Giustizia: domani l’assemblea della Camera inizia la discussione sul ddl svuota-carceri di Lucia Varasano www.mediapolitika.com, 4 luglio 2010 Arriva in aula alla Camera domani, 5 luglio, il ddl “svuota carceri” firmato dal Guardasigilli Angelino Alfano. Il provvedimento concede gli arresti domiciliari a chi deve scontare un anno di pena, ad esclusione dei reati gravi, ed è stato concepito per ridurre il sovraffollamento dei penitenziari. Rientra nel cosiddetto terzo pilastro relativo al “Piano carceri” approvato per risolvere lo stato di emergenza nazionale disposto dal presidente Berlusconi e che durerà fino al 31 dicembre 2010. Il piano comprende anche la costruzione di nuovi padiglioni che affiancheranno le strutture preesistenti e nuove strutture penitenziarie. Secondo Radio carceri, la rubrica di radioradicale.it, il famigerato piano sarebbe solo l’ennesimo annuncio (il 12º in 24 mesi), che non contribuirà in realtà a risolvere il problema del sovraffollamento. Attualmente i detenuti sono circa 68mila a fronte dei 42 mila posti a disposizione, e la costruzione di nuove carceri, oltre a non essere concretamente applicabile in breve tempo, permetterà un incremento di soli 9 mila posti, che non basterebbero comunque a coprire l’esubero del numero dei detenuti. Il ddl “svuota carceri” intanto approda a Montecitorio con alcune modifiche. Su parere della commissione Bilancio sono state abrogate alcune parti, come la norma che prevedeva l’assunzione di tremila unità tra forze di polizia e carabinieri per i controlli di chi andrebbe ai domiciliari. Ed è stata bocciata anche la deroga al taglio del 10% del personale amministrativo del ministero della Giustizia. Il provvedimento arriva in aula di pari passo con il parere del Cnb (Comitato Nazionale per la Bioetica) dal titolo:”Il suicidio in carcere Orientamenti bioetici”, che raccomanda alle autorità competenti di predisporre un piano d’azione nazionale per la prevenzione dei suicidi in carcere. Secondo il Cnb bisogna innanzitutto riconsiderare le politiche penali che si pongono in contrasto con il principio di umanità delle pene e garantire un percorso di reintegrazione sociale. Dopo che il 2009 ha fatto registrare il numero più alto di suicidi in carcere della storia italiana, ben 72, l’associazione “Ristretti Orizzonti” continua l’opera di monitoraggio con il suo annuale dossier “Morire di carcere”. Anche nel 2010 la situazione non sembra affatto migliorare, secondo i dati aggiornati al 1 luglio, sono già 33 i detenuti morti per suicidio. Dai tossicodipendenti che cercano lo sballo in cella inalando gas dai fornelletti da cui molte volte restano uccisi, fino ad arrivare agli episodi di impiccagione con i lacci delle scarpe, senza contare i tentativi di suicidio da parte di detenuti che ingoiano lamette. La situazione nelle carceri italiane è insostenibile, i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 20 volte maggiore rispetto alle persone libere e, spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività trattamentali, con una scarsa presenza del volontariato. Qui il disagio per la perdita della libertà individuale va a sommarsi alle condizioni effettive di molte carceri che restano luogo di esclusione dalla realtà esterna. Dal 1987 esistono servizi come quello dei “Nuovi Giunti”, istituito dall’Amministrazione penitenziaria, per prevenire e contenere il fenomeno delle condotte autolesionistiche, a cui si sono aggiunti negli anni altre tipologie d’ intervento, a partire dal miglioramento dei contatti con la famiglia e il mondo esterno, ai progetti “Detenuti a lavoro”, più interventi di natura specialistica legati alla sussistenza di patologie cliniche perlopiù di natura psichica. Un passo in avanti verrà compiuto il 6 luglio quando Gianni Letta, Angelino Alfano, Alfredo Mantovano; il capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), Franco Ionta; il presidente della Fondazione Istituto di Promozione Umana “Mons. Francesco Di Vincenzo” e del Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS), Salvatore Martinez, presenteranno l’ANReL (Agenzia Nazionale Reinserimento e Lavoro) per detenuti ed ex, con l’obiettivo di ridurre la recidività dopo l’uscita dal carcere, attraverso percorsi personalizzati di orientamento, formazione, avviamento al lavoro, inserimento professionale, borse lavoro, partenariati con le principali organizzazioni sociali. Giustizia: il Governo inglese riconosce che le carceri non “producono” sicurezza… e in Italia? di Adriano Sofri Il Foglio, 4 luglio 2010 Un’appendice alla posta di ieri, a proposito della “rivoluzione della riabilitazione” propugnata dai ministro conservatore inglese della Giustizia Ken Clarke e dal suo premier Cameron. Sul Guardian del giorno dopo il già ergastolano Erwin James dice che Clarke ha ragione a mettere al primo posto la sicurezza dei cittadini, e a non nascondersi, come fanno (quasi) tutti per demagogia e ipocrisia, che le discariche umane in cui sono trasformate le prigioni servono a tutt’altro che a ridurre i reati e tutelare le vittime potenziali. Il laburista Jack Straw, predecessore di Clarke alla giustizia, aveva appena ripetuto che “la galera funziona”: James obietta che non ce n’è prova alcuna, mentre è provato che fra i condannati cui si offrono reali opportunità di reinserimento la recidiva è enormemente più bassa. (Esattamente come in Italia. In Italia è stata decisamente più bassa la recidiva anche fra i beneficiari dell’indulto, benché a quella calunniatissima misura non si fossero accompagnati provvedimenti finanziari, e anche culturali, per il reinserimento sociale). Dice James di essersi accorto che Clarke era un “progressista” diciotto anni fa, quando, appena nominato ministro degli interni, visitò il carcere di Nottingham e un suo socio, ergastolano anche lui, gli chiese un contributo per una maratona di beneficenza nel cortile dell’aria, Clarke senza esitazione gli diede una banconota da 5 sterline augurandogli “buona fortuna”. Sotto la responsabilità di Clarke la prigione fu ristrutturata in funzione del lavoro e dell’educazione: all’avvento del laburista Howard la galera tornò a essere un deposito cannibalesco, e il tasso di recidiva si impennò. James cita l’esperienza di una Ong, “Ble Sky Development and Regeneration”, che ha dato lavoro stabile a 300 ex detenuti in cinque anni riducendo il tasso di recidiva al 15 per cento, rispetto all’attuale medio che è dei 70 per cento. Giustizia: affollamento è alibi per giustificare che il carcere non funziona, certezza pena delirante illusione Ansa, 4 luglio 2010 Perché la situazione delle carceri cambi in meglio è necessario abbandonare la “delirante illusione della certezza della pena. È più conveniente che chi entra in carcere ne esca presto e rinnovato, piuttosto che a fine pena e incattivito”. La pensa così don Giovanni Varagona, cappellano del carcere di Barcaglione ad Ancona. “Un altro carcere è possibile, e, anche oltre qualsiasi propensione umanitaria, conviene pure dal punto di vista economico. Il sovraffollamento delle celle di fatto è un alibi per giustificare il fatto che le carceri non funzionano - sostiene don Varagona. Sono sovrappopolate semplicemente perché non funzionano. Perché generano delinquenza, anziché aiutare a debellarla. Perché a chi vi capita per la prima volta, il carcere promette una recidiva a vita”. Secondo il cappellano perfino la questione delle risorse economiche è secondaria. Piuttosto è una questione di cultura: chi entra in carcere oggi è degradato da persona a delinquente. Non c’è fiducia nella sua capacità di reinserirsi in società, e per questo non si investe nel recupero. Il detenuto cessa di essere persona perché gli spazi di libertà e autodeterminazione vengono soppressi ben oltre il senso della pena e le esigenze di sicurezza. Smette di scegliere, di decidere sulla gestione del tempo, degli spazi, delle relazioni con i compagni e con chi lo mantiene dentro. E la repressione di queste abilità compromette seriamente la possibilità di reinserimento. Mentre il fallimento giustifica l’ennesimo giro di vite, l’ennesimo giro di chiave. Giustizia: Sappe; grave se il Governo tagliasse buste paga sicurezza, maggioranza schizofrenica Apcom, 4 luglio 2010 “Mi sembra davvero schizofrenica questa maggioranza politica”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe commentando l’eventualità di tagliare le tredicesime a poliziotti e carabinieri. “Bisogna eliminare i privilegi che ci sono in questo Paese, non i diritti - continua Capece: privilegi dei quali primi fruitori sono proprio i politici, con indennità varie e auto blu. È davvero paradossale che chi percepisce 10-15mila euro al mese chieda sacrifici a chi ne guadagna 1.500 e garantisce concretamente la sicurezza del Paese, a bordo delle volanti o sulle mura di cinta delle carceri, giorno e notte, festivi compresi. L’ho detto, lo ripeto e lo ribadisco: sarebbe davvero grave se questa maggioranza parlamentare e questo Governo - che quando era all’opposizione scese in piazza con noi a Milano e Roma per chiedere stipendi più dignitosi per le Forze di Polizia; che si prende il merito politico dei numerosi arresti nella lotta alla criminalità, ma poi taglia le già scarse buste paga di quei poliziotti che hanno compiuto concretamente quegli arresti e di quelli che li detengono in carcere vigilandoli 24 ore su 24 - usassero la scure contro le donne e gli uomini delle Forze di Polizia”. “Dimostrerebbero profonda insensibilità e scriverebbero una pagina triste nella storia del Paese e nei rapporti con quelle donne e quegli uomini che tutti i giorni ne garantiscono la sicurezza - conclude Capece -, pur avendo un contratto di lavoro scaduto da 2 anni ed un riordino delle carriere a lungo promesso quando si sta all’opposizione politica ma poi mai concretamente finanziato una volta al Governo”. Lettere: la giustizia italiana va aiutata e riformata partendo da quelle che sono le vere emergenze di Davide Zoggia (Responsabile nazionale Pd per gli Enti locali) La Nuova di Venezia, 4 luglio 2010 La condanna definitiva, il diritto alla ragionevole durata del processo, il diritto alla difesa garantita anche ai non abbienti, la finalità riabilitativa della pena. La giustizia italiana va aiutata e riformata partendo da quelle che sono le vere emergenze. Innanzitutto la giustizia civile. Va affrontata quella vera e propria ipoteca sulla competitività rappresentata dal cattivo funzionamento della giustizia civile, che è causa dell’inadeguata tutela del credito, della difficoltà ad investire nel nostro paese, dell’incertezza dei rapporti tra i privati, del protrarsi di conflitti familiari, talvolta drammatici. Le cause civili attualmente pendenti sono più di 5 milioni (con una crescita media del 7,5%). Per avere giustizia oggi un cittadino attende anche fino a sette anni e mezzo e, una volta giunta la sentenza, questa risulta spesso priva di qualsiasi effetto positivo per chi intende far valere il proprio diritto. Bisogna poi affrontare il tema dell’organizzazione. L’efficienza del sistema giudiziario presuppone necessariamente una efficace distribuzione sul territorio nazionale degli uffici giudiziari e l’adeguatezza della loro struttura dimensionale. Per questo la revisione della geografia giudiziaria da un lato e delle dimensioni degli uffici giudiziari dall’altro, rappresenta una priorità da perseguire prevedendo l’individuazione di una rete omogenea di tribunali ordinari secondo criteri obbiettivi di prossimità di tipo socioeconomico e territoriale. Allo stesso tempo si potrà procedere verso l’incremento delle risorse strumentali e umane, attualmente del tutto insufficienti e sproporzionate rispetto ai carichi di lavoro degli uffici. Altra riforma riguarda il sistema carcerario. La situazione nelle carceri italiane è drammatica per il sovraffollamento (con il numero di detenuti che aumenta di oltre 700 unità al mese), per la carenza di personale di sorveglianza e per l’insufficienza di personale in grado di fornire assistenza sociale e psicologica in carcere. Questa situazione porta al numero incredibile di suicidi che ogni anno si verificano e vanificano completamente la previsione costituzionale della finalità rieducativa della pena. È necessario ampliare la tipologia delle misure alternative alla pena detentiva in favore di quelle specificamente supportate da progetti professionalmente strutturati volti al reinserimento sociale. Per fare ciò non si può prescindere dall’adeguare le piante organiche riferite al personale di polizia penitenziaria e alle figure degli educatori, degli assistenti sociali e degli psicologi, avviando un nuovo piano di assunzioni che garantisca le risorse umane e professionali necessarie all’attivazione delle nuove strutture penitenziarie. Inoltre devono essere riviste anche le norme sulla custodia precautelare e sulla custodia cautelare in carcere limitandola a criteri più stringenti per il suo utilizzo, anche al fine di eliminare quei meccanismi che concorrono al sovraffollamento con detenzioni in attesa di giudizio. Queste alcune linee, nelle prossime settimane, se il giornale ce lo consentirà, presenteremo le nostre proposte per i tempi del processo penale e le garanzie. Emilia Romagna: Volontariato Giustizia; recuperare proposta Alfano su detenzioni domiciliari Dire, 4 luglio 2010 L’Emilia-Romagna ha l’indice di sovraffollamento delle carceri più alto d’Italia: l’88%. Un dato che “vanifica ogni tentativo di pena utile e viola in modo pesante i diritti delle persone recluse, rendendo molto complicato anche il lavoro degli operatori”. Ecco perché sarebbe necessario riflettere sulla proposta di usare di più le misure alternative e promuovere l’uscita dal carcere di chi è a fine pena. La denuncia di una situazione “disastrosa” nelle case circondariali della regione arriva dalla Conferenza regionale del volontariato giustizia dell’Emilia Romagna che consegnerà in questi giorni ai Prefetti e alle autorità locali di ogni realtà cittadina sede di carcere una lettera aperta. Nel documento si ricorda che nelle carceri della regione ci sono 4.508 detenuti (4.345 uomini e 163 donne) a fronte di una ricettività massima consentita pari a 2.393 (2.273 uomini e 120 donne). Alle autorità la conferenza chiede “un gesto di responsabile attenzione a un problema che cresce di giorno in giorno e non lascia intravedere né possibili sbocchi immediati e né ragionevoli prospettive future”. Cioè una sollecitazione al Governo perché recuperi “in tempi brevissimi la proposta del ministro delle Giustizia Angelino Alfano” che apriva qualche possibilità di uscita per chi è molto vicino al fine pena oltre che la promozione delle misure alternative. Questo anche perché le recenti leggi come la Cirielli sulla recidiva, la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi sulla tossicodipendenza “hanno originato la follia del sovraffollamento”. Calabria: Presidente Consiglio Regionale; segnalerò ad Alfano le condizioni degli istituti di pena Adnkronos, 4 luglio 2010 La situazione delle carceri in Calabria è stato il tema al centro di un incontro a Palazzo Campanella tra il presidente del Consiglio regionale, Francesco Talarico, e una delegazione del sindacato Uil Pa Penitenziari. Il massimo rappresentante dell’Assemblea legislativa calabrese si è impegnato a indirizzare una lettera al Ministro della Giustizia Angelino Alfano. “Il sovraffollamento degli istituti, insieme al sottodimensionamento del personale addetto ai servizi penitenziari e alla forte presenza della ‘ndrangheta - è stato detto nel corso dell’incontro - costituiscono la miscela di negatività che causa il disagio nelle carceri”. “Il problema ha raggiunto livelli insopportabili con una pesante compromissione dei diritti e delle stesse condizioni essenziali di vivibilità all’interno degli istituti di pena”, hanno evidenziato al presidente del Consiglio regionale i componenti della delegazione. La Uil esprime “preoccupazioni e inquietudini dell’intero settore e raccoglie l’insofferenza diffusa che si registra tra gli operatori carcerari chiamati a garantire legalità, ordine, disciplina all’interno di istituti dove la dimensione dell’umanità è svilita così come calpestati sono la dignità dei detenuti e il loro rispetto in quanto persone”. Secondo gli ultimi dati disponibili, se in Calabria è del 65% l’indice di sovraffollamento delle carceri, ci sono anche situazioni limite come quelle di Lamezia Terme (157%) e Reggio Calabria (115%). In cifre assolute, negli istituti della regione sono presenti complessivamente 3.065 detenuti (3.015 uomini e 50 donne) a fronte di una ricettività massima consentita pari a 1.855 (1.825 uomini e 30 donne). “E spesso, come nel caso di Reggio Calabria, le carceri oltre ad essere sature sono casi esemplari di edilizia fatiscente. Risalente ai primi del 1900, l’Istituto di Reggio è popolato di topi ed il liquame degli scarichi fuoriesce dai soffitti, invadendo le celle del piano sottostante. Sovraffollamento della popolazione carceraria; sottodimensionamento della polizia addetta e forte pressione del criminalità organizzata si mescolano, insomma, innescando pericolose conseguenze che hanno ripercussioni soprattutto sugli agenti polizia penitenziaria”. Da ultimo, i dirigenti Uil “hanno ricordato i 18 colpi di mitra esplosi il 10 giugno scorso a Reggio contro l’auto di un graduato. Gesti vigliacchi che non scalfiranno minimamente l’impegno in prima linea del corpo della polizia giudiziaria nei compiti d’istituto, al servizio della gente e delle Istituzioni e che comunque non possono non avere una risposta tempestiva: in proposito, la Uil-penitenziari chiede che venga inviato proprio a Reggio un contingente di 30 agenti scelti fra quanti stanno per essere immessi in servizio”. Il Presidente Talarico ha garantito che “si farà interprete e portavoce delle istanze dei responsabili dei servizi carcerari e dei Sindacati di settore nelle opportune sedi istituzionali. Anche per la speciale attenzione che in questa legislatura il Consiglio regionale ha inteso riservare alla questione sicurezza, compresa la condizione carceraria, che in Calabria presenta delicati e non trascurabili risvolti - ha assicurato il Presidente Talarico - intendo dar voce alla vostra denuncia e alla sollecitazione di adeguati interventi”. In particolare, il Presidente, “ha assunto l’impegno di trasmettere una lettera contenente i problemi al centro dell’iniziativa del Sindacato al Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e a tutta la delegazione parlamentare calabrese di ogni schieramento politico - conclude il comunicato - perché, nelle sedi idonee, si assumano le decisioni più giusto”. Puglia: Uil; sovraffollamento carceri, situazione insostenibile Bari Sera, 4 luglio 2010 “Sovraffollamento carceri: situazione insostenibile”. Parole secche e chiare per il segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno che ha commentato i dati relativi alla presenza di detenuti nelle carceri pugliesi a fine giugno. I numeri rendono l’idea del sindacalista. Specifica che il 28 giungo scorso erano presenti in Puglia “4.505 detenuti (4.281 uomini e 224 donne) a fronte di una ricettività massima consentita pari a 2.551 (2.354 uomini e 197 donne)”, con un indice di sovraffollamento pari al 77%, “secondo solo all’Emilia Romagna (88%)”. Nel dettaglio, il conteggio fatto dalla Uil Pa Penitenziari dice che nella casa circondariale di Altamura ci sono 97 detenuti a fronte di una capienza massima di 52 (quindi un incremento di 45 unità e una percentuale di sovraffollamento pari al 86,54%). Non molto diversa la situazione nel carcere Bari. La struttura di via Petroni accoglie al momento 596 prigionieri rispetto alla disponibilità di 296 posti (300 detenuti in più e un sovraffollamento del 101,35%). Guardando al penitenziario di Trani vediamo che c’è un incremento di 23 unità rispetto al normale: presenti 292 carcerati rispetto alla disponibilità di 269 (+8,55%). “Da un’attenta valutazione dei dati - continua l’esponente della Uil - emergono quelle realtà che più volte abbiamo segnalato all’attenzione pubblica. Lecce è senz’altro la punta avanzata delle criticità e rappresenta una vera e propria emergenza nazionale sul fronte del sovraffollamento (1339 detenuti con una ricettività per 659 posti e un sovraffollamento pari al 103,19% - ndr), per l’inadeguatezza degli organici e per lo spessore criminale di molti detenuti. Anche Foggia, Bari, Taranto e Turi (presenti in 182 su 112 posti e un indice di +62,5% - ndr) sono esempi lampanti ed eclatanti dell’inefficienza e del degrado del sistema penitenziario italiano”. Sarno, poi, lamenta il fatto che in “troppi casi non si è voluto vedere e non si è voluto intervenire”, quindi “ora il personale e i detenuti debbono subire sulla propria pelle condizioni di lavoro e di detenzione infamanti ed incivili”. Secondo il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, in Puglia il contingente di polizia penitenziaria “è al completo, se non addirittura sovra dotato. Noi contestiamo questa visione: la dotazione complessiva regionale dovrebbe essere di 2.530 unità ma ne risultano in servizio 2.673 cui si debbono sottrarre 84 unità impiegate in strutture non detentive come il Provveditorato e i vari Uffici dell’Esecuzione Penale Esterna”. Pare, inoltre, che ci si trovi così “di fronte a un surplus di 27 unità in sovrannumero”. Ma Sarno scarta questa ipotesi. Continua dicendo che “nell’analisi non si contano le molte decine di unità assenti per aspettativa”. La domanda quindi: “È lecito - si chiede - affermare e pretendere che occorre rinforzare le prime linee e gli avamposti di sicurezza nelle carceri? Ogni commento è davvero superfluo”. Forlì: Di Maio (Pd); il carcere scoppia, tagli inaccettabili, si potenzino i fondi per attività ricreative Dire, 4 luglio 2010 “Il carcere di Forlì scoppia e la manovra del Governo va a tagliare anche su questo: è inaccettabile. Chi si erge a paladino della nostra città, e poi non fa nulla di concreto per migliorare la qualità della vita dei nostri territori, cominci a fare a Roma quello che proclama a Forlì”. Lo afferma Marco Di Maio, consigliere comunale a Forlì, che assieme alla presidente della Circoscrizione 3, Jennifer Ruffilli, ieri pomeriggio ha partecipato in carcere a Forlì allo spettacolo organizzato dai detenuti della Casa Circondariale. I tagli che si stanno operando anche su questo fronte, prosegue Di Maio, “non fanno altro che aggravare le difficili condizioni dei detenuti, sia per quanto riguarda il periodo di detenzione ma soprattutto per quanto riguarda il loro reinserimento”. “Una società attenta e responsabile non può certo non pensare a come reinserire ed educare queste persone al rientro nella vita quotidiana potenziando le attività delle carceri e non mortificandole con tagli e interventi ingiustificati”. Proprio per questo Di Maio e Ruffilli assicurano che si impegneranno nel corso dei prossimi mesi, assieme all’amministrazione comunale e in particolare all’assessore Drei, presente alla rappresentazione, ad “attivare tutti i servizi e le collaborazioni necessarie per consentire alla Casa Circondariale di Forlì di proseguire nelle meritorie attività di re-inserimento che con fatica si stanno cercando di organizzare assieme alle istituzioni e associazioni che operano sul territorio”. Trani (Ba): Osapp; gravi carenze del sistema sanitario nei penitenziari, maschile e femminile Asca, 4 luglio 2010 Domenico Mastrulli, segretario regionale dell’Osapp (l’organizzazione sindacale autonoma del Corpo di polizia penitenziaria) denuncia le gravi carenze del sistema sanitario nei penitenziari, maschile e femminile di Trani. Mastrulli si fa carico delle preoccupazioni del personale medico, paramedico ed infermieristico che opera nelle due strutture carcerarie per le modifiche apportate all’ordine di servizio a firma del direttore sanitario Francesco Polemio ed invoca provvedimenti da parte del Ministero del Salute per garantire ai medici continuità operativa nell’arco di tutta la giornata. La direzione ha predisposto turni di lavoro che partono dalle 8 della mattina e terminano alle 22, comprensivi di due ore di lavoro straordinario (la fascia oraria che va dalle 20 alle 22). Questi orari, a detta di Mastrulli, non garantiscono la copertura sanitaria totale che la popolazione detenuta invoca, in un periodo, quello estivo, dove statisticamente si registrano molti episodi che richiedono l’intervento di personale medico. Mastrulli sottolinea anche il problema legato alle distanze tra il penitenziario maschile (in via Andria, nella zona nord della città), il carcere femminile (in piazza Plebiscito, ossia in pieno centro) e l’ospedale di Trani (nella zona sud). “D’estate - scrive Mastrulli - si avverte pesantemente il problema del traffico che crea notevoli ritardi negli spostamenti con ripercussioni negli interventi di soccorso”. Mastrulli richiede anche urgenti interventi finalizzati a migliorare l’attuale assetto organizzativo del personale medico e paramedico oltre a quello infermieristico. Nel carcere femminile mancherebbero all’appello due infermieri di ruolo, nel carcere maschile il personale è cronicamente in sotto organico di quattro unità. Nell’ultima graduatoria nazionale per le assunzioni del personale di ruolo per le carceri, su 120 unità partecipanti solo una unità avrebbe chiesto come sede la struttura penitenziaria di Trani. Isili (Ca): Cgil; personale insufficiente e celle superaffollate, 240 detenuti stipati in 22 celle La Nuova Sardegna, 4 luglio 2010 Stando alla Cgil, si tratta di un sogno infranto. La casa di reclusione di Isili non è affatto un modello perché “i disagi e i problemi” sono tanti: personale insufficiente e celle superaffollate. Vi sono infatti circa 240 detenuti per 22 camere, alcune delle quali devono ospitare anche 18 reclusi. Un quadro, secondo il sindacato, che mostra “scarsa considerazione” per i lavoratori. La recente presentazione del progetto pilota Colonia, che mostra un carcere aperto (dove esiste un’azienda di settecento ettari) che inizia a commercializzare i suoi prodotti, “non ha raccontato come stanno realmente le cose”, afferma Concas. “Giustamente in quell’occasione si è voluto dire quel poco di buono che si è fatto - spiegano i rappresentanti del sindacato - ma la realtà complessiva è diversa”. Ma le “organizzazioni sindacali erano assenti in quanto non invitate”. Per le organizzazioni sindacali il problema centrale è la carenza di personale. La Cgil “denuncia la situazione insostenibile dei turni di lavoro che fanno i lavoratori della Polizia penitenziaria”. E non “è rara l’occasione in cui questi lavoratori di Isili sono costretti a turni massacranti di servizio, ricoprendo più compiti e per doppi turni”. Inoltre molti di noi - sottolinea Concas - sono spesso mandati in rinforzo a Cagliari. E questo impedisce spesso ai detenuti lavoratori, almeno al cinquanta per cento, di poter svolgere le loro mansioni visto che non c’è personale sufficiente per seguirli”. E ancora, secondo la Cgil, “non esiste un servizio programmato, ma un giorno per giorno causato da una organizzazione non adeguata alle esigenze dell’istituto. Questa situazione porta anche a una programmazione di turni di servizio con l’utilizzo del lavoro straordinario, nonostante il regolamento vieti nel modo assoluto tale procedura”. Poi questa organizzazione sindacale segnala che nella casa di reclusione di Isili, “ancora oggi c’è la presenza di tetti in “eternit” (vietato dalla legge in quanto contiene amianto). Una circostanza che fa a discapito della salute dei detenuti e del personale di polizia, costretto a svolgere i vari servizi in un contesto ambientale non del tutto salubre”. Infine una diramazione della casa vede “le celle dei reclusi ubicate a fianco a dove stanno i maiali”. Un fatto che crea problemi ai detenuti e al personale e “soprattutto, nella stagione estiva, la situazione diventa più grave” per la “presenza di mosche, zanzare e odori di ogni genere”. Da cui la richiesta che “si intervenga con estrema urgenza per salvaguardare la salute delle persone presenti in questo Istituto”. Per questi motivi la Cgil chiede “l’adeguamento della pianta organica, sia del personale di Polizia penitenziaria, sia del comparto ministeri. E di adeguare “al senso umano” le strutture carcerarie per far vivere dignitosamente i reclusi in spazi adeguati”. Nonché “fornire gli operatori di Polizia penitenziaria di mezzi nuovi e adeguati, visto anche che spesso si compra la benzina a credito”. Gorizia: Antonaz (Prc); il carcere struttura di via Barzellini è tra i peggiori d’Italia Messaggero Veneto, 4 luglio 2010 Anche Gorizia è stata coinvolta nell’iniziativa nazionale “Le carceri sono fuori legge”, promossa dalle associazioni Antigone e Buon diritto. Ieri la casa circondariale è stata oggetto di un sopralluogo del consigliere regionale Roberto Antonaz (Prc), che denuncerà il degrado in cui versa la struttura di via Barzellini nella conferenza stampa conclusiva della campagna, il 15 luglio, a Roma. Accompagnato da Simone Santorso di Antigone, Antonaz ha appurato le condizioni di estremo disagio in cui si trovano non solo i detenuti, ma anche le guardie carcerarie: “L’iniziativa consiste nella visita di alcune delle carceri più disastrate d’Italia, tra cui quella di Gorizia, che non a caso è stata oggetto anche di una denuncia della camera penale che invita la Procura a indagare per valutare se è in atto un reato. Quello di via Barzellini è un carcere moribondo, che accoglie al momento 39 detenuti in un piano solo, visto che due sono inagibili. Gli impianti sono tutti fuori legge, con intonaco che cade, fili scoperti, spandimenti continui, in più non è rispettata la norma per cui la corte europea per i diritti umani ha già condannato l’Italia, ovvero la disponibilità di tre metri quadrati per ogni detenuto. La struttura non è recuperabile, mantenerla significa gettare risorse in un pozzo senza fondo. Tanto più che le risorse si sono assottigliate nel corso degli anni”. Antonaz rimarca quanto sia urgente trovare una soluzione: “È tra le carceri peggiori in Italia, è una denuncia che i vari direttori che si sono succeduti negli anni hanno ripetuto. Qualcuno frena perché teme che venendo meno la casa circondariale si perda anche il tribunale, ma le due cose non sono collegate. Per la sua collocazione geografica il tribunale di Gorizia non può chiudere, anzi dovrebbe esserci un suo potenziamento. Non dimentichiamo che la situazione è resa esplosiva dalla scarsa presenza di agenti, per cui bisogna pensare a depenalizzare alcuni reati e a incrementare le pene alternative, approfittando magari della presenza della comunità Arcobaleno. Massa: Cgil; carcere inumano anche per la polizia, retribuito solo 60% del lavoro straordinario Il Tirreno, 4 luglio 2010 Dopo il tentato suicidio di un giovane detenuto, la Cgil interviene sulle condizioni delle strutture carcerarie italiane. “La triste realtà che il sistema penitenziario - scrive Cgil funzione pubblica - si trova di fronte è che nelle carceri si muore: “muoiono i detenuti, ma quello che si sottace è che muoiono anche appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, per suicidio”. Uccisi da un sistema di esecuzione penale che - prosegue - ha abbandonato la umanizzazione della pena e la sua finalità rieducativa. Le condizioni materiali di vita sia dei detenuti che del personale, anche nel carcere di Massa, sono sempre più insostenibili. Da una parte il sovraffollamento, dall’altro le scarsissime risorse umane e finanziarie. Provare per credere - continua Cgil basta passeggiare lungo il perimetro del carcere: quello che salta all’occhio è lo stato di abbandono con vegetazione erbacea fitta ed incolta. Lì si annidano, tra l’altro, quei ratti che pian piano stanno insinuando le condizioni di igiene e salubrità, già precarie, dell’istituto massese. Provate a chiedere al personale quante ore di straordinario devono sobbarcarsi e quante invece gli vengono retribuite, siamo intorno al 60% in media di ore retribuite rispetto a quelle espletate. Mentre il piano straordinario per le carceri, assieme alla paventata assunzione di 2mila nuovi agenti sta morendo per mano di Tremonti e della sua manovra finanziaria. Il carcere di Massa - continua il sindacato - da carcere modello per le attività trattamentali finora realizzate, pian piano, ma inesorabilmente, declina verso un modello custodiale finalizzato ad emarginare e non a recuperare. Altro che carcere della speranza, il modello che sta sempre più affermandosi è quello di un carcere della disperazione. Quindi nessuna meraviglia che qualcun altro tenti di risolvere con il suicidio una condizione di esecuzione penale assolutamente inumana. Se si vuole cambiare bisogna vincere l’indifferenza e costringere la società civile e la politica a farsi carico di una condizione di vita nelle carceri che è già sull’orlo del baratro. Tra non molto - puntualizza Cgil - con l’apertura di un nuovo padiglione nel carcere di Massa, la situazione si aggraverà. Non è pensabile che con lo stesso organico si garantiscano le condizioni di sicurezza”. Trieste: alla pulizia delle strade provinciali, ci penseranno i detenuti del Coroneo Il Piccolo, 4 luglio 2010 Lo sfalcio delle sterpaglie lungo le strade provinciali? Ci penseranno i detenuti del Coroneo. Lo prevede la convenzione fra la Provincia e la Casa circondariale di Trieste, per consentire alle persone detenute di usufruire di borse lavoro e progetti di orientamento e formazione all’etica del lavoro. E il primo intervento andrà a risolvere proprio uno dei problemi, sollevati dalle amministrazioni anche “amiche” dei Comuni minori, nei confronti di Palazzo Galatti. Spetterà alla direzione del Coroneo individuare i detenuti da avviare ai progetti sulla base della personalità, della tipologia di reato e della disponibilità manifestata. Un po’ quello che accade già con il Comune di Trieste per una serie di lavori “socialmente utili”, che riguardano soprattutto il verde pubblico. Il primo progetto che sarà avviato nei mesi estivi riguarda, appunto, sarà la pulizia e la manutenzione ordinaria delle strade provinciali e del patrimonio provinciale. Potrà essere affidato ai detenuti il ripristino dei muretti carsici a secco, piccoli interventi di diserbo, sfalcio e rimozione di arbusti, piccola manutenzione e pitturazione di arredi pubblici e operazioni di trasloco anche presso gli archivi della provincia che sono in fase di riordino. Il progetto, della durata di sei mesi prevede la partecipazione di quattro detenuti e di un operatore provinciale in qualità di tutore. “La finalità della convenzione è quella di contribuire al trattamento rieducativo e al reinserimento sociale dei detenuti”, ha spiegato la presidente Maria Teresa Bassa Poropat, illustrando l’iniziativa assieme a Enrico Sbriglia, direttore del carcere del Coroneo. “L’idea di fondo è quella di ricostruire quel canale di comunicazione con l’esterno, con il mondo produttivo e l’ambiente sociale che al detenuto viene a mancare - ha aggiunto la presidente - e che può rappresentare un primo passo verso la restituzione alla normalità con benefici sia economici che in termini di sicurezza per l’intera società”. L’attività formativa si sviluppa su 25 ore settimanali articolate su cinque giorni lavorativi (cinque ore al giorno). Ad ogni detenuto viene corrisposta una borsa di lavoro di importo di 450 euro mensili. L’importo rimane invariato per assenze pari ad un massimo di un giorni al mese, mentre ulteriori giorni di assenza, non supportati da adeguata documentazione giustificativa, comporteranno una riduzione proporzionale dell’importo mensilmente spettante. Eventuali ore eccedenti prestate per fronteggiare eventi straordinari ed imprevedibili e per calamità naturali non danno luogo a pagamento, ma potranno essere recuperate entro la scadenza del progetto, concordandone le modalità con il Dirigente responsabile. Il materiale necessario all’espletamento dell’attività, nonché gli eventuali dispositivi di protezione individuale, saranno forniti della Provincia. Sulmona: oggi pomeriggio il Papa incontra in "forma privata" una delegazione del carcere Adnkronos, 4 luglio 2010 Nel fitto programma di impegni previsti per la giornata di oggi nella visita pastorale che Benedetto XVI sta compiendo da questa mattina a Sulmona, è in programma anche un incontro con una delegazione del supercarcere di Sulmona. L'incontro è previsto alle 16.30 prima che il Papa si sposti nella cattedrale di San Panfilo per abbracciare i giovani abruzzesi. Una delegazione del supercarcere di Sulmona guidata dal direttore Sergio Romice e composta da una rappresentanza di agenti di custodia, di detenuti e del cappellano del carcere padre Missori dei Marsiti. La visita è strettamente privata ed è probabile che il Pontefice si interessi allo stato generale dell'istituto di pena sulmonese dove come ogni altro istituto si denunciano criticità in ordine ai problemi di sovraffollamento. Il supercarcere e' stato in passato denominato "carcere della morte" proprio per l'elevato numero di suicidi che si sono registrati. Attualmente sono ospitati nell'istituto 326 detenuti (circa 300 i tossicodipendenti) e 170 gli internati di cui 150 con gravi patologie psichiche. Ne dovrebbe ospitare al massimo 235 detenuti (e 50 internati). Immigrazione: rischiano la vita 245 rifugiati eritrei e somali, rinchiusi in centro di detenzione libico Vita, 4 luglio 2010 Sono stati trasferiti a forza in un duro carcere del sud. “Molti di loro erano stati respinti dall’Italia nel Mediterraneo”, denuncia il Cir. “Il dramma dei 245 rifugiati eritrei e somali trasferiti forzatamente dal centro di detenzione di Misurata al centro Sebha nel sud della Libia il 30 giugno si sta ulteriormente aggravando”. È la testimonianza degli operatori della onlus Cir, Centro italiano per i rifugiati. “Secondo testimonianze dirette raccolte questa mattina i rifugiati sono stati sottoposti a forti maltrattamenti e sono tenuti in estrema scarsità di acqua e di cibo. Alle persone che presentano ferite e gravi condizioni di salute non sono fornite cure mediche. Molti rifugiati sono feriti ed estremamente debilitati dopo un viaggio nel deserto chiusi in container di metallo per oltre 12 ore: dall’alba al tramonto del 30 giugno”. Il centro di Sebha si trova nel mezzo del deserto del Sahara dove attualmente la temperatura supera i 50 gradi. Sembra che questo trattamento sia stato decretato come “punizione” per una rivolta e un tentativo di fuga che si è verificato nel centro di Misurata la sera del 29 giugno. Il Cir fa notare che tra le persone ci sono numerosi rifugiati eritrei respinti nel 2009 dalle forze italiane dal Canale di Sicilia in Libia. Anche in riferimento al trattato di amicizia italo-libico già la sera del 30 giugno l’associazione aveva chiesto l’intervento del presidente del Consiglio Berlusconi e del ministro degli Affari esteri Frattini di fronte all’eminente pericolo di vita di molte persone. Il Cir ha inviato oggi una lettera al Presidente della Repubblica Napolitano appellandosi alla sua sensibilità per i diritti umani. Contemporaneamente il ha scritto una lettera al ministro dell’Interno Maroni chiedendo che l’Italia si faccia carico di queste persone offrendo al governo libico l’immediato trasferimento e reinsediamento nel nostro paese. Quelle nei confronti del Governo sono “polemiche del tutto infondate e soprattutto antistoriche e controproducenti perché non rispettano la sovranità della Libia”, ha dichiarato Margherita Boniver, presidente del Comitato Schenghen ed inviato speciale del ministro degli Esteri per le emergenze umanitarie assicurando “sono stati attivati tutti i canali utili affinché la vicenda, prima di tutto umana” dei cittadini eritrei, si concluda positivamente. Su ciò che sta accadendo nelle carceri in Libia i Verdi hanno sollecitato “un’inchiesta internazionale immediata e ai massimi livelli”. Per il Presidente nazionale Angelo Bonelli “è materia da Tribunale penale internazionale e se le notizie che arrivano dai campi libici fossero confermate - ha detto - avremmo una violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, con una implicita complicità dell’Italia, cosa che getterebbe vergogna e fango sulla storia della nostra democrazia”. Una “risposta istituzionale” viene chiesta da Marco Perduca, senatore radicale eletto nelle liste del Pd, che sollecita il Parlamento ad inviare una propria delegazione in Libia. Per il portavoce dell’Italia dei Valori, Leoluca Orlando “è doveroso pretendere, chiedere, supplicare un intervento immediato del governo italiano per salvare quelle vite e per confermare il ruolo supremo e inalienabile della vita di ogni essere umano”. Ha annunciato invece la richiesta di un’informativa del Governo sui fatti libici il presidente dei senatori dell’Udc, Giampiero D’Alia che già due giorni fa aveva sollevato la questione con una lettera al presidente del Senato Renato Schifani. E che oggi ha invitato il Governo a “non mettere la testa sotto la sabbia e a dimostrare almeno una volta di non essere succube del colonnello Gheddafi”. “Per salvare i nostri 300 fratelli eritrei che hanno diritto ad avere asilo politico e non di essere trattati come bestie dalla Libia” si è appellato al cuore dei ministri Frattini e Maroni (“più grande degli interessi geopolitici internazionali”) anche il deputato del Pdl Enrico Pianetta, già presidente della Commissione Diritti Umani del Senato. Immigrazione: appello al Governo italiano per “fermare il massacro dei prigionieri in Libia” Redattore Sociale, 4 luglio 2010 Un appello al Governo italiano per “fermare il massacro dei prigionieri in Libia”, arriva dalle pagine de “L’Unità” che racconta la storia di 250 eritrei, senza cibo né acqua. “Erano sulla rotta di Lampedusa quando sono stati arrestati e portati nel lager di Gheddafi, ammassati in 90 in una stanzetta e picchiati ogni due ore”: il drammatico racconto arriva da don Mussie Zerai, sacerdote e responsabile dell’agenzia Habesha, Ong dedicata all’accoglienza dei migranti africani, che ha riferito al quotidiano l’ultima telefonata avuta con uno degli eritrei rinchiusi nel centro di detenzione di Brak, nella valle dello Shaty, nel Sud della Libia, a circa 75 chilometri da Sebha. Quando sono arrivati a Sebha, dopo un viaggio di mille chilometri “hanno ricevuto pochissima acqua e ancora meno cibo, cinque persone nella stanza respirano a fatica, ci sono persone ferite, il cui sangue rende ancora più irrespirabile l’aria”. Zerai racconta così quello che a loro volta i rifugiati hanno raccontato a lui. Rifugiati eritrei respinti nel 2009 dalle forze italiane dal Canale di Sicilia in Libia. E un altro drammatico racconto arriva da Gabriele del Grande, fondatore di “Fortress Europe”: è il 30 giugno “l’esercito libico ha fatto irruzione nel carcere di Misratah all’alba, il giorno dopo la rivolta degli eritrei. Molti stavano ancora dormendo, li hanno portati via così, 300 persone circa e li hanno rinchiusi dentro due camion e un container di ferro. Tutti quelli che hanno lavorato all’accordo tra Italia e Libia dovrebbero riflettere sugli effetti che ha prodotto”. Da queste considerazioni muove anche l’appello del quotidiano: “ci rivolgiamo ai nostri lettori, serve un’ampia mobilitazione per rompere il silenzio. Per questo vi chiediamo di inviare una mail al ministro dell’Interno Roberto Maroni perché la legga e la inoltre al resto del Governo”. Gli eritrei di Brak chiedono, tramite Habesha, “di essere accolti da un paese democratico in grado di rispettare il diritto dei richiedenti asilo politico e rifugiati”. Sonia Alfano (Idv): Governo spieghi indifferenza “Ormai è sotto gli occhi di tutti l’illegalità nella quale vige l’accordo di cooperazione tra Italia e Libia. I migranti respinti in mare, senza essere stati identificati e senza usufruire delle procedure previste dalle norme comunitarie in materia di immigrazione e tutela dei diritti umani, vengono trasferiti in Libia e rinchiusi in carceri-lager”. Lo afferma in una nota l’europarlamentare dell’Italia dei Valori, Sonia Alfano. “L’Italia non rispetta le norme comunitarie - prosegue - perché non identifica i migranti e li respinge arbitrariamente, pur sapendo che probabilmente subiranno torture o saranno uccisi”. “Non abbiamo più notizie dei 300 cittadini eritrei - aggiunge Alfano - per questo vorrei sapere dal governo italiano se avalla situazioni del genere o se invece sia intenzionato ad interrompere un accordo puramente legato a interessi finanziari per procedere a schierarsi in favore dei diritti umani come dovrebbe fare qualunque Stato civile”. “Già oggi - conclude l’eurodeputata dell’Italia dei Valori - presenterò un’interrogazione parlamentare, affinché siano chiariti al più presto i lati oscuri di questa terribile vicenda”. Droghe: la legge Fini-Giovanardi e il taglio di risorse ai Ser.T. stanno riempiendo le galere di Leopoldo Grosso (Vice presidente del Gruppo Abele) www.centrofrancescanodiascolto.it, 4 luglio 2010 Una riflessione di Leopoldo Grosso, vice presidente del Gruppo Abele, sulla questione dell’ingiustizia che le leggi attuali continuano a perpetrare nei confronti di chi fa uso di sostanze, con il continuo ricorrere alla carcerazione e perciò alla penalizzazione nei confronti di persone già in difficoltà e che necessitano invece di percorsi di sostegno. Il cambiamento della “scena” della droga in questi ultimi vent’anni, per quel che riguarda le sostanze (non più solo di “estraniazione”, come l’eroina, ma di “prestazione”, come cocaina, anfetamine, metanfetamine) e le modalità d’uso (diffusione di un “consumo” sovrapposto al più ristretto ambito delle dipendenze) ha posto sfide che sono state raccolte solo in parte, e in modo spesso frammentario e disorganico. Ciò è avvenuto per almeno due seri motivi. In primo luogo la contrazione della spesa pubblica, i progressivi “tagli” agli interventi sul sociale ed ai servizi sanitari, che hanno portato a un costante decremento del personale e quindi dell’efficacia di numerosi Sert. In secondo luogo, il riemergere di una contrapposizione ideologica mai sopita, tesa a negare evidenze scientifiche ormai acquisite e orientata a privilegiare una risposta integralista e “semplificatrice” a fronte della riconosciuta complessità del fenomeno. La legge Fini-Giovanardi ha aggravato le pene per i reati correlati alla dipendenza, “parificato” in una stessa tabella di gravità l’uso di cannabis, cocaina ed eroina, eliminando distinzioni cliniche e giuridiche, introdotto criteri restrittivi per la determinazione dell’uso personale e, in combinazione con altri dispositivi di legge - in particolare la cosiddetta “ex-Cirielli” - pregiudicato l’ammissione ai percorsi alternativi alla detenzione per le persone recidive. Effetto diretto di questo ritorno del “penale” è l’affollamento delle carceri. Le persone dipendenti ristrette oggi in carcere per reati correlati all’uso di droga sono tornate ad essere circa un terzo dell’intera popolazione dei detenuti. La portata repressiva della legge ha svelato sia il fallimento di un dispositivo che intende motivare alla cura tramite la carcerazione, sia l’ipocrisia della norma che allarga l’accesso a percorsi alternativi alla detenzione per pene o per cumuli di pene fino a sei anni. Di fatto sono pochissime le persone dipendenti che oggi beneficiano della possibilità di percorsi alternativi alla detenzione. I diritti restano sulla carta (in particolare per chi è più povero di mezzi e strumenti, come le persone dipendenti straniere senza permesso di soggiorno) e il carcere ha ripreso a svolgere una funzione di “discarica” delle problematiche sociali. Cosa è necessario fare, allora, per invertire la rotta? Occorre innanzitutto unire alla forza della legge, affinché non rimanga lettera vuota, la determinazione delle organizzazioni del privato sociale e del volontariato nell’esigere il rispetto dei diritti dei detenuti. Le organizzazioni del privato sociale e del volontariato - come già accadde 35 anni fa nella lotta per la 685 - possono fungere da capofila di un movimento in grado di raccogliere le espressioni migliori della sensibilità civile. Per parte loro, il governo ed il dipartimento antidroga devono rispondere della contraddizione tra gli intenti proclamati dalla legge e un’attenta verifica di esiti che sono andati invece nella direzione opposta. È urgente inoltre modificare la “ex-Cirielli”, quantomeno per i detenuti tossicodipendenti, per i quali la recidiva costituisce pressoché la regola, e bisogna sperimentare programmi di “messa alla prova” per tutta una serie di reati minori legati alla dipendenza, soprattutto per i neo-maggiorenni. È necessario infine mettere a disposizione le risorse necessarie per realizzare programmi di reintegrazione sociale sia per coloro che sono a “fine pena”, sia per coloro che potrebbero beneficiare di misure alternative alla detenzione, per i quali la mancanza di risorse costituisce un diritto negato. Gli aspetti sociali, relazionali ed educativi, la cui carenza ha segnato tante storie di dipendenza, devono poter poi essere tradotti in interventi ed opportunità. Tutti sono chiamati a contribuire: governo, regioni, asl, enti locali, mondo associativo e volontariato. A beneficiarne sarebbero non solo le persone più fragili ma la collettività. Le risorse sociali, le opportunità di inserimento lavorativo ed abitativo, gli accompagnamenti relazionali non rappresentano solo un atto di giustizia, ma un necessario e intelligente contributo alla sicurezza sociale. Sicurezza che il carcere, da solo, non è in grado di garantire: né per i detenuti, né per i cittadini. Gran Bretagna: il Governo; le prigioni costano troppo… manderemo meno persone in galera La Stampa, 4 luglio 2010 Fedele alla consegna di tagliare il budget, smanioso di dare corpo alle promesse fatte in campagna elettorale, quando aveva garantito “una vera rivoluzione del sistema carcerario”, il ministro della giustizia Kenneth Clarke ha presentato il suo sorprendente piano programmatico al King’s College di Londra con queste poche parole: “Le prigioni scoppiano, dunque manderemo meno persone in galera”. Boom. Si è scatenato l’inferno, con i conservatori a gridargli contro e i laburisti a guardare stupiti. “Se sono in galera è perché sono delinquenti”, gli hanno urlato da una platea solitamente composta. Clarke ha srotolato i dati. “Nel 1992, quando ero ministro dell’Interno, la popolazione carceraria era la metà. Gli 84.966 detenuti di oggi non hanno senso. E mantenere ognuno di loro costa di più che mandare uno dei vostri figli a Eton. Porterò le spese dai 2 miliardi attuali a 1,3 miliardi l’anno garantendo gli stessi standard di sicurezza”. Come? Affidando ai servizi sociali, o a servizi di custodia alternativi, i piccoli delinquenti condannati a meno di un anno di prigione, vale a dire il 68% dei detenuti attuali. “Dopo un anno dietro le sbarre le persone escono che sono peggio di prima. Molti che non si era mai drogati diventano tossicodipendenti e il 60% di loro torna sotto processo nel giro di due anni”. Non è servito a niente fargli notare che il numero dei crimini commessi in Inghilterra dal ‘92 a oggi si è dimezzato e che il massiccio ricorso alla prigione forse in qualche modo ha contribuito. “Lo sapete che l’80% delle condanne per furto avviene per ruberie da meno di 200 sterline? Nel 2010 è impensabile che ogni piccolo caso di giustizia si risolva in tribunale. Faremo ricorso anche alle tecnologie, Internet diventerà uno strumento prezioso e ci serviranno meno tribunali”. L’associazione magistrati ha cercato di sostenere che non tutto quello che dice Clarke è sbagliato: “I tagli sono necessari, ma siamo sicuri che questa sia la strada giusta?”. Udito il discorso, Lord Michael Howard, leader del partito dal 2003 al 2005, ha provato paternamente a dire a Cameron, il suo pupillo: “Non in questo modo”. Cameron ha preso tempo, aggiusterà il progetto, non ne cambierà il senso. Philip Davies, altro pezzo grosso dei Tory, è andato oltre. “Gli inglesi hanno votato per i conservatori perché mandassero più persone in galera, non certo perché ne mandassero di meno”. Iran: la condanna per l’omicidio in carcere di tre oppositori... lascia impuniti “i veri responsabili” Ansa, 4 luglio 2010 Una sentenza che “non chiude il caso” e che lascia impuniti “i veri responsabili”: così, a sorpresa, un quotidiano conservatore iraniano, Jahan, critica oggi una sentenza emessa da un tribunale militare che ha condannato a morte due persone per il decesso lo scorso anno di tre manifestanti dell’opposizione in seguito alle violenze subite in un centro di detenzione. Altri nove imputati sono stati condannati a varie pene detentive e a un numero imprecisato di frustate e un altro è stato assolto. Ma il nome di nessuno di loro è stato reso noto, mentre il processo si è svolto a porte chiuse senza che nessuna notizia venisse fatta trapelare. “Questo caso non è chiuso per l’opinione pubblica”, afferma Jahan News, il sito del giornale. “Non dobbiamo essere riluttanti nel punire i veri responsabili di questi amari incidenti”, aggiunge il sito. Jahan News ricorda in particolare una relazione pubblicata nel gennaio scorso da una commissione parlamentare incaricata di investigare sulle violenze dell’estate dell’anno scorso, in cui l’allora procuratore capo di Teheran, Said Mortazavi, veniva accusato di avere dato l’ordine “ingiustificato” di rinchiudere gli arrestati nelle manifestazioni di protesta nel centro di detenzione di Kahrizak, a sud di Teheran, dove poi sono avvenute le peggiori violenze denunciate. Nell’agosto del 2009 Mortazavi è stato rimosso dall’incarico di procuratore, ma è stato nominato vice procuratore generale dello Stato e il governo del presidente Mahmud Ahmadinejad gli ha affidato la responsabilità dei servizi per la lotta al contrabbando. Iran: impiccati due narcotrafficanti, condannati a morte in quanto “nemici di Dio” Ansa, 4 luglio 2010 Due narcotrafficanti sono stati impiccati nel carcere di Zahedan, nel sud-est dell’Iran, crocevia traffico d’oppio. I due uomini, Amanollah Purian e Yunes Rahmani, sono stati condannati a morte in quanto “nemici di Dio”. Tra i reati anche il sequestro di persona e la rapina a mano armata.