Giustizia: il garantismo valga per tutti…. ma proprio per tutti di Luigi Compagna (Senatore Pdl) Secolo d’Italia, 28 luglio 2010 E a pagare per la “malagiustizia” non devono mai essere i detenuti. Perché la legalità non può diventare un’arma impropria contro qualcuno. Quando ho presentato il disegno di legge n. 2217 (concessione di amnistia e indulto), ero consapevole di fare una “proposta indecente”. Non volevo però farmi anch’io trascinare, per dirla con Benedetto Della Vedova, dalla “folle rincorsa pan-penalistica” innescatasi da qualche legislatura. Anzi, avevo quasi la presunzione di contribuire a disinnescarla. Indulto e amnistia sono misure eccezionali, previste per liberare carceri e tribunali da un sovrappiù (di uomini, carte, processi), che ostacola la giustizia, i suoi tempi, le sue procedure. Saggezza avrebbe voluto che camminassero insieme. Non fu così nel 2006. Parve che quell’indulto senza amnistia servisse a far allora da capro espiatorio di un sistema impazzito. Rispetto a quel provvedimento, anche la mia proposta di amnistia e indulto fra loro contestuali offrirebbe un palliativo soltanto momentaneo. Lo so. Quel palliativo però, non meno dell’indultino del 2004, potrebbe rivelarsi irrinunciabile e giustificherebbe, se non il merito, lo spirito della mia iniziativa. Agli altri amici del Secolo d’Italia debbo la massima sincerità. E ne approfitto. Per me ci sono questioni e occasioni sulle quali Rita Bernardini può essere un punto di riferimento, mentre mai può esserlo Donatella Ferranti. Nulla di personale. Provo a spiegarmi. Perché a pagare le inefficienze del sistema giustizia devono essere i detenuti? Chi ha loro inflitto quella ulteriore ingiusta e disumana pena del sovraffollamento? Con quale diritto altri cittadini, estranei al mondo delle carceri, vanno evocando problemi di sicurezza e di illegalità diffuse senza accorgersi di come una severità senza rispetto per la persona umana si traduca per forza in arbitrio? Cosa significa “tolleranza zero” se non siamo poi in grado nemmeno di giudicare i sospetti e di trattare con civiltà i condannati? Nel dibattito politico la magistratura fattasi “democratica” ha inserito un punto di vista disonorevole. Giustizia e legalità sono diventate armi improprie da brandire contro Brancher, Cosentino, Verdini, etc. A me nell’ultima settimana è parsa, ad esempio, troppo giacobina (o troppo poco girondina) l’interpretazione che dal presidente della Camera è stata data dei propri poteri nei confronti dei propri colleghi deputati. Né mi convince l’idea che in un partito politico ci si confronti fra garantisti, giustizialisti, legalitari. Al “garantista impenitente” di sempre, all’amico (se posso permettermelo) Benedetto Della Vedova, non chiedo di condividere minuto per minuto le stesse sensazioni e le stesse valutazioni. Fra l’altro talvolta le mie e talvolta le sue possono essere sbagliate. Quel che entrambi, per la nostra storia politica e personale dobbiamo al Pdl, è di mirare per il nostro paese a esser più vicini a quei sistemi dove il processo deve iniziare 48 ore dopo l’arresto, mentre da noi si può tenere qualcuno in carcere anche più di due anni senza fargli nemmeno il primo grado. Noti alle cronache di storia patria sono piemme e gip che della custodia cautelare han fatto la loro spada di casta. Della loro idea di giustizia e di legalità ho orrore. Per essere ancora più esplicito, non penso sia stato “uso politico” del garantismo difendere mesi addietro Nicola Cosentino da chi voleva metterlo in galera senza neppure prevederne il processo. Quanto al mio piccolo mondo di senatore leale al proprio presidente di gruppo, non riesco comunque a provare nessun senso di colpa per aver fatto una “proposta indecente”. Giustizia: in fuga dalla detenzione, chi si cala dalle finestre e chi si appende a una corda di Dina Galano Terra, 28 luglio 2010 A Pisa due albanesi srotolano un lenzuolo e lasciano la cella. “L’ennesima evasione beffa” per la polizia in sotto organico. Ma per fuggire dalla reclusione si sceglie ancora il suicidio. Il 39esimo, ieri, a Siracusa. In una sola giornata si è consumato un suicidio, sventati due tentativi e riuscita un’evasione. L’ultima singolare impresa è stata compiuta da due cittadini albanesi che hanno lasciato la Casa circondariale Don Bosco di Pisa calandosi giù, come nel più classico degli immaginari, con un lenzuolo. Hanno così scavalcato il muro di cinta, convinto non troppo gentilmente una donna a lasciar loro la jeep sulla quale viaggiava e ripreso la via per la libertà. Mentre proseguono le ricerche dei fuggitivi, ci si interroga sul sistema di sicurezza. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha presto aperto un’inchiesta, ma i sindacati di polizia penitenziaria hanno le idee più chiare sulle ragioni dell’evasione che definiscono “l’ennesima beffa”. “Dalle carceri si può evadere tranquillamente in qualsiasi momento”, ha denunciato Eugenio Sarno, segretario della Uil-Pa penitenziari. E la ragione è “sempre la stessa: il contingente di polizia penitenziaria è gravemente in sofferenza. Stamani un solo agente era preposto alla sorveglianza di tre cortili di passeggio”. Il deficit di circa 8.000 unità impedisce ai “grimaldelli” (così vengono chiamati gli agenti nel gergo dei detenuti) di garantire l’ordine e la stessa custodia dei reclusi. Da tempo intervengono pubblicamente per chiedere nuove assunzioni di personale, dovendo operare in istituti sempre più sovraffollati dove il rischio di sommosse, suicidi e atti di autolesionismo sta crescendo esponenzialmente. Il Sappe, il sindacato autonomo, ha parlato addirittura di evasione “annunciata” proprio perché a Pisa su 458 detenuti (la capienza regolamentare è di 250 posti) mancano almeno 80 poliziotti. Dei 2.000 promessi di Alfano, nemmeno l’ombra. L’esasperazione dei sindacati di categoria è cresciuta al punto da chiedere il “commissariamento del Dap”, ultimo atto di ribellione alle critiche ricevute per le nove evasioni compiute dall’inizio del 2010. Muri di cinta non funzionanti, autoveicoli fermi per omessa manutenzione, assenze giustificate da patologie da stress sono soltanto alcune delle cause dello stato di abbandono dei penitenziari italiani. “Per fare i miracoli non basta la buona volontà di chi opera in condizioni difficili” ha commentato Ermete Realacci, il deputato Pd eletto in Toscana, che ha annunciato la presentazione di un’interrogazione parlamentare “per spingere il ministero a dare più uomini, mezzi e risorse agli istituti di pena, che si trovano, come quello di Pisa, a rischio collasso”. Intanto il tragico bollettino dei suicidi ha raggiunto i 39 casi dall’inizio anno. L’ultimo, nel carcere di Siracusa (567 detenuti per 309 posti letto regolari), avrebbe potuto essere forse evitato. Gli atti di autolesionismo che Corrado Liotta, 44 anni, aveva compiuto in passato erano dei campanelli d’allarme. “Con il caldo e le condizioni di questi giorni” ha sottolineato Ornella Favero di Ristretti orizzonti, “non sarebbe azzardato avanzare l’ipotesi di un reato di tortura verso i detenuti. Si stanno violando i diritti umani minimi, la gente in cella sta impazzendo”. Giustizia: se per i telegiornali il 39° suicidio in carcere non è “notizia” di Alberto Baldazzi Articolo 21, 28 luglio 2010 Ieri sera le aperture dei telegiornali sono state quasi tutte diverse, con l’unica eccezione di Tg3 e Tg2 che decidono di aprire con l’avviso di garanzia al sottosegretario Caliendo. Per gli altri scelte differenti nell’impaginazione del primo titolo. Registriamo che la notizia del trentanovesimo morto per suicidio nelle carceri italiane, non è stata trattata da nessuna testata televisiva. La trentanovesima vittima del sistema carcerario italiano del 2010 è stata seppellita, per così dire, dall’indifferenza generale; ha avuto difficoltà ad uscir fuori anche nei siti. La vicenda è apparsa solo sui siti online di quotidiani e blogger italiani. Ne parliamo con Riccardo Arena responsabile della trasmissione Radio Carcere di Radio Radicale. Prima di tutto, Riccardo, la situazione sta peggiorando? E se sì, da quando? “La situazione sta peggiorando da circa un anno e mezzo, un lento ed inesorabile declino che ha lasciato indifferente soprattutto la politica del Governo, che avrebbe la responsabilità di gestire anche le carceri italiane.” In Italia per ogni suicidio che avviene fuori dalle carceri, ce ne sono nove abbondanti all’interno del sistema della reclusione; questo è un dato tutto italiano, perché in Europa le statistiche non sono così aberranti. Alla base c’è sicuramente il sovraffollamento, ma basta il sovraffollamento a spiegare questa moria? “L’Italia in effetti ha un tasso di suicidi molto elevato rispetto agli altri paesi europei, e questo ce l’ha confermato ai microfoni di Radio Radicale Mauro Palma, che è Presidente del Comitato di Protezione dalla Tortura del Consiglio d’Europa, il quale ha confermato (cosa che l’Onorevole Alberti Casellati, Sottosegretario alla giustizia non sa) che l’Italia è il secondo paese dove ci si uccide di più. Ma perché ci si uccide? Ci si uccide, certamente, per il sovraffollamento, ma anche per il degrado delle strutture penitenziarie. Pensate: vivere in 6, 7, 8 persone all’interno di celle non più grandi di 7 metri quadri e rimanere lì, chiusi per 22 ore al giorno, tra topi, sporcizia, scarafaggi e violenza. Questa non è neanche vita detentiva, questa è non vita, una non vita che induce al suicidio.” Veniamo ai media: l’opinione pubblica si fa o si disfa attraverso l’attenzione che la televisione dedica, o non dedica, a determinati argomenti. In questo caso, dal punto di vista di chi osserva il fenomeno da anni, come si stanno comportando i media italiani, soprattutto l’informazione dei TG? “I media italiani e soprattutto i telegiornali si occupano del carcere così come se ne occupa la politica: con una certa indifferenza; è un tema che interessa poco… ed invece è un tema che interessa molti: non solo i sessantottomila detenuti, ma anche tutte le famiglie, e poi è importante informare i cittadini su come viene eseguito un provvedimento che è frutto di un potere sovrano dello stato. In questo anno e mezzo, quando la situazione andava sempre via via a peggiorare, noi ci eravamo più volte augurati che l’informazione in tempo informasse i cittadini e la politica sul disastro annunciato che stavano diventando le carceri, ed invece è stato il silenzio più assoluto. Potremmo dire che l’informazione in questo anno e mezzo non si è occupata di carcere, e sarà facile prevedere che se ne occuperà il 15 agosto, quando purtroppo, è facile prevedere, scoppieranno le rivolte in carcere; ecco: quell’informazione che arriverà ad agosto sarà un informazione tardiva e che poteva essere ben gestita prima.” Giustizia: il Csm ad Alfano; la situazione delle carceri è allarmante, lavoriamo insieme Apcom, 28 luglio 2010 La situazione nelle carceri è “assai allarmante”, con un sovraffollamento aggravato da condizioni “precarie” degli istituti e “gravi carenze igienico-sanitarie delle strutture”. Un quadro di “gravi criticità” di fronte al quale è necessario mettere in campo “sinergie” tra Csm, ministero della Giustizia e magistrati di sorveglianza, in modo da individuare “soluzioni alle problematiche connesse alla funzionalità degli uffici, all’esecuzione della pena e alla tutela dei diritti dei detenuti”. Compito da affidare ad una commissione ad hoc, composta da tre giudici di sorveglianza, tre componenti dell’organo di autogoverno e tre magistrati indicati dal Guardasigilli. Nel documento conclusivo dell’indagine compiuta sulle carceri, è lo stesso Csm ad istituire l’organismo che già ha lavorato in precedenti consiliature: perché i problemi sull’esecuzione delle pene vanno affrontati in una “visione globale”. È “la complessiva tenuta del sistema” carcerario che è a rischio, avverte il Csm, segnalando che i problemi riguardano tutta l’Italia e che “la situazione di sovraffollamento ha ulteriormente compromesso la concreta attuazione e tutela dei diritti dei detenuti”. Giustizia: Commissione Senato; gli Opg sono una vergogna, solo Castiglione è in regola Ansa, 28 luglio 2010 Sono ancora tante le carenze degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) italiani. I sopralluoghi effettuati dalla delegazione della Commissione d’inchiesta del Senato sull’efficacia ed efficienza del Ssn in sei strutture hanno riscontrato gravi carenze in cinque di queste. Solo un ospedale, quello di Castiglione delle Stiviere (Mn) è risultato corrispondere agli standard di legge e offrire una sistemazione dignitosa agli internati e al personale. A presentare i risultati di quest’indagine oggi al Senato sono stati Ignazio Marino, presidente della commissione, insieme ai senatori Michele Saccomanno, Daniele Bosone e Donatella Poretti. Gli ospedali esaminati sono stati quelli di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), Aversa (Ce), Napoli, Montelupo Fiorentino (Fi), Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere (Mn). A parte la struttura lombarda, la commissione ha riscontrato gravi carenze in tutti gli altri Opg. Ad esempio a Barcellona mancano psichiatri e psicologi, e a parte un reparto recentemente ristrutturato, in tutti gli altri ambienti le condizioni sono degradanti, con pareti dagli intonaci sporchi e cadenti, finestre con vetri incrinati, macchie di umidità, sporcizia, lenzuola strappate. Il tutto impregnato dall’odore di urina. Ad Aversa i padiglioni in uso sono risultati in pessime condizioni igienico-sanitarie, mentre i due ristrutturati sono inutilizzati per la mancanza del nulla-osta della Asl e del certificato di agibilità. Nell’Opg di Napoli il 40% degli internati è detenuto “in deroga”, come un uomo che a fronte di una misura di 2 anni è lì da 25 anni. Pienamente promosso invece l’Opg di Castiglione delle Stiviere, costruito nel 1990, con stanze e biancheria nuove e pulite, personale motivato, regime di apertura delle celle e possibilità per gli internati di frequentare una scuola interna o vari laboratori di pittura, rilegatura o per fare il pane. Giustizia: Osapp; si stanziano milioni per il piano carceri, ma intanto le casse sono vuote Ansa, 28 luglio 2010 È urgente che il ministro Maroni prenda posizione nei confronti del collega Alfano per quanto riguarda l’opportunità di mantenere nell’attuale posto e con tali deleterie conseguenze il capo del dap Ionta. A chiederlo è Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, l’organizzazione sindacale di polizia penitenziaria, non solo per la situazione carceraria precaria, i continui suicidi e le facili evasioni investono sempre più ragioni di ordine e sicurezza nazionale, ma anche per una “lettera riservata” che l’Osapp rende nota, del provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Piemonte e della Valle d’Aosta, Aldo Fabozzi, inviata ai suoi superiori al ministero della Giustizia. “I fondi assegnati sono in pratica del tutto esauriti e non è possibile garantire nemmeno la manutenzione ordinaria degli impianti di sicurezza con tutte le implicazioni che ciò comporta”, è uno dei passaggi della lettera riportata nel comunicato dell’Osapp. Nella lettera diffusa dal sindacato Fabozzi scrive anche che “con diverse note nel corso degli anni lo scrivente ha evidenziato che la progressiva e costante mancanza di fondi ha come effetto di impedire la programmazione e soprattutto l’esecuzione degli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria con tutte le conseguenze che ciò comporta”. “La missiva è datata 5 luglio - spiega Beneduci - ma ugualmente utile a far comprendere il contesto che devono vivere i provveditorati regionali oggi. Infatti - precisa il sindacalista - non è escluso, anzi siamo certi che il Piemonte sia solo la punta dell’iceberg, cartina di tornasole per quanto sta accadendo in ogni Regione d’Italia; in questo caso Fabozzi ha solo più coraggio di mettere nero su bianco lo stato di grave crisi dei suoi istituti. Qui si crea la situazione paradossale del Dap - afferma Beneduci - e la missiva ne è una prova lampante: si stanziano 671 milioni di euro con il cosiddetto piano carceri, per la costruzione di nuovi istituti e padiglioni e si lasciano le casse vuote per le manutenzioni ordinarie e straordinarie. Lettere: la feroce campagna mediatica sull’indulto e il silenzio sul ddl del Sen. Compagna di Luigi Manconi Il Foglio, 28 luglio 2010 Il senatore Luigi Compagna del Pdl ha presentato una proposta di legge in materia di amnistia e indulto. La cosa non ha scandalizzato alcuno, dal momento che un compatto silenzio ha circondato l’iniziativa, il gruppo del Pdl al Senato ha precisato che si tratta esclusivamente di “una scelta individuale” (ettepareva): e la sola Rita Bernardini ha dato il suo convinto sostegno. Tanto imbarazzo si spiega con una della più singolari vicissitudini parlamentari, quella del provvedimento di indulto del luglio 2006. Una misura che ottenne, come richiesto dall’ordinamento, i voti di ben oltre i due terzi di Camera e Senato e che trovò l’opposizione incondizionata della sola Lega, venne misconosciuta dalla stessa classe politica che l’aveva approvata. Una feroce campagna mediatica fece il resto. E così quel sacrosanto indulto, che pure ebbe molti limiti e che non venne accompagnato da una contestuale amnistia, è diventato uno spauracchio ideologico-emotivo per l’opinione pubblica e una parola semplicemente indicibile per il ceto politico. E invece, quel provvedimento ha avuto effetti congiunturali assai importanti (senza di esso oggi i detenuti raggiungerebbero le 85mila unità: né più né meno che una catastrofe). Ma l’effetto positivo della misura emerge da un altro dato. La recidiva (la reiterazione del reato) tra coloro che scontano interamente la pena all’interno di una cella, senza condoni e senza benefici, oscilla intorno al 68 per cento. Ovvero due volte e mezzo la recidiva registrata tra gli indultati. È uno dei risultati della ricerca che, da quattro anni, conduciamo con Giovanni Torrente a proposito dell’indulto del 2006. L’equazione che se ne può ricavare è inequivocabile: quanto meno la sanzione è coatta e reclusoria, tanto più essa è capace di produrre opportunità di recupero e di riabilitazione. Tanto più quella stessa sanzione è remunerativa sul piano giuridico ed economico. Tutto il resto è Gasparri. Lettere: i detenuti di Brindisi; costretti a vivere senz’acqua e perfino senz’aria www.senzacolonne.it, 28 luglio 2010 Detenuti brindisini in condizioni disumane, senz’acqua e perfino senz’aria. Docce solo due volte alla settimana, bagni senza finestre. Per non dire delle malattie. La denuncia arriva per lettera, su un foglio a quadretti, scritta in corsivo. Sono carcerati ristretti nel penitenziario leccese di Borgo San Nicola che si rivolgono a Senzacolonne per denunciare la loro condizione di persone private sì della libertà e anche del minimo di umanità che non va negata a nessuno, quale che sia la sua colpa. Chi denuncia parla per tanti, è uno solo, preferisce restare anonimo e avrà le sue buone ragioni per non rivelare la propria identità: “Sono un detenuto brindisino della casa circondariale di Lecce, scrivo perché voglio aiutare gli altri. Noi viviamo in condizioni catastrofiche, non pessime, catastrofiche”. I sindacati di polizia continuano ad affermare che il sovraffollamento rende impossibile agli agenti penitenziari di svolgere il proprio lavoro. Ma aggiungono, anche, che i diritti umani delle persone che loro malgrado soggiornano dietro le sbarre vengono continuamente violati. Anche a Lecce, anzi a Lecce come altrove. Nel carcere del capoluogo salentino ci sono tanti brindisini. Si sa bene che la casa circondariale di via Appia non è che un luogo di passaggio. Molti fra coloro che devono scontare pene lunghe soggiornano a Borgo San Nicola. “Non ci fanno fare più le docce tutti i giorni, ma solo due volte a settimana. Il caldo nella cella supera perfino i sessanta gradi. Viviamo in tre in due metri per un metro e mezzo”, scrive l’uomo che non svela il suo nome, elemento questo che ha da far pensare sui rischi che corrono quanti insorgono e chiedono un minimo di dignità. “Non passano i medicinali per la salute umana - aggiunge - siamo tutti contaminati dai funghi di mare e ci vietano le cure adatte, il bagno che c’è in cella è sprovvisto di finestra, c’è l’aspiratore e non lo mettono in funzione. È largo un metro quadrato e vi lascio ben pensare quanto sia disumano vivere in queste condizioni!”. Ma non è solo questo: “Ci chiudono l’acqua dalla mattina alle 8 alla sera alle 20. Non ci danno la possibilità di lavarci in cella”. Non sarebbero solo i detenuti ad essere trattati peggio delle bestie ma anche i loro famigliari: “Nei giorni di colloquio abbiamo chiesto più volte delle bottigliette d’acqua per far rinfrescare e dissetare i nostri cari che con tanto sacrificio, talvolta, vengono a trovarci anche da molto lontano. Anche questo è vietato”. Campania: Commissioni; garantire assistenza sanitaria e tutela psico-fisica dei detenuti Il Velino, 28 luglio 2010 La Commissione permanente Sanità e la Commissione speciale contro il Mobbing della Regione Campania attiveranno un’azione istituzionale sinergica affinché venga garantito il diritto all’assistenza sanitaria e alla tutela psico-fisica dei detenuti delle carceri campane: è quanto è emerso dalla conferenza stampa che, stamani, i vertici del due organismi consiliari, Michele Schiano di Visconti (Pdl) e Anna Petrone (Pd), Donato Pica (Pd) e Angelo Marino (Mpa) hanno tenuto insieme con la Garante dei detenuti della Regione Campania, Adriana Tocco. La Garante dei detenuti ha sottolineato “lo stato drammatico delle carceri in Campania e le difficili condizioni igienico-sanitarie, che privano i detenuti del diritto primario alla salute e alla dignità, ostacolando il percorso rieducativo e il reinserimento sociale del condannato e provocando gesti estremi come i trentanove suicidi dall’inizio dell’anno”; una condizione che è emersa dalle visite ispettive che la dottoressa Tocco ha effettuato nelle diciannove carceri campane. Con la testimonianza di alcuni familiari, la Garante ha descritto le drammatiche condizioni igienico sanitarie dei detenuti delle carceri campane, caratterizzate da un forte affollamento e da gravi ritardi negli interventi di assistenza sanitaria e ha sollecitato la Giunta regionale a garantire l’attuazione della delibera con la quale sono stati stanziati tre milioni di euro per attivare laboratori medici presso le case circondariali. Per la Tocco “occorre che tutte le Istituzioni si facciano carico della problematica dei detenuti, che sono nostri concittadini e hanno diritto alla salute e alla dignità“. Su questo tema si sono soffermati anche il presidente della commissione Antimobbing, Donato Pica, che ha annunciato, per settembre prossimo, un incontro con tutti i parlamentari campani e della commissione Giustizia per affrontare le diverse problematiche del mondo carcerario, il presidente della commissione regionale Sanità, Schiano di Visconti, che, con la commissione, si farà carico di dare risposte concrete per garantire l’assistenza sanitaria ai detenuti, il vice presidente della commissione Antimobbing, Marino, che ha evidenziato “la fondamentale azione portata avanti dagli agenti di Polizia penitenziaria e dai vertici delle carceri per fra fronte ad una situazione esplosiva”, e la vice presidente della commissione regionale Sanità, Anna Petrone, che ha auspicato “la traduzione in fatti delle ottime intenzioni annunciate in conferenza stampa ed una maggiore attenzione delle istituzioni per le fasce deboli”. Lazio: Assessore Cangemi; puntare su reinserimento ed inclusione sociale dei detenuti Asca, 28 luglio 2010 “Un aiuto ai detenuti, agli ex carcerati e alle persone in esecuzione penale esterna, attraverso la definizione di percorsi di reinserimento e inclusione sociale. Un modo concreto per aiutare queste persone a superare condizioni di fragilità, per promuovere e valorizzare le capacità individuali, grazie ad azioni che possano potenziare l’autonomia personale e la fruibilità dei servizi”. È quanto ha dichiarato l’assessore del Lazio agli Enti Locali e Sicurezza Giuseppe Cangemi visitando il Centro “Isola dell’Amore Fraterno” a Roma, struttura che rientra nel circuito di assistenza della San Vincenzo de Paoli, che accoglie ex detenuti, quelli in regime di semilibertà, quelli in attesa di giudizio e quelli che scontano la pena residua. “Sono stato colpito favorevolmente, dal percorso lavorativo che seguono queste persone all’interno del Centro, e dall’impegno che viene profuso nei lavori per esempio di falegnameria, con un piccolo laboratorio di riparazione o realizzazione di mobili e accessori in legno, o come svolgono il lavoro di riparazione e verniciatura di auto nella Carrozzeria realizzata all’interno, ma anche constatare gli ottimi risultati nell’attività di orticoltura con l’impianto di coltivazioni naturali. Tutti esempi - ha proseguito Giuseppe Cangemi - che dimostrano che è possibile indirizzare queste persone verso il reinserimento nella società e civile e, verso il mondo del lavoro”. Calabria: richiesta ad Alfano; dopo suicidio provveditore indagine sul carcere di Cosenza Apcom, 28 luglio 2010 Il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali Leoluca Orlando (Idv) e il deputato Doris Lo Moro (Pd) hanno sottoscritto l’interrogazione depositata oggi da Angela Napoli (Pdl) nella quale, facendo riferimento al suicidio del provveditore all’amministrazione penitenziaria della Calabria Paolo Quattrone, viene chiesto al ministro della Giustizia Angelino Alfano “se non ritenga necessario ed urgente fare avviare un’adeguata indagine sul carcere di Cosenza”. Nell’interrogazione si rileva come “la tragica scomparsa di Quattrone abbia suscitato in Calabria grande commozione”, essendo il provveditore “persona di notevole esperienza nel settore dell’amministrazione penitenziaria, amava molto il suo lavoro ed aveva sempre svolto la propria funzione per rendere meno disumano il carcere, introducendo il lavoro e la formazione di figure professionali in alcune strutture penitenziarie”. L’ufficio di presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta ha deliberato oggi di recarsi in missione a Reggio Calabria e visitare la struttura penitenziaria di Laureana di Borrello, una struttura moderna, evoluta e realizzata proprio grazie all’impegno del provveditore Quattrone. Il sopralluogo rientra nell’ambito di un programma di visite nelle carceri italiane previsto dal filone d’indagine sulle condizioni di vita e di salute dei detenuti. Torino: bambini che pagano le “colpe” delle madri… voci tristi dal carcere Redattore Sociale, 28 luglio 2010 Dalla Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino le storie di una donna romena e una giovane nigeriana, costrette in cella con i propri bambini. “Spesso mio figlio si avvicina al cancello e mi chiede di uscire”. L’aria è calda nella sezione femminile della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino. Il termometro ha raggiunto i 34 gradi e non si respira. Le due mamme arrivano da paesi differenti, ma hanno lo stesso sguardo. Sono giovani entrambe, una ha con sé il proprio bambino, l’altra è scesa, nella saletta dove abbiamo il colloquio, da sola. Una è romena, l’altra nigeriana. La ragazza dell’est ha in braccio il suo bimbo, che come un gatto cerca tutto il tempo di divincolarsi. Dicono che per un piccolo di quell’età crescere in un ambiente come il carcere gli pregiudicherà tutta la vita. Nel “nido”, gli ambienti vogliono essere meno duri, più aperti, meno simili a un carcere, ma tanti elementi portano a non farlo credere: la mancanza di figure maschili, la costante restrizione, la vista delle sbarre, l’ambiente innaturale e angusto. “Lui è nato in carcere, ha un anno e mezzo”, racconta la mamma romena, indicando il suo bambino. La donna ha 34 anni, fuori ha altre tre figlie di 14, 12 e 7 anni. Racconta che la vita quotidiana lì è dura: i bimbi vanno all’asilo, sono portati all’esterno da assistenti volontari, “altrimenti con l’aria di 2 ore al giorno non si possono divertire”. La loro giornata è routine: si svegliano, fanno colazione, la doccia, vengono vestiti e vanno fuori, al parco, nei giardini, tornano alla mezza, mangiano e dormono, alle tre vanno all’aria poi in sala giochi, le mamme stanno con loro, alle otto la cena. Chiediamo alle madri se possono partecipare alle attività della casa circondariale: “Possono lavorare, ma qui a Torino no. A Roma ci sono puericultrici che tengono i piccoli e le mamme lavorano. Qua, per noi, non c’è niente” . Il carcere, dicono tutte, non è un posto adatto ai bambini: non c’è spazio, è tutto in ferro. “Letti in ferro dove sbattono. Si vedono chiusi, si sentono chiusi. In Romania non c’è un carcere per bambini, si va agli arresti, o si va in una comunità, il piccolo rimane in custodia dal papà. Per i bambini le leggi sono diverse: comunque non entrano in carcere”. Le suore e i volontari sono un grande aiuto per le mamme: portano fuori i piccoli, li fanno giocare. Ma non è sufficiente. La ragazza nigeriana ha 29 anni, lo sguardo triste e angosciato. Anche la voce è trascinata, il suo italiano misto all’inglese rivela il suo smarrimento. Il suo bambino ha 8 mesi, è in carcere da maggio: è entrato con lei. Non le piace il posto. In Nigeria non mettono in carcere i bambini, racconta, o meglio non si finisce in carcere per il reato da lei commesso, “documenti” , dice. “Voglio andare a casa, non mi piace qua. Mio figlio non mangia bene: solo pasta e focaccina. Sempre stesso tipo di frutta. Non ho fatto niente di male per stare qua”. “Quando l’agente chiude la cella, la sera, mio figlio dice “no, no, no”. Questo non va bene, non mi piace. Non è che scappo se non chiudi la cella, ma le regole sono regole”. Che è dura si vede: e che i figli paghino per i peccati delle loro madri, sembra a tutti evidente. È un fardello pesante… “Spesso mio figlio si avvicina al cancello - interviene ancora la giovane rumena - e mi chiede di uscire: il mattino è più agitato, quando vede la porta chiusa vuole andar via. Non è facile per lui, perché già sa che starà chiuso. Penso che sentano: i bambini lo sanno, anche quando vengono a fare i colloqui sanno che poi devono rientrare… Mio figlio magari rimane con il trauma per tutta le vita se vede un poliziotto. Cresce col trauma. I piccoli pagano per noi: abbiamo sbagliato noi, non loro. Non devono essere qua; un conto è chi fa bambini per andare a rubare, un conto è chi sbaglia e può darsi che non sbaglia più”. Mamme detenute, “si fanno forza con il bimbo che portano con sé” “Qui ci sono spesso mamme rom che risiedono nei vari campi (strada Aeroporto, Collegno) e poi nomadi romene che arrivano dal loro paese o comunque dall’estero”. A raccontare le storie del nido della casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino è Maria Franchitti, educatrice, da quasi vent’anni impegnata nel lavoro con il femminile. “A fine 2009, erano 15 le mamme con bimbi in carcere. L’entità delle presenze è una situazione anomala: in alcuni momenti diminuiscono, in altri aumentano di colpo, magari perché c’è sfollamento da altri istituti, per esempio da Rebibbia”. Ma esiste una tipologia di reato più frequente, chiediamo all’educatrice: “Detenute madri, soprattutto le rom, commettono molti furti e molte rapine- spiega - difficile che commettano altra tipologia di reato. È ricorrente nella loro cultura: l’accattonaggio per donne e minori”. Viene da pensare che se le donne si portano il bambino in carcere non abbiano una adeguata rete parentale all’esterno o che non la possiedano proprio, ma Franchitti aggiunge: “Ce l’hanno, a volte, ma si fanno forza con questo bimbo che si portano con sé”. Nel giorno del compimento del 3 anno di età, il bambino viene fatto uscire definitivamente dal carcere: “Ho assistito a vari distacchi e sono sempre molto penosi. Cerchiamo di preparare le donne a questo momento e di presenziare con più figure professionali che possano essere di aiuto in un frangente così drammatico. Oltre al momento in sé, spesso c’è l’angoscia di non sapere quale sviluppo potrà avere il futuro di una relazione genitoriale già messa a dura prova”. Quali prospettive ci sono per limitare questo dramma? “I primi anni di vita sono fondamentali, ed è per questo che è necessaria una struttura diversa dal carcere, senza inferriate, ma con sistemi di protezione che non consentano l’evasione. La struttura a cui si sta pensando è a custodia attenuata. Il personale non avrà divisa, e pur mantenendo le regole di un carcere, renderà più agevole la vita delle mamme e dei loro bambini”. Un nido tra le sbarre: a Torino le mamme detenute avranno una nuova “casa” Nella casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino è previsto un apposito padiglione della sezione femminile per i bambini fino a 3 anni detenuti con le madri. “Una sezione ordinaria che è stata modificata nei colori, dove sono stati aperti varchi in modo da ricavare degli spazi”, spiega il direttore Pietro Buffa. Restano blindi e cancellate e, anche se i muri sono verniciati con colori il più possibile vivaci per rendere l´ambiente più accogliente e l´arredo non è quello standard delle celle, (ci sono ad esempio i lettini per bambini) si è pur sempre all´interno di un padiglione detentivo femminile. “Da qualche tempo a questa parte, sulla base di una sensibilità più generale rispetto alla questione dei bambini in carcere - racconta il direttore - sono nati dei movimenti d’opinione in merito. A Milano si è avuta una prima sperimentazione, approfittando della disponibilità della provincia, che ha lasciato all’amministrazione una struttura da utilizzare. L’idea è stata quella di costituire un settore che pur occupandosi della detenzione delle mamme, fosse il più distante possibile come architettura, da uno stabilimento carcerario”. Due sono le esigenze: una vita che abbia un senso anche per i bambini e un sistema di sicurezza adeguato. Esigenze non semplici da coniugare: “Perché - sottolinea Buffa - è pur vero che una porta va messa”. A Torino comunque, qualcosa bolle in pentola: “La soluzione si è prospettata quando l´amministrazione penitenziaria ha ottenuto dal demanio, e poi dal comune, diverse decine di alloggi per il personale. Si è quindi verificato lo sgombero della casa demaniale, adiacente al plesso penitenziario, ma fuori dal muro di cinta. Una palazzina che servirà ai semiliberi, mentre l’ultimo piano potrebbe essere adibito a “settore nido”, per ospitare una custodia attenuata per mamme detenute insieme ai figli”. Il modello è l’Icam di Milano. “Ci sono lavori da fare, ma non si tratta solo un problema di ristrutturazione; non si tratta solo di costruire muri, ma è cosa metti dentro che fa la differenza. Per quanto riguarda i muri, e questo è lo stato dell´arte, stiamo lavorando al progetto di richiesta di fondi alla Cassa delle Ammende: tre tranche di finanziamenti di 50mila euro per le parti giorno, notte e ristrutturazione di un prato (non giardino), per i bimbi”. La richiesta di 150 mila euro non è però sufficiente in sé: la struttura infatti dovrebbe essere pensata in modo da richiamare una casa, una comunità”. Con delle attività: “Al momento vi sono quelle tradizionali: ad occuparsi delle donne vi sono le suore, i volontari di telefono azzurro, Stella Stellina del Comune che anche continuerebbe a lavorare con noi per fare uscire i bambini, aiutando le mamme per parte della giornata”. A venire incontro al progetto, Ikea, che ha dato già ampia disponibilità ad arredare la struttura; il Comune di Torino che regalerà le piante per il giardino. E poi, fondazioni e associazioni , finanziatori privati disposti a coprire sia la parte che ancora rimane che quella progettuale. Il personale da impiegare sarebbe quello già esistente”. Il numero delle mamme detenute varia: si va da un minimo di 1 o 2 bambini a un massimo di 10-15 in contemporanea e i periodi di permanenza sono molto variabili. Il calcolo per la struttura nuova è di circa 14 posti mamma-bambino, considerato che alcune donne potrebbero avere 2 figli da tenere con sé. La provenienza? Le mamme sono mediamente più straniere che italiane: nigeriane o comunque africane, slave, qualche italiana, non moltissime, poche - se non rare - le arabe. I reati? “I più diversi: droga, furti e così via”. Per quanto riguarda invece i tempi per la realizzazione del progetto torinese: “Dopo il finanziamento, partiranno i lavori, e se tutto va per il verso giusto, nella primavera del 2011 dovremmo essere pronti”. (rs) Cuneo: Osapp; all’interno delle carceri condizioni gravissime, per tutti www.targatocn.it, 28 luglio 2010 Gerardo Romano, Segretario Regionale Osapp Piemonte e Valle d’Aosta, non usa mezzi termini per descrivere la situazione delle carceri piemontesi e cuneesi. Le 4 strutture penitenziarie locali non sono immuni da problematiche, anzi, vivono la stessa preoccupante realtà di quelle italiane. “Non siamo nemmeno più alla frutta, ma al torsolo. Le condizioni umane sono gravissime per tutti. L’organico poi è inalterato dal 1992, da 18 anni non vi sono assunzioni ma solo turnover. Nonostante la promessa del Ministro della Giustizia di 2.000 agenti in più, non c’è traccia di questo nella manovra finanziaria, solo aria fritta!” Sulla descrizione delle condizioni dietro le sbarre il capitolo potrebbe essere lunghissimo: “Sovraffollamento, carenza di mezzi per i trasferimenti dei detenuti, malattie da stress degli agenti, ma anche mancanza di climatizzatori e condizioni igieniche da terzo mondo. In sostanza è una vita d’inferno! Inoltre ogni poliziotto ha in custodia dai 70 ai 120 carcerati” continua Romano. Quando proviamo a domandargli della nuova ala del carcere di Cuneo, Romano afferma: “Vox populi dice che sarà pronta per settembre” ma, aggiungiamo noi, alla luce di quanto appreso, con quali agenti, posto che i carcerati non mancheranno? “La situazione è destinata a precipitare, siamo sull’orlo del baratro. Basti pensare che il personale addirittura è obbligato ad espletare servizio straordinario con il risultato che non viene pagato perché il taglio dello straordinario è arrivato al 30%”. Martedì è anche intervenuto il Consiglio Superiore della Magistratura, a seguito di un’indagine sulle carceri che ha compiuto ascoltando i presidenti dei tribunali di sorveglianza: “Èassai allarmante la situazione nelle carceri: il drammatico sovraffollamento non solo ha ulteriormente compromesso la concreta attuazione dei diritti dei detenuti, ma sta determinando gravi ripercussioni anche sulla tutela della salute dei detenuti e sull’effettivo svolgimento di attività rieducative e socializzanti”. “A rischio è la complessiva tenuta del sistema” avverte il Csm, visto che il problema del sovraffollamento riguarda le carceri di tutta Italia, e non risparmia nessuna zona del Paese. Tra gli ultimi episodi occorsi nelle carceri quello di lunedì quando un detenuto non italiano, recluso nella casa circondariale di Biella, ha cercato di impiccarsi in cella con un lenzuolo. Gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno visto in tempo, riuscendo a bloccarlo. Lo ha denunciato l’Osapp, segreteria provinciale di Biella. Nello stesso carcere quattro giorni fa un altro detenuto, ristretto in isolamento, ha devastato la propria cella. Oltre a rompere oggetti e suppellettili avrebbe spaccato il lavandino e lanciato i pezzi contro alcuni agenti. Nessuno è rimasto ferito. Il detenuto era stato da poco trasferito dal carcere di Saluzzo per aver aggredito un agente a cui erano stati diagnosticati 10 giorni di prognosi. Dopo l’episodio dei giorni scorsi, è stato nuovamente trasferito in un altro istituto piemontese. Intanto è di 4 giorni fa la denuncia di un suicidio nel carcere di Catania, di un giorno fa quello di un altro suicidio a Siracusa dove Corrado Liotta, 44 anni, in attesa di giudizio, si è tolto la vita impiccandosi alle sbarre. Da inizio 2010 sono saliti a 39 i detenuti che si sono suicidati nei penitenziari italiani. Il bilancio è dell’Osservatorio sulle morti in carcere. Il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause da accertare arriva a 109. Numerosi sono i suicidi sventati dagli agenti, per non contare gli eventi pericolosi che si verificano nelle carceri dovuti alle condizioni incerte delle stesse strutture, non ultime le evasioni. Come successo a Pisa. Asti: protestano i detenuti in Alta sicurezza; sciopero fame e sete contro sovraffollamento Apcom, 28 luglio 2010 Da ieri pomeriggio i 51 detenuti, classificati Alta Sicurezza, ristretti nella sezione 3 B della carcere di Asti hanno cominciato una rumorosa protesta: ad orari prestabiliti, battono le stoviglie sulle grate e sui cancelli delle celle. Hanno, inoltre, comunicato l’intenzione di voler intraprendere uno sciopero della fame e della sete e da ieri sera hanno riposto al di fuori delle celle i generi alimentari. La protesta, spiegano, è contro il sovraffollamento delle celle, ma i detenuti contestano anche l’applicazione nei loro confronti dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Lo rende noto il vice segretario regionale della Uil Pa Penitenziari Piemonte Orazio Malatesta: nelle celle, originariamente destinate ad ospitare un solo detenuto, attualmente se ne trovano due ed in qualche caso anche tre. “È molto probabile che a questa protesta possano aderire anche i 58 detenuti ristretti nell’altra sezione Alta sicurezza, la 3 A - spiega Malatesta - si tratta prevalentemente di detenuti la cui appartenenza ad associazioni criminali di stampo mafioso, camorrista o ‘ndranghetista ha determinato la specifica classificazione di Alta Sicurezza”. Bollate (Mi): la testimonianza di un detenuto; un cane abbandonato mi ha ridato speranza Affari Italiani, 28 luglio 2010 Mi chiamo Marcello ho 37 anni e da circa 10 mesi sono detenuto fra i carceri di Monza e Bollate. Da 7 anni vivo in un appartamento con una cagnolina di razza barboncino e, uno dei miei pensieri dal giorno della mia detenzione è, come farò senza averla accanto? Tutto cominciò nel 2003 quando uscii dalla mia prima carcerazione, ero disperato perché non avevo più una famiglia, un lavoro, una fidanzata e, come se non bastasse, non avevo più neanche un euro, avevo perso la speranza di ricostruirmi un futuro. Non avevo stimoli di nessun tipo ma, un bel giorno camminando per le strade del mio quartiere trovai un cane, mal ridotto e denutrito, fu un colpo di fulmine credetemi, ci guardammo dritto negli occhi e capimmo entrambi che avevamo bisogno l’uno dell’altro, cosi lo presi e lo portai subito da un veterinario che dopo qualche puntura mi disse ecco: il suo cane è pronto. Non era il mio cane però l’idea mi piacque, così lo portai a casa e mi trovai da un giorno all’altro a dividere il mio appartamento con un cane. Da quel giorno improvvisamente la mia vita cambiò, perché era fantastico svegliarsi e trovarsi davanti questo cane che scodinzolava, come per dirmi cosa facciamo e dove andiamo? Così la portai in compagnia affinché tutti vedessero che amore è, la chiamai Bijou, perché è un bijou, diventammo inseparabili; così mi cercai un lavoro per darci un futuro senza farci mancare niente e come se non bastasse, mi trovai anche una fidanzata per darle anche una “mamma”. Nel giro di 15 giorni la mia vita aveva ritrovato un senso e tutto, grazie a quel cane. Era troppo bello per essere vero, infatti, un giorno, andammo al parco a giocare con la pallina e la mia Bijou fu attaccata da un pit-bull che con un morso alla testa la rese in fin di vita. Fu una tragedia, rimase quasi un mese in una clinica, attaccata alle flebo e sottoposta a tre operazioni. Per tenerla in vita spesi tutti i soldi che avevo, fino all’ultimo centesimo. Giurai che se moriva lei dovevo morire anch’io e lo avrei fatto. Mi dividevo giorno e notte fra lavoro, casa e clinica, fino al giorno in cui i dottori mi dissero che fu solo ed esclusivamente l’amore del suo padrone a tenerla in vita. Risultato: rimase cieca totalmente e da quel giorno lei è la mia ragione di vita. La sogno tutte le notti e ne parlo tutti i giorni con i miei compagni di cella. Adesso è accudita da mio fratello e mia cognata che le danno tanto amore al punto di dirmi, scherzando, che il giorno che uscirò non si faranno più trovare perché si sono innamorati anche loro. Ciò che mi fa rabbia è che non vorrei che la mia Bijou pensasse che la persona che le ha ridato la speranza di una vita migliore l’abbia abbandonata proprio nel momento della sua disgrazia. Ma io come faccio a spiegare a un cane che l’amo più della mia vita, quando non ho neanche la possibilità di vederla? Avrei una proposta da esporvi: potremmo pensare di approntare un canile sia come pensione che come rifugio per gli animali abbandonati. Sassari: il lavoro dentro e “fuori”; il progetto “In sicurezza” e le storie dei detenuti L’Unione Sarda, 28 luglio 2010 In carcere si lavora: a turno, con contratti a tempo determinato, ma si lavora. E anche in questo luogo così particolare valgono le norme di sicurezza esterne perché la posizione del carcere è assimilabile a quella di un qualsiasi datore di lavoro. Le leggi e gli standard di prevenzione vanno quindi conosciuti, i contratti anche. Per questo è stato realizzato nella casa circondariale un progetto destinato a detenuti in carcere e in semilibertà che un lavoro lo hanno trovato fuori dalle mura. Si chiama “In sicurezza” il percorso di formazione e informazione sui temi del lavoro e legalità, è stato realizzato con la collaborazione della direzione Provinciale del Lavoro, l’Inail, l’Ance-Cpt-Scuola Edile del nord Sardegna. In tutto otto ore, divise in due giorni di corso, in cui i professionisti dell’Ispettorato del lavoro hanno spiegato i dettagli di un contratto e la prevenzione degli incidenti sul lavoro, fuori e dentro il carcere. Questa mattina all’interno del San Sebastiano sono stati illustrati i dettagli del progetto e tre detenuti - lavoratori in semilibertà hanno parlato dell’esperienza. A loro è stato consegnato un attestato di Prima formazione, spendibile anche nel mondo del lavoro. Parla la dottoressa Virginia Melis, la responsabile della prevenzione Inail che ha tenuto il corso: “Ho riscontrato un interesse particolare soprattutto per la differenza tra la malattia professionale e l’infortunio, ad esempio. Un’esperienza da ripetere, speriamo che sia solo l’inizio di un percorso che deve continuare”. Il lavoro dentro. Spiega Teresa Mascolo, direttrice della casa circondariale: “La parte del corso riservata ai detenuti nella casa circondariale ha coinvolto 15 persone, tra loro chi lavora all’interno del carcere in posizioni più a rischio”. Si tratta di mansioni utili alla vita interna: lavori edili, lavanderia e pulizia. In tutto sono circa 38 - 40 i detenuti-lavoratori della sezione maschile, 4 le donne il cui lavoro viene regolarmente retribuito. Anche se aggiunge Maria Paola Soru, Responsabile dell’area educativa: “Il lavoro è poco. Ci piacerebbe darlo a tutti”. Tra le novità sottolineate il coinvolgimento anche di sei agenti penitenziari che in concreto coordinano il lavoro in carcere. Il lavoro fuori. Un’altra tipologia di corso è stata dedicata ai detenuti in semilibertà. I formatori a loro hanno parlato anche di microcredito, di infortunio e di argomenti inerenti all’imprenditoria. Si chiamano Angelo, Antonello e Pasquale i tre presenti che hanno un lavoro esterno, due in proprio. E in carcere hanno trovato tramite conoscenti hanno trovato un impiego. Antonello ha una pizzeria: esce alle sei di mattina, fa il catering per i bar, ha una pausa di pomeriggio e riprende fino alle 22, ora in cui lascia l’esercizio a una persona di fiducia per tornare a dormire in carcere. Frosinone: detenuto tenta il suicidio, salvato in extremis è ricoverato in gravi condizioni Adnkronos, 28 luglio 2010 Ieri pomeriggio un detenuto del carcere di Frosinone ha tentato di suicidarsi: approfittando della distrazione del proprio compagno di cella ha legato alle sbarre della finestra i lacci delle scarpe usandoli come cappio. Solo il tempestivo intervento di un agente di sorveglianza gli ha salvato la vita. Il detenuto è stato ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale di Frosinone dove si trova tutt’ora nel reparto di terapia intensiva. Lo riferisce il segretario regionale della Uil Pa Penitenziari, Daniele Nicastrini, sottolineando come quello di ieri sia il terzo tentativo di suicidio sventato dalla polizia penitenziaria di Frosinone nel giro di due settimane. Sono, invece, 72 i suicidi sventati in cella dalla polizia penitenziaria dal primo gennaio ad oggi, sull’intero territorio nazionale. “Occorre dare atto al personale di Frosinone - afferma Nicastrini - di aver impedito, con tempestivi interventi, nel giro di poco più di 15 giorni a tre detenuti di portare alle estreme conseguenze i loro insani gestì. Ciò nonostante - aggiunge - si sia costretti a lavorare in sotto organico. Evidentemente la professionalità e l’esperienza dei nostri colleghi sopperisce alle lacune degli organici. È del tutto evidente, però, che nel personale ogni giorno si assottigliano le riserve di energie psico-fisiche ed ogni giorno aumentano la frustrazione e la demotivazione per dover lavorare in condizioni oggettivamente penalizzanti. L’istituto continua ad essere sovraffollato con la presenza di oltre 510 detenuti a fronte di una ricettività pari a 315”. Il prossimo 3 Agosto una delegazione della Uil Pa Penitenziari visiterà il carcere di Frosinone. Il comunicato del Garante dei detenuti Un detenuto romeno di trent’anni, D.V. ha tentato di togliersi la vita impiccandosi, con lacci e lenzuola, alle sbarre della sua cella. Soccorso da compagni di cella e dagli agenti di polizia penitenziaria l’uomo è stato ricoverato, in gravi condizioni, all’ospedale del capoluogo ciociaro. L’episodio - avvenuto ieri pomeriggio - è stato reso noto dal Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. A quanto appreso dai collaboratori del Garante, l’uomo era un “nuovo giunto”, essendo arrivato in carcere a Frosinone sabato scorso (24 luglio). Ieri, sembra dopo aver sostenuto l’interrogatorio di garanzia davanti al magistrato, è tornato nella sua cella e, approfittando di un momento in cui era da solo, si è impiccato alle sbarre della cella. Ad accorgersi di quanto accaduto il compagno di cella che ha subito dato l’allarme. Ggli agenti di polizia penitenziaria accorsi hanno immediatamente praticato il massaggio cardiaco prima che un’ambulanza del 118 lo trasferisse in ospedale. L’uomo, che non ha ancora ripreso conoscenza, è ricoverato in gravi condizioni nel reparto rianimazione dell’ospedale del capoluogo ciociaro. Nel carcere di Frosinone, a fronte di una capienza regolamentare di 325 posti, sono attualmente reclusi 516 detenuti. "Al di là dei motivi personali che hanno spinto quest’uomo a compiere un gesto così tragico - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni – l’episodio conferma il clima di precarietà e di tensione che si respira nelle carceri della regione, sovraffollate oltre ogni il limite. Al sovraffollamento, alla fatiscenza della strutture, alle carenze di risorse economiche ed umane si aggiungono anche le difficoltà tipiche del periodo estivo, con il caldo e la riduzione delle attività di socializzazione e supporto. Non mi stancherò mai di denunciare che, dopo episodi come questo che ormai si susseguono in ogni parte d’Italia, e i continui allarmi lanciati da chi vive ogni giorno il carcere, è necessario riflettere su un sistema che sta diventando sempre più un’emergenza sociale". Roma: all’Ipm di Casal del Marmo al via corsi di italiano per minori stranieri Dire, 28 luglio 2010 “Anche quest’anno l’assessorato alle Politiche della Scuola della Provincia di Roma ha voluto rispondere alle esigenze esposte dal Dipartimento di Giustizia minorile e agire a sostegno dei minori ristretti nella struttura penale di Casal del Marmo, organizzando corsi di lingua italiana per stranieri svolti dall’Università Popolare di Roma (Upter) all’interno dello stesso istituto. L’intervento è diretto a sopperire alla mancanza di attività formative all’interno del carcere durante il periodo estivo”. È quanto si legge in una nota dell’ufficio stampa della Provincia di Roma. “Abbiamo deciso di intervenire - spiega l’assessore provinciale alle Politiche della Scuola, Paola Rita Stella - tenendo conto dei buoni risultati che l’iniziativa ha portato in questi anni. I corsi tengono occupati i ragazzi nel periodo più difficile dell’anno e consentono loro di migliorare l’uso della nostra lingua. In questo modo, una volta usciti dall’istituto, potranno inserirsi con più facilità nella società e avranno più possibilità di trovare lavoro”. Milano: Sappe, sventato un clamoroso tentativo di evasione dall’Ipm Beccaria Agi, 28 luglio 2010 “È solo grazie alla professionalità, alle capacità ed all’attenzione del Personale di Polizia Penitenziaria che al carcere minorile “C. Beccaria” di Milano è stato sventato ieri un clamoroso tentativo di evasione da parte di due giovani detenuti. I due, durante l’attività in piscina (adiacente ad un cantiere per lavori interni di ristrutturazione), sono saliti sulle impalcature presenti per i lavori ed hanno scavalcato addirittura il muto di cinta. Sono però stati immediatamente fermati dai nostri bravi Agenti di Polizia Penitenziaria, intervenuti tempestivamente. Bravissimi i colleghi di Milano, che lavorano costantemente in condizioni difficili. Questo grave episodio conferma ancora una volta le gravi criticità del sistema carcere”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, l’organizzazione dei Baschi Azzurri, in relazione a quanto avvenuto ieri nel carcere minorile di Milano. “La situazione delle carceri in Italia è drammatica - prosegue Capece - a causa del sovraffollamento, dovuto ad una costante crescita dei detenuti che dall’inizio del 2009 sono aumentati di oltre 10.000 unità, mentre il personale di Polizia penitenziaria continua a diminuire di circa 1.000 unità all’anno, tant’è che allo stato attuale mancano oltre 6.000 agenti rispetto alle piante organiche previste dal decreto ministeriale del 2001. Non sono esenti da questi gravi problemi le strutture detentive per minori. Più volte è stato segnalato dal Sappe alla Direzione Generale dei Detenuti del Dipartimento Giustizia Minorile e alla Direzione del Centro Giustizia Minorile di Milano la grave situazione del Beccaria legata al pesante sovraffollamento, con continue risse tra detenuti in cui spesso sono stati coinvolti anche gli agenti. È mancato un adeguato piano di sfollamento della struttura, considerato che la capienza attuale è assolutamente incompatibile con le condizioni di lavoro del Personale di Polizia. Ma ora bisogna assolutamente isolare la palazzina interna al carcere destinata ai lavori di ristrutturazione e la zona cantiere e sospendere immediatamente l’attività di piscina, che può essere motivo di iniziative simili da parte di altri detenuti presenti all’interno dell’Istituto”. Giappone: ritorna la pena morte; impiccati due detenuti, dopo un anno di “moratoria” Apcom, 28 luglio 2010 Due condannati a morte per omicidio sono stati giustiziati per impiccagione oggi in Giappone: si tratta delle prime esecuzioni dall’arrivo al potere del Parte Democratico del Giappone (Pdj, centro-sinistra), nel settembre 2009. Uno dei due condannati, Kazuo Shinozawa, 59 anni, aveva ucciso sei persone, appiccando il fuoco a una gioielleria a nord-est di Tokio, mentre l’altro, Hidenori Ogata, 33 anni, avevano ucciso e ferito quattro persone nel nord della capitale, hanno precisato oggi gli organi di stampa locali. Le ultime esecuzioni per impiccagione avevano avuto luogo un anno fa, quando il governo era ancora guidato dai conservatori del Partito Liberal-Democratico. L’attuale partito di maggioranza non aveva espressamente annunciato una moratoria sulle esecuzioni, ma il ministro della Giustizia Keiko Chiba fino ad oggi non aveva mai concesso alcuna autorizzazione alle esecuzioni in ragione della sua personale opposizione alla pena capitale. Chiba, di professione avvocato, ha dichiarato di avere assistito personalmente alle esecuzioni di oggi.