Giustizia: strage silenziosa nelle carceri, nessuno approfondisce e nessuno carca soluzioni La Repubblica, 26 luglio 2010 È il settimo suicidio tra le sbarre in Sicilia, il trentottesimo in Italia, il secondo in meno di un mese nel carcere di Bicocca, a Catania. Una strage silenziosa nelle carceri strapiene dell’ Isola. Ieri a togliersi la vita è stato Andrea Corallo, 45 anni. Ha utilizzato un metodo inusuale: si è sgozzato con una lametta da barba recidendosi la carotide. È il primo suicidio con queste modalità, le statistiche rivelano che da gennaio sono stati 32 gli impiccati e 5 gli asfissiati. Il 14 giugno scorso un ex detenuto al regime di 41bis, Antonio Gaetano Di Marco, di 35 anni, si era tolto la vita soffocandosi con una busta di plastica riempita del gas del suo fornellino. Sovraffollamento delle celle, mancanza di psicologi e di poliziotti penitenziari. Sono le tre cause, secondo i sindacati, che determinano l’ aumento dei casi di suicidio. Proprio Bicocca è una delle carceri più sovraffollate della Sicilia. Dovrebbe accogliere 256 detenuti, ma (dato aggiornato al primo luglio) ne ospita 272. Corallo era stato arrestato il 16 aprile del 2008 assieme ad altre sette persone, nel Ragusano, nell’ ambito di un’ operazione antiracket coordinata dalla Dda di Catania. Sul suicidio, la Procura etnea ha aperto un’ inchiesta e ha disposto l’ autopsia sul detenuto. Il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause da accertare arriva a 105 (negli ultimi 10 anni i “morti di carcere” sono stati 1.703, di cui 594 per suicidio). Il dato è stato diffuso dall’ Osservatorio permanente sulle morti in carcere. Nei primi sette mesi del 2009 (anno che ha fatto registrare il record storico di suicidi in carcere con 72 casi), il numero dei detenuti suicidi era attestato a 31, quindi 7 in meno rispetto a quest’ anno. “Un trend negativo che, a meno di clamorose inversioni, - fa notare l’ Osservatorio - a fine anno produrrà un numero di decessi in carcere mai visto, né immaginabile fino a pochi anni fa: a titolo di esempio nel 2007 i suicidi furono 45, l’ anno successivo 46, ma oggi i numeri sono quasi raddoppiati”. Ieri, a dare comunicazione dell’ ennesimo morto in carcere è stato il segretario generale della Uilpa penitenziari, Eugenio Sarno, che sottolinea: “Abbiamo la sensazione che nemmeno questa strage scuota dal torpore una classe politica che ha, evidentemente, accantonato la questione penitenziaria. Nelle nostre galere si continua a morire”. Il 29 giugno a togliersi la vita era stato un carcerato a Giarre. Si era impiccato con i manici di una borsa frigorifero. “Il nostro ufficio, da questo momento in poi - dice Salvo Fleres, senatore Pdl e Garante per i diritti dei detenuti - valuterà la possibilità di costituirsi parte civile, contro gli eventuali responsabili di questi tragici fatti e degli altri episodi di violenza che, quotidianamente, si verificano in tutte le carceri”. Ma nelle carceri a morire sarebbero anche i poliziotti penitenziari e i dirigenti. “Sono quattro gli agenti - continua Sarno - ed un dirigente generale che si sono suicidati nell’ ultimo periodo. È forse il caso di approfondire ed investigare? Noi diremmo anche di risolvere”. Giustizia: le carceri, i suicidi l’indifferenza di tanti e Alfano che non vede di Saverio Lodato L’Unità, 26 luglio 2010 Camilleri, dall’inizio dell’anno nelle carceri, e nel più spaventoso disinteresse, quasi 40 detenuti si sono tolti la vita. Per l’Associazione Ristretti Orizzonti, dal ‘60 ad oggi, l’incremento dei suicidi è del 300%. Statistica da brivido che il ministero della Giustizia non commenta. Il cappio al collo è consuetudine. Da Roma a Siracusa, da Milano a Ragusa, da Torino a Lamezia Terme, da Padova a Piacenza a Reggio Emilia, da Varese a Como, da Brescia a Venezia a Ancona a Frosinone, si moltiplicano i casi di autolesionismo estremo. I suicidi non hanno nulla in comune. Uno era ergastolano. Uno sarebbe uscito per buona condotta. Uno si è impiccato poco prima di tornare in libertà. Uno perché lo stavano estradando. Uno era Rom. Uno napoletano. Uno albanese. Tutti sanno che in questo momento nelle carceri sono rinchiuse 68.000 persone ma che la capienza prevista è di un massimo di 43.000. Ad appesantire il bilancio nero, una cinquantina di casi in cui gli agenti hanno evitato il tragico epilogo. Cosa non si è detto e scritto sulle carceri italiane. Che erano poche, e ne andavano costruite altre. Che erano troppe, e bisognava depenalizzare. Spalancare le porte o buttare la chiave? E ora? Riprenderanno le visite dei parlamentari di ogni colore. Non crede? Risponde Andrea Camilleri Mi pare che alla notizia del suicidio di un detenuto, uno dei tanti, alcuni giornali abbiano riportato il nobile commento di un deputato della Lega: “uno di meno”. Poteva un leghista smentirsi? Naturalmente ci sono state le solite sdegnate reazioni, si è ripetuto insomma quello stanco rituale tutto italiano di accuse e controaccuse destinato a finire come una bolla di sapone. Perché il problema delle carceri in Italia non è stato seriamente affrontato da nessun governo. E certo non può essere risolto in modo definitivo con sfoltimenti momentanei dovuti ad amnistie, indulti, depenalizzazioni che, tra l’altro, hanno troppe controindicazioni. Il fatto certo è che mentre le carceri scoppiano, manca la volontà politica di porvi rimedio. Si ricorda, caro Lodato, che il ministro Alfano, tra un lodo e l’altro, aveva sbandierato tempo addietro un suo piano-carceri? Mi sa dire dov’è andato a finire? E qui c’è da chiedersi il perché di questa non volontà. L’opinione pubblica, ammesso che esista, si dimostra poco interessata al problema. Agli italiani, so di dire una spiacevole verità, importa sempre meno delle difficoltà altrui, la loro sensibilità negli ultimi decenni si è molto appannata. Fatte le dovute eccezioni, naturalmente. Non si sono ribellati alla disumana legge sui respingimenti indiscriminati, alla legge che fa dell’emigrato clandestino un reo, figurati quanto gliene importa se in cella si sta un po’ strettini. Da parte loro, i politici si sentono al sicuro: a forza di leggine, norme, regolamenti, non si darà che rarissimamente il caso che uno di loro vada a finire dietro le sbarre. Sono sempre così decisi a far quadrato davanti alle richieste della magistratura, così granitici nella difesa della casta da far invidia al sindacato del tempo di Di Vittorio. Ora mi chiedo: quando una cella che potrebbe contenere al massimo quattro detenuti ne contiene otto, viverci dentro minuto dietro minuto per mesi e mesi e anni e anni, non diventa impresa disumana? Siamo così attenti che gli animali degli zoo abbiano buone condizioni di vita nelle loro gabbie e ce ne freghiamo di quello che avviene nelle carceri? Credo che l’esistenza quotidiana dei detenuti in un carcere sovraffollato somigli molto a un’insopportabile forma di tortura. La quale tortura, se non sbaglio, non è un reato contemplato dal nostro codice. Ed ecco spiegato perché il governo Berlusconi, visto e considerato come vengono trattati i detenuti in Italia, ha dichiarato di non avere nessuna intenzione d’introdurlo. Accà nisciuno è fesso! Giustizia: emergenza sovraffollamento nelle carceri italiane, intervista a Patrizio Gonnella Radio Vaticana, 26 luglio 2010 Uno spazio in cella di due metri quadrati per ogni detenuto, come nel piccolo carcere di Pistoia, presenze doppie rispetto alla capienza regolamentare, come a Bologna. In alcuni casi solo due ore d’aria. È la denuncia delle associazioni “Antigone” e “A buon diritto”, che hanno visitato 15 istituti di pena italiani. Hanno poi elaborato un dossier e presentato esposti ai sindaci e ai direttori delle Asl competenti, chiedendo di provvedere a sanare le violazioni. Il dossier è stato realizzato mentre non si arresta il tragico fenomeno dei suicidi in carcere. L’ultimo è avvenuto venerdì scorso a Catania. Sui dati raccolti sulle carceri italiane ascoltiamo il commento di Patrizio Gonnella, presidente di “Antigone”. R. - Siamo andati a visitare carceri grandi - penso a Poggioreale - ma anche penitenziari molto piccoli, come a Fermo nelle Marche. Abbiamo trovato dappertutto condizioni igienico-sanitarie non sopportabili, non degne di un Paese civile. Abbiamo visto, a Fermo, tre detenuti in otto metri quadrati. Nella sezione nido del femminile di Rebibbia, 12 tra madri e figli in 25 metri quadrati. Questo va contro gli stessi standard imposti dagli organismi internazionali che controllano il rispetto dei diritti umani che prevedono per esempio, secondo la Corte europea dei diritti umani, non meno di tre metri quadrati a persona. D. - Con il caldo, il problema del sovraffollamento non fa che aggravarsi… R. - Se immaginiamo un posto di 10 metri quadrati in cui stanno tre-quattro persone con il bagno a vista, con poca aria e con 35°, ci rendiamo conto di quanto sia facile contrarre malattie e comunque stare genericamente male dal punto di vista sia fisico sia psicologico. D. - Altrettanto difficile è anche la situazione negli ospedali psichiatrici-giudiziari. In alcune strutture - è stato denunciato - i detenuti vengono addirittura legati ai letti… R. - Non prevale l’elemento della terapia e della cura per persone che hanno problemi psichiatrici rispetto a quello del controllo e della sicurezza. Sono in tutto non più di un migliaio le persone in Italia in questa situazione. Parrebbe non impossibile affrontare la cura di queste persone dal punto di vista medico. Ma, soprattutto, bisogna evitare che queste persone vivano in celle tra i propri escrementi, con i topi… D. - Quali sono i provvedimenti più urgenti? R. - Bisogna muoversi su due piani: un primo piano riguarda la riduzione del tasso di sovraffollamento. Però questo è competenza della politica. Bisognerebbe mettersi tutti insieme intorno ad un tavolo - ministero, enti territoriali, Asl, anche le organizzazioni sociali, laiche e religiose - per un “Piano Marshall”: tutti insieme per il rispetto dei diritti umani nelle carceri. Diciamo che non vogliamo le carceri fuori legge, perché le carceri sono il luogo massimo della legalità. Bisogna rispettare la legalità penitenziale. Giustizia: il guaio di molti politici “manettari” è che non conoscono nemmeno la legge di Davide Giacalone Libero, 26 luglio 2010 In tema di giustizia il governo e la maggioranza soffrono di schizofrenia. La radice greca del termine indica un cervello diviso, uno sdoppiamento che complica la vita. Il guaio di certe malattie, al contrario della rottura di un femore o di una colica renale, è che il soggetto non sempre è consapevole del problema. Così abbiamo governanti che si scagliano contro la magistratura e i giornalisti, accusandoli (giustamente) di agire con scarso rispetto della presunzione d’innocenza, e abbiamo parlamentari (Giorgio Straquadanio, ad esempio) che si recano in visita ai detenuti in custodia cautelare, sottolineando (giustamente) che non sempre ricorrono i tre motivi canonici per privare un cittadino innocente della libertà, ma abbiamo anche governanti che s’inalberano contro una più che giusta sentenza della Corte Costituzionale, che ha cancellato il carcere preventivo obbligatorio per i sospettati di stupro, e abbiamo una maggioranza parlamentare che, pur attestandosi sulle posizioni prima richiamate, votò la norma ora abrogata, evidentemente convinta che il diritto possa essere storto al punto da valere per alcuni e non per altri. La ciliegina sulla torta è che il relatore contro la norma è stato un giudice costituzionale scelto dal centro destra, l’avvocato Giuseppe Frigo, che, fortunatamente, non ha dimenticato la propria cultura giuridica e, provvidenzialmente, neanche il suo essere stato presidente dell’unione camere penali. Una scelta felice, che oggi avrebbe dovuto consigliere un rispettoso silenzio. Invece ho letto corbellerie monumentali, compresi titoli fatti a capocchia, che annunciavano l’impossibilità del carcere per gli stupratori. Come abbiamo letto dichiarazioni del ministro Mara Carfagna che richiamavano il sentire popolare o il “giustificazionismo”, ovvero principi che non sono solo l’antitesi del diritto, ma anche l’anticamera della galera per la gran parte dei coinvolti nelle inchieste che sgombrerebbero molte stanze attigue a quella del signor ministro. Noi segnalammo gli errori di quella legge nel momento stesso in cui cominciarono a parlarne, con due interventi del febbraio e del marzo 2009. Raccontammo la grottesca storia delle due coppie di presunti stupratori rumeni, arrestate per lo stesso stupro, pretendendo tutte e due le volte che fossero quelli veri, e mettemmo in evidenza che imporre l’arresto obbligatorio, con l’aggiunta di escludere i domiciliari, era un gesto di deplorevole resa. Perché, in quel modo, si firmava la rassegnazione ad avere una giustizia che non funziona, salvo vendicarsi sui presunti reprobi, facendo loro scontare pene mai comminate. È ovvio che gli stupratori devono andare in galera. Dove mai volete mandarli? Ed è altrettanto ovvio, come scrive la Corte Costituzionale, che il giudice delle indagini preliminari può sempre disporre la custodia cautelare, senza per questo essere obbligato a farlo. Ma è altrettanto ovvio che per definire stupratore un cittadino occorre una sentenza, e per la sentenza occorre un processo. Se, invece, facciamo fede alle procure, se a loro assegniamo il compito di stabilire chi sono i colpevoli, al punto da sbatterli in galera per obbligatorio ossequio alle loro determinazioni, allora facciamo ciao ciao con la manina a tanti signori che Silvio Berlusconi sostiene essere innocenti. Ma che c’entra, diranno i nostri cultori del non diritto: una cosa sono gli stupri altra l’essere accusati d’essersi arricchiti alle spalle della spesa pubblica o di avere complottato per corrompere la vita istituzionale. Siete sicuri? Non è che poi passa qualcuno e vi spiega che il comune sentire popolare è imbufalito con i secondi quanto con i primi, anzi, che i primi hanno stuprato le loro vittime, mentre dei secondi siamo tutti vittime? A quel punto, che altro fate e dite, se non iscrivervi al partito del giustizialismo manettaro e fascistoide? Questi signori, questi ministri, questi parlamentari proprio non sono capaci di capire che il diritto è un corpo unitario e se cominci a dire che gli stupratori, benché presunti, devono, per forza, andare in galera prima di avere incontrato un giudice non c’è poi modo di non mandarci anche gli altri, consegnando alla magistratura un insindacabile potere sulla vita civile e politica. Ringrazino Frigo e la Corte Costituzionale, piuttosto, che hanno smontato un’inciviltà con cui governanti incapaci hanno provato il gusto di farsi belli con l’opinione pubblica forcaiola, e sperino che quei forconi non si rivoltino verso la loro parte. Anche perché, sapete cosa succede agli stupratori veri, arrestati obbligatoriamente e senza processo? Succede che vengono scarcerati per decorrenza dei termini. Ecco cosa succede, e il dovere del legislatore e del governante consiste nel far funzionare la giustizia, non nello stuprarla nella speranza di mascherare la propria impotenza. Giustizia: Associazione “Clemenza e dignità”; ai detenuti almeno i diritti… degli animali Img Press, 26 luglio 2010 La sicurezza e la giustizia, sono tematiche essenziali e imprescindibili, ma che non debbono implicare assolutamente il mancato riconoscimento della persona umana e della sua dignità. Lo dichiara in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità, che aggiunge: Appare ormai chiara l’intenzione di non volere considerare i detenuti come uomini, l’intenzione di non voler considerare i detenuti veramente come degli esseri umani. Sarà impossibile, però, - prosegue - negare in loro, anche la caratteristica della vita. Quindi, - sottolinea - sebbene non riconosciuti come uomini, essi appartengono comunque alla grande categoria degli organismi viventi. In quanto non percepiti come essere umani, - afferma - non deve poi interessare ciò che è proprio dell’uomo ovvero l’uso della ragione, non è cioè necessario chiedersi se i detenuti possano ragionare ed esprimersi correttamente, è necessario solo chiedersi se i detenuti siano in grado di soffrire. Se possono soffrire - continua - del caldo torrido, della mancanza di spazi, di aria, a volte anche di acqua. La risposta a questa domanda - rileva - non potrà che essere affermativa: i detenuti, come gli uomini, certamente soffrono nella loro fisicità queste situazioni estreme. Se allora i detenuti - spiega - sono in grado di percepire il dolore, i detenuti, non diversamente dagli uomini, hanno almeno il diritto a non subire trattamenti che arrechino loro sofferenze ingiuste. Mediante questa costruzione teorica più mirata - sostiene - riusciremo sicuramente ad ottenere maggiori risultati che con i diritti dell’uomo, diritti che risultano privi di valenza quando non si vuole riconoscere l’uomo in alcune categorie di uomini.” “Tra l’altro, - precisa - quella descritta, non è una costruzione teorica inedita, perché è la stessa e identica costruzione di pensiero che ha permesso di teorizzare i diritti degli animali.” “C’è da stare sicuri - conclude - che in questo modo la situazione non potrà che mutare in meglio, non fosse altro per il fatto che se si fosse trattato subito di animali, mansueti o aggressivi, di gatti o di cani ammassati nelle gabbie, senza acqua, senza aria, e senza spazi, si sarebbe verificata una grande mobilitazione civile e di opinione pubblica per migliorarne le condizioni di vita”. Giustizia: Osapp; servono reparti speciali o militari per vigilare perimetri delle carceri Ansa, 26 luglio 2010 Per far fronte al sovraffollamento delle carceri pugliesi serve l’invio di reparti speciali della polizia penitenziaria (come Gom e Uspev) o, in alternativa, si inviino contingenti di militari specializzati nella vigilanza dei perimetri e dei varchi penitenziari, come è accaduto durante l’operazione Vespri Siciliani. Lo chiede in una dichiarazione il vice segretario generale nazionale del sindacato Osapp, Domenico Mastrulli, che lamenta da tempo l’esiguo numero di agenti di polizia penitenziaria in servizio nella regione. Giustizia: il “canile” dell’Ucciardone e l’ennesimo suicidio in carcere di Adriano Sofri Il Foglio, 26 luglio 2010 Sul sito di Repubblica ieri c’era il resoconto di una visita ispettiva di parlamentari radicali e volontari di Ristrrtti Orizzonti e del Garante dei detenuti all’Ucciardone. La visita aveva preso le mosse dalla lettera di un detenuto a Riccardo Arena: “Cara Radiocarcere, sono un detenuto dell’Ucciardone e quando sono entrato qui dentro sono stato nel canile”. Ovvero una gabbietta, larga un metro e alta due, dove stai chiuso in piedi per ore, qualcuno anche per giorni, io ci sono stato 10 ore. È stato terribile. Vomitavo, facevo i bisogni e piangevo. Ma nessuno è venuto a vedere come stavo... Dopo il canile mi hanno portato in uno stanzone pieno zeppo di detenuti. Lì c’era gente malata di mente, stranieri, tossicodipendenti in crisi d’astinenza, malati d’Aids. Dopo circa un mese mi hanno portato in quella che sarebbe diventata la mia cella e mi son detto: il peggio è passato! E invece mi sbagliavo, l’inferno vero all’Ucciardone iniziava lì”. I visitatori hanno trovato il canile e le gabbie. “Il giorno dell’ispezione dentro c’era un ragazzo - ha detto Rita Bernardini - ma quando ho fatto per chiedergli da quanto tempo fosse lì dentro, di fatto mi è stato impedito”. Ecco, sempre ieri, i giornali davano brevissima notizia del suicidio del provveditore calabrese alle carceri, in vacanza a Tropea, era indagato per “abuso d’ufficio e minacce a un direttore di carcere”, si proclamava innocente: aveva il porto d’armi, si è sparato con la sua pistola. Ancora ieri, a Catania, si è ammazzato un detenuto di 39 anni - il nome non importa, solo il numero ordinale, era il trentottesimo: si è reciso la carotide con una lametta da barba. Chissà come se l’era procurata, una lametta da barba. Firenze: viaggio tra i “dannati” di Montelupo, l’Opg che ospita 172 pazienti-detenuti di Laura Montanari La Repubblica, 26 luglio 2010 Uno sta seduto in ciabatte e canottiera nel cortile asfaltato. Io son sicuro che, in questa grande immensità qualcuno pensa un poco a me. La solitaria voce di Johnny Dorelli che viene da un vecchio e scassato mangianastri fa a pugni con l’orizzonte ristretto di questo posto a cui si arriva dopo quattro cancelli automatici e documenti consegnati all’ingresso assieme al telefonino. Un altro passa salutando “buongiorno giorno” e fissa l’aria come fosse gente. Un terzo parla da solo e stende mutande e biancheria al sole. Piano terra dell’Ospedale Psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Vedi le guardie e pensi a una prigione, incroci gli occhi dei pazienti e pensi ai buchi neri della mente, agli inferni che hanno attraversato prima di approdare qui dove comincia la seconda vita. La maggior parte ha ucciso o tentato di uccidere qualcuno. Madri, mogli, figli, parenti stretti, vicini di casa, prostitute. Tutti hanno una risalita da qualche pozzo e vengono mandati in questa villa medicea trasformata in fortezza da manicomio criminale alla fine dell’Ottocento. Da qui sono passati gli Stevanin o i “mostri” degli omicidi seriali, i Santapaola e i camorristi cutoliani negli anni in cui far finta di essere pazzo era una buona via di fuga per attenuare il carcere dei mafiosi. “Oggi a Montelupo ci sono 172 pazienti detenuti, in età compresa fra i 20 e i 60 anni - spiega la direttrice Maria Grazia Grazioso - e 84 guardie penitenziarie”. In passato questa struttura ha sfiorato anche i duecento ospiti, ma i numeri possono ingannare: oggi i 172 stanno in uno spazio ristretto perché un’ala dell’Opg è in fase di ristrutturazione e ampliamento. Così basta salire all’ultimo piano della torre della terza sezione, dove ci sono i soggetti con le sindromi psichiatriche più gravi per toccare l’emergenza. Un corridoio con le celle che si chiudono la sera, sbarre spesse, stanze di pochi metri con sei o sette letti e un solo bagno. Dove finisce una branda comincia l’altra. Odore, grida, rantoli, chi dorme profondamente seminudo, chi canta, chi suda, chi sta scalzo. Pane e tempesta. Tutto insieme, è il mestiere di vivere. C’è uno che ogni mattina si sveglia e racconta di essere morto e resuscitato, un altro che scrive poesie, il sognatore che ha costruito una catapulta per lanciare oltre il muro di cinta le caramelle ai bambini. Se ne è andato via invece quello che collezionava Barbie e passava le ore a pettinarle e a cambiare loro l’abito secondo quel che gli aveva raccomandato sua sorella prima di morire. È stato dimesso un altro che rifiutava le scarpe e in pieno inverno camminava scalzo ovunque. Vizi della mente, paure amplificate. Chi passa dalla stanze dell’Opg ha storie pesanti da scontare, i pazzi osano dove gli angeli temono di andare: “La maggior parte ha commesso delitti contro la propria famiglia” spiega la direttrice camminando lungo i vialetti del parco, sotto le celle da cui i detenuti buttano di tutto, dai panini avanzati ai bicchieri di carta. Eppure da questo posto, una delle prime cose che chiedono passata la fase acuta - il silenzio dello shock-, quando cominciano a capire cos’è successo, è di riallacciare i rapporti con quella stessa famiglia a cui hanno fatto male. Spiegare cos’era l’amore, la gelosia, l’odio, la passione o l’ossessione che non sono riusciti a dominare. Non è facile dare un nome alle cose. Ma la strada per ricominciare passa da questo giorno per giorno. Dai colloqui con gli psichiatri, dalla lavoro instancabile degli educatori e dei volontari, dalle prime partitelle a calcio o a pallavolo, dallo sforzo di rispettare le regole, di provare a vincere da qualche parte. Trieste: l’appello dei detenuti del Coroneo; qui si scoppia dal caldo Il Piccolo, 26 luglio 2010 Arriva dal Coroneo, nel mezzo di una delle estati più calde degli ultimi anni un appello da parte di alcuni reclusi. Nel testo, scritto a stampatello, si legge “Aiutateci, siamo alla pazzia per il caldo... in soprannumero, non si respira e c’è una doccia solo per ognuno”. Il testo continua dicendo che a causa di questa situazione “ci sono più zuffe e atti di autolesionismo”. Pochi mesi fa, del resto, l’europarlamentare Debora Serracchiani, giunta in visita alla struttura triestina, aveva fornito cifre ben precise. In maggio, a fronte di una capienza di 150 detenuti al massimo il carcere ne ospitava 237, il 60 per cento dei quali stranieri, oltre ad essere l’unico a ospitare una sezione femminile in regione. Non sta meglio la stessa polizia penitenziaria, chiaramente in difficoltà perché a fronte di un organico che dovrebbe essere di 150 agenti ne può presentare sulla carta 132, ma in realtà 120 effettivi. Con la stagione calda si tratta di disfunzioni, ormai quasi istituzionalizzate, che fanno esplodere il malumore e creano tensione tra i detenuti. Nelle celle, ad esempio, non ci sono ventilatori o pale elettriche attaccate al soffitto. Una mancanza che si fa sentire, perché dietro alle sbarre il caldo sa essere davvero insopportabile. “Certo - ammette il direttore del carcere Enrico Sbriglia - la sensazione del caldo è più forte dentro di quella che si può avvertire fuori. Non c’è l’aria condizionata e onestamente la vorrei. È un dato scientifico, una temperatura sopportabile evita il nervosismo eccessivo, avere impianti di condizionamento sarebbe solo una cosa di buon senso. Le docce? Per legge hanno diritto a una al giorno ma possono farne anche di più. Il sovraffollamento c’è, ma riguarda tutte le carceri, che ospitano 70mila detenuti dove ce ne starebbero al massimo 46mila, e molti sono stranieri. Ma da qui a rappresentare una situazione fuori controllo ce ne corre. Ma come, non c’era l’altro giorno sulle “Segnalazioni” quella signora che si lamentava per i detenuti che urlano, parlano d’amore o giocano a ping-pong? Non mi pare il ritratto di una struttura in sofferenza...”. Fossombrone (Pu): carcere a rischio di crolli, alcuni detenuti trasferiti Corriere Adriatico, 26 luglio 2010 Il tetto dell’ala ponente del carcere di Fossombrone, mostra seri problemi di vetustà al punto che una trentina di detenuti sono già stati trasferiti. “Si tratta di una situazione gravissima - dice il nostro interlocutore che per ovvii motivi chiede di non essere citato - di questo passo la stessa presenza del carcere a Fossombrone rischia di essere compromessa se non ci sono interventi immediati”. Questa situazione è stata fatta presente al sottosegretario alla giustizia Elisabetta Alberti Casellati in occasione della sua recente visita? “Si spera di sì anche se nel corso della conferenza stampa non c’è stato alcun riferimento ai lavori di cui il tetto di ponente ha bisogno. Viene poi da pensare che i controlli dovranno essere estesi anche all’altro braccio”. La preoccupazione è forte? “Molto forte anche perché da Roma continuano a fare riferimento alla casa circondariale di Fossombrone. Questo è un carcere con una sezione di massima sicurezza. Una bella differenza rispetto ad una casa circondariale”. Il mondo politico locale è stato informato? “Per Fossombrone il carcere rappresenta una realtà economica di primaria rilevanza, questo lo sanno tutti. Un appello viene rivolto anche agli amministratori comunali perché s’interessino di come stanno andando le cose”. Dalla visita del sottosegretario erano emersi dati molto positivi.. “Per quanto riguarda la vita interna, il trattamento e le iniziative il carcere di Fossombrone è sempre stato un esempio da seguire. Oggi bisogna affrontare le questioni di fondo. Non si deve essere pessimisti ma il problema va preso di petto. Non vorremmo che il carcere faccia la fine dell’ospedale cittadino”. La situazione non è consolante nemmeno per quanto attiene l’organico degli agenti di polizia penitenziaria: da 127 agenti e si tratta di un numero sottostimato per un errore perché era fissato a 179, il contingente si è ridotto a solo 108 unità per garantire la sicurezza interna ed esterna con una presenza di ben 170 detenuti. Dato attualmente ridotto a causa del trasferimento, come detto, di una trentina di reclusi per via della precarietà del tetto di ponente. Basta rileggere le denunce degli ultimi anni del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria, per rendersi conto che le prime avvisaglie erano stato ben focalizzate anche se sistematicamente ignorate in termini di ufficialità. Non c’è tempo da perdere. Né servono le polemiche. Bisogna che il Comune si faccia parte attiva e coinvolga in modo serrato i parlamentari a prescindere dagli schieramenti. Il destino del carcere non può essere lasciato a se stesso. Necessitano iniziative concrete, sensate e lungimiranti. Porto Azzurro (Li): detenuti in campo contro i vandalismi Il Tirreno, 26 luglio 2010 Passa anche dalla difesa dell’ambiente e degli spazi pubblici spesso oggetti di vandalismi, il percorso di riabilitazione dei detenuti di Porto Azzurro. Da poco più di due settimane sono loro i custodi della passeggiata Carmigani, un sentiero panoramico attrezzato che costeggia la costa proprio sotto la fortezza che ospita il carcere. Un progetto nato dall’accordo tra direzione carceraria e Comune che d’ora in avanti farà dei detenuti i custodi del percorso pubblico. “È un’iniziativa che si inserisce in un rapporto di collaborazione tra l’istituto e il Comune sempre più forte - spiega il direttore del carcere, Carlo Mazzerbo - tre dei nostri detenuti già lavorano per il Comune per la pulizia delle strade. Ora abbiamo adottato anche un sentiero, un’attività che rappresenta anche una forma di contributo da parte del detenuto nei confronti della società”. L’impiego dei carcerati di Porto Azzurro in questo tipo di lavori potrebbe avere anche altre prospettive. “Dopo l’estate - spiega Mazzerbo - vorremmo proporre una collaborazione di questo tipo anche al Parco per la manutenzione dei sentieri dell’isola” per la quale non ci sono mai risorse a sufficienza. Impiegare i detenuti potrebbe voler dire risparmiare sul costo dei lavori e dare a queste persone, che hanno seguito corsi di formazione per questi lavori, una possibilità di riscatto sociale. Teramo: Sappe; aggrediti 4 agenti, carcere potrebbe ospitare 240 detenuti invece ne ospita 410 Il Centro, 26 luglio 2010 Un’altra aggressione in carcere agli agenti e riesplode la protesta sul sovraffollamento di Castrogno. Venerdì mattina due agenti e due ispettori sono stati aggrediti da un detenuto che ha tentato di dare fuoco alla sua cella. Tutto è avvenuto in pochissimi istanti. I sindacati raccontano che gli agenti stavano cercando di riportare alla calma il detenuto quando quest’ultimo li ha colpiti al volto, minacciandoli se avessero fatto rapporto disciplinare. L’uomo, che ieri mattina è stato trasferito in un altro penitenziario, qualche minuto prima aveva cercato di dare fuoco alla sua cella. Immediate le reazioni di protesta delle organizzazioni sindacali che, da tempo, denunciano la grave carenza di personale nel carcere teramano e il sovraffollamento dei detenuti. “Si continua a voler ignorare”, scrive Giuseppe Pallini, segretario provinciale del Sappe, “che le carceri stanno per esplodere. L’istituto teramano potrebbe ospitare 240 detenuti, invece ne ospita 410. Di questi, oltre la metà soffre di problemi psichici con una difficile gestione e sono scaricati a Teramo per il solo fatto che c’è il servizio di guardia medica 24 ore su 24. La polizia penitenziaria ha sempre mostrato di mantenere fede alla propria promessa rinnovata ad ogni festa del corpo. Ma è giunto il momento che rappresentanti del Paese dimostrino che le periodiche visite in carcere non sono limitate ad una passerella mediatica”. Sulla vicenda interviene anche Paolo Chiarini , segretario provinciale Cisl-Fns. “La Cisl Fns”, scrive Chiarini in una nota, “denuncia la gravità dell’accaduto poiché non è più concepibile che quasi ogni giorno avvengano delle aggressioni da parte di detenuti malati psichiatrici agli agenti addetti alla vigilanza interna delle sezioni. Chiediamo alla direzione e al nuovo comandante un intervento immediato senza far finta che non sia successo nulla. La polizia penitenziaria di Teramo con una pianta organica di 182 agenti ed ispettori invece dei 203 previsti lavora ogni giorno al di sotto dei minimi di sicurezza, accorpando ogni giorno posti di servizio e rischiando la propria incolumità”. L’ultima aggressione agli agenti del carcere teramano risale a qualche mese fa, quando in due vennero spintonati da un detenuto durante il momento dell’ora d’aria. Ora i sindacati chiedono interventi urgenti. Bari: il sogno di Goran, detenuto che si allena da pugile di Giovanni Longo Gazzetta del Mezzogiorno, 26 luglio 2010 “Se decidi di allenarti con me, devi rigare dritto, altrimenti non ti faccio salire sul ring”. E l’altro risponde: “Seguirò i tuoi consigli, te lo prometto”. In una saletta utilizzata per gli incontri tra detenuti e avvocati è appena terminato il colloquio tra Luciano Navarra, 57 anni, ex pugile (campione italiano nel 1980 nella categoria Superleggeri) oggi maestro di boxe, e Goran Gogic, 31 anni, ex campione di Germania che spera di tornare presto a combattere. Non appena avrà pagato il suo conto con la giustizia. Da un lato della scrivania rettangolare è seduta una “montagna” alta un metro e 95 centimetri per oltre 110 chili di peso. Le ginocchia sfiorano il tavolo scuro. Dall’altra parte ci sono l’ex pugile barese che ha preso a cuore la storia di Goran, l’avvocato Luciano Marchianò che si sta impegnando per farlo uscire quanto prima, e il cronista della “Gazzetta” che riesce a fatica ad “insinuarsi” nel schermaglia tra i due sportivi. Navarra utilizza la mimica e il dialetto barese. Gogic gesticola, annuisce, parla bene in italiano con un accento che ricorda tanto Ivan Drago. Proprio lui, l’avversario di Rocky. Goran, nato in Montenegro 31 anni fa, è un pugile professionista. Undici giorni dopo il suo ultimo incontro (19 ottobre 2007) fu arrestato in Germania (dove viveva con moglie e figli) perché coinvolto in un traffico di sostanze stupefacenti nel Nord Italia. Estradato, è stato condannato a quattro anni di reclusione. Dopo aver girato alcune carceri settentrionali (Verona, Trento, Como), da qualche mese si trova nel carcere di Bari. Diciotto vittorie, due pareggi, tre sconfitte. Questo il ruolino di Goran che dietro le sbarre insegue un sogno: tornare a combattere. Un imprenditore di Como ha dato la disponibilità ad assumerlo come montatore nella sua azienda meccanica, oltre a garantirgli un alloggio. In una palestra vicina potrebbe tornare ad allenarsi. Ma Luciano Navarra rilancia. “Se vuoi rimanere a Bari vieni ad allenarti nella mia palestra”. Al vaglio del magistrato di sorveglianza c’è un’istanza presentata dall’avvocato Marchianò per l’affidamento in prova ai servizi sociali e per la sospensione dell’esecuzione della pena di Goran. “Le manette non fermeranno la mia passione per la boxe”, dice Goran. Il desiderio di lasciarsi alle spalle la condanna deve fare i conti, naturalmente, con la legge. “In carcere è dura. Utilizzo delle bottiglie piene d’acqua per portare i colpi ad un bersaglio immaginario, ma divido la cella con otto persone e non è affatto facile. Impiego l’ora d’aria per correre”. Navarra gli chiede della sua dieta. “Non tocco i dolci - risponde - mangio la pasta solo una volta alla settimana. Devo mantenermi in forma se voglio tornare a combattere”. Navarra annuisce e pensa già al futuro: “L’unico problema - spiega - è trovare un avversario della tua categoria, non ce ne sono molti in giro. Dal momento in cui inizierai ad allenarti seriamente ci vorranno pochi mesi per risalire sul ring”. “Ho solo 31 anni e credo che tornando ad allenarmi con regolarità potrò ambire a gareggiare a breve”, ribatte sicuro Goran. La “nobile arte” come ricetta per la rinascita dell’uomo e dello sportivo. La sua storia è nota in carcere. Sia agli altri detenuti, sia agli agenti di polizia penitenziaria che gli sorridono quando entra nella saletta dei colloqui. Per poter parlare con lui è stato necessario attendere il via libera dell’Amministrazione penitenziaria. Anche il direttore della casa circondariale, Francesco Paolo Sagace ha dato il suo consenso. “Cosa mi manca di più? La mia famiglia - confessa Goran - e i minuti che precedono gli incontri, quando sei solo con te stesso, oltre che il sudore e la fatica degli allenamenti in palestra”. Navarra annuisce ancora una volta. Il “maestro” barese si alza in piedi e allunga un destro che accarezza il mento di Goran. “Guardia alta”, gli dice scherzando. La porta della saletta si riapre. Quella del carcere si chiude alle spalle. Dentro Goran sogna di tornare sul ring. Teartro: Compagnia della Fortezza in “Hamlice”; detenuti alle prese con potere e anarchia Il Tirreno, 26 luglio 2010 Domani il Festival VolterraTeatro entra nel vivo con il debutto di “Hamlice - Saggio sulla fine di una civiltà”, ultimo lavoro della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, e con l’apertura del progetto “Per un Teatro Stabile in carcere, riflessioni, personaggi storie ed eventi”, che ha in questa edizione il cinema come protagonista. La prima nazionale di Hamlice è in programma domani alle 15 al Carcere di Volterra. In scena gli attori della Compagnia della Fortezza, composta dai detenuti del carcere volterrano, con la regia di Armando Punzo. In scena anche Stefano Cenci e la partecipazione straordinaria del controtenore Maurizio Rippa. “Da Amleto ad Alice nel Paese delle meraviglie, - scrive Punzo - dalla tragedia del potere nel chiuso di un palazzo all’anarchia di Carroll, al suo mondo alla rovescia e ancora oltre, in un viaggio di cui non si conosce la fine. La trasformazione è la possibilità di sottrarsi al proprio ruolo definito per sempre. L’origine è nella realtà di questa compagnia, che come un doppio sotterraneo, offre una riflessione quotidiana su questo tema”. Repliche domani, il 28 e il 29 luglio alle 15 e al Teatro Persio Flacco il 31 luglio alle 21. Il progetto di incontri con importanti personaggi del mondo della cultura “Per un Teatro Stabile in carcere” vede quest’anno protagonisti il cinema e i suoi personaggi. In programma importanti film e documentari presentati dai registi e da alcuni attori protagonisti, alla presenza di prestigiosi personaggi del mondo della cultura e della politica. Si apre domani pomeriggio alle 17 con Matteo Bellinelli, uno dei più importanti documentaristi svizzeri, che presenta il suo film “Catene come destino”. Tra gli ospiti della giornata, segnaliamo il regista Matteo Garrone, autore del film Gomorra e Maurizio Braucci, scrittore e sceneggiatore di Gomorra. Martedì alle 17 tra i protagonisti l’attore Claudio Casadio, intenso protagonista del film L’uomo che verrà, sulla strage di Marzabotto, del regista bolognese Giorgio Diritti. Mercoledì alle 17 tra gli ospiti il regista Marco Simon Puccioni, che presenta Il colore delle parole. Giovedì sempre alle 17 il protagonista dell’incontro sarà l’attore Ascanio Celestini, grande affabulatore e narratore, noto al grande pubblico per i suoi lavori teatrali e per la sua partecipazione alla trasmissione Parla con me di Serena Dandini. Celestini è il protagonista della giornata con la presentazione del libro e film La pecora nera uno dei suoi spettacoli cult, che andrà in scena nel cartellone di VolterraTeatro il 30 luglio. Durante tutto il giorno e per tutto il festival fino al 31 luglio in Piazza dei Priori, Rete di voci oltre ogni dire, III edizione, interventi poetici e letture dei classici en plein air a cura di Giacomo Trinci, con la partecipazione dei poeti di “Assediati in cerca di assedio” e “Cosmopoesia”. Cina: la pena di morte sarà abolita, ma solo per i reati meno gravi di Andrea Pira Il Riformista, 26 luglio 2010 Secondo Amnesty International, l’Impero Celeste ne detiene il triste primato. Ma ad agosto i deputati dell’Assemblea del popolo discuteranno una bozza per derubricare i crimini puniti dal boia. Oggi sono 68, dei quali 44 offese non violente In cima alla lista dei Paesi dove vige ancora la pena capitale, la Cina potrebbe ridurre il numero dei reati per cui è prevista la condanna a morte. Attualmente sono 68, tra cui 44 non violenti. Si va dall’omicidio al traffico di droga, dalla corruzione alla rapina. La bozza, ha riferito ieri il China Daily, sarà discussa ad agosto dai deputati del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo. La notizia della proposta di revisione circolava però da alcuni giorni. “Non c’è bisogno di avere così tanti crimini puniti con la morte”, aveva spiegato il professor Chu Huaizhi, criminologo dell’Università di Pechino, intervistato venerdì dal settimanale di Canton, Southern Weekly. “Non serve a combattere la criminalità”, ha aggiunto. Il dibattito si è riaperto un anno dopo le dichiarazioni di Zhang Jun, vice presidente della Corte suprema del popolo, il più alto organo giudiziario della Repubblica popolare. Dodici mesi fa Zhang disse che l’obiettivo della Cina è arrivare a un numero ridotto di esecuzioni e commutarle con pene detentive. Dal 2007 tutte le sentenze di condanna a morte emesse dai tribunali locali devono passare per la Corte suprema. E arrivate a questo grado di giudizio le sentenze si rivelano spesso infondate. Nel solo 2008 il 15 per cento è stato annullato. Pechino, tuttavia, continua a detenere il triste primato nelle esecuzioni. Nel-l’ultimo anno, secondo Amnesty International sono state migliaia, più tutte quelle avvenute nel resto del mondo. Conoscere le cifre reali è però impossibile perché coperte da segreto di Stato. L’ultima vittima in ordine di tempo di cui si conosce l’identità fu Wen Qiang, uno degli imputati “eccellenti” nel maxi-processo contro le organizzazioni mafiose di Chongqing voluto da Bo Xilai, l’ambizioso segretario del Partito comunista della megalopoli. L’ex vicecapo della polizia fu giustiziato il 7 luglio per corruzione, accusato di aver accumulato illegalmente 12 milioni di yuan (1,4 milioni di euro). Ma è stato il caso di un altro funzionario, questa volta nel Guangdong, a far capire che qualcosa si stia muovendo in tema di pena capitale. L’esecuzione di Chen Saoji è stata sospesa per due anni. 11 sessantacin-quenne ex capo della polizia e presidente della Conferenza politico consultiva della ricca provincia costiera è accusato di aver ricevuto tangenti per favorire le attività dell’imprenditore Huang Guangyu, fondatore del colosso degli elettrodomestici Gome, condannato a 14 anni di carcere per aggiotaggio. Trascorsi due anni la condanna sarà riconsiderata e molto probabilmente convertita in ergastolo. “Per la legge chi riceve tangenti per oltre 1 OOmila yuan ( 1 Ornila euro) rischia la pena capitale”, ha detto Tong Zhiwei, professore dell’università Jioatong di Shanghai. “Le sentenze variano e non sempre sono eque”, ha aggiunto, “si può essere giustiziati per aver preso molto meno”. Tong è tra i giuristi favorevoli all’abolizione delle condanne a morte per i reati non violenti. Un cambio di rotta condiviso da molti studiosi, a patto che le condanne per certe tipologia di reato superino i vent’anni di carcere. “Non possiamo essere contrari all’abolizione della pena di morte per i crimini non violenti o almeno a limitarne l’applicazione”, ha sottolienato Liu Renwen, ricercatore dell’Accademia cinese per le Scienze Sociali. A preoccupare Liu è però la reazione dell’opinione pubblica. “Non è pratico abolire l’esecuzione per tutti i 44 crimini non violenti, dal momento che la corruzione è molto diffusa in Cina ed ha un grave impatto sociale”, ha detto al China Daily. Se non è ancora chiaro quanti e quali saranno i reati esclusi, nella bozza di emendamento, secondo quanto riferito dal Southern Weekly, la pena di morte è però definita “inadeguata” per i detenuti anziani. Chi ha superato i settanta anni potrebbe avere salva la vita. Un dibattito iniziato nel 2003, per la condanna di un uomo di 88 anni, giustiziato nella provincia centrale del-l’Henan. Per Gao Mingxuan, noto criminologo della Renmin University a Pechino, la proposta è in linea con la storia del Celeste Impero. Sin dai tempi della dinastia Zhou (1045-256 a. C), ha spiegato, gli anziani e i più giovani hanno avuto un “trattamento di favore” nei processi. Così come la legge vieta di giustiziare i minorenni, lo stesso dev’essere per gli over 70. “Forse non molte persone potranno beneficiare di queste riforme”, ha concluso Gao, “Ma è una prova di come la legge sia rispettosa dell’uomo. Un’espressione di civiltà e di progresso della società”. Cile: niente indulto per gli ufficiali di Pinochet, la grazia verrà considerata caso per caso Corriere della Sera, 26 luglio 2010 Il presidente conservatore del Cile Sebastian Piñera ha rifiutato la proposta della Chiesa Cattolica cilena di offrire la grazia ai carcerati sopra i settant’anni o malati, che avrebbe fatto uscire di prigione anche gli ufficiali militari condannati durante la dittatura di Augusto Pinochet. “Sono arrivato alla conclusione che non sarebbe né prudente né saggio, sotto le attuali circostanze, approvare una nuova grazia generale”, ha dichiarato Pinera in un messaggio televisivo. La grazia individuale verrà considerata caso per caso, ma “saranno esclusi quelli che sono in carcere per reati particolarmente gravi, come crimini contro l’umanità, terrorismo, traffico di droga, omicidio, crimine violento, stupro e abuso di minore” La richiesta della Chiesa aveva suscitato le proteste dei parenti delle vittime della dittatura, riuniti nell’Associazione dei Familiari dei Detenuti e degli Scomparsi, che sono stati parzialmente rassicurati dalle parole di Piñera. Attraverso il loro vicepresidente fanno comunque sapere di essere preoccupati riguardo alla grazia individuale, che potrebbe riguardare persone che si sono macchiate di crimini gravi. La Chiesa non ha ancora commentato la decisione del presidente. Secondo le stime ufficiali dal 1973 al 1990, gli anni della dittatura di Pinochet, 3.065 opponenti al regime sarebbero stati uccisi e altri 1.200 sarebbero scomparsi. Circa 600 militari sono stati accusati di crimini contro l’umanità, di questi solo 150 sono ancora in carcere. Augusto Pinochet è morto nel 2006 in Cile agli arresti domiciliari, dopo un lungo e tormentato succedersi di arresti e processi in Gran Bretagna, Spagna e Cile. Dopo la caduta della dittatura, per quasi due decenni il Cile è stato governato da partiti di centrosinistra. Il centrodestra è tornato al governo l’anno scorso con Piñera. Messico: detenuti usati come killer dalla direttrice del carcere Corriere della Sera, 26 luglio 2010 Utilizzavano le armi delle guardie per compiere delitti su commissione: coinvolti in almeno tre massacri la guerra del narcotraffico. Liberi di uscire e liberi di uccidere: detenuti reclutati come killer dalla direttrice di un carcere in Messico. I prigionieri venivano armati dalle guardie carcerarie e fatti uscire dalle loro celle per compiere gli omicidi, che sono stati almeno 35 in pochi mesi. La vicenda è venuta alla luce nello stato messicano di Durango. “I responsabili sono con ogni probabilità un gruppo di reclusi del centro di riabilitazione Gómez Palacio ai quali veniva concesso di abbandonare la prigione e usare veicoli ufficiali e armi delle guardie carcerarie”, ha spiegato il portavoce della Procura Generale, Ricardo Nájera. I detenuti venivano autorizzati a lasciare il centro di reclusione durante la notte per portare a termine le missioni, ovvero per compiere veri e propri delitti su commissione. Un metodo utilizzato in almeno tre massacri avvenuti a Torreón, città industriale in mezzo al deserto, capitale dello stato di Coahuila e al confine con il Texas: nel febbraio scorso furono ammazzate a colpi d’arma da fuoco dieci persone, per lo più ragazzi; a maggio quattro uomini scesi da un fuoristrada hanno fatto irruzione in un bar ed aperto il fuoco contro i giovani che si trovavano all’interno ed in meno di un minuto ne hanno uccisi 15. Il 18 luglio scorso un commando armato ha ucciso 17 persone e ferito gravemente altre 18 durante una festa di compleanno organizzata da un gruppo di giovani. Gli investigatori sono risaliti ai detenuti-killer dopo aver trovato sulla scena del crimine i bossoli e le munizioni dei fucili in dotazione appunto ai secondini della struttura carceraria. A far sospettare gli inquirenti che i killer fossero in realtà i detenuti è stato un video sul web con la confessione di un agente di polizia della città di Lerdo, nei pressi di Torreón, caduto nelle mani del cartello de Los Zetas. Nel video l’agente rivela a chi lo ha catturato che la direzione del carcere avrebbe concesso l’uscita dei detenuti per incursioni criminali. Nel filmato, rimosso nel frattempo da YouTube, viene mostrata poi l’esecuzione a morte di questo agente. Nel frattempo la direttrice del carcere, Margarita Rojas Rodríguez, e altri tre funzionari sono stati messi agli arresti domiciliari. Gli attacchi sarebbero da ricondurre ai narcotrafficanti che combattono una sanguinosa battaglia per il controllo del territorio e delle rotte della droga. I dati ufficiali riferiscono che dal 2006 sono già oltre 25.000 i morti in Messico a causa di sparatorie e attentati legati al narcotraffico, molti dei quali sono vittime innocenti. Nel Paese è in atto infatti una resa dei conti fortissima tra bande criminali. Nel dicembre scorso il presidente Felipe Calderón ha schierato circa 50.000 soldati dell’esercito nel nord della regione. Russia: riempiti 100 camion con oggetti proibiti sequestrati ai detenuti Ansa, 26 luglio 2010 Gli oggetti vietati sequestrati ai detenuti delle carceri della regione russa di Rostov sul Don, sono così numerosi da aver riempito cento camion: lo hanno annunciato le autorità giudiziarie locali deplorando la corruzione esistente negli istituti di pena russi. Televisori, registratori, cellulari, coltelli, e un numero enorme di altri oggetti vietati, sono stati scoperti durante perquisizioni e controlli nelle celle della regione. Secondo i responsabili, citati dall’agenzia Ria Novosti, alcuni detenuti scontavano la pena alla quale erano stati condannati in carceri dure, come se fossero “in una stazione balneare”, in vacanza, grazie alla dilagante corruzione. In seguito alle scoperte, quattro alti dirigenti del sistema penitenziario della regione, hanno aggiunto le fonti, saranno rimossi dal loro incarico. Swaziland: bimbi in prigione con gli adulti, forte il rischio d’infezione da hiv Dire, 26 luglio 2010 La magistratura dello Swaziland è preoccupata per l’assenza di strutture di detenzione per minori, che li costringe a condividere le celle della prigione con criminali adulti. “Abbiamo delle strutture di detenzione per minori?” ha chiesto Thomas Masuku, il giudice che presiedeva la Corte Suprema durante il recente processo ad un ragazzo di 16 anni, quando è sembrato chiaro che l’accusato era detenuto nella stessa cella degli adulti nella città di Pigg’s Peak a nord. “Perché i bambini devono essere tenuti insieme agli adulti? Non è giusto che i bambini vengano tenuti in custodia nelle stesse circostanze degli adulti. Devo ripeterlo più e più volte,” ha affermato Masuku. Il portavoce dei Servizi Correzionali Luke Malindzisa ha confermato che due minori - uno di 16 e uno di 17 anni - erano detenuti contrariamente ai regolamenti della prigione di Pigg’s Peak. “In circostanze normali questo non dovrebbe succedere,” ha detto. “In ogni istituto correttivo ci deve essere una sezione destinata ai minori prima che vengano condannati e portati al Centro Giovanile Mdutjane, ed un’altra sezione per i criminali donne prima che vengano condannate e condotte a Mawelawela (prigione femminile), se giudicate colpevoli”, ha affermato Malindzisa. Il tasso di infezione di Hiv/Aids in Swaziland - il più alto del mondo - si riflette nelle circa 12 strutture di detenzione e servizi detentivi dispersi nel paese. “Ciò che è preoccupante è che i bambini sono potenziali soggetti di molestie ed abusi da parte di criminali adulti, che è il motivo per cui devono essere separati”, ha affermato il portavoce di Save the Children Elizabeth Kgololo. “Ho sollevato questa questione tantissime volte nella stampa ed in radio - la necessità di strutture speciali per minori sotto arresto ed incarcerati per crimini. La polizia ed i servizi correzionali non sono contenti che io batta questo punto, ma qualcosa deve essere fatto,” ha affermato. “Questi ragazzi e ragazze sono alloggiati per lunghi periodi di tempo con criminali adulti recidivi,” ha osservato Kgololo. Sebbene la legge preveda che i bambini vengano confinati separatamente, “la mancanza di volontà politica” ha fatto si che questo non corrisponda a realtà. “Dicono sempre che non ci sono abbastanza soldi, ma sembra che ci siano sempre i soldi per fare altre cose - ad esempio, le donne e i bambini vengono condotti nei tribunali negli stessi camioncini di criminali adulti recidivi; il fatto che donne e uomini viaggino insieme è piuttosto preoccupante,” ha commentato. “I bambini devono essere andati a prendere nelle strutture di custodia per bambini e condotti in tribunale da ufficiali di polizia, non tenuti insieme agli adulti con la scusa che questele sono più vicine ai tribunali” ha insistito Kgololo. Gli attivisti per la previdenza sociale dei bambini hanno detto che i bambini accusati di aver commesso dei crimini, insieme a quelli condannati, dovrebbero avere un trattamento speciale. “Alcuni di noi credono che le prigioni servano per riformare e non solo per punire ed i giovani sono le prime persone a dover essere riformate” ha detto Joyce Ngwane, insegnante part-time e consulente per bambini vittime di abusi nel centro di attività commerciali Manzini. “Hanno tutta la vita davanti. - ha affermato - Nessuno che non è ancora stato condannato per un crimine dovrebbe subire una punizione, che è ciò che succede agli imputati minori detenuti con criminali adulti.”