a facilitare e migliorare il rapporto dei reclusi con le famiglie - continua - spesso i colloqui sono ulteriormente ridotti o spostati durante la settimana e questo limita notevolmente la disponibilità dei familiari ad essere presenti ai colloqui. Una situazione che influisce negativamente sul detenuto, privato della presenza e del sostegno dei parenti. Dicono che le regole restrittive sono dettate da esigenze di sicurezza, ma non aiutano di certo il recupero di chi è recluso. I finanziamenti pubblici sono tanti, volti a sostenere cooperative che si occupano di teatro in carcere ed altre iniziative belle ma inutili, perché una volta fuori dal carcere, l’ex detenuto non va certo a fare l’attore. Meglio ovviamente imparare un lavoro, soprattutto per i tanti giovani che una volta fuori dovranno inserirsi in un contesto sociale legale”. Immigrazione: viaggio al di là dei diritti umani www.estense. com, 9 luglio 2010 Protesta dei sindacati Siulp, Sap, Siap-Anfp, Silp-Cgil, Ugl e Coisp sul servizio di accompagnamento stranieri: “così non si trasportano nemmeno le bestie”. Dove sono finiti i diritti umani? A quanto sembra lontano dalla direttrice Ferrara- Lamezia Terme, quella deputata all’accompagnamento degli stranieri non regolari sul territorio verso i centri di permanenza temporanea. Già i Cpt, oggi ribattezzati Cie (Centri di identificazione ed espulsione), non brillano per qualità della permanenza. Ma che il viaggio verso il limbo che preannuncia l’espulsione debba essere costellato da qualcosa che viene definito al di là della “dignità delle persone” fa meditare. La denuncia arriva dai sindacati di polizia Siulp, Sap, Siap-Anfp, Silp-Cgil, Ugl e Coisp, che riferiscono di un recente episodio, l’ultimo di una lunga serie a quanto pare, relativo a uno di questi viaggi lontano dai diritti umani. “La modalità di organizzazione dei servizi di accompagnamento stranieri - affermano -dovrebbe mettere in primo piano non tanto il servizio stesso ma la vicenda umana che esso rappresenta nelle sue complesse contraddizioni, tra l’effettuare un servizio obbligatorio e il rispetto dell’uomo”. E invece lunedì scorso qualcosa è andato “al di là del comune buon senso”, tanto da “porre dubbi sulla legalità del servizio svolto”. Il 5 luglio una persona doveva essere accompagnata al centro di accoglienza di Lamezia Terme, l’unico posto messo a disposizione dal Ministero degli Interni, a oltre 1.000 km di distanza dal capoluogo estense. Due poliziotti, che effettuavano il turno con orario 14/20, sono stati incaricati del servizio: accompagnare in auto lo straniero fino a Lamezia. “Sono quindi partiti alle 14,30 circa - ricostruiscono i sindacati - per un viaggio di oltre dodici ore, sotto un sole cocente, dentro una volante in cui lo straniero sedeva dietro, nel posto dei passeggeri, quelli da accompagnare in cella. Quest’uomo ha viaggiato su sedili di gomma, separato dall’abitacolo da un vetro interno di plexiglass, in uno spazio ridottissimo senza possibilità di aprire i vetri e con solo un piccolo bocchettone di areazione”. “Così non si trasportano nemmeno le bestie - denunciano i sindacati di polizia -. Senza poter farlo uscire, senza poter uscire loro stessi, senza poter mangiare, bere, riposare. Un viaggio che somiglia a un’odissea, o al ladro di bambini, il film di Gianni Amelio”. “Dove sono finiti i diritti umani? La dignità delle persone? Non sono forse gli stessi diritti che noi dovremmo difendere? Qualora fosse accaduto un incidente stradale dovuto alla stanchezza, chi ne avrebbe risposto?” si chiedono le sigle delle forze di polizia, che ritengono il questore “responsabile di aver organizzato un servizio con orari illegittimi. Noi lo accusiamo di aver messo in pericolo l’incolumità dei colleghi e della persona (di persona si tratta), da accompagnare”. La segnalazione, oltre che alla stampa, è stata inviata anche alle rispettive segreterie nazionali, per far “pervenire questa nota al Servizio immigrazione e al Capo della Polizia, sempre molto attento alla difesa dei diritti delle persone, affinché simili episodi non accadano più, né a Ferrara né da altre parti”. E presto questo viaggio “al di là dei diritti umani”, anticipano gli stessi sindacalisti, potrebbe finire sul tavolo di Amnesty International. Svizzera: inchiesta su morte detenuto, responsabile del servizio penitenziario si dimette www.bluewin.ch, 9 luglio 2010 La responsabile del Servizio penitenziario vodese (Spen) Catherine Martin lascia la carica. Lo ha annunciato il consigliere di Stato Philippe Leuba tirando le conclusioni - particolarmente severe - dell’inchiesta amministrativa condotta sulla vicenda Skander Vogt, il detenuto morto asfissiato l’11 marzo nel carcere vodese di Bochuz dopo aver incendiato la sua cella. “La signora Martin non dispone delle qualità e dell’autorità indispensabili per procedere alle necessarie riforme” ha spiegato oggi alla stampa il capo del Dicastero vodese degli interni. La sua partenza è stata decisa “di comune accordo”, alla lettura del rapporto stilato dall’ex giudice federale Claude Rouiller. Incaricato dell’indagine amministrativa, l’ex magistrato non lesina le critiche nei riguardi del sistema carcerario vodese, “afflitto dalla mancanza di formazione del personale e da un asservimento alla disciplina spinto fino all’assurdo”. La sera del dramma, il personale di Bochuz ha confuso direttive e pratiche effettivamente esistenti, dimenticando l’essenziale: soccorrere immediatamente un detenuto in pericolo di morte, rileva Rouiller. I secondini del penitenziario “si sono asserragliati come dei robot dietro una direttiva di sicurezza”, che imponeva di aspettare l”unità delle forze speciali prima di far uscire il detenuto - considerato pericoloso - dalla cella invasa dal fumo. La stessa lentezza nel reagire può essere rimproverata al personale medico. “Skander Vogt è morto in definitiva a causa di una direttiva mal assimilata o mal compresa dalle persone la cui missione era di proteggerlo”, sottolinea l”ex giudice. Il vallesano esclude tuttavia in modo categorico che le guardie carcerarie abbiano agito deliberatamente, per sbarazzarsi di un detenuto “scomodo”. Libia: il Governo cede a pressioni internazionali, detenuti eritrei non saranno rimpatriati Agi, 9 luglio 2010 La Libia ha concesso il permesso di soggiorno a circa 400 migranti eritrei, dopo l’allarme lanciato dalle organizzazioni per i diritti umani per il rischio che subissero persecuzioni in caso di rimpatrio. Tra loro ci sono anche gli eritrei rinchiusi per giorni nel centro di detenzione di Braq, vicino Sabha, che avevo denunciato maltrattamenti e torture. Il ministero degli Esteri di Tripoli ha annunciato che “le autorità competenti hanno cominciato a prendere misure per accogliere e integrare questi immigrati clandestini eritrei ed evitare che vengano sfruttati o messi in pericolo dai trafficanti di esseri umani”. Il governo libico ha fatto sapere che ai rifugiati sarà consegnata la carta d’identità e assicurata “una vita dignitosa e l’accesso a un lavoro adatto alle loro capacità professionali”. L’organizzazione internazionale per la migrazione (Iom) ha confermato che Tripoli ha accettato di trovare un impiego ai rifugiati in lavori pubblici. “I migranti hanno paura di essere rimpatriati”, ha sottolineato il capo missione dell’organizzazione intergovernativa, Laurence Hart. Martedì scorso, Amnesty International si era appellata alla Libia affinché non rimpatriasse gli eritrei e aveva denunciato il trasferimento di 200 di loro a Braq dopo il tentativo di fuga di una quindicina di migranti dal campo di Misratah, lo scorso 29 giugno. “Le autorità libiche devono proteggere gli eritrei e assicurare che non vengano rimpatriati con la forza nel loro Paese dove si troverebbero di fronte a seri rischi di torture e altri abusi”, ha spiegato il direttore di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa, Malcom Smart. “Qualsiasi rimpatrio forzato dei cittadini eritrei rappresenterebbe una violazione dell’obbligo della Libia di non restituire alcun individuo a un Paese dove sarebbe a rischio di tortura e di altre forme di maltrattamento”, ha aggiunto Smart. Preoccupazione è stata espressa dall’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr): “Non riusciremo a vedere i profughi eritrei ancora per qualche tempo”, ha spiegato a CNRmedia Laurence Jolle, rappresentante Unhcr per l’Italia. “Abbiamo avuto moltissimi problemi in Libia e per il momento credo che la priorità sia far sì che la situazione cambi, in modo da essere presenti” nel Paese nordafricano. “Purtroppo, abbiamo avuto molto poco accesso alle carceri libiche”, ha aggiunto Jolle. Il gruppo EveryOne ha lamentato che l’accordo firmato dalle autorità libiche (libertà e permesso di soggiorno in cambio di lavoro “socialmente utile”) è “contrario alla legislazione internazionale in materia di diritti umani perché i lavori socialmente utili sono in realtà una forma di punizione alternativa al carcere”. Turchia: Consiglio d’Europa; troppi bambini in carcere, serve riforma giustizia minorile Adnkronos, 9 luglio 2010 In Turchia è necessaria una riforma radicale del sistema di giustizia minorile. Lo ha scritto il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Thomas Hammarberg in due lettere inviate ai ministri turchi della Giustizia, Sadullah Ergin, e degli Interni, Besir Atalay, dopo la sua visita in Turchia dal 23 al 26 maggio scorso. I contenuti delle missive sono stati resi noti solo oggi e sono relativi alla necessità di riformare il sistema di giudizio per i minori, lo sviluppo di leggi per combattere il terrorismo, il rispetto dei diritti umani dei profughi e dei richiedenti asilo. Hammarberg ha quindi sottolineato la sua preoccupazione per i bambini detenuti, accusati e condannati, soprattutto in base alle leggi anti-terrorismo in vigore nella Turchia meridionale e orientale. “In Turchia sono detenuti troppi bambini - ha detto. La situazione non è in linea con gli standard europei e internazionali. La detenzione dei bambini dovrebbe essere una misura eccezionale”. “Le condanne molto dure imposte sui bambini in base alla legge per combattere il terrorismo e che in altre giurisdizioni sarebbero considerati reati minori, pone seri problemi sulla proporzionalità tra la pena e lo scopo che vuole raggiungere - scrive il commissario europeo -. Mi auguro che la proposta di riforma della legge anti-terrorismo e la sua futura applicazione sui minori contribuirà a stabilire una giustizia più amica dei bambini, concentrata sull’educazione e su misure alternative alla detenzione”. Cuba: dissidente Farinas sospende il digiuno, dopo la liberazione di 52 detenuti politici Ansa, 9 luglio 2010 All’Avana è tempo di novità, e di rilievo: Guillermo Farinas ha oggi posto fine a uno sciopero della fame lungo più di quattro mesi, ore dopo l’annuncio del rilascio, in tempi diversi, di un gruppo di 52 prigionieri politici, a seguito del dialogo in corso tra la Chiesa cattolica e il governo di Raul Castro. Tali annunci sono di fatto coincisi con la visita del ministro degli esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos, che è stato ricevuto dal presidente Castro. La sensibile decurtazione del numero dei detenuti politici - 52 su un totale di 167 secondo fonti della dissidenza - aveva subito spostato l’attenzione proprio sulle intenzioni di Farinas, lo psicologo e giornalista che lo scorso 23 febbraio aveva avviato un digiuno a oltranza per richiedere il rilascio di 23 prigionieri malati. Farinas, le cui condizioni di salute sono ormai da tempo molto critiche, ha quindi deciso di dare ascolto a quanto gli chiedevano la famiglia e numerosi dissidenti, ponendo così fine allo sciopero della fame. Subito dopo l’annuncio sull’impegno delle liberazioni di ieri, Farinas aveva reagito con prudenza, precisando che prima di decidere sul suo digiuno voleva avere rassicurazioni sul fatto che le liberazioni fossero effettive. Oggi c’è stato un passo in avanti concreto, visto che la Chiesa ha reso noto i nomi di cinque detenuti che saranno liberati quanto prima e di altri sei prigionieri che saranno trasferiti in carceri più vicine al loro luogo di residenza. Poco dopo, Farinas ha reso noto il suo stop al digiuno. Mentre la Spagna non nasconde la propria soddisfazione per l’esito della mediazione della Chiesa e della missione Moratinos, Washington ha atteso qualche ora prima di prendere posizione: “Siamo incoraggiati da quello che sembra essere un accordo tra la Chiesa e le autorità - ha detto Hillary Clinton parlando con i giornalisti -. Lo riteniamo un segnale positivo. Qualcosa che avrebbe dovuto avvenire da tempo, ma che nello stesso tempo accogliamo come benvenuto”. Simile la reazione di Bruxelles: “La Ue ha seguito con grande interesse il dialogo tra la Chiesa e il governo, e spera che questo dialogo porterà al rilascio di tutti i prigionieri politici”, ha precisato la Commissione europea. Anche se se ne parlava da tempo, diverse capitali si sono oggi d’altra parte fatte avanti per accogliere quei detenuti che saranno liberati e che andranno all’estero. Gli Usa hanno per esempio sottolineato di essere pronti ad offrire asilo politico ai dissidenti cubani, mentre simili dichiarazioni sono giunte anche da Santiago del Cile, Madrid e Parigi. Non si esclude che altre capitali europee possano aggiungersi alla lista, e aprire le porte agli oppositori.