Giustizia: come “alleggerire” le carceri senza sminuire il concetto di pena di Salvo Fleres * Secolo d’Italia, 29 luglio 2010 Nei giorni scorsi, il senatore del Pdl Luigi Compagna, con evidente spirito provocatorio rispetto al disastro in cui versano il sistema giudiziario e il sistema carcerario italiani, ha presentato un disegno di legge mirante alla concessione di amnistia e indulto per quanti abbiano commesso tutta una serie di reati. Dico subito che non condivido tale uso improprio di entrambi gli strumenti, nati per ben altre ragioni, che non quelle di svuotare le carceri o di ridurre l’assai tristemente noto arretrato giudiziario, ma apprezzo il tentativo del senatore Compagna di accendere i riflettori della politica su temi, purtroppo, spesso trascurati o, peggio, sottovalutati. Per essere più preciso, considero l’amnistia e l’indulto, utilizzati per i citati motivi, come una dose di morfina che toglie il dolore momentaneo ma non cura, anzi, allontana la cura, dunque, l’eventuale guarigione. Prima di passare ad alcune proposte che, queste sì, favorirebbero il raggiungimento degli obiettivi che la proposta del senatore intende raggiungere, magari senza scorciatoie occasionali, desidero sottolineare il quadro drammatico all’interno del quale ci muoviamo. Sono milioni i processi in corso; sono decine di migliaia i casi in cui si fa ricorso al carcere, anche senza che ve ne sia la necessità; oltre il 50 per cento dei cittadini che finiscono in prigione vi rimangono una media di tre giorni; il costo di un giorno di detenzione si aggira tra i 200 e i 300 euro, per un totale annuo che oscilla tra i 70mila ed i 100mila euro. I reclusi in carcere sono quasi 70.000, mentre gli istituti penitenziari italiani potrebbero contenerne non oltre 45.000. I reclusi tossicodipendenti sono circa il 35 per cento del totale e potrebbero essere assistiti meglio nelle comunità, sia pure in condizioni di detenzione, con un costo di circa la metà di quello speso per tenerli in carcere. I reclusi extracomunitari sono oltre il 40% del totale e molti di essi potrebbero scontare la pena nel loro paese, in virtù di appositi accordi internazionali. Alcune centinaia di reclusi presentano conclamate patologie psichiatriche. La loro pena potrebbe essere più efficacemente scontata in attrezzate case di cura, anch’esse meno costose del carcere. Solo 10mila reclusi circa possono essere considerati pericolosi. Per completare il quadro vorrei ricordare pochi altri dati: la polizia penitenziaria è sotto organico per circa 5mila unità, e questo mentre 2.500 agenti svolgono funzioni del tutto improprie (barman, autisti di auto blu, scorte di personalità varie, dattilografi); gli educatori e gli psicologi sono sotto organico di un buon 30 per cento e i suicidi nei primi sette mesi del 2010 sono saliti a trentotto. Bene, Compagna, forse, ha voluto solo lanciare una provocazione ma una cosa è certa: il rischio che essa possa esplodere nelle mani dello Stato, se, buona o cattiva, qualche iniziativa non la si intraprende. E veniamo alle proposte che, per evitare troppi giri di parole, sintetizzerò per punti. Maggior ricorso alle pene alternative (in Italia poche migliaia, in Gran Bretagna oltre 200mila), affidando l’assegnazione delle stesse non solo alla magistratura di sorveglianza ma anche, direttamente, al giudice, nel momento in cui emette la sentenza di condanna, se essa dovesse essere inferiore ai tre anni; diverso calcolo dei benefici legati agli sconti di pena per buona condotta, passando dagli attuali 45 giorni a semestre, a sessanta giorni a semestre, calcolati non in base a una generica condotta corretta in carcere, bensì in base all’avvio di un reale percorso rieducativo di studio, di lavoro. Maggiore ricorso agli arresti domiciliari per quanti si sono macchiati di reati non violenti, di minor allarme sociale, o agli arresti in comunità, per tossicodipendenti o malati di mente. Potenziamento delle attività di studio e di lavoro in carcere e di uso risarcitorio del lavoro, (pulizia delle strade, manutenzione del verde, assistenza a persone disabili eccetera) per quanti hanno compiuto reati con ciò compatibili. Miglioramento dell’assistenza sanitaria attraverso la realizzazione di appositi reparti in almeno un ospedale per provincia. Attraverso questo tipo di interventi, ma anche attraverso la concessione degli arresti domiciliari, a quanti hanno residui di pena inferiori ad un anno, come aveva previsto il ministro Alfano, ma come, strumentalmente, fingono di non capire alcuni parlamentari “benpensanti” e giustizialisti, nascosti in tutti gli schieramenti, sarebbe possibile alleggerire il lavoro della giustizia e svuotare le carceri senza indebolire il concetto di pena, ma limitandosi a privilegiarne la sua reale proporzionalità rispetto al reato, risparmiando anche non pochi milioni di euro a carico dell’erario. Di interventi, poi, se ne potrebbero compiere anche altri: una diversa organizzazione del Dap, una diversa organizzazione della polizia penitenziaria, una migliore organizzazione delle traduzioni, nuove carceri a custodia attenuata, eccetera. Ma forse proprio per questo motivo, per la complessità delle problematiche che il mondo della giustizia, delle pene e del carcere presentano, la provocazione del senatore Luigi Campagna, anche se non condivisa, potrebbe svolgere un compito assai nobile: risvegliare il dibattito sul tema e, con i sonnolenti tempi che corrono, sarebbe già tanto, magari dando attuazione alle mozioni già approvate dalla Camera e dal Senato, soprattutto in considerazione del fatto che il carcere, ai sensi dell’articolo 27 della Costituzione, deve puntare alla rieducazione e non alla privazione della dignità del recluso. Coordinatore nazionale dei garanti regionali dei detenuti-Senatore del Pdl Giustizia: Manconi; carceri e Cie fanno parte di quella quota di società “non notiziabile” di Stefano Galieni Liberazione, 29 luglio 2010 Luigi Manconi, ex garante per i detenuti ed ex sottosegretario alla giustizia, oggi presidente dell’associazione “A buon diritto” si occupa da molti anni di questioni connesse alla giustizia ed in particolare ai luoghi di detenzione. Per spiegare le ragioni secondo cui considera importante difendere Liberazione parte da una considerazione connessa a tali temi. “Il carcere e più in generale i luoghi di privazione della libertà personale come i Centri di identificazione ed espulsione per migranti, fanno parte di quella quota di società “non notiziabile”, non degna cioè di attenzione, di scarso interesse. L’opinione pubblica vive il carcere come una zona d’ombra, c’è la tendenza a rimuovere ambiti e istituti la cui esistenza richiama il male. Un pensiero che produce angoscia. Quindi sono luoghi da rimuovere; chi ne parla, chi ne svela il volto di classe come fa il vostro giornale, parla di cose che non si vorrebbero sentire. Parla della stratificazione sociale che produce il carcere, della distribuzione di risorse materiali, delle opportunità di vita, di come viene regolamentata la devianza. Oggi in carcere ci sono soprattutto stranieri, tossicodipendenti e persone che vivono in condizioni di marginalità: parlare di queste persone non porta consensi, non aumenta i lettori. Ma voi mantenete una costanza nella lettura di questa società fondata su discriminanti di classe”. Pensi che ci siano precise ragioni per cui chi affronta certi temi si trova in difficoltà? Non credo ad una volontà politica, più semplicemente esiste un servizio pubblico che si occupa di tali argomenti solo marginalmente, lasciando a strumenti di comunicazione privati o politicamente caratterizzati il compito di fornire questo servizio. Che è debolissimo sul mercato della comunicazione e che è a rischio di distruzione. Penso che prevalga la legge arcigna e crudele del mercato. Servirebbero correttivi adeguati per garantire i servizi fondamentali, e dunque quotidiani come Liberazione dovrebbero anche essere aiutati; non dovrebbero sopravvivere in condizioni di esistenza grama e dura ma tutelati come beni comuni perché offrono servizi fondamentali per la società parlando dei diritti di tutti. Certo è curioso che il resto dell’informazione dedichi tanto spazio alla cronaca nera ma poi non indaghi sui prima e sui dopo di quei fatti… È uno dei mali fondamentali non solo dell’informazione ma della produzione culturale. Viviamo in un “presentiamo” che è una espressione dell’immediatismo. Siamo nell’epoca di partiti istantanei e di una informazione “immediatista”. La cronaca nera produce solo emotività. Indagare sul prima e sul dopo è faticoso, c’è scarsa attenzione per i contesti in cui i fatti si producono, chi lo fa viene bollato di giustificazionismo sociologista. Ci si dimentica sia dei colpevoli che delle vittime di un reato. La tua associazione dedica molta attenzione a quanto accade nei Cie. Sì, lo riteniamo molto importante. E riteniamo importante anche su questo tema il lavoro che ha sempre fatto Liberazione. Siete uno dei pochissimi organi di stampa che segue con assiduità ed intelligenza cosa accade nei Cie. Anche questa è una attività preziosa: all’interno di quei luoghi oscuri si sviluppa un doppio pregiudizio. Non sono carceri, ma spesso anche grazie alla loro natura ambigua sotto il profilo giuridico diventano peggiori delle prigioni, perché vengono a mancare quei diritti fondamentali che dovrebbero caratterizzare un regime democratico. Nei Cie avvengono abusi e illegalità, togliere dall’occultamento e portare alla luce quanto avviene lì dentro è un compito che mi auguro Liberazione continui a portare avanti. Giustizia: Ospedali Psichiatrici Giudiziari; un inferno per 1.500 persone internate e abbandonate Ansa, 29 luglio 2010 Persone abbandonate anche per 25 anni, strutture fatiscenti, o ristrutturate ma inutilizzate, stanze che puzzano di urina e sovraffollate, persone legate nude al letto, cure negate e farmaci richiesti senza le dovute autorizzazioni: è questo “l’ergastolo bianco” in cui vivono attualmente le 1.500 persone internate negli ospedali psichiatrici giudiziari. È il quadro che emerge dalla Relazione dei sopralluoghi negli ospedali giudiziari (Opg) della Commissione d’inchiesta del Senato sul Ssn, presieduta dal Ignazio Marino, che oggi ne ha presentato i risultati. Delle sei strutture esaminate, Barcellona Pozzo di Gotto (Me), Aversa (Ce), Napoli, Montelupo Fiorentino (Fi), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mn), solo quest’ultima può essere “promossa” a pieni voti. Per le altre sono state riscontrate carenze gravissime. Ad esempio l’Opg di Barcellona è situato in struttura del 1914, ed è privo di un responsabile medico, di psichiatri e psicologi. A parte un reparto recentemente ristrutturato, in tutti gli altri ambienti i senatori hanno rilevato una situazione di degrado, con pareti dagli intonaci sporchi e cadenti, finestre con vetri incrinati, macchie di umidità, sporcizia ovunque, coperte e lenzuola strappate, e un’infermeria in disuso. Il tutto impregnato da “un lezzo nauseabondo per la presumibile presenza di urine su pavimento e lenzuola”. Un uomo, nudo e coperto da un lenzuolo, era legato al letto dalle mani e dai piedi senza potersi muovere, con un buco nel letto per far uscire i suoi escrementi. L’ospedale giudiziario di Aversa, del 1898, ospita 320 persone e dispone di 1 medico e 2 infermieri. I padiglioni in uso sono risultati in pessime condizioni igienico-sanitarie, mentre i due ristrutturati sono inutilizzati. E sono state riscontrate violazioni anche per i farmaci richiesti e le cure mediche, negate in alcuni casi. A Napoli invece, pur avendo l’Opg tutti gli ambienti in discrete condizioni igieniche e strutturali, il 40% degli internati è detenuto “in deroga”, come un uomo che a fronte di una misura di 2 anni è lì da 25 anni. Le cose non vanno molto meglio al Nord: a Montelupo fiorentino, le celle contengono 9 posti letto in spazi da 3 metri quadrati e nella sezione maschile c’è l’unico transessuale internato in Italia, la cui cella è quasi sempre chiusa. A Reggio Emilia invece ci sono 274 internati per 132 letti e c’era una persona legata al letto mani e piedi, chiusa in una stanza senza neanche un campanello per chiedere aiuto. Tuttavia in entrambi questi Opg la contenzione viene usata sporadicamente, e gli internati sono liberi di uscire dalla cella per gran parte della giornata. Pienamente promosso invece l’Opg di Castiglione delle Stiviere, costruito nel 1990, con stanze e biancheria nuove e pulite, personale motivato, regime di apertura delle celle e possibilità per gli internati di frequentare una scuola interna o vari laboratori di pittura, rilegatura o per fare il pane, oltre a un parco e una piscina interna. “Il 40% degli internati negli Opg - dice Marino - è dimissibile, anche se continua a rimanere rinchiuso. Come commissione abbiamo chiesto la lista dei soggetti dimissibili in modo che entro agosto vengano fatti uscire e presi in carico dalle asl - continua Marino - Alcune strutture sono indecenti e indecorose e vanno chiuse”. Calabria: Crvg; chi si ricorda delle carceri solo per fare mostra di sé, il 15 agosto rimanga a casa di Stefania Marasco Gazzetta del Sud, 29 luglio 2010 É una questione di numeri, all’apparenza. Un’apparenza fatta di sbarre, del tintinnio del ferro, della libertà perduta, di una pena che, spesso, va oltre il fio da pagare. Dimenticando che, dietro quelle sbarre, ci si sono uomini. Uomini che hanno sbagliato, ma che hanno diritto ad avere un’altra possibilità, a ritornare sulla via della legalità. Della giustizia, della dike. La giustizia che, troppo spesso, varcata quella soglia, non risponde. Presto arriverà un altro 15 agosto e forse qualcuno si ricorderà. Della visita ferragostana. Poi, si chiuderà il cancello, passeranno le vacanze e dietro rimarranno le sbarre, quei numeri, senza volto. Un messaggio, però, dalla Conferenza regionale volontariato giustizia della Calabria, presieduta da Antonio Morelli, lo inviano: “Quest’anno senza generalizzare, consigliamo, a chi si ricorda, per far mostra di sé, dell’esistenza delle carceri solo il 15 agosto di trascorrere il ferragosto in famiglia”. Perché Morelli lo sa bene che dentro la casa circondariale non servono passeggiate. Ma occhi, quelli in grado di guardare oltre le sbarre. Dentro quelle stanze, dentro quei numeri che raccontano “di drammi umani, celle pensate - spiega il presidente - per 2 persone che ne contengono anche 6, costrette a convivere con 2-3 metri quadrati a testa”. Una “situazione drammatica” quella descritta. Una foto in bianco e nero di un malessere che si consuma giorno dopo giorno, “sovraffollamento, condizioni disumane per reclusi e polizia penitenziaria, malattie, suicidi, vessazioni e soprusi, inutilità e spesso inefficacia della pena”. Questa l’immagine di uno spaccato che parla di Calabria, “dall’inizio dell’anno - sottolinea - 39 detenuti si sono tolti la vita in carcere e numerosi sono i casi di ferimenti. Carenze organizzative, strutturali ed assistenziali sono ormai note e conosciute a tutti i livelli, ma nonostante tutto nulla cambia”. Morelli ricorda il Regolamento penitenziario in vigore da 10 anni che poco sembrerebbe avere prodotto, se non strutture dove “ormai sono stati sfiorati i limiti di tollerabilità e di rispetto della dignità della persona. Le nostre carceri - aggiunge - sono ormai “una discarica di persone”“. E, in questo senso, il presidente della conferenza regionale volontariato giustizia della Calabria spiega come “in carcere un’alta percentuale di presenze è data dalle persone che disturbano “l’estetica” delle città, persone affette da mali sociali, drogati, immigrati disperati, gente con disagio psichico”. Quindi, di nuovo “numeri”, perché “in Calabria sono presenti complessivamente 3065 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1.885 persone”. E a contrada Castelluccio i numeri sono nella media con circa 432 detenuti a fronte di 260 posti e con carenze d’organico nella polizia penitenziaria che continua a pagare il prezzo più alto. Uomini davanti e dietro le sbarre, drammi umani che si consumano. “Ma questa è la giustizia”, spiega Morelli. Una giustizia in attesa di risposte dello Stato a quello che è “un malessere del sistema penitenziario”. Da qui la richiesta “a chi di competenza di verificare in tutte le strutture la corretta applicazione delle leggi e, a chi è preposto alla diretta gestione, il rispetto delle recenti circolari del Dipartimento del Ministero” e, infine, al governatore Scopelliti di istituire anche in Calabria la figura del Garante dei diritti dei detenuti. Che non sono solo numeri. Ma anche volti che guardano dalle sbarre un mondo che si è dimenticato. Pisa: presidente Provincia scrive al ministro Alfano, per denunciare la situazione del carcere Il Tirreno, 29 luglio 2010 In merito alla situazione del carcere Don Bosco di Pisa, il presidente della Provincia Andrea Pieroni e il presidente della quarta Commissione consiliare Massimiliano Casalini hanno inviato al ministro della Giustizia Angelino Alfano ed al capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, una lettera, della quale riportiamo di seguito il testo integrale. “L’evasione di due detenuti albanesi in attesa di giudizio ha riproposto con cruda oggettività anche i problemi strutturali e funzionali del carcere Don Bosco di Pisa all’opinione pubblica nazionale. Insieme al completo accertamento delle eventuali responsabilità ci auguriamo che le Forze dell’Ordine pongano termine alla fuga degli evasi e che gli stessi siano presto assicurati alla giustizia. Questo episodio aggiunge motivi di preoccupazione e allarme sociale alle storiche questioni delle strutture detentive del nostro territorio. Desideriamo in ogni caso sottolineare che la collaborazione con le attività rivolte ai detenuti e il monitoraggio della situazione delle carceri del territorio sono da sempre due aspetti che caratterizzano il rapporto delle istituzioni penitenziarie con gli enti territoriali pisani e con la Provincia di Pisa in particolare. Anche recentemente il Consiglio Provinciale, attraverso la IV Commissione consiliare, si è occupato in sede consultiva di aggiornare, approfondire e valutare la situazione delle carceri del territorio pisano, con specifico riferimento alla Casa Circondariale di Pisa. L’analisi condotta ha riproposto i drammatici problemi dei deficit strutturali dell’edificio, del sovraffollamento non più sostenibile e del ridotto organico del personale della polizia penitenziaria. In un istituto di vecchia costruzione, generato con una diversa concezione degli spazi carcerari, e ormai insufficiente a contenere i detenuti, la manutenzione complessiva della struttura del carcere Don Bosco è una esigenza fondamentale. L’Istituto ha assoluta necessità di interventi di ristrutturazione, al momento non realizzati per assenza di risorse. Il Centro Clinico, e specificamente la sezione dedicata ai detenuti soggetti al regime dell’art. 41 bis, hanno parimenti bisogno di una manutenzione evolutiva e dei lavori di ampliamento già programmati. Sono indifferibili gli interventi all’area colloqui, al fine di garantire condizioni minime d’intimità e riservatezza, in special modo nelle visite dei bambini ai familiari detenuti. Per quanto riguarda la condizione di sovraffollamento essa ha ormai assunto caratteri strutturali, con gravi problemi e una specificità ulteriore, rispetto ad altri istituti, derivante dalla compresenza a Pisa di tutte le tipologie di detenuti. Detenuti in regime di 41-bis, collaboratori di giustizia, giudicabili, definitivi, detenuti con patologie anche gravissime, come quelli sofferenti di Aids, convivono nelle sezioni maschile e femminile con difficoltà crescenti ogni giorno. A fronte dei problemi strutturali e di sovraffollamento, si verifica una marcata e preoccupante insufficienza di unità di polizia penitenziaria rispetto alle necessità effettive. Il personale di polizia penitenziaria è sotto organico, ed è dunque sottoposto ad uno stress fortissimo. Come certamente noto, l’organico è composto di 177 dipendenti, ivi compresi i soggetti distaccati e comandati presso altre sedi, a fronte dei 250 previsti. La garanzia del servizio è legata alla disponibilità del personale che lavora all’interno del carcere: il lavoro degli operatori diventa difficile con turni al limite della sopportabilità. In ogni caso, tale carenza organica produce di continuo effetti negativi: le due sezioni a custodia attenuata del Polo Universitario e Prometeo sono state infatti unificate, per l’impossibilità di garantire la necessaria sorveglianza. Le attività dell’area trattamentale sono state fortemente ridotte e continuano ad essere limitate, non tanto rispetto alle esigenze, quanto rispetto alle condizioni minime di svolgimento. Su tutto, la continua e progressiva - a volte brusca e brutale - riduzione delle risorse rende impossibile anche la manutenzione ordinaria e fa guardare con drammatica preoccupazione anche al futuro prossimo della Casa Circondariale di Pisa. Se è vero, come è vero, che la civiltà di una nazione si misura anche sulle condizioni di vita all’interno delle carceri, è indispensabile intervenire. Chiediamo quindi con forza che il Ministero destini a Pisa le risorse necessarie almeno alla realizzazione dei seguenti interventi prioritari: la rimozione dei doppi vetri in 38 celle. L’intervento è necessario per dare una maggiore vivibilità all’interno delle stesse e in queste settimane di caldo torrido assume carattere di particolare urgenza; l’istituzione di un impianto di video sorveglianza per un controllo più accurato da parte del personale di sorveglianza e la messa in opera di sistemi automatici per l’apertura dei cancelli; il rifacimento del tetto del locale adibito alla palestra nella sezione femminile; il rinnovamento del campo di calcetto, elemento fondamentale della strategia di socializzazione e assorbimento delle situazioni di tensione esistenti. Come cittadini e come amministratori locali siamo perfettamente consapevoli delle difficoltà finanziarie in tempo di crisi e siamo pienamente impegnati a fare la nostra parte. Nel caso delle carceri e dei detenuti, si possono e si devono sottolineare gli obiettivi politici di certezza della pena e di rigore nel contrasto del crimine e della illegalità, se però si hanno le carte in regola sul piano del trattamento e del rispetto dei diritti fondamentali, anche nei confronti di coloro che pagano il loro debito sociale. A Pisa siamo in una situazione limite, non particolarmente distante da quelle denunciate dalle Associazioni del settore e da quelle verificate dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla sanità: chiediamo quindi con forza e confidiamo nel fattivo intervento dei soggetti istituzionalmente competenti. Ci interessa il cambiamento di rotta e questo implica scelte politiche e gestionali rapide e di segno diverso da quelle note. Certi dell’attenzione e in attesa di un cortese riscontro alla presente richiesta, inviata agli organi di stampa, ai parlamentari e agli altri amministratori del territorio, cogliamo l’occasione per inviare i migliori saluti”. Catania: carcere invivibile; i detenuti del carcere di Piazza Lanza chiedono un’ispezione La Sicilia, 29 luglio 2010 “Una situazione carceraria sfuggita al controllo della Direzione a causa del sovraffollamento che necessita di un intervento radicale ed autorevole di più forze istituzionali e sociali per poter raggiungere il minimo delle condizioni di vivibilità per la detenzione”. Lo scrivono i detenuti del carcere di Piazza Lanza nell’ennesima lettera appello inviata in redazione. Il sovraffollamento, le condizioni di vita disumane, il caldo d’estate, il freddo d’inverno, i topi, i pidocchi, la carenza di medicine, il cibo scadente, la scarsa assistenza sanitaria. I detenuti a Piazza Lanza, vecchio carcere borbonico ristrutturato a poco a poco, sono quelli che si fanno sentire periodicamente con la “protesta delle pentole” (oggetti di metallo sbattuti ad orari fissi sulle sbarre) e quest’anno il quartiere intorno alla casa circondariale, in pieno centro di Catania, è stato svegliato più volte dal clangore. I detenuti, oltre 600 per una capienza ufficiale di 230-250 persone chiedono “un’immediata ispezione condotta da una commissione mista con rappresentanti della politica, del ministero, del Dap, delle organizzazioni sui Diritti dell’Uomo, della Commissione Europea di Giustizia che evidenzi quali articoli dell’ordinamento e trattamento penitenziario e della convenzione sui diritti dell’uomo non vengono sistematicamente rispettati a causa del sovraffollamento”. In particolare si soffermano sulle condizioni igienico-sanitarie del carcere, celle ed aree comuni (“qualunque Asp seria dovrebbe proporre la chiusura immediata di questo carcere”; l’assistenza medica, infermieristica e farmacologia “assolutamente scarsa ed inadeguata a garantire controlli preventivi, al diffondersi di malattie infettive e a curare patologie croniche, come pure le semplici emergenze giornaliere di una popolazione di 600 persone”. In sostanza i detenuti chiedono l’applicazione del “trattamento penitenziario” così come previsto dall’ordinamento penitenziario. Ed elencano. “Trattamento e rieducazione”: deve essere conforme ad umanità e rispetto della dignità. Commento: “Qui si è perso il senso di tali parole”; Edifici penitenziari: devono essere realizzati per contenere un numero elevato di detenuti. “No comment”. L’articolo 6 dell’ordinamento prevede locali di soggiorno e pernottamento con ampiezza sufficiente, illuminati, aerati, adatti al lavoro, alla lettura e con servizi igienici riservati. Ma - dicono i detenuti “qui non c’è sufficiente ricambio d’aria, mancano i posti per sederci, mancano i tavoli, i servizi igienici per 10 persone a cella sono al di fuori di ogni norma”. Per quanto riguarda l’igiene personale l’ordinamento prevede un numero adeguato di docce, lavabi; servizio barberia ed uso del rasoio elettrico. Ma a Piazza Lanza c’è un lavabo ed una doccia per 10 persone, non c’è servizio di barberia, più volte sollecitato e ci sono barbieri detenuti in carcere; non autorizzano rasoi elettrici e vengono sequestrati”. Senza parlare del servizio Sanitario. Per legge all’ingresso in carcere tutti i soggetti devono essere sottoposti a visita medica per accertare anche eventuali malattie e il medico deve visitare ogni giorno gli ammalati e chi ne fa richiesta richiedendo eventuali accertamenti in un centro esterno adatto alle cure. “Invece - affermano i detenuti - nessuno all’entrata in carcere viene visitato, c’è un medico di guardia ma in caso di urgenze il tempo di reazione è di circa 1 ora”. I penalisti La Camera penale “Serafino Famà” di Catania, a fronte dell’ennesima tragedia consumatasi in un istituto di pena, con il suicidio di un imputato recluso a Bicocca, denuncia ancora una volta l’intollerabile situazione di illegalità dell’esecuzione della pena, cui è necessario porre, senza ormai alcun indugio, rimedio. I penalisti chiedono anche che l’esposto presentato, alcune settimane addietro, all’autorità giudiziaria di Catania - e, contemporaneamente, nelle varie sedi giudiziarie italiane, da tutte le Camere penali - sulle condizioni igienico-sanitarie delle carceri del circondario abbia il suo corso. La Camera penale - presieduta dall’avvocato Giuseppe Passarello - ha comunicato al Garante per la tutela dei diritti dei detenuti per la Regione Sicilia, Salvo Fleres, la propria disponibilità ad assumere, tramite il Consiglio direttivo, la difesa di parte civile negli eventuali procedimenti penali contro gli eventuali responsabili di abusi, omissioni e violazioni dei diritti dei detenuti. Catania: cooperativa “Beppe Montana”, la terra dei boss ora dà un futuro ai giovani detenuti di Antonio Maria Mira Avvenire, 29 luglio 2010 Venticinque anni fa, la mattina del 28 luglio 1985, i killer di Cosa nostra uccisero Beppe Montana, capo della sezione catturandi della squadra mobile di Palermo. Era una bella domenica d’estate e il poliziotto stava passeggiando con la fidanzata e alcuni a-mici nel porticciolo di Porticello. Oggi sui terreni confiscati alle cosche catanesi e siracusane, lavora da poche settimane una cooperativa che porta il suo nome. Insieme ai sei soci anche una decina di giovani detenuti dei carceri minorili di Bicocca-Catania e Acireale. È anche questo un bel segnale di cambiamento della primavera siciliana, quell’alleanza tra uomini delle forze dell’ordine e società civile che nell’isola si sta dimostrando vincente. Pochi giorni fa durante i funerali del giovane capo della catturandi Mario Bignone, successore di Montana, la moglie ha letto l’ultima sua lettera, scritta dal letto dell’ospedale dove poi sarebbe morto per un’improvvisa a rapida malattia. “Voi ragazzi delle sezione catturandi e voi ragazzi delle associazioni Addio Pizzo e Libero Futuro, siete l’esempio di come sia cambiata o di come dovrebbe cambiare in positivo questa società”. La pensava così anche Beppe Montana, già allora quando aderì tra i primi al Coordinamento antimafia di Palermo o quando accompagnava il giudice istruttore Rocco Chinnici (ucciso 18 anni fa, il 29 luglio 1983) a conferenze e incontri con le scuole. Quanta strada. “Sicuramente il lavoro di Beppe ora acquista concretezza - commenta il fratello Dario, responsabile dell’associazione “Libera” nel Catanese. Soprattutto pensando ai quei giovani detenuti che ora lavorano con una cooperativa che porta il nome di un poliziotto, proprio qui a Catania, la città col più alto tasso di criminalità minorile d’Italia. È una scommessa che deve essere giocata”. E pensare che la città etnea nella quale Beppe Montana, nato ad Agrigento, aveva vissuto fin da piccolo non gli ha mai dedicato né una via né una piazza. Solo un piccolo teatro scolastico che però tra poco sarà demolito. Pochi giorni fa su uno dei terreni assegnati alla cooperativa “Beppe Montana-Libera terra”, è stato proiettato il film “Ti aspetto fuori” realizzato dai ragazzi del carcere minorile di Bicocca. C’erano anche alcuni di loro e uno, ricorda Dario, “ha scelto di sedersi proprio accanto al magistrato che lo aveva giudicato. Non sappiamo se si realizzerà un cambiamento completo ma già questi sono segnali importanti”. La cooperativa coltiva circa 75 ettari, assegnati dal Consorzio etneo per lo sviluppo e la legalità, nei comuni di Belpasso, Ramacca, Motta Sant’Anastasia e Lentini, confiscati alla famiglia dei Riela e ai loro fiancheggiatori, tutti legati al potentissimo clan Santapaola. Agrumeti, oliveti, campi a seminativo strappati alle cosche fin dagli anni 90 e da allora abbandonati. Ora, invece, grazie all’impegno dei soci (vengono dal Catanese e dal Siracusano), di 10 lavoratori assunti regolarmente e dei giovani detenuti, hanno già prodotto olio extravergine d’oliva e marmellata d’arancia. Sull’etichetta la scritta “Gusto di Sicilia”, con una “i” intrecciata alla “u” a formare la parola “giusto”. E presto partirà anche l’attività di turismo sociale. Intanto in questi terreni dall’inizio dell’estate stanno lavorando ragazzi provenienti da Toscana, Trentino, Umbria e Veneto, soprattutto gruppi scout (fino a settembre saranno circa 300). Campi di lavoro ma anche incontri con personaggi di questa “nuova” Sicilia, dal presidente di Confindustria Lobello a suor Lucia che opera coi giovani del difficilissimo quartiere catanese di Librino, dalla direttrice del carcere minorile a Ninetta Burgio, mamma di Pierantonio, il diciannovenne di Niscemi vittima della “lupara bianca”, e ai ragazzi del carcere. E la bella storia continua. “C’era scetticismo, prendere quei terreni sembrava una folle scommessa - conclude Dario. Ma abbiamo fatto capire coi fatti che non era così”. Lazio: il Garante dei detenuti e l’Opera Nomadi firmano protocollo di intesa per detenuti rom Redattore Sociale, 29 luglio 2010 L’intesa tocca i temi caldi: mamme con bambini, lavoro e visite. Nel Lazio sono almeno il 10% della popolazione carceraria. Marroni: “Il vero problema il cumulo dei reati che produce una quantità immensa di carcere”. Un protocollo di intesa tra il garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, e il presidente dell’Opera Nomadi, Massimo Converso, per tutelare i diritti delle persone appartenenti alle minoranze rom e sinti detenute o in condizioni di disagio economico e sociale dopo la reclusione. Il protocollo, siglato questa mattina a Roma, stabilisce che l’Opera Nomadi segnalerà casi di violazione di diritti al garante, il quale si attiverà direttamente o si rivolgerà alle autorità competenti. Durante la conferenza stampa di presentazione del protocollo di intesa è emerso che rom, sinti e camminanti costituiscono almeno il 10% della popolazione carceraria nel Lazio, che la detenzione riguarda soprattutto le donne e che, come spiegato dal garante Marroni, “il problema vero non è la gravità dei reati, ma il cumulo dei reati che produce una quantità immensa di carcere”. Al centro del protocollo firmato questa mattina alcuni dei temi più “caldi” legati alla detenzione di rom e sinti. Tra questi la reclusione delle donne con figli piccoli fino a tre anni, il problema delle visite ai congiunti e l’inserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti. Riguardo al primo aspetto, il garante e la regione Lazio stanno lavorando alla creazione dell’Istituto a custodia attenuata per le detenute madri (Icam), una struttura alternative al carcere che possa accogliere le detenute madri durante il periodo detentivo e “far crescere i bambini in un ambiente idoneo allo sviluppo della personalità in una fase cruciale della crescita”. Il garante e l’Opera nomadi, inoltre, si impegnano a trovare, con le autorità competenti, una soluzione che consenta le visite in carcere fra coniugi rom, sinti e camminanti la cui unione “non è stata ancora formalizzata presso le istituzioni civili e religiose.” Sotto l’aspetto dell’occupazione, il garante si impegna ad attivarsi con il Prap e le direzioni degli istituti per favorire la realizzazione in carcere di uno sportello socio-lavorativo e per sostenere una politica di inserimento lavorativo post pena per rom, sinti e camminanti di concerto con lo “Sportello lavoro rom/sinti”, creato in convenzione fra il comune di Roma e Opera nomadi, “anche nell’eventualità del godimento dei benefici relativo all’affidamento ai servizi sociali e alla semilibertà”. Il protocollo prevede, infine, l’istituzione di un tavolo tecnico che si riunirà periodicamente per valutare e promuovere iniziative congiunte sulla condizione dei rom e sinti detenuti e sulla solidarietà interculturale. “Questo protocollo - ha detto Angiolo Marroni - è il punto di arrivo di un lungo lavoro di dialogo e concertazione sociale svolto in questi anni e servirà a garantire la tutela dei diritti delle minoranze nomadi in carcere. In questa fase critica del nostro sistema carcerario, caratterizzata da un peggioramento delle condizioni di vita nella celle, è importante attivarsi per dare vita a una rete di garanzia e di sostegno per queste persone. Uno degli aspetti cui tengo di più - ha precisato - è il lavoro che faremo per garantire soluzioni alternative al carcere per le madri detenute con figli piccoli”. “Quella dei cittadini rom, sinti o camminanti - ha precisato il garante - è una detenzione particolarmente sofferente e soprattutto una detenzione che vede la forte prevalenza di donne, e quasi sempre di donne con bambini”. Una situazione, quest’ultima, che stando a quanto riferito dal Marroni riguarda anche il carcere minorile “dove ci sono ragazze rom con bambini”. Un ulteriore problema riguarda i bambini che hanno compiuto i tre anni e che vengono “tolti alle mamme”. “Con l’associazioni A Roma Insieme siamo impegnati a trovare famiglie affidatarie, affinché i bambini possano restare a Roma e sia garantito il rapporto con le madri. Purtroppo - ha aggiunto - accade, ed è storia di questi giorni, che qualche mamma venga trasferita fuori dal Lazio mentre il bambino resta a Roma”. Una “situazione tragica” - ha detto il garante - “che tocca anche il ruolo della famiglia affidataria”. Quanto alla questione dell’inserimento lavorativo il garante ha detto: “Fuori c’è il problema del lavoro, il tempo del carcere può essere usato per la formazione professionale. Con questo protocollo - ha concluso - ci impegniamo affinché permanenza in carcere diventi un tempo utile”. “Il lavoro è stato individuato dal protocollo come il primo antidoto alla devianza - ha dichiarato Massimo Converso, il presidente Opera Nomadi - nonché strumento principe per il reinserimento sociale dei detenuti. In tale ambito occorre valorizzare e sostenere competenze e abilità presenti all’interno di ogni comunità rom, sinti e camminanti. In particolare - ha aggiunto - le attività di rigatteria e mercatini del riciclo e riuso, la raccolta per il riciclo dei materiali ferrosi, l’arte di strada (musica, danza), le attività tipiche artigianali (rame, abbigliamento, lucidatura dei metalli, decorazioni), lo spettacolo viaggiante (giostre) e circense, la manutenzione ambientale, nonché attività di piccole riparazioni sartoriali, lavanderia e stireria di recente sviluppo che vedono finalmente le donne delle comunità rom, sinte e camminanti come protagoniste. Di pari passo - ha concluso Converso - vanno superati i gap di scolarizzazione, formazione professionale, habitat, prevenzione sanitaria e diritto di cittadinanza con cui da sempre le comunità rom, sinti e camminanti convivono e si confrontano”. Roma: allarme al carcere di Rebibbia femminile, manca il personale di polizia penitenziaria Libero, 29 luglio 2010 Situazione allarmante al carcere femminile di Rebibbia. Manca il personale di polizia penitenziaria, in numero assai inferiore rispetto al minimo stabilito per garantire i livelli essenziali di sicurezza. Su 164 unità femminili del Corpo previste in organico, ma in realtà ne operano solo 119. 22 sono ultracinquantenni, 30 hanno figli a carico in situazioni di mono-genitorialità ovvero prestano assistenza (ai sensi della legge n. 104 del 1992), 21 assenti per malattia o per maternità. Ben 71 unità sono distaccate in altre sedi. Una storia diventata oramai prassi consolidata soprattutto in concomitanza con i periodi di fruizione dei piani ferie estivo e natalizio. A rendere oggi la questione davvero esplosiva è poi il sovraffollamento della struttura, dove si è ben più in là della capienza tollerabile. Quasi 400 detenute, un centinaio ed oltre fuori i limiti previsti. Non a caso, sono aumentati gli episodi di disturbi legati all’ansia ed alla depressione delle locali addette del Corpo, oltre al fatto che non si riesce mai a garantire la conclusione dei turni nell’orario previsto, nonché la fruizione dei riposi settimanali. E la vicenda approda alla Camera. Sulla difficile condizione del carcere romano sono, infarti, intervenuti i parlamentari Udc, Roberto Rao e Luciano Ciocchetti, con un’interrogazione a risposta immediata, presentata e discussa alla Commissione Giustizia. Il Ministro Alfano, dopo aver confermato la scarsa presenza di personale femminile all’interno della casa circondariale, ha evidenziato come, invece, ci sia un esubero di personale maschile: 58 unità, a fronte di una previsione di 36 “che, nei limiti consentiti dalle norme, potrebbe sopperire alla carenza di organico femminile”. Una soluzione tampone, visto che il vero problema di Rebibbia restano i numerosi “distaccamenti” in uffici del Dipartimento ed altre sedi ministeriali, sui quali il Ministro della Giustizia ha comunque evidenziato che “è al vaglio della competente Direzione Generale un’ipotesi di rientro alle attività d’istituto del personale distaccato in uscita”. Un rientro che “non potrà, tuttavia, prescindere dalla valutazione analitica dei compiti che quel personale espleta presso l’attuale sede di impiego”, per evitare “disservizi nella sede” di distacco, senza che ne derivino benefici effettivi per la struttura di destinazione”. “L’auspicio”, rimarcano i deputati Udc, Rao e Ciocchetti - è che si agisca in tempi brevi e, che nella valutazione complessiva dei compiti assegnati al personale distaccato, si presti maggiore attenzione alla presenza di agenti all’interno del carcere femminile che, dati alla mano, è in grande sofferenza e necessita di un organico adeguato”. Dal Ministero della Giustizia fanno, inoltre, sapere che, in attesa della programmata assunzione di 2..000 nuovi agenti di Polizia Penitenziaria prevista dal cosiddetto piano carceri, “si provvederà ad assegnare alla C.C. di Rebibbia 3 unità di personale, individuate dalla competente Direzione Generale”, a conclusione del 161 o corso di formazione per agenti di polizia penitenziaria. Un passo iniziale per smuovere una situazione di stallo. Pisa: la vicenda dell’evasione dal carcere Don Bosco arriva alla Camera dei deputati Il Tirreno, 29 luglio 2010 Arriva alla Camera dei deputati la vicenda dell’evasione dal carcere Don Bosco. Il parlamentare del Pd Ermete Realacci presenterà una interrogazione. “Non si cerchino facili capri espiatori - afferma -, questa fuga è dovuta alle condizioni di sovraffollamento da un lato e alla mancanza di personale di sorveglianza e di risorse economiche per assicurare le dovute misure di sicurezza e le migliori condizioni di vita ai detenuti dall’altro. Di questo non possono certo essere responsabili le guardie carcerarie: le colpe sono tutte del ministero, per questo sto presentando una interrogazione parlamentare per spingere il ministero a dare più uomini, mezzi e risorse agli istituti di pena che si trovano, come quello di Pisa, a rischio collasso”. Paolo Fontanelli, anche lui deputato del Pd ed ex sindaco, aggiunge: “L’evasione dei due detenuti dal carcere di Pisa è avvenuta mentre alla Camera dei deputati si sta varando, con il voto di fiducia imposto dal Governo, una manovra finanziaria che indebolisce ulteriormente le politiche per la sicurezza. La denuncia dei sindacati di polizia è forte a Roma, dove è stata annunciata una veglia in piazza Montecitorio, così come a Pisa. A questo si aggiunge la clamorosa inadeguatezza della vigilanza penitenziaria, causata dalla carenza di organico della polizia e da un parallelo sovraffollamento delle carceri. In questo quadro le responsabilità del Governo sono gravi e pesanti. La situazione degli istituti penitenziari si fa sempre più insostenibile e non può essere ignorata o sottovalutata come si è fatto finora. Purtroppo, ancora una volta, gli emendamenti delle opposizioni non potranno essere oggetto di confronto e di voto da parte del Parlamento”. Interviene pure Claudio Meoli, segretario provinciale del sindacato Silp (polizia di Stato): “A distanza di pochi giorni dalla duplice evasione dal carcere di Lecco assistiamo a un’ennesima fuga, questa volta dalla casa circondariale di Pisa. Nel condividere il pensiero delle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria, crediamo che tutto ciò sia il frutto amaro della manovra attuata dal governo, che ha imposto tagli lineari e indistinti alle spese per la sicurezza. Tagli che hanno pregiudicato l’apparato delle forze di polizia poste a tutela della sicurezza dei cittadini. La manovra del governo viene fatta passare per una norma antisprechi, in realtà colpisce al cuore l’operatività di interi settori della sicurezza”. Padova: le associazioni chiedono all’amministrazione penitenziaria delle misure di urgenza Il Mattino di Padova, 29 luglio 2010 Un agente entra di corsa in una cella: manca un detenuto. In realtà, sta solo dormendo per terra, perché le brande sono finite. Succede nella casa circondariale Due Palazzi dove si sta letteralmente “scoppiando”: e il caldo di questi giorni peggiora di molto la situazione. Tanto che, su spinta di Ristretti Orizzonti, le associazioni che gravitano attorno al mondo dei carcerati, si sono riunite per chiedere all’amministrazione penitenziaria delle misure di urgenza. Niente di eccezionale: apertura delle celle e dei blindi tutta la giornata, con libero accesso alle docce, acquisto di frigoriferi e piccoli ventilatori, un’ora aggiuntiva d’aria e più attività sportive. Gocce d’acqua nel mare che cambierebbero le condizioni di vita nel carcere patavino. La Camera penale “Francesco Castello” ha pure fatto un esposto alla magistratura, denunciando le condizioni invivibili di carcere e casa circondariale. Dall’inizio dell’anno sono già 4 i morti suicidi. “Cronache di morti annunciate” le definisce Salvatore Livorno della Cgil. Sabi Tauzi, Santino Mantice, Giuseppe Sorrentino, Walid Aloui. Loro non ce l’hanno fatta, e il rischio è che l’elenco non sia finito qua. I numeri della casa circondariale (detenuti in attesa di pena definitiva) non lasciano dubbi: 250 presenze, a fronte di una tollerabilità di 130, e celle anche con 14 persone all’interno. Turi (Ba): Osapp; poliziotto penitenziario muore per infarto dopo malore Ansa, 29 luglio 2010 Un agente di polizia penitenziaria di 48 anni in servizio nel carcere di Turi è morto oggi dopo essere stato colto da malore mentre stava per prendere servizio. Lo denuncia l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria), secondo cui l’agente sarebbe stato colto da infarto. “La morte del poliziotto - afferma l’Osapp in una nota - ha sconvolto la comunità di Polizia che a Turi è di 100 unità, in notevole sotto organico contro una popolazione detenuta di circa 180 persone”. Per l’Osapp le condizioni lavorative all’interno dei settori detentivi sono stati sollevati in negativo dall’Osapp con copiosa corrispondenza. Il sottufficiale - è detto ancora - è stato colto da infarto, e l’Osapp pur senza collegare il caso ad altri tre casi di recenti avvenuti nella sede di Lecce dove i poliziotti sono stati trasportati d’urgenza presso le strutture ospedaliere, rileva ancora una volta che una riflessione andrebbe fatta sul notevolissimo sovraffollamento a quota 4.600 delle carceri pugliesi, sui turni stressanti e massacranti che arrivano fino a dodici e quindici ore continuative nei reparti detentivi, e su una situazione di invivibilità sotto l’aspetto igienico sanitario e di salubrità del posto di lavoro che condizionano la scarsa qualità della vita dei Baschi Azzurri. L’Osapp quindi sottolinea la necessità di un’attenta riflessione sulle condizioni di vita e di lavoro degli appartenenti al Comparto Sicurezza. Parma: due agenti penitenziari condannati a 2 anni e 6 mesi per il pestaggio di un detenuto Ansa, 29 luglio 2010 Due agenti di polizia penitenziaria, Vincenzo Casamassima e Andrea Miccoli, sono stati condannati a due anni e sei mesi di reclusione per aver picchiato un detenuto, Aldo Cagna, autore nel 2006 dell’omicidio della studentessa in Medicina Silvia Mantovani. I due agenti, in servizio nel carcere di Parma, sono stati condannati anche al pagamento di una provvisionale di 20.000 euro. Assolto per la vecchia insufficienza di prova, invece, l’assistente capo Giovanni Tallerico, accusato di favoreggiamento. Cagna, condannato a trent’anni di reclusione, aveva denunciato il pestaggio poco tempo dopo essere stato arrestato per il delitto Mantovani. Il legale dei due agenti ha annunciato appello. Verona: l’artista Giuseppe Borrello ha incontrato un gruppo di detenuti della Sezione “Isolati” MicroCosmo, 29 luglio 2010 Nell’ambito della rassegna estiva “L’Altra Platea” 2010 (promossa dalla Garante dei diritti delle persone detenute, dott. Margherita Forestan, e organizzata da Microcosmo), Giuseppe Borrello, pittore di fama internazionale, ha incontrato un gruppo di persone detenute della sezione “isolati” della Casa Circondariale di Verona presentando le sue opere pittoriche e raccontando la sua vita artistica. L’incontro, avvenuto il 20 luglio, ha portato due giorni dopo alla creazione di un’opera collettiva su una grande tela. L’evento è stato di grande interesse per i partecipanti che hanno potuto vivere un’esperienza molto significativa sia da un punto di vista artistico che umano. La composizione dei colori sulla tela è stata emozione collettiva. I colori e il loro equilibrio si modificavano nello svolgimento avvincendo i partecipanti nella sorpresa del mutamento. La presenza del Maestro e la modalità pacata, seppur vivace e brillante, dello svolgersi dell’azione pittorica, hanno consentito anche un sommesso ma intenso dialogo sull’arte, i colori e la vita; un dialogare “libero” piuttosto inusuale all’interno di un carcere, che rimandava più ai salotti artistici che a una stanza blindata. Il pittore, incentivando e sollecitando una sensibilità artistica, ha consegnato ai partecipanti materiali per proseguire nell’esperienza grafica e pittorica, convinto che l’energia creativa possa costituire anche una forza in più nell’affrontare le difficoltà della vita. Un prezioso consiglio a chi volesse sviluppare l’arte è di tenere sempre con sé un quadernino, o un notes, sul quale annotare o abbozzare le idee e le emozioni, con segni che possano essere sviluppati in ipotesi pittoriche. Verrà a costituire una specie di diario artistico, una traccia di pensiero e del sentire, una sorta di autobiografia nelle forme e nei colori. Questo consiglio varca i confini delle mura del carcere e idealmente riconduce, al di là delle condizioni del vivere, a una dimensione profonda del sentire e al flusso creativo che è espressione squisitamente e ampiamente umana. Ferrara: l’arte del teatro, esperienza di vita e di futura liberà Ristretti Orizzonti, 29 luglio 2010 L’intervento del regista Horacio Czertok (responsabile Laboratorio Teatrale) alla presentazione, avvenuta il 20 luglio, delle prove dello spettacolo teatrale con detenuti della Casa Circondariale di Ferrara. Alla performance proposta nella palestra della struttura detentiva cittadina hanno partecipato molte autorità tra cui il prefetto Provvidenza Raimondo, il sindaco Tiziano Tagliani, i Comandanti di Carabinieri e Guardia di Finanza, l’assessore comunale ai Servizi alla Persona Chiara Sapigni, il direttore del Carcere Francesco Cacciola e altri rappresentanti di enti e associazioni. “Prima di tutto, benvenuti al laboratorio teatrale della casa circondariale di Ferrara. Abbiamo voluto condividere con voi il lavoro che stiamo facendo sul “Woyzeck”, un dramma dello scrittore tedesco Georg Buchner. Non uno spettacolo, che sarà pronto per l’autunno, ma una prova. Nel lavoro del teatro la ricerca e le prove sono più ricchi che lo spettacolo che si riesce infine a produrre. Questo perché le regole dello spettacolo sono diverse da quelle del laboratorio. Lo spettacolo è una macchina in cui tutto si deve tenere, con degli automatismi e delle logiche proprie che lo spettatore deve poter essere in grado di condividere. Ciò impone sacrifici, e frammenti, a volte intere scene e persino dei personaggi devono scomparire perché lo impone la logica dello spettacolo. Nel teatro in carcere però l’essenza che emerge nelle prove ha un valore particolare. Perché confrontandosi con i personaggi e con la storia che si racconta, questi attori speciali fanno dei percorsi interiori, compiono delle vere e proprie esperienze culturali, arricchiscono la materia stessa del teatro. Perciò assistere ad una prova consente di apprezzare temi e materiali che probabilmente non ci saranno più nello spettacolo perché considerate non utili a quel fine. Per esempio proviamo tante canzoni, ognuna delle quali richiede tanta dedicazione e lavoro. Può accadere che quella che consideriamo la più bella, addirittura la più rappresentativa, non ci stia e sia quindi eliminata. Abbiamo lavorato con decine di detenuti, molti dei quali non sono più qui e non saranno nello spettacolo che è comunque fatto con la loro partecipazione. Con il tempo e la conoscenza, la storia di Woyzeck, questo uomo che commette un crimine spinto da forze che non è in grado di contrastare e che viene poi punito da quelle stesse forze, è diventato un nostro oggetto comune. Spesso mi chiedono perché faccio teatro qui. Perché ci ostiniamo nel tenere vivo questo laboratorio Io e Marinella Rescigno qui, e Andrea Amaducci. Oltre alla nostra paga d’ attori, perché accettare questa durezza che ogni giorno il carcere ci impone a noi come a tutti quelli che sono qui a fare la loro parte. Mi sono trovato a rispondere: queste persone qui, i detenuti, prima o poi usciranno. E verranno a vivere vicino a casa mia: come voglio che sia il mio vicino di casa? La legge ci autorizza a partecipare nel “percorso trattamentale” da normali cittadini, che è poi quello che siamo qui, non avendo altra autorità che quella che la nostra pratica ha guadagnato sul campo. Abbiamo pensato che se possiamo, allora dobbiamo farlo. Durante circa tre anni ho lavorato qui con Aissa Monceff, un cittadino tunisino. Insieme abbiamo fatto un buon percorso. Un bel giorno esco da casa mia e chi ti trovo lì per strada in bicicletta? Aissa. Gli dico cosa ci fai qui? Sei scappato di prigione? No, risponde, sono libero ora. Ho capito ma cosa ci fai qui? Ah io qui ci vivo. Sulla mia strada. A trenta metri da casa mia. Così peraltro è nato uno spettacolo, che abbiamo cominciato a presentare tre settimane fa a Modena: si chiama “il mio vicino di casa”. Aissa e me raccontiamo questo aneddoto insieme ad altre cose che ci siamo trovati a vivere qui nel carcere e che ci hanno fatto crescere, tutti e due, e che vogliamo condividere per capirle meglio, già che solo nella condivisione si capisce di cosa siamo fatti per davvero. Ma questa è un’altra storia. Sulla porta della nostra sala di lavoro, qui, vi è una scritta invisibile. Dice: qui si soffre. In nessun altro posto delle nostre città vi è un tale concentrato di sofferenza. Sofferenza vera. Fatta di deprivazione della libertà, degli affetti primari- la famiglia, i figli- e anche di quelli secondari, gli amici, il contesto, ciò che da forma e senso alle nostre esistenze. È una sofferenza che il detenuto accetta, per fare la sua parte nel duro gioco della giustizia umana. È questo fatto, questa sofferenza accettata e compiuta ogni ora e ogni giorno, fa di queste persone esseri speciali. Il loro teatro qui è impastato con la sofferenza. Ciò rende sacro questo palcoscenico. Noi non siamo giudici. Spesso non sappiamo niente delle loro biografie. Non ci riguardano. Qui, a teatro, loro sono persone oltre la loro biografia giudiziaria. C’è l’urgenza di raccontarsi. Di dare un senso a questa sofferenza creandone un oggetto d’arte. Non possiamo permetterci di male utilizzarla. Di sprecarla. Perciò, dobbiamo essere rigorosi. Oltre al lavoro specifico qui nel teatro, siamo riusciti in questo anno a creare un coordinamento dei teatri che lavorano nelle carceri della regione, noi ne siamo il capofila, è un motivo d’orgoglio per la nostra città essere riuscita a farlo e a sostenerlo. Uno degli scopi del coordinamento è la formazione: è importante perché questo lavoro qui non si impara in nessuna scuola, in nessun conservatorio o accademia. Non c’è la carriera di “teatrante in carcere”. E abbiamo tante cose da imparare e da insegnare: il coordinamento vuole essere quello spazio. Aiutateci a far sì che questa diventi un’attività lavorativa per chi vi partecipa. Il teatro qui è un lavoro, non divertimento o ricreazione. Un lavoro che produce benefici non solo per chi lo fa ma per tutti. Aiutateci a portare all’attenzione dei cittadini questo lavoro. Ne abbiamo già fatto l’esperienza e perciò lo sappiamo, molti cittadini ci aspettano, vogliono assistere al prodotto del nostro lavoro, partecipare alla scommessa che vive dentro. Perché è così importante? Perché in quello spettacolo dato al teatro comunale, che è ancora nella memoria di molti, si sono intrecciati tanti teatri nello stesso tempo. Il teatro dei detenuti che si confrontano anzitutto con se stessi: la scommessa di presentarsi con un volto nuovo da cittadino a cittadini. Poi il confronto con gli altri detenuti con un linguaggio nuovo dalle regole nuove e antiche che costringe a uscire da logiche obbligate. Il teatro del confronto tra i detenuti e i cittadini oltre lo stigma (una volta carcerato, sempre carcerato), così che i cittadini possono dare testimonianza della propria volontà a sostanziare la voglia di riscatto dei detenuti, e i detenuti dare testimonianza, col proprio agire nello spettacolo, di quella volontà. Infine ma non meno importante, anzi per me forse quello più importante, il teatro del confronto tra i detenuti e le loro famiglie, lì, tra gli ori e i velluti del salotto buono della città: le loro moglie e madri e padri e soprattutto i loro figli possono per una volta assistere al plauso, alla testimonianza di un atto di scandalosa novità: i cittadini applaudiamo quelle persone che abbiamo condannato a soffrire dietro le sbarre. Perciò ora quella sofferenza, quella dei famigliari, quella dei figli condannati anche loro a vivere senza il padre, acquista un senso, pur nella sua fragilità di oggetto effimero. Quei figli che hanno sempre dovuto vedere il loro padre nella sala colloqui del carcere ora hanno stampata nella loro memoria un’immagine da far da contraltare, un immagine positiva, del loro padre applaudito. Non è retorica, l’ho visto, sul palcoscenico del comunale dietro il sipario, i figli aggrappati alle gambe dei loro padri, abbracciati, a dire papà, ti hanno applaudito! Lacrime bagnavano quelle facce dure rese rigide dal dolore. Fuori dalla vista, certo, i sentimenti privati non concernono lo spettacolo se non col diaframma dell’illusione teatrale. Però quel sentimento che il teatro ha creato è ben vero anche nella sua memoria di padre: ho fatto qualcosa per mio figlio. Per questo siamo qui. Per fare questo spettacolo, per tutti quei teatri che ci consente di fare vivere”. Giappone: Amnesty International condanna le due esecuzioni che hanno avuto luogo ieri Ansa, 29 luglio 2010 Ogata Hidenori, 33 anni, e Shinozawa Kazuo, 59 anni, sono stati impiccati nel centro di detenzione di Tokyo esattamente a un anno di distanza dalle ultime esecuzioni. “Il Giappone continua ad andare contro la tendenza internazionale verso l’abolizione e ad applicare questa punizione crudele, disumana e degradante - ha dichiarato Donna Guest, vicedirettrice del Programma Asia Pacifico di Amnesty International - . Un giorno che avrebbe dovuto segnare un anno senza esecuzioni ha invece visto il Giappone ritornare a compiere omicidi di stato”. Le esecuzioni di mercoledì 28 sono state le prime approvate dalla ministra della Giustizia, Keiko Chiba, che precedentemente si era espressa contro la pena di morte. Dopo la doppia esecuzione ha annunciato di voler istituire un gruppo di lavoro ministeriale sulla pena di morte. Tuttavia, le organizzazioni non governative in Giappone temono che ci saranno ulteriori impiccagioni nei prossimi giorni. Attualmente sono 107 i prigionieri in attesa di esecuzione. “Un gruppo di lavoro per discutere sulla pena di morte non basta. C’è bisogno di un dibattito aperto e pubblico e, mentre questo ha luogo, di una moratoria immediata sulle esecuzioni”, ha concluso Guest. Shinozawa Kazuo era stato condannato a morte per l’uccisione di sei donne durante l’incendio da lui appiccato in una gioielleria nel 2000, Ogata Hidenori per l’omicidio di un uomo e una donna nel 2003. Il Giappone aveva messo a morte sette persone nel 2009, ma dal 28 luglio 2009 non vi erano state esecuzioni. Le condanne a morte - ricorda Amnesty - sono eseguite tramite impiccagione e in segreto. I detenuti sono informati solo la mattina stessa, le famiglie di solito a esecuzione già avvenuta. L’organizzazione per i diritti umani chiede al governo del Giappone di commutare immediatamente tutte le condanne a morte e introdurre una moratoria formale sulle esecuzioni come primo passo verso l’abolizione della pena di morte. Iran: pena di morte per un detenuto politico accusato di essere “nemico di Dio” Adnkronos, 29 luglio 2010 La sentenza capitale per Jafar Kazemi, detenuto politico arrestato in seguito alle proteste post-elettorali in Iran dello scorso anno, è stata approvata dalla Corte dell’appello e trasmessa all’organo competente affinché venga eseguita. Nasim Qanavi, l’avvocato difensore di Kazemi, ha confermato la notizia e ha detto alla International Campaign for Human Rights in Iran che la sua richiesta di rivedere il caso è stata respinta. Al momento, ha aggiunto, non ci sono altre strade legali per salvare la vita di Kazemi. L’uomo, arrestato lo scorso settembre a Teheran, è in cella di isolamento da 74 giorni. È accusato di essere “moharebeh”, ovvero “nemico di Dio e di simpatizzare per i Mujahedin del Popolo”, organizzazione dissidente che il governo di Teheran considera sua acerrima nemica. L’avvocato ha spiegato che il suo assistito ha manifestato contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad, ma che “l’accusa di essere nemico di Dio non gli appartiene”. La moglie di Kazemi, Roudabeh Akbari, ha inviato una lettera al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon per chiedere che intervenga a salvare la vita di suo marito. La Repubblica islamica ha emesso diverse sentenze capitali contro i manifestanti contro la rielezione di Ahmadinejad. Lo scorso febbraio Arash Rahmanipour e Mohammadreza Ali-Zamani sono stati uccisi con la stessa accusa, essere “moharebeh”.