Giustizia: dietro le sbarre un inferno ignorato; cosa deve succedere ancora perché qualcosa cambi? di Eugenio Manca Il Salvagente, 23 luglio 2010 Una condizione subumana, che non cambia né dopo i molti suicidi né dopo le condanne europee, che in qualche caso si può definire tortura. Dunque, che cosa deve succedere ancora nelle carceri italiane? A quanti gradi deve arrivare la temperatura, e di quanto deve ingrossare l’esercito dei dannati, prima che si dichiari che quello e non altro è l’inferno? E quanti suicidi si debbono enumerare (l’ultimo, il trentaquattresimo di quest’anno, si è impiccato a Torino qualche giorno fa) prima di ammettere che il carcere non è solo un luogo di pena ma un luogo di morte? Quali rivolte, quale karakiri collettivo, quali sanguinosi ammutinamenti di massa si attendono, prima che uno Stato degno di questo nome riconosca che si è toccato il fondo e che non è più tollerabile il suo ruolo di aguzzino? Perché - stiamone certi - è così che avverrà. Anzi già avviene, nella generale distrazione estiva. Il Consiglio d’Europa ha detto più volte che lo spazio minimo cui un detenuto ha diritto in cella è di 7 metri quadri. Di meno, la detenzione equivale alla tortura. Sapete quanto spazio ha un detenuto nelle carceri italiane? Due metri quadri! Sissignore, due metri, la metà della metà! Stanno uno sull’altro, forzosamente stesi nei letti a castello, in celle comunemente definite “loculi”. Senza spazio, aria, luce, in una promiscuità avvilente e un puzzo insopportabile di sudore, di latrina, di scarpe vecchie, di cibi guasti. Dio, in libertà cerchiamo l’ombra di un albero, una fontana, un angolo silenzioso ove ripararci... Ma in una cella rovente e affollata, piena di corpi e di voci, di bestemmie e di grugniti, di rimorsi e speranze, dove si è costretti 24 ore su 24 ed è in forse persino l’ora d’aria, ebbene che cosa mai si può cercare? fuorilegge. Teniamole impresse queste cifre: per scaramanzia, se vogliamo; per sollecitudine umana, se ne siamo capaci; o solo perché - come avvertiva Terenzio duemila anni fa - “nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. I posti disponibili nelle carceri italiane sono 43mila. I detenuti sono invece 68mila, una e volta e mezzo le capacità d’accoglienza. A fine anno si prevede che la cifra salirà a 73mila. Da noi l’indice di utilizzo carcerario è del 157%; in Europa la media è del 96%. Il disastro è ovunque: a Bologna su 452 posti disponibili ci sono 1.158 detenuti. A Napoli Poggioreale sono 2.710 su 1.347 posti. A Milano San Vittore sono 900 su 712. A Pistoia 140 su 74 posti. Nel carcere romano di Regina Coeli sono 1.073 contro 640 posti; al piano terra lo spazio di una cella di 6 mq, servizi esclusi, è conteso da tre persone; al primo piano, in una cella da 18 mq, si accalcano in sei, tre letti a castello a destra, tre a sinistra. Spesso si dorme in terra tra oggetti personali ammucchiati, ci si calpesta passando, si litiga per il fornello, per il trogolo, per il cesso. E questo clima stagionale - superfluo dirlo - esaspera tutti i problemi: sale il numero dei detenuti ma si assottiglia quello del personale di custodia, più precaria si fa l’assistenza sanitaria, rischia di svanire ogni sostegno psicologico, essenziale quando - rilevano gli osservatori - intervengono eventi traumatici come malattie, separazioni matrimoniali, condanne definitive: “Garantiamo per quanto possiamo, ma non possiamo escludere il rischio di un crollo psicofisico”. Le associazioni “Antigone”, “A buon diritto” e “Carta”, che raggruppano i più attenti osservatori della condizione carceraria, al termine di una ricognizione svolta in 15 istituti penitenziari lanciano un allarme: “Le carceri sono fuori legge! Quasi niente è come dovrebbe essere, funziona come dovrebbe funzionare, rispetta il dettato delle norme che dovrebbero regolare la vita penitenziaria”. Insomma, nel mondo di “fuori” chi non rispetta la legge viene messo dentro. Ma chi mette dentro le istituzioni inadempienti? È trascorso quasi un anno dalla sentenza della Corte europea dei Diritti umani che ha condannato l’Italia per aver detenuto persone in meno di tre metri quadri. Una violazione dell’art. 3 della Convenzione europea, che configura ipotesi di tortura o trattamento inumano o degradante. “Oggi la situazione è peggiore di allora”. Se poi apriamo la porta del manicomio giudiziario, l’orrore annichilisce. Ignazio Marino, senatore e presidente di una commissione parlamentare di inchiesta, ha visto così i detenuti “pazzi” del Messinese: uomini nudi, sedati, volti coperti dal lenzuolo, legati polsi e caviglie agli assi metallici del letto, un buco nella rete per feci e urine a caduta libera in una pozzetta sul pavimento. Nei bagni, bottiglie d’acqua calate nello sciacquone del water in una illusione di frescura. Celle luride, lenzuola lerce e intrise di escrementi, contenzioni interminabili, “incuria disumana”, terapie psichiatriche obsolete per mancanza di fondi. Sono detenuti, sono malati, ma sono persone affidate allo Stato, e delle quali lo Stato è responsabile. Perché nei loro confronti una pena supplementare? Perché una vendetta? Perché la tortura, peraltro esclusa dal nostro ordinamento? Al ministro della Giustizia Alfano c’è da domandare se non debba provare vergogna un governo che lascia i penitenziari in questa condizione subumana. E al ministro per la Salute Fazio se non trovi un tantino risibili le sue preoccupazioni circa i microbi veicolati dalle cravatte davanti ai letti di contenzione di Barcellona Pozzo di Gotto. Giustizia: il carcere di San Sebastiano è uno schifo…. “qui ci mandano la feccia” di Valentina Ascione Gli Altri, 23 luglio 2010 “Qui ci mandano la feccia”. Parole graffianti, come unghie su una parete. O nella carne viva di chi - la “feccia” appunto - mettendo piede tra queste mura ha lasciato ogni speranza. Come davanti alla porta dell’inferno dantesco. Parole che accolgono la delegazione radicale in visita ispettiva alla Casa Circondariale di San Sebastiano, a Sassari, Un carcere dove il degrado raggiunge livelli intollerabili. Inimmaginabili perfino per visitatori esperti quali sono i Radicali; che conoscono a fondo la realtà penitenziaria italiana, perché le galere le girano da anni. E per tutto l’anno, incluse le feste comandate. Ma allo strazio della vita in disuso è difficile abituarsi, per fortuna. Non si può che rabbrividire, infatti, ascoltando di topi e scarafaggi che escono dagli scarichi dei bagni. Dinanzi ai piccioni che volano da una parte all’altra dei corridoi, lasciando un po’ ovunque tracce maleodoranti della propria presenza. Non c’è pelo che tenga, sullo stomaco, davanti al sudiciume; ai giornali usati al posto della carta igienica che qui non arriva, come nemmeno il sapone; al muschio che in piena estate dipinge e divora i muri scrostati e macchiati delle celle, rendendole simili a presepi, senza comete ne bambinelli. Presepi di 7 metri quadrati, dove in tre bisogna spartirsi lo spazio vitale di una sola persona. E un bagno “alla turca”, pure, messo lì nella cella e separato dal resto - dai letti e dal misero mobilio solamente con un muretto divisorio. Basso. Troppo basso davvero per garantire un angolo, o anche solo uno spicchio di intimità. Un momento di riparo da quella convivenza obbligata, tanto stretta da sfiorare il contatto fisico. E non senza rischi in un posto come San Sebastiano, dove tra i reclusi ce ne sono diversi affetti da malattie infettive. Magari da tempo e senza saperlo, perché per alcuni detenuti - soprattutto stranieri- il carcere e la prima istituzione a occuparsi del loro stato di salute. Ed è qui che, sempre per la prima volta, ricevono un’assistenza sanitaria. Per quanto carente. “San Sebastiano è uno schifo”, chiosa Irene Testa, Segretaria dell’Associazione Il Detenuto Ignoto, dopo averlo visitato con la deputata radicale Rita Bernardini. Uno schifo, sì. E prima, di chiamarla “feccia”, forse sarebbe meglio chiedersi se questo è un uomo. Giustizia: Onu; affollamento favorisce diffusione aids, salute detenuti è salute pubblica Ansa, 23 luglio 2010 Il sovraffollamento delle carceri rappresenta terreno fertile per la diffusione dell’Aids. Lo ha denunciato il relatore delle Nazioni Unite contro la tortura, Manfred Nowak, durante il suo intervento a Vienna in occasione della XVIII Conferenza internazionale sull’Aids. Molto spesso, i detenuti vivono in condizioni disumane in cui il virus dell’Hiv si diffonde attraverso l’uso di attrezzature non sterili per l’iniezione di farmaci e disegnare tatuaggi, contatti sessuali, uso degli stessi rasoi, ha sottolineato Manfred Nowak. “C’è una crisi globale delle carceri”, ha spiegato il relatore Onu, che ha visitato strutture di detenzione in tutto il mondo. Ha sollecitato le autorità a informare i detenuti sul rischio di trasmissione dell’Hiv e a offrire loro gratuitamente preservativi, test sull’Hiv e consulenze. Nowak ha inoltre chiesto ai responsabili dei penitenziari di offrire programmi per la distribuzione di aghi e siringhe, terapie per la sostituzione degli oppiacei e trattamenti a base di metadone. “La scienza ci dice quello che dobbiamo fare con precisione, è soltanto una questione di volontà politica ad applicarlo”, ha osservato il relatore Onu. Le guardie carcerarie dovrebbero inoltre assolvere i loro obblighi di prevenire le violenze sessuali e altre forme di coercizione che purtroppo prosperano in ambienti affollati. “Una delle misure più importanti per prevenire la trasmissione dell’Hiv sarebbe la riduzione del sovraffollamento”, ha indicato Nowak, dal momento che porta alle violenze e alle condizioni che contribuiscono alla diffusione del virus. Ogni anno è carcerata una media di 10 milioni di persone, mentre circa 30 milioni entrano ed escono di prigione: un problema sanitario per la società, ha concluso il relatore Nowak. “La salute della carceri è la salute pubblica”, la sua riflessione. Giustizia: Sidipe; oramai vicini alla soglia dei 70 mila detenuti, ma ci mancano soldi e personale Comunicato stampa, 23 luglio 2010 Pur prendendo atto dei tentativi del Capo del Dap e dei suoi dirigenti generali “romani”, finalizzati a trovare una strategia d’uscita all’attuale gravissima situazione penitenziaria, attraverso ricorrenti disposizioni con le quali si pretenderebbe di contrastare, e ridurre, i molteplici rischi che ogni giorno siamo costretti ad affrontare “a mani nude”, per mantenere il sistema penitenziario italiano all’interno dei paletti di legalità ed umanità che per tradizione, fino a qualche tempo fa, ne contraddistinguevano, la storia e richiamando la decisione del Governo, il quale ha dichiarato, ufficialmente, il 13 gennaio scorso, cioè ben oltre sei mesi fa, “lo Stato di Emergenza delle Carceri Italiane”, e constatando come le disposizioni che ci pervengono risultino, nelle migliori delle ipotesi, delle ovvie esortazione al buon senso, mentre, sotto gli aspetti tecnico-amministrativi, di supporto, mai nulla viene precisato, soprattutto non vengono menzionate le corrispondenti e necessarie risorse, umane ed economiche, messe a disposizione delle Direzioni, per conseguire in modo credibile ed efficace i condivisibili ed ecumenici scopi, ci vediamo, ancora una volta, costretti a dichiarare la nostra delusione per una modalità di gestione che ci risulta ben lontana dall’essere rispettosa dei principi di buona ed imparziale amministrazione. Omettere, quando si danno disposizioni strategiche, ma finanche “tattiche”, di indicare con quali circostanziati mezzi, strumenti, risorse aggiuntive, si interverrà concretamente, ha il sapore della beffa e dell’inganno perpetrato ai danni dei cittadini inconsapevoli. Noi tutti direttori penitenziari, sia d’istituto che degli uffici dell’esecuzione penale esterna, siamo infatti addestrati, professionalmente, a governare risorse certe e gestire persone in carne ed ossa, e non a fendere l’aria con le parole. Di contro, siamo invece testimoni di una situazione paradossale e ambigua, che sembra maggiormente finalizzata ad additare, quali possibili responsabili dello sfacelo penitenziario, gli organi periferici piuttosto che i gangli nervosi centrali che sembrano vivere in un altro, alto, “mondo”. L’assenza esplicita di ogni indicazione su sicuri finanziamenti, “straordinari” e supplementari, destinati agli organi intermedi, quali i provveditorati, ed alle singole direzioni per, ad esempio, allestire, ove semmai ci fossero i relativi spazi, nuove sezioni, contrastare il rischio dagli incendi, assicurare più umane e dignitose condizioni di vita ai detenuti, ma anche al personale, aumentare le ore di lavoro degli psicologi, predisporre nuovi sistemi di telecontrollo, acquistare arredi funzionali ed elettrodomestici da destinare alle persone detenute, migliorare il decoro e la vivibilità delle caserme, integrare con il minimo necessario di dipendenti “la prima linea”, quella degli operatori che sfidano il quotidiano di tensione e che vengono offerti al diurno sacrificio e/o ludibrio delle cronache, ci fa comprendere la distanza abissale tra il dire ed il fare. Tra l’altro, continuiamo a non comprendere, forse perché abbiamo la colpa di essere gli amministratori delle città di ferro, come sia ragionevolmente possibile annunciare che si intendono realizzare nuovi istituti penitenziari o nuovi padiglioni, in carceri già prossime al collasso e/o collassate, e non avviare, anzi far precedere con congruo anticipo, le complesse procedure amministrative finalizzate all’assunzione di altro personale di polizia penitenziaria, di funzionari educatori, di assistenti sociali, di psicologi, di amministrativi, di dirigenti penitenziari. È ormai una nenia quella del fantomatico “rabbocco” di 2000 e passa agenti che si “vorrebbero” assumere, ma nulla di serio e concreto fino ad oggi abbiamo realmente intravisto. Tra l’altro, seppure queste risorse umane ci fossero, non basterebbero probabilmente neanche a coprire il turnover degli ultimi due anni di disperazione penitenziaria. Per sbugiardarci, e non ci offenderemo, invitiamo l’amm.ne ad indicare in premessa, in ogni circolare, disposizione, ordine o comunque lo si voglia chiamare, ove si esiga un “facere”, quante risorse umane e finanziarie risultino messe effettivamente a disposizione dei dirigenti a capo degli Istituti e degli Uepe e di rendere pubblici tutti i finanziamenti e le risorse umane conferite ad ogni istituto e provveditorato, distinguendo quelle “ordinarie” da quelle straordinarie, almeno negli ultimi 2 anni. Insomma, in questi momenti difficili, ci venga almeno risparmiata la sgradevole sensazione di vivere quella nota situazione, forse una diceria, che precedette la rivoluzione francese, in cui la regina Antonietta d’Austria non comprendeva perché il popolo francese protestasse e reclamasse il pane quando i “croissant”, con la loro sfoglia delicata, erano più gradevoli! Sidipe - Sindacato Direttori Il Segretario Nazionale Dr. Enrico Sbriglia Il Presidente Dr.Ssa Cinzia Calandrino Il Vicesegretario Nazionale Dr. Rosario Tortorella Il Vicesegretario Nazionale Aggiunto Dr. Francesco D’anselmo Il Consiglio Direttivo Dr.Ssa Antonietta Pedrinazzi, Dr.Ssa M. Antonietta Cerbo, Dr.Ssa Silvia Della Branca, Dr.Ssa Angela Gianì, Dr. Nicola Petruzzelli, Dr. Salvatore Pirruccio, Dr. Francesco Cacciola, Dr. Giuseppe Donato, Dr. Francesco Dell’aira. Giustizia: Ionta (Dap); l’amplificazione mediatica genera senso sfiducia nel sistema penitenziario Ristretti Orizzonti, 23 luglio 2010 A tutto il personale. Le attuali difficili condizioni in cui vi trovate ad operare, dovute principalmente al sovraffollamento, con la stagione estiva si gravano di ulteriori problemi. L’amplificazione mediatica, talvolta ingiustificata, degli eventi carcerari determina l’effetto della diffusione, nell’opinione pubblica, di un senso di sfiducia nel sistema penitenziario nel suo complesso. Al fine di “misurare” la percezione, nei cittadini, dell’operato dell’Amministrazione e della Polizia Penitenziaria, ho commissionato un sondaggio a una società di ricerca i cui risultati saranno resi noti a breve. Essi ci consentiranno di intervenire con maggiore incisività nella comunicazione istituzionale. La prima metà del 2010 è stata caratterizzata da una fase di transizione che ha approntato la strategia di interventi e che ha avuto il suo definitivo assetto nel “Piano carceri”. In numerose occasioni ho avuto modo di esplicitare i punti significativi del piano che poggia su tre pilastri, fortemente voluti da Amministrazione e Governo, per conseguire l’obiettivo della stabilizzazione del sistema penitenziario. Stiamo lavorando con la consapevolezza che il sistema carcere deve essere condotto fuori dall’emergenza, ripristinando condizioni di vita dignitose per le persone detenute e internate e consentendo al personale di operare nel miglior modo possibile per lo svolgimento degli alti compiti assegnatigli. Di recente ho parlato con i comandanti di reparto, dopo avere incontrato i Provveditori, con cui costante e proficuo è il rapporto, e i direttori, incontri durante i quali, con approccio diretto e sincero, ho avuto la possibilità di ascoltare interventi responsabili che, pur esponendo le criticità strutturali e organizzative delle specifiche realtà, hanno confermato il valore della lealtà istituzionale, la capacità di confrontarsi con l’emergenza individuando soluzioni il senso di appartenenza forte e autentico all’Amministrazione Penitenziaria; valori e capacità che rilevo ogni qualvolta sono in insita negli istituti penitenziari, dove vedo polizia penitenziaria e operatori amministrativi, direttori, educatori, contabili impegnati e consapevoli del ruolo. Mi rivolgo a voi tutti operatori penitenziari, di ogni ordine e grado, per garantirvi il mio massimo impegno dunque nel portare la nostra Amministrazioni fuori dall’emergenza e per sostenere e valorizzare le vostre professionalità. Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta Giustizia: Osapp; garantire l’acqua nelle carceri, invece di spendere soldi in inutili sondaggi Ansa, 23 luglio 2010 Un sondaggio per misurare la percezione nei cittadini dell’operato dell’Amministrazione e della Polizia penitenziaria: a commissionarlo ad una società di ricerca è stato il Capo del Dap, Franco Ionta, così scatenando la protesta di uno dei principali sindacati di categoria, l’Osapp, secondo cui soldi destinati “inutili sondaggi” potevano essere destinati diversamente, per esempio in impianti idraulici visto che “in quasi la metà delle carceri manca acqua potabile corrente”. Nel messaggio inviato dal capo del Dap a tutto il personale penitenziario, e reso pubblico dall’Osapp, si premette che le attuali difficili condizioni nelle carceri sono dovute principalmente al sovraffollamento e con la stagione estiva si gravano di ulteriori problemi. L’amplificazione mediatica, talvolta ingiustificata, degli eventi critici carcerari - scrive Ionta - determina l’effetto della diffusione, nell’opinione pubblica, di un senso di sfiducia nel sistema penitenziario nel suo complesso. Per questo motivo il capo del Dap spiega di aver commissionato il sondaggio i cui risultati - sostiene - ci consentiranno di intervenire con maggiore incisivita’ nella comunicazione istituzionale. Secondo Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, la lettera “dimostra come il problema del sovraffollamento si riduca per Ionta in una pura e semplice questione di immagine”. “Probabilmente in questi giorni di afa e di gran caldo, il problema della siccità in carcere dovrebbe essere il primo dei problemi all’ordine del giorno - conclude il sindacalista - che non uno stupido sondaggio”. Giustizia: si suicida Paolino Maria Quattrone, provveditore delle carceri calabresi di Paolo Toscano Gazzetta del Sud, 23 luglio 2010 Una fine sconvolgente. Si è sparato un colpo di pistola calibro 38 alla tempia. Così, nella tarda mattinata di ieri, si è tolto la vita Paolino Maria Quattrone, provveditore regionale della Calabria dell’amministrazione penitenziaria. Un gesto disperato che ha ammantato di tragedia una giornata cominciata male per il mondo carcerario calabrese con l’arresto di un agente di custodia in servizio a Palmi accusato di aver favorito affiliati alla ‘ndrangheta. Quattrone si suicidato in località Pantano di Condofuri, accanto al ponte sulla fiumara Amendolea, a poche centinaia di metri dal villaggio “Costa dei Saraceni”, all’ingresso di Bova Marina, dove aveva una villetta e stava trascorrendo un periodo di ferie al mare con la famiglia. Secondo la prima ricostruzione dei carabinieri, il capo delle carceri calabresi, è uscito di casa intorno alle 11,30. Gli ultimi a vederlo in vita sono stati alcuni residenti dello stesso villaggio. Era in maglietta e pantaloncini e, secondo quanto riferito dai testimoni, aveva sottobraccio un plico arrotolato di documenti. Una circostanza che ha fatto pensare che stesse anticipando il rientro in città per lavoro. C’è stato uno scambio di saluti. Ai vicini Quattrone è parso particolarmente scosso. Gli stessi testimoni, così come quanti l’hanno incontrato negli ultimi giorni, avevano notato che era pallido e dimagrito. Nulla, comunque, poteva fare presagire il tragico epilogo. Quattrone si è messo alla guida della sua Nissan Micra di colore rosso e si è allontanato. Intorno alle 13,30, al rientro dal mare, non trovandolo in casa e avendolo chiamato inutilmente al cellulare, è stata la moglie, Guglielma Puntillo, a dare l’allarme. In casa con la donna c’erano la figlia Valentina e una nipotina. L’attesa di notizie è durata poco più di un’ora, fin quando il corpo senza vita di Quattrone riverso sul sedile di guida della sua utilitaria è stato notato da un passante. La notizia della tragica fine del provveditore ha fatto il giro della Calabria provocando sconcerto. Ha raggiunto a Roma il figlio, Massimo, che lavora alla farmacia vaticana. Gli accertamenti in località Pantano sono stati svolti dai carabinieri della Compagnia di Melito Porto Salvo. Quattrone non ha lasciato alcun biglietto per spiegare i motivi del suicidio. Chi lo conosceva sostiene che negli ultimi tempi avrebbe avuto motivi di risentimento con l’amministrazione penitenziaria centrale legati anche all’iniziativa della Procura di Cosenza che aveva chiesto il suo rinvio a giudizio per abuso d’ufficio, nell’ambito di un’inchiesta su contrasti che il funzionario aveva avuto con il direttore del carcere di Cosenza in merito ai lavori di ammodernamento della struttura. “Questa vicenda giudiziaria - sostiene Mario Nasone, amico intimo ed ex responsabile dell’ufficio esecuzione esterna - gli aveva fatto perdere la pace e la tranquillità”. Ieri mattina Nasone ha incontrato l’amico al bar vicino all’ingresso del villaggio turistico. Non poteva presagire che sarebbe stato il loro ultimo incontro. Davanti a una tazzina di caffè Quattrone ha ribadito la sua inquietudine di servitore dello Stato che si sentiva tradito: “Mi ha ripetuto - racconta Nasone con la voce rotta dall’emozione - che lui non meritava il trattamento che ha avuto”. Quattrone, 56 anni, reggino, era provveditore in Calabria da dieci anni. Alle spalle aveva una lunga esperienza nel settore dell’amministrazione penitenziaria. Era stato direttore di varie carceri e successivamente aveva diretto la scuola di polizia penitenziaria di Cairo Montenotte (Savona). Prima di svolgere lo stesso incarico in Calabria era stato provveditore regionale in Umbria. “È una notizia che ci sconvolge - ha affermato Domenico Capece, segretario del Sappe - perché inaspettata e perché avevamo avuto modo di apprezzare la serietà e la preparazione del dott. Quattrone nei lunghi anni di servizio”. L’arcivescovo di Cosenza, Salvatore Nunnari, ha dichiarato: “Costernato, voglio ricordare l’amico fraterno Paolo Quattrone, uomo di adamantina coscienza che ha risollevato le sorti delle carceri calabresi puntando sull’eccellenza che tutti noi conosciamo a Laureana di Borrello. Personalmente gli sono grato perché ha salvato tanti giovani che dalla delinquenza avevano visto distruggere la loro vita. Oggi sono studenti universitari e hanno riacceso nella loro vita la speranza. Quella speranza che si è affievolita negli ultimi tempi, per le cattiverie degli uomini, nel cuore di Paolo”. I funerali saranno celebrati alle 17 nella chiesa cittadina di Santa Lucia. Il messaggio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta, unitamente al vice Capo vicario Emilio di Somma e al Direttore generale dei detenuti Sebastiano Ardita partecipano ai funerali del Dr. Paolo Quattrone, Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, che si terranno oggi alle 17.00 nella chiesa di S. Lucia a Reggio Calabria. Il Capo del Dap, a nome dell’Amministrazione Penitenziaria, esprime il sincero e sentito cordoglio per la scomparsa del dr. Paolo Quattrone, che ha testimoniato nel corso della sua carriera professionale capacità manageriali e attaccamento alle istituzioni. Le sue doti umane, la sua sensibilità e la generosità che hanno caratterizzato il suo impegno nell’Amministrazione penitenziaria lasciano un senso di vuoto e di sgomento in tutti coloro che lo hanno conosciuto e apprezzato. L’Amministrazione Penitenziaria si stringe intorno alla famiglia per l’incolmabile perdita. Il messaggio della Commissione parlamentare d’inchiesta su errori sanitari “Appresa la notizia del suicidio del procuratore Quattrone, ritengo doveroso ricordare l’impegno di un funzionario dello Stato che si è speso per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti nelle carceri, tema, questo, che costituisce un filone specifico di indagine della Commissione da me presieduta”. Così il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta su errori e disavanzi sanitari Leoluca Orlando, ha commentato la scomparsa del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Calabria, Paolo Maria Quattrone, annunciando che sarà presente ai funerali insieme a Doris Lo Moro, membro della Commissione e responsabile del filone d’inchiesta sulla salute nelle carceri. “È una notizia che ci sconvolge - ha commentato il deputato Pd, primo cittadino lametino ed ex assessore regionale alla Sanità - perché abbiamo avuto modo di apprezzare la serietà e la preparazione del dottor Quattrone nei suoi lunghi anni di servizio. Certamente vorremmo comprendere quale profondo disagio lo ha portato a compiere l’estremo gesto e ci stringiamo alla famiglia in questo doloroso momento”. Il messaggio del Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia, Sen Salvo Fleres Con riferimento al suicidio del Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Calabria, il Sen. Salvo Fleres, Coordinatore nazionale dei Garanti regionali dei diritti dei detenuti nonché Garante dei diritti dei detenuti della Regione siciliana, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “La situazione delle carceri italiane è alla tragedia”. “Dopo i 37 suicidi di detenuti, dopo le centinaia di atti di autolesionismo, dopo suicidi ed omicidi di agenti della Polizia Penitenziaria ed altre morti sospette, siamo arrivati al drammatico suicidio del Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, Dott. Paolo Maria Quattrone, che era ormai prossimo alla pensione. Quest’ultimo assurdo episodio sancisce ulteriormente, ove ve ne fosse ancora bisogno, lo stato di gravissino disagio e di profonda crisi del sistema penitenziario italiano. Ritardare gli interventi necessari a ridurre il sovraffollamento delle carceri a migliorare le condizioni detentive, a reintegrare gli organici di agenti, educatori, psicologi, operatori sanitari vuol dire essere complici di quella che può ormai definirsi “la strage delle carceri”. Una strage le cui vittime, purtroppo, si contano sempre di più al di qua e al di là delle inferriate. Il messaggio di Giulio Starnini (Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria) In ricordo di Paolo Quattrone, Provveditore Regionale della Calabria dell’Amministrazione Penitenziaria. Oggi, 22 luglio 2010 Paolo ha voluto privare la sua famiglia, gli amici, i tanti che lo stimavano della possibilità di incontrarlo ancora. L’unica azione che non condivido e non approvo di una persona che ho avuto la fortuna di conoscere grazie al mio lavoro al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Un uomo di Stato, di giustizia, di cultura. Un uomo che era riuscito in Calabria (la Regione italiana con il più basso Pil del Paese) a gareggiare per efficienza con il Provveditorato della Regione più ricca di Italia, la Lombardia. Un uomo guidato dalla dignità e dal rispetto verso gli altri, stimato al tempo stesso da detenuti e agenti di polizia. Un uomo che suscitava nei tanti burocrati inetti che popolano l’Amministrazione Pubblica ai vari livelli, sentimenti di astio perché dimostrazione vivente che le cose debbono e possono cambiare. Un uomo da sempre vicino alla Sanità Penitenziaria che ha accompagnato fin dai primi passi partecipando di persona a riunioni operative, convegni e realizzando in Calabria, con l’aiuto dell’amico e collega Luciano Lucania, un modello assistenziale poi mutuato da altre Regioni. Alla famiglia, alla moglie che ho conosciuto, non conosco parole che possano esprimere la vicinanza mia e di tutti gli iscritti della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria a partire dl presidente Prof. Sergio Babudieri. A noi rimane il rammarico di non aver avuto la possibilità di capire e di aiutare. Lettere: memorie di un detenuto… di Stefano Anastasia Terra, 23 luglio 2010 “Sono un vecchio uomo di carcere - ci scrive U. T. da un istituto del Nord Italia - , per questo motivo, vedo molto e di conseguenza scrivo molto”. In effetti non è la prima lettera che ci arriva: segue altre, puntuali e dettagliate nelle denunce delle condizioni di detenzione dell’Istituto in cui si trova. Questa, però, potrebbe essere l’ultima della serie, e quindi merita di essere trascritta quasi per intero. “Ormai è quasi un anno che questa situazione si porta avanti, ed è sempre peggio. Più psicofarmaci per tutti quelli che li chiedono, o per quei tossici che non riescono ad affrontare la realtà quotidiana senza fare a meno delle “terapie”. Guardandomi intorno, frequentando l’infermeria, rompendo le scatole a educatori, psicologi, Sert, ispettori, volontari (che poi sono gli unici a “sbattersi” per i detenuti), facendo questo capisco che lavorano a compartimenti stagni …. Lavorando in questo modo, e cioè non comunicando tra loro, chi ci va di mezzo è il detenuto: perché non riceve cure; non gli viene aperta, e di conseguenza chiusa, la “sintesi” per poter beneficiare di misura alternativa (si arriva nella quasi totalità dei casi di camere consiglio celebrate mancanti di sintesi comportamentale, e quando queste sintesi vengono chiuse e presenti per il giorno della Camera di consiglio, sono sfavorevoli alla misura alternativa … ma ci prendono in giro?)”. Dopo qualche considerazione positiva sui poliziotti penitenziari (“se noi siamo l’ultima ruota del carro, loro sono la penultima, e … alcuni di loro vogliono che finalmente venga fatta chiarezza” su come funziona l’Istituto), la scure polemica si abbatte proprio su quelle professionalità che dovrebbero essere più attente alle condizioni di vita dei detenuti e alle loro prospettive di reinserimento. “Se sono arrivato a non stancarmi di scrivere è perché dal 2003 a oggi in cinque carcerazioni diverse … posso dire che tenere qui in carcere il più possibile i detenuti è prerogativa di guadagno per il Ministero della giustizia e di un lavoro sicuro per le persone che operano all’interno del carcere … i classici “acari sociali”: la psicologa che quando ti chiama si addormenta mentre le stai parlando … l’educatore “chimera” (il mio compagno di cella, dopo 176 richieste di colloquio, incontrandolo casualmente, gli ha chiesto: “quando mi può chiamare?” risposta: “faccia domandina!”, “scusi ne ho fatte 176 in un anno e più”, “ma è ancora il caso che lei faccia la domandina”)”. “La mia fortuna - conclude U.T. - è solo che sono quasi a fine pena”, anzi, “facendomi due calcoli da vecchio detenuto, con i giorni di liberazione anticipata il mio fine pena sarebbe stato il mese scorso!”. Chissà se è ancora lì? In bocca al lupo, vecchio U.T.! Catania: detenuto di 39 anni si suicida tagliandosi la gola Ristretti Orizzonti, 23 luglio 2010 Andrea Corallo, 39 anni, detenuto nel carcere Bicocca di Catania, questa mattina si è tagliato la gola con una lametta da barba ed è morto dissanguato. L’uomo era stato arrestato nell’aprile 2008 a Ragusa, nell’ambito di un’operazione contro la criminalità organizzata dedita alle estorsioni. Non carcere della Bicocca poco più di un mese fa si era suicidato un altro detenuto, Antonio Di Marco, 43enne. Nel complesso degli istituti penitenziari della Sicilia nel 2010 i detenuti suicidi sono 6, di cui l’ultimo in ordine di tempo (il 18 luglio) è stato Rocco Manfrè, 65enne, che si è impiccato nella Casa Circondariale di Caltanissetta. Da inizio anno salgono così a 38 i detenuti suicidi nelle carceri italiane (32 impiccati, 5 asfissiati col gas e 1 sgozzato), mentre il totale dei detenuti morti nel 2010, tra suicidi, malattie e cause “da accertare” arriva a 105 (negli ultimi 10 anni i “morti di carcere” sono stati 1.703, di cui 594 per suicidio). Nei primi sette mesi del 2009 (anno che ha fatto registrare il “record storico” di suicidi in carcere, con 72 casi), il numero dei detenuti suicidi era attestato a 31, quindi 7 in meno rispetto a quest’anno. Un trend negativo che, a meno di clamorose inversioni, a fine anno produrrà un numero di decessi in carcere mai visto, né immaginabile fino a pochi anni fa: a titolo di esempio nel 2007 i suicidi furono 45, l’anno successivo 46… ma oggi i numeri sono quasi raddoppiati. Uil-Pa: da inizio anno suicidi 38 detenuti, 4 agenti penitenziari ed un dirigente generale Stamattina un detenuto della casa circondariale di Catania Bicocca si è suicidato in cella recidendosi la carotide, con modalità ancora da accertare. È il 38esimo suicidio in cella del 2010. A darne comunicazione il segretario generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, che sottolinea: “Abbiamo la sensazione che nemmeno questa strage silenziosa che si consuma all’interno delle nostre degradanti prigioni scuota dal torpore una classe politica che ha, evidentemente, accantonato la questione penitenziaria. Nelle nostre galere si continua a morire. Dal 1 gennaio 2010: 38 detenuti, 4 agenti penitenziari ed un dirigente generale si sono suicidati. È forse il caso di approfondire ed investigare? Noi diremmo anche di risolvere. Invece nulla. Tutto è rimesso alla sola buona volontà ed alle evidenti capacità del personale. Si continuano ad ammassare persone in spazi che non ci sono. Il personale deve rinunciare ai diritti elementari e sottoporsi a turni massacranti per reggere la baracca. La questione penitenziaria, nella sua drammaticità, è anche una questione morale. Per i tanti sprechi. Per l’incapacità di risolvere. Per l’indecenza delle strutture. Per il degrado degli ambienti. Per i rischi igienico-sanitari. Riceviamo continui inviti - prosegue Sarno - da parte del Dap a non allarmare. Noi non allarmiamo. Informiamo sulle gravi realtà, nel tentativo di scuotere le coscienze. La società e la stampa, però, appaiono indifferenti ai drammi quotidiani che si consumano all’interno di quelle mura che sempre più sono il confine tra civiltà e inciviltà“. Palermo: l’Ucciardone, carcere al collasso… e i detenuti finiscono nel “canile” di Ranieri Salvadorini La Repubblica, 23 luglio 2010 Ispezione di Radicali e Ristretti Orizzonti dopo la denuncia di Radiocarcere: le persone in attesa di immatricolazione vengono chiuse in una cella larga un metro e mezzo in condizioni igieniche disastrose. E la struttura è sempre più abbandonata a se stessa. Il primo allarme l’aveva lanciato Radiocarcere di Riccardo Arena, che il 22 maggio del 2010 pubblicava la lettera di Giuseppe, 32 anni: “Cara Radiocarcere, sono un detenuto dell’Ucciardone e quando sono entrato qui dentro sono stato nel “canile”. Ovvero una gabbietta, larga un metro e alta due, dove stai chiuso in piedi per ore, qualcuno anche per giorni, io ci sono stato 10 ore. È stato terribile. Vomitavo, facevo i bisogni e piangevo. Ma nessuno è venuto a vedere come stavo”. La scorsa settimana una delegazione composta da Radicali, l’Associazione Ristretti Orizzonti, alcuni volontari e personale dell’Ufficio del Garante dei detenuti della Sicilia, si è recata in visita al carcere palermitano per un’ispezione. “Sono stati i detenuti a parlarci dell’esistenza del “canile” - spiega Rita Bernardini, deputata Radicale - e lo chiamano così perché, in pratica, non può essere definito diversamente: è una struttura separata dal carcere, ed è proprio come un canile, solo che vecchio, sporco e fatiscente”. È dove mettono i detenuti transitori, cioè gli arrestati, in attesa di essere immatricolati e, poi, smistati nelle sezioni del carcere. “Il giorno dell’ispezione dentro c’era un ragazzo - prosegue la Bernardini -, ma quando ho fatto per chiedergli da quanto tempo fosse lì dentro, di fatto, mi è stato impedito”. Gloria Cammarata, - Responsabile dello Sportello dell’Ufficio del Garante dei detenuti presso l’Ucciardone - il “canile” lo descrive così: “le gabbie formano una sorta di struttura a “U”, sono larghe forse un metro e mezzo, il tetto è una plastica ondulata deteriorata, la parete è una grata metallica molto fitta, non ci passa nemmeno un dito e l’unico punto luce è il blindo”. Prosegue Cammarata: “Il pavimento è una gittata di cemento, e poi non c’è altro: solo un buco alla turca, protetto - si fa per dire - da un muretto molto basso, c’è solo sporco e le condizioni igieniche sono molto scarse”. Inoltre, “tra queste celle è stata ricavata anche l’infermeria, dove i detenuti effettuano la prima visita medica”. Il Direttore dell’Ucciardone, Maurizio Veneziano, ha affermato che nel “canile” i detenuti non sostano più di 5 ore. Ma i detenuti, dice Rita Bernardini, raccontano un’altra verità. E secondo Laura Baccaro, psicologa e criminologa di Ristretti Orizzonti “nel momento in cui facciamo della legittimità di una situazione del genere solo una questione di ore perdiamo di vista il problema: è giusto lasciare una persona in quelle condizioni?”, si chiede l’esperta. “Il rischio è di perdere di vista proprio il concetto di legalità e di diritto pensando che in galera tutto sia concesso per il semplice fatto che non sono persone ma detenuti che devono scontare una pena. Un’idea di pena che si identifica con questo tipo di carcere”, conclude, “si traduce in un processo di normalizzazione delle violazioni dei diritti umani che, in ultima istanza, coinvolge tutti: operatori, agenti e detenuti”. “L’Ucciardone è il carcere simbolo del collasso delle carceri italiane”, spiega anche Rosario Di Prima, responsabile per la Sicilia del Comparto Sicurezza Cgil-Funzione Pubblica. “La storia del canile è vera ed è brutta, ma non va dimenticato che in pochi carceri come nel nostro, nei limiti del possibile, c’è un lavoro così intenso per costruire un rapporto umano con i detenuti”. Una testimonianza confermata sia dagli ispettori che dal Garante: Salvo Fleres, senatore Pdl e Coordinatore nazionale dei Garanti regionali segnala che i lavoratori dell’Ucciardone “fanno un ottimo lavoro, segnalano con precisione i casi d’ascolto e sono molto collaborativi, così come il direttore, ma purtroppo la situazione è disastrosa e va ben oltre le responsabilità dei singoli operatori”. Quest’anno, inoltre, la Regione ha praticamente azzerato i finanziamenti agli uffici di Fleres: da 500 mila euro a 12 mila - “ci bastano per i francobolli per rispondere ai detenuti, e poco altro”, spiega il Garante. Il fitto dossier preparato dagli ispettori radicali descrive una situazione da incubo. Ecco un piccolo estratto: “All’Ucciardone ci sono 700 detenuti a fronte dei 430 previsti dal regolamento e l’organico della polizia è sotto di 160 agenti. Per le spese di ordinaria amministrazione il carcere dispone di 8 mila euro l’anno. Ci sono 1 solo infermiere e 1 solo medico che devono coprire per 24 ore tutto il carcere. Il 15 per cento dei detenuti è sieropositivo, sono diffusissime malattie infettive e patologie psichiatriche di ogni genere. Non ci sono spazi di alcun genere, né per lavorare né di socialità. Un detenuto in cella n°1 ha fatto domanda per un colloquio 13 mesi fa e non ha avuto ancora risposta. In una cella un detenuto da solo con tubercolosi: indossa una mascherina ed è tenuto a distanza da tutti (detenuti e agenti). Solo dieci minuti d’aria al giorno, con caldo infernale. Difficile avere un colloquio con gli educatori, attese anche di 7 mesi”. E poi: “I topi, gli scarafaggi, e le formiche nelle celle. Nell’area retrostante il passeggio, su cui si affacciano le celle, sono presenti animali morti e salgono odori insopportabili. Molti detenuti si privano di vedere i figli. Perquisizioni anche ai bambini con i cani, tolgono perfino i pannoloni”. Per riprendere le parole con cui il giovane ha scritto a Radiocarcere: “Dopo il canile mi hanno portato in uno stanzone pieno zeppo di detenuti. Lì c’era gente malata di mente, stranieri, tossicodipendenti in crisi d’astinenza, malati d’Aids. Dopo circa un mese mi hanno portato in quella che sarebbe diventata la mia cella e mi son detto: “il peggio è passato!”. E invece mi sbagliavo, l’inferno vero all’Ucciardone iniziava lì”. Genova: il direttore Mazzeo; questa è l’ora più nera del carcere di Marassi di Massimo Calandri La Repubblica, 23 luglio 2010 Sono trent’anni che Salvatore Mazzeo, direttore del carcere di Marassi, fa questo mestiere. “Ma un periodo così difficile non me lo ricordo”, confessa. La prigione di Genova è un inferno, con il doppio dei reclusi previsti, trecento tossicodipendenti, quasi un centinaio di sieropositivi e cinquanta casi psichiatrici gravi. Un inferno, proprio come gli altri sei istituti della regione. Un inferno per duemila reclusi e milletrecento guardie. La visita a sorpresa nelle prigioni liguri di un consigliere regionale (Matteo Rossi) e di un avvocato specializzato nel tutelare i diritti degli ultimi (Alessandra Ballerini), ha denunciato la disumanità di questo sistema. Un sistema che dovrebbe rieducare duemila detenuti, e invece li rende peggiori. Due metri quadri a disposizione per ogni detenuto: secondo i parametri europei dovrebbero essere almeno nove. Strutture fatiscenti e sovraffollate, niente docce e a volte neppure una finestra. Persone malate che vengono abbandonate a loro stesse. Agenti sotto organico: rispetto alle assegnazioni ufficiali ne mancano 404. Tre bimbi a Pontedecimo con le mamme detenute: uno non parla ed è rachitico, non ha mai visto il sole. UN PERIODO così difficile non se lo ricorda, dice. “A Marassi i detenuti sono ottocento, il doppio di quelli tollerati. E il numero continua ad aumentare: in Italia ogni mese ci sono mille reclusi in più”. Detenuti, guardie e avvocati sono d’accordo. Così si fa solo il male di tutti, presente e futuro. Ci si imbarbarisce. E il punto di non ritorno è vicino. “Bisogna intervenire presto. E mi auguro che le annunciate misure governative saranno realizzate. Sono previsti interventi di edilizia penitenziaria: nuovi bracci detentivi, e nei prossimi anni la costruzione di altri istituti”. Anche a Genova o in Liguria? “No. Però se aumentano le celle altrove, potremo almeno svuotare un po’le nostre”. Un po’poco. “Sarà introdotta la detenzione domiciliare per chi deve passare ancora in carcere meno di un anno. A Marassi ci stiamo attrezzando con una sezione speciale”. Resta un inferno. “Da settembre faremo partire i lavori perché ogni cella della sezione giudicabili (quelli in attesa di giudizio) abbia la sua doccia. Riguarderà 250 persone, in tre mesi dovrebbe essere tutto finito. Oggi in effetti le docce sono altrove e spesso trasferire i reclusi diventa un problema per questioni di organizzazione e numero di agenti”. Il detenuto va trattato con umanità e rieducato: questo dice la Costituzione. “Il dipartimento con una circolare ha invitato a diminuire in tempo che i reclusi trascorrono in cella: stiamo lavorando per aumentare le occasioni di colloqui esterni”. Sembrano tanti piccoli rattoppi. “Noi stiamo davvero facendo del nostro meglio, qui a Marassi: abbiamo iniziato il laboratorio di falegnameria, il panificio va a gonfie vele, presto partirà il mercato del pesce, dove il pescato sarà pulito e confezionato per la vendita. Il 30 settembre ci sarà un’altra rappresentazione teatrale. Ma..” Ma? “Ma l’istituto resta sovraffollato, ci sono celle con 9 detenuti. L’estate è calda, cerchiamo di tenere i ‘blindì aperti fino all’una di notte per fare circolare un po’d’aria”. La polizia penitenziaria fa i salti mortali, le guardie a Marassi sono 303 e dovrebbero essere 472. “Siamo come al circo, dico ai miei, solo che ci tocca fare tutto contemporaneamente: i trapezisti, i clown e i venditori di zucchero filato”. Tossicodipendenti, sieropositivi. Decine di tentativi di suicidio. “Ho appena chiesto alla Asl di aumentare l’attenzione sui soggetti psichicamente fragili. Il semplice controllo della polizia non limita i rischi. Servono più psichiatri”. Invece aumentano solo i detenuti. “Dovremmo garantire processi più rapidi. La metà dei detenuti attende il giudizio, mentre la custodia cautelare in carcere dovrebbe essere l’eccezione. Meno reclusi, ed un miglior uso delle misure alternative: dobbiamo dare delle possibilità concrete a queste persone di reinserirsi nella società”. Piacenza: il sindaco Reggi chiede nuovo incontro urgente ad Alfano Ansa, 23 luglio 2010 Dopo la manifestazione nazionale che ha visto in piazza a Roma i sindacati delle forze dell’ordine per una protesta unitaria contro gli effetti della manovra governativa sul comparto, il sindaco di Piacenza e vicepresidente Anci Roberto Reggi sottolinea che l’attenzione e l’impegno dei Comuni, su questo fronte, “non vengono certo meno, ma si rafforzano anche attraverso la richiesta, che ho avanzato insieme al presidente Sergio Chiamparino, di un nuovo e urgente incontro con il ministro della Giustizia Alfano”. “Ad essere allarmanti - spiega Reggi - non sono solo i dati relativi ai tagli, pari all’11%, che investiranno il settore della sicurezza, ma anche le cifre che rivelano, ormai da tempo, una situazione sull’orlo del collasso per le carceri italiane. È lo specchio di una politica fondata unicamente sui grandi proclami, che non esita a spostare il peso reale delle sue più deleterie decisioni sulle spalle dei lavoratori e dei cittadini che già vivono situazioni di disagio. Sovraffollamento, carenza di personale, strutture inadeguate e non dignitose: problemi che Anci denuncia da tempo, e in merito ai quali avevamo già richiesto l’istituzione di una sede stabile di confronto al Ministero della Giustizia”. Emblematico e sconcertante, rileva Reggi, è il dato dei 37 suicidi nei penitenziari italiani nei primi sei mesi del 2010: “Anche a Piacenza - ricorda - la scorsa settimana un detenuto ha tentato di togliersi la vita. Episodi come questi non possono lasciarci indifferenti. Spesso questi gesti estremi sono una richiesta di aiuto da parte di chi guarda con disperazione al futuro. Il carcere di Piacenza è quello maggiormente penalizzato in Emilia-Romagna: conta 420 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 178 posti, con situazioni inaccettabili che vedono la presenza di tre persone recluse in spazi di nove metri quadrati”. “I Comuni - conclude Reggi - vogliono essere parte attiva di una politica coordinata, che integri al meglio le azioni intraprese dagli enti locali e i programmi a livello nazionale; in particolare, laddove sono previsti nuovi padiglioni, i sindaci chiedono di essere informati dei progetti e dello stato di avanzamento dei lavori”. Udine: Leonarduzzi (Pdl); affidare ai detenuti lavori di manutenzione delle strade Messaggero Veneto, 23 luglio 2010 “Affidare i lavori di manutenzione e sistemazione di marciapiedi e percorsi pedonali ai detenuti”. È la proposta di Gianfranco Leonarduzzi, esponente del direttivo cittadino del Pdl. Che poi aggiunge: “In momenti di forte crisi economica e di necessità per la pubblica amministrazione di contenere le spese, l’ausilio dei detenuti potrebbe risultare molto utile. Per farlo occorre stabilire e formalizzare una convenzione fra Comune e carcere di Udine sul modello che l’assessore Sbriglia di Trieste ha sottoscritto”. “La convenzione - insiste Leonarduzzi - potrebbe rappresentare non solo un significativo atto giuridico ma consentirebbe di intervenire sotto il profilo morale in un ambiente particolarmente complesso e difficile, viste le condizioni attuali di sovraffollamento e condizioni di criticità per la polizia penitenziaria”. “La valenza sociale di un simile progetto - chiosa l’esponente del Pdl - andrebbe ad alleviare le situazioni fragili che si vengono a creare all’interno dell’istituto”. Il direttore lancia un SOS Nel giorno in cui Gherardo Colombo, il magistrato a capo delle indagini sulla loggia P2 e su Mani pulite, per citarne solo alcune, fa il suo ingresso nella casa circondariale di Udine per parlare di legalità, il direttore del carcere, Francesco Macrì, lancia un appello. “Attendiamo da anni - dice - i lavori di risistemazione del secondo lotto. E fino a quel momento Udine non potrà avere una sezione femminile”. Una struttura inaugurata nel 1925, che ospita 225 detenuti, ristrutturata solo per metà. “Le leggi, così come le necessità, sono cambiate in oltre 80 anni di servizio - evidenzia Macrì -. Il primo lotto di lavori, che ha avuto per oggetto la sezione maschile, è terminato nel 2005 con un costo complessivo di dieci miliardi di vecchie lire. Da quella data aspettiamo i finanziamenti anche per il secondo lotto di lavori che prevedono la sistemazione della sezione femminile, per il momento inutilizzabile, ma anche degli uffici e delle sale per gli incontri. Il progetto è già pronto, ma resta chiuso in un cassetto”. Un appello condiviso anche dal sindaco Honsell, che ha posto l’accento sulle difficoltà della casa circondariale. “Non ho mai visto nessun sindaco venire così spesso in istituto - assicura Macrì - e interessarsi profondamente della realtà del carcere. Conoscerla non è cosa facile perché è molto complessa e merita l’attenzione di tutti. Noi da soli non riusciremmo a ottenere buoni risultati senza l’aiuto anche dei semplici cittadini, per questo sono sempre ben felice di raccontare il carcere senza mistificazioni”. Purtroppo il sovraffollamento e l’eterogeneità dei detenuti sono realtà anche per la casa circondariale di Udine, ma i progetti di inclusione sono “spazi utili di distrazione per gli ospiti del carcere - aggiunge Macrì - così da accrescere il loro senso critico e acquisire il senso della legalità”. Gherardo Colombo, questa mattina, incontrerà insieme al sindaco di Udine, Furio Honsell, e al direttore del carcere Macrì, 25 detenuti in via Spalato, animando una conferenza che avrà per oggetto la legalità. L’ingresso di Colombo nel carcere udinese rappresenta una vera e propria novità, anche perché è la prima volta che UdinEstate entra negli istituti penitenziari. “Quando si fa sistema, si opera superando le difficoltà - ha assicurato il sindaco Honsell -. L’impegno civile è alla base di queste iniziative. Se, infatti, Udine è la capitale del Friuli, lo è anche perché qui ci sono un carcere e un tribunale, quindi è un nostro preciso impegno favorire tutte le componenti, anche quelle problematiche e dolorose”. Sassari: quattro persone indagate nell’inchiesta per la morte del detenuto suicida La Nuova Sardegna, 23 luglio 2010 Ci sono quattro indagati nell’inchiesta per la morte del detenuto di Alghero, di 53 anni, che si è tolto la vita domenica in carcere impiccandosi con i lacci delle scarpe. Si tratta di tre agenti di polizia penitenziaria (comandante, capo turno e vigilante) e della direttrice. Il reato contestato è quello di omicidio colposo e l’attività di indagine è stata affidata dal sostituto procuratore della Repubblica Maria Grazia Genoese al Nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri. Ieri mattina, invece, è stato assegnato l’incarico al medico legale Patrizia Matera per la perizia necroscopica eseguita ieri sera e che ha confermato le cause del decesso. A parte gli atti dovuti, necessari per l’espletamento delle perizie, il magistrato sta valutando con attenzione alcuni aspetti della tragica vicenda e - come accade in questi casi - l’obiettivo sembra essere quello di appurare se vi è stata o meno una omessa vigilanza. E se altri aspetti - che hanno favorito l’azione del detenuto - possono tornare utili all’attività investigativa e qualificare eventuali responsabilità specifiche. Uno dei particolari oggetto di accertamento riguarda i lacci delle scarpe. Generalmente la regola interna stabilisce che in cella le scarpe debbano essere prive dei lacci e anche in casi particolari - quando viene chiesta l’opportunità di svolgere attività fisica - vengono utilizzate le scarpe con chiusura a strappo. L’artigiano algherese, in carcere da quattro giorni (era in cella con un altro detenuto), con una accusa infamante - violenza sulla figlia adolescente - si era professato innocente. E anche durante l’interrogatorio di garanzia davanti al gip aveva urlato più volte: “È una infamia”. Un peso troppo grande da sopportare, non se la sentiva di andare avanti, di passare in un’aula del tribunale, non reggeva neppure gli sguardi di chi - di fronte a una accusa del genere - ti osserva in un certo modo. Domenica nel pomeriggio ha deciso di farla finita dopo avere rifiutato l’ora d’aria, era solo in cella. Non ha lasciato un biglietto, nessun messaggio. Ora l’inchiesta dovrà chiarire se quella morte in carcere si poteva evitare. Busto Arsizio: è arrivata l’estate, ma le carceri non vanno “in vacanza” Varese News, 23 luglio 2010 Sovraffollamento, le carceri non vanno “in vacanza”. Adriano Sofri parla di “tortura”. Anche in provincia di Varese i due istituti hanno difficoltà, ma quest’anno hanno organizzato varie attività anche da giugno ad agosto. Una denuncia che non può passare inosservata: “La realtà è che nelle carceri italiane c’è la tortura”. A dirlo, in un’intervista all’Espresso, è stato Adriano Sofri, detenuto per anni nel carcere di Pisa. L’accusa di Sofri nasce all’interno di una riflessione più ampia sul sovraffollamento negli istituiti italiani. “Chiunque soffre a queste temperature - dichiara Sofri - la mancanza d’aria fresca, ha difficoltà a muoversi, a spostarsi e a dormire. Se trasferiamo queste sofferenze in una cella dove lo spazio è di due metri quadrati è facile immaginare cosa succede dentro le prigioni [...]. La realtà è che nelle carceri italiane c’è la tortura. Non in senso generico o metaforico, proprio in senso tecnico. Queste condizioni, anche senza botte o provocazioni volontarie, si configura come una tortura di Stato. Per cui, se esiste un torturato esiste anche un torturatore. Non parlo degli agenti penitenziari che sono a loro volta, in senso lato, dei semi-detenuti, ma delle autorità che hanno a che fare con questo sistema”. Parole pesanti, che fanno riflettere. Anche nella provincia di Varese, come nella maggior parte d’Italia, i due istituti hanno più detenuti rispetto a quelli “tollerabili”: 430 a Busto Arsizio invece che circa 200, 110 a Varese invece che 90. “Quella di Sofri è una riflessione sensata, ma non mi sento di sposarla totalmente - commenta Sergio Preite di Enaip e Agente di rete in entrambe le strutture -. Il problema è che si chiede al carcere di dare risposte a situazioni senza fornire gli strumenti adatti. Negli istituti si trovano tante persone “super emarginate” che non dovrebbero essere li. Finiscono in carcere perché dalla società non ci sono risposte di altro tipo”. Anche per questo, quindi, oggi le carceri scoppiano. “Nella nostra provincia però la situazione quest’anno sta cambiando - spiega Preite -. Dal provveditorato sono arrivare indicazioni precise per garantire maggiore attenzione alla popolazione carceraria nel periodo estivo”. Ecco quindi che a Busto il “piano socialità”, ovvero l’area in cui si trovano le aule, la biblioteca, la redazione, i laboratori e il teatro è rimasta aperta tutte le mattine di luglio e la prima e ultima settimana di agosto. A Varese invece ci sono corsi di informatica e lingua inglese, il cineforum e tornei di scacchi e ping pong. Attività in maggior parte gestite da volontari. “È indubbio che quello estivo è il periodo più difficile - continua Preite - e garantire delle attività è fondamentale. Bisogna anche fare un elogio agli Agenti di Polizia Penitenziaria. Stanno dando decisamente più di quello che potrebbero dare. In alcune occasioni sanno anticipare i problemi e “inventarsi” delle risposte con le poche risorse a disposizione”. È chiaro che però si tratta di misure che non possono risolvere da sole la situazione. “È assurdo chiedere ad un’istituzione vecchia e sottodimensionata di dare risposte a problemi nuovi. Se si vuole ridisegnare il sistema pensando a misure alternative alla detenzione, bisogna investire forze e passione. Solo allora si potranno svuotare gli istituti e far intraprendere veri percorsi rieducativi ai detenuti”. I detenuti: “Vogliamo sperare, non disperare” Ospitiamo un articolo scritto dai redattori di Mezzo Busto, il giornale del carcere bustocco. Sandro e Gentian ragionano di sovraffollamento e delle conseguenze per la popolazione detenuta. Il loro articolo verrà pubblicato nel nuovo numero in uscita a settembre. Detenuti a quota 67mila. La soglia della tollerabilità massima è stata ormai ampiamente superata, mentre diversi provvedimenti legislativi, presi negli ultimi anni, continuano ad affollare gli istituti di immigrati e di persone che restano in cella anche per poco tempo, magari pochi giorni. Le prigioni italiane sono insomma una “bomba a orologeria” che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Lo avete già letto e sentito in ogni salsa, ma è importante ripeterlo ancora. La situazione in cui noi persone detenute ci troviamo, è al limite del collasso: celle fatiscenti di nove metri quadrati con tre, a volte quattro, detenuti stipati come bagagli in un deposito; gli arredamenti ridotti al minimo; lo spazio giusto per la latrina alla turca. Ma non è solo una questione di spazio: legate al sovraffollamento ci sono altre questioni strettamente connesse, come la scarsità di agenti di Polizia Penitenziaria e la rieducazione in queste condizioni al limite. Se vi sembra un quadro eccessivamente pessimista, alla fine di quest’articolo capirete come la realtà di oggi potrebbe portarci in breve a una vera e propria emergenza nazionale. I dati più aggiornati ci dicono che al 31 maggio 2010, a fronte di una capienza regolamentare di 44.592 detenuti, in realtà in Italia ci sono oltre ventimila persone in “eccesso”. Siamo 67.601 in tutta Italia, 9.070 in Lombardia (contro una capienza di 5.667), più di quattrocento a Busto, nello spazio pensato per la metà degli individui. In cosa si traduce tutto questo? In detenuti costretti a restare venti ore al giorno dietro le sbarre, senza lavorare, senza socializzare. È chiaro che questo porta all’esasperazione e a volte a gesti estremi: dall’inizio dell’anno a metà giugno i suicidi in carcere sono arrivati a quota ventinove e fra il 2008 e il 2009 sono passati da 46 a 72. La colpa di questa “tragedia silenziosa” è anche e sempre più del sovraffollamento e di tutte le conseguenze che questo comporta dal punto di vista fisico e morale. L’ultima legge sull’emigrazione (la cosiddetta Bossi- Fini) ha dato il colpo di grazia a un sistema già sotto stress. Il risultato è che, a fine maggio di quest’anno, poco meno di 25mila detenuti erano stranieri, ovvero il 36 per cento del totale. Molti vengono arrestati e rilasciati nell’arco di tempi brevi: secondo i dati del Ministero della Giustizia nel 2009 (dati aggiornati al 31 dicembre 2009, ndr) il reato contro la “legge stranieri” era la quarta causa di arresto per gli stranieri dopo i reati per droga, contro il patrimonio e contro la persona. Il turnover di stranieri è molto alto e lo dimostra anche la percentuale più alta rispetto a quella degli italiani - 14% contro il 5% al 31 dicembre 2009 - di condannati con pene brevi, ovvero da zero a dodici mesi. Leggendo i giornali, ascoltando Tg e dibattiti televisivi e, soprattutto, osservando la situazione dal nostro punto di vista “privilegiato”, ci siamo convinti che ci sia una crescita esponenziale - e a nostro parere esagerata - nel ricorso alla detenzione. Crescita che purtroppo non è proporzionale alle risorse destinate ai servizi rieducativi e agli interventi sociosanitari in carcere. A far accrescere il sovraffollamento, ha contribuito anche la legge n. 251 del 5 dicembre 2005 -detta ex Cirielli -, che comporta modifiche in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di usura e di prescrizione. In particolare, prevede una diminuzione dei termini di prescrizione e un aumento delle pene per i delitti di associazione mafiosa e usura e per i recidivi. Quest’ultima modifica ha avuto pesanti conseguenze anche per i detenuti tossicodipendenti. Oggi sono circa un terzo dei detenuti totali e continuano a crescere. Non si tratta necessariamente di spacciatori, ma nella maggioranza dei casi di persone colpevoli di piccoli reati legati alla ricerca di droga per uso personale. Vengono ammassati in celle e dentro soffrono più di tutti. I tossicodipendenti, non siamo certo solo noi a dirlo, avrebbero bisogno, invece, di cure e non certo dell’impatto violento con i luoghi di reclusione. Di questo passo non abbiamo timore a dire che il carcere diventerà una discarica sociale, non il luogo di detenzione per pericolosi criminali. Il carcere, però, non è popolato solo di detenuti. Ci sono gli operatori, gli educatori e gli agenti di Polizia Penitenziaria. Il sovraffollamento, che caratterizza la stragrande maggioranza degli istituti italiani, comporta condizioni di vita e lavoro difficili anche per tutti loro. Soprattutto la carenza di agenti è un altro tema dolente nel pianeta carcere. L’organico della polizia penitenziaria prevedeva nel 2001 l’impiego di 41.268 agenti negli istituti di pena, ma ancora nel 2009 risultavano all’appello 35mila addetti. Per l’amministrazione penitenziaria l’ottimale sarebbero 10mila addetti circa contro gli attuali 6mila. Anche per loro esistono quindi problemi di organizzazione da superare. Pensiamo prima di tutto alle competenze loro richieste, che riguardano sia la sicurezza sia la rieducazione. Con la riforma del 1990, infatti, la Polizia Penitenziaria è stata formalmente inserita tra gli operatori che partecipano, nell’ambito dei gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati. Il personale al limite del possibile per coprire i turni di lavoro, l’organico insufficiente e la mancanza cronica di educatori creano un contesto, in cui è difficile che la rieducazione prevalga sulla custodia. Troppi detenuti, pochi agenti: il sovraffollamento non si riduce però a un semplice calcolo. Se in un carcere, come ad esempio a Busto, siamo il doppio rispetto a quelli che dovremmo essere, come si fa a mettere in campo tutte quelle attività necessarie alla “rieducazione”? La Costituzione, all’art. 27 comma 3, è chiara: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma, dalla teoria alla pratica, qualcosa si è perso per strada: anche a causa del sovraffollamento le attività rieducative come la scuola, i corsi di formazione, le attività di volontariato non sono accessibili a tutti, perché fisicamente non c’è posto per tutti. Anche attività necessarie a chi si trova in carcere, come i colloqui con gli psicologi e gli educatori, subiscono dei rallentamenti a causa del carico sempre maggiore di lavoro che va a gravare sugli operatori (nella foto, lo spettacolo teatrale che si è svolto nel carcere di Busto). Abbiamo parlato nell’articolo di tre punti, magari non fondamentali, ma di sicuro utili per cercare una soluzione a questo problema. Il Ministero della Giustizia vuole costruire nuove strutture carcerarie, ma ci vorranno tempo e denaro. Nel frattempo l’insostenibilità della situazione carceri rimarrà senza soluzione nel tempo, se non si percorrono anche vie alternative. Suonano, quindi, quanto mai fondamentali le parole pronunciate a fine maggio dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione dell’anniversario della fondazione del corpo di Polizia Penitenziaria: “Parlamento e Governo devono intervenire per affrontare l’emergenza carceri, perché è un’emergenza ineludibile”. Perché, invece, non affrontare la questione da un altro punto di vista, ben più importante (e noi possiamo dirlo senza paura di essere smentiti)? C’è, infatti, la delicata situazione che riguarda le pene alternative alla detenzione. In Italia esistono diverse forme di misure alternative, dagli arresti domiciliari all’affidamento, ma in percentuale sono poco applicate. Non risolverebbero sicuramente i gravi problemi, ma di certo allevierebbero questa situazione. Affronteremo questo delicato tema che merita un’analisi più ampia nel prossimo numero. Il carcere è un servizio per la società e il territorio: dalle più alte cariche, all’ultimo degli addetti servono più presa di coscienza e impegno per raggiungere gli obiettivi. L’Italia, questo nostro paese, sta affrontando problemi molto più pressanti e gravi che coinvolgono tutta la popolazione. Da “dentro” ci chiediamo, però, se e quando il problema del sovraffollamento potrà essere preso in considerazione. Torino: agente aggredito da detenuta accusata di spaccio di droga Apcom, 23 luglio 2010 Ancora un’aggressione al carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Lo denuncia la segreteria regionale dell’Osapp, sindacato di polizia penitenziaria. Ieri intorno alle 18 nella prima sezione femminile, una detenuta 23enne, che sconta una pena per detenzione e spaccio di droga, ha aggredito un’altra detenuta per futili motivi. Poi, si è scagliata contro l’agente che ha cercato di separarle. L’uomo ha riportato una distorsione al gomito destro e graffi profondi. Dovrà essere sottoposto agli esami diagnostici dell’epatite. Si teme infatti che abbia potuto contrarre la malattia. “Non ne possiamo più di essere aggrediti - dichiara Gerardo Romano, segretario regionale Osapp - ormai sta diventando la prassi. Da mesi denunciamo la situazione di grave mancanza di mezzi e di risorse nelle nostre carceri, ma non solo non è cambiato nulla, ma ci hanno ancora tagliato gli straordinari. L’altro giorno eravamo in piazza a Roma contro la manovra. Siamo allo stremo delle forze, chiediamo provvedimenti urgenti al governo, così non si può più andare avanti”. Lodi: legalità e giustizia dentro e fuori le sbarre, Il Cittadino, 23 luglio 2010 La legge è uguale per tutti? A partire da una domanda solo apparentemente banale, ma in realtà di stringente attualità, mercoledì sera, nel cortile del carcere di Lodi, detenuti e liberi cittadini hanno discusso con il giudice Caterina Interlandi e con il giornalista d’inchiesta Mario Portanova (redattore del periodico “Diario”, prima, e ora firma di punta del settimanale “l’Espresso” oltre che di “Altreconomia” e “Wired”) di giustizia, legge e legalità nel nostro Paese.In un excursus piuttosto lungo, il magistrato ha raccontato la sua professione, a partire dagli esordi, come spesso accade, casuali, fino alle vicende di cui si occupa oggi per il tribunale di Milano, tra le quali le più celebri sono state quella legata al sequestro di Abu Omar e del caso corruzione dell’avvocato inglese Mills, nel quale è coinvolto mani e piedi il presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Così, lo scambio tra i quattro attori presenti nel cortile (i detenuti, i cittadini “liberi” , la giudice e il giornalista”) è stato reale. Ognuno portava con sé una visione diversa della giustizia e di come la legge la sappia rispecchiare. I detenuti prima di tutto che con i loro interventi e le oro domande lasciavano trapelare la diffidenza, ove non addirittura l’ostilità, di chi è stato punito ed emarginato dal sistema (“Ma con tutte le cose che si sentono in televisione, fatte da gente che poi viene servita riverita e magari siede in parlamento, come facciamo a credere nella giustizia?”, ha chiesto non senza qualche ragione uno di loro). I cittadini liberi, curiosi di sapere quanto e come il sistema legale possa tutelarli e garantirli. Il giornalista che, per mestiere, raccoglie e testimonia casi e prove di ingiustizie, errori e soprusi, poco importa da che parte della barricata stia chi li commette e che, spesso a ragion, veduta si indigna. La giudice che, ogni giorno, lavora perché il sistema sia efficace e giusto, perché la macchina della giustizia sia oleata e scorra, perché le colpe siano punite e la legge si uguale per tutti. Così se Portanova sembrava convinto che “esista un doppio canone per i criminali di strada e i colletti bianchi” e che sia oggi, con questa classe politica, si sia toccato l’apice del conflitto tra magistratura e classe politica, la giudice smorzava i toni, convinta della bontà di fondo del sistema, del quale si sente orgoglioso ingranaggio. “La legge - ha sostenuto - è sempre uguale per tutti. Se mai è difficile applicarla. Quello di oggi è certamente un momento difficile per la democrazia in Italia, ma lo scontro tra poteri è fisiologico. Classe politica e magistratura sono naturalmente in conflitto, perché per i politici la legge suona come un giogo soffocante”. Eppure, al di là dei più o meno goffi tentativi che qualcuno, colletto bianco, criminale comune o criminale organizzato, possa fare per sfuggire alle maglie delle giustizia Caterina Interlandi si dice certa che, “alla fine, il tempo è sempre galantuomo,e siamo noi, allo scadere del nostro tempo a tirare una riga, a fare un bilancio e a uscirne assolti o condannati”.Luciana Grosso Immigrazione: il Cie di Torino… cronache dai lager del XXI secolo di Daniele Cardetta Nuova Società, 23 luglio 2010 Non si chiamano più Cpt, ora si chiamano Cie, ma la sostanza è rimasta tragicamente la stessa. I Cie (Centri di identificazione ed espulsione) sono nientemeno che dei grossi carceri dove vengono rinchiusi tanto gli immigrati irregolari appena arrivati e i richiedenti asilo, quanto quelli con il permesso di soggiorno scaduto. Occorre però per prima cosa sfatare uno dei soliti luoghi comuni che come al solito vengono affermandosi nell’opinione pubblica con la complicità di media e carta stampata: dentro i Cie non finiscono affatto criminali o delinquenti comuni, al contrario si parla di un luogo dove vengono segregate persone dalle storie più disparate che magari hanno lavorato per anni in nero e sono stati trovati senza documenti da una pattuglia. Ci sono ragazzi che hanno intrapreso il viaggio della speranza verso l’Occidente in cerca di una vita migliore e padri di famiglia che con la crisi si sono visti portare via il lavoro e ora rischiano di essere rispediti nel paese di origine. Dentro il Cie insomma, si finisce soprattutto per problemi amministrativi, per mancanza di documenti, per mancanza di lavoro; nulla di più lontano dai criminali senza scrupoli su cui batte la grancassa l’informazione pubblica. È chiaro poi che dopo che una persona ha lavorato per sei, sette anni lontano da casa, rimandarlo indietro significa quasi scaraventarlo in un mondo da cui non solo è fuggito, ma che non riconoscerebbe nemmeno più essendo ormai completamente sradicato. I Cie inoltre va sottolineato come non siano dei veri e propri carceri, dove un detenuto ha anche la possibilità di trovarsi un avvocato e comunque gode di alcuni diritti, bensì dei veri luoghi liminari di difficile definizione, dove gli ospiti non hanno la benché minima idea di quali siano i propri diritti. Non fosse per il coraggio e il volontarismo di associazioni e comitati legati alle reti di migranti, molti di loro non sarebbero nemmeno riusciti a trovare un avvocato per la loro tutela legale. In Corso Brunelleschi, a Torino, si trova uno di questi Cie. Un gruppo coraggioso di “Antirazzisti solidali con i reclusi in Corso Brunelleschi” ha deciso di organizzare un presidio per far sentire la sua voce contro quello che sta accadendo all’interno della struttura. E ciò che accade dentro il Cie di Corso Brunelleschi lascia a bocca aperta a giudicare dalle testimonianze che sono state raccolte a riguardo. Tralasciando le notizie orribili riguardando tentati stupri, stupri e maltrattamenti di ogni sorta, una menzione meritano anche le condizioni sanitarie in cui verserebbero gli ospiti della struttura. Nei mesi precedenti vi è stato il decesso di un ragazzo causa polmonite e, recentemente, secondo i comitati organizzatori del presidio, uno degli ospiti detenuti sarebbe riuscito a far pervenire all’esterno la confezione di un farmaco somministratogli, ovviamente scaduto nel 2008. Ma veniamo ai fatti di cronaca, più direttamente collegati al presidio di Corso Brunelleschi. Per farlo bisogna raccontare brevemente la storia di Sabri, il tunisino raccolto nel Mediterraneo circa sei mesi fa. Sabri era finito al Cie di Crotone, e da qui a quello di Torino dopo che una sommossa aveva reso inagibile il centro calabrese. A Sabri mancavano ormai pochi giorni alla scadenza dei sei mesi di trattenimento prevista dalla legge, quando è venuto a sapere degli accordi per le espulsioni rapide stipulato tra il governo tunisino e quello italiano. Sabri in Italia era un pescatore, aveva lavorato ad Ancona per sette lunghi anni, e aveva deciso di tornare in Tunisia per rivedere i suoi genitori dopo tutto quel tempo. Nel ritorno dalla vacanza la cattura che gli ha rovinato la vita per sempre. Deciso a non mollare Sabri ha preso la decisione strenua di arrampicarsi sul tetto del Cie di Corso Brunelleschi, ove è rimasto sotto una canicola terribile per tre giorni supportato solamente dal presidio permanente organizzato da variegate realtà del movimento antirazzista torinese. Nelle ultime due settimane le persone rimpatriate dal Cie di Corso Brunelleschi sono state ben 12, e nella mattina di giovedì 22 luglio è toccato lo stesso destino anche a Sabri. Secondo la Questura Sabri sarebbe sceso volontariamente dal tetto su cui era salito per disperazione, ma i racconti che sono giunti dal Cie parlano al contrario di un uso molto violento della forza da parte delle forze dell’ordine. Le associazioni coinvolte nel presidio si sono mobilitate immediatamente organizzando anche un corteo previsto nella serata, ma la cosa agghiacciante è che dal mattino non si ha alcun tipo di notizia del ragazzo tunisino, il quale sembra completamente scomparso nel nulla. Non si sa nemmeno se sia stato ferito in occasione del tentativo di farlo scendere dal tetto, e nemmeno se si trovi ancora in Italia o a Torino. Queste vicende terribili non sono toccate in alcun modo da media e carta stampata che preferiscono continuare a parlare di Cie come luoghi di detenzione per criminali o comunque scelgono di non far vedere quello che accade all’interno di tali strutture, tacendo delle condizioni terribili in cui versano gli sfortunati che sono obbligati a esservi trattenuti. In pieno XXI secolo, nell’opulento occidente e nell’Italia della “brava gente”, sotto le ombre proiettate dai condomini di Corso Brunelleschi si trova uno ei tanti lager del nuovo millennio. Si viene internati perché si è senza lavoro, perché si è cittadini di un altro paese dal quale si è deciso di fuggire per disperazione o per inseguire un sogno. Anche dopo aver lavorato in Italia per sette anni secondo la legge una persona risulta ancora appartenente al paese di nascita, secondo un principio di nazionalità impregnato di ipocrisia che nega, de facto, la libertà dell’individuo peraltro sancita anche dalla stessa Costituzione italiana. In conclusione un chiarimento anche sul presidio di Corso Brunelleschi, dipinto da una certa carta stampata come osteggiato da tutto il quartiere. In realtà di ostilità proprio non si può parlare tenendo anche conto che il presidio ha cercato in tutti i modi di coinvolgere, e anche con un certo successo, gli abitanti del quartiere. Immigrati: a Lampedusa riprendono gli sbarchi, ieri approdati sull’isola 52 clandestini La Repubblica, 23 luglio 2010 Ieri sull’isola 52 clandestini. Bloccati sulla spiaggia per un giorno in attesa di essere trasferiti non nel locale centro ma a Porto Empedocle. Eludendo ogni controllo, 52 extracomunitari sono sbarcati ieri mattina indisturbati sulla spiaggia di Cala Francese. Erano giunti a bordo di una imbarcazione che, dopo averli lasciati a pochi metri dalla spiaggia, si è allontanata per ritornare indietro. I due scafisti che guidavano l’imbarcazione con il loro carico di disperati sono stati bloccati poco al largo decisola è sono stati arrestati. Uno sarebbe di nazionalità libica. Ma per un ordine non scritto, ma rigorosamente rispettato, gli extracomunitari sono stati bloccati sulla spiaggia per ore ed ore sotto un solo cocente e con un a temperatura che superava i 37 gradi sorvegliati a vista dai militari della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza, in attesa che venissero prelevati e trasferiti non nel centro di accoglienza di Lampedusa, ma a Porto Empedocle (Agrigento). Questo perché Lampedusa non deve fare più “notizia”. E così è stato, dopo alcune ore i 52 extracomunitari sono stati prelevati e trasferiti sulla terra ferma a Porto Empedocle per essere trasferiti in altri centri siciliani. Nonostante i proclami di blocchi e di “cooperazione” tra l’Italia, la Libia e la Tunisia, i disperati come dimostra quest’ultimo sbarco, continuano ad arrivare. Negli ultimi mesi sono stati registrati una decina di sbarchi nella vicina isola di Linosa ed anche in questo caso gli extracomunitari non sono stati trasferiti nel centro di accoglienza di Lampedusa. Un centro che, nonostante abbia personale molto ridotto, continua a rimanere aperto per le “emergenze” . E l’associazione per gli studi giuridici sull’ immigrazione (Asgi) ieri con una nota ha richiamato l’attenzione sul fatto che il “centro di prima accoglienza di Lampedusa, attrezzato per garantire tutte le operazioni di primo soccorso, formalmente aperto da oltre un anno viene volutamente lasciato inutilizzato anche in caso di evidente necessità”. Kenya: nuove carceri e pene più severe contro il terrorismo internazionale Agi, 23 luglio 2010 Il Kenya ha lanciato una campagna per rintracciare e sequestrare le armi detenute illegalmente. L’iniziativa, che si concentrerà soprattutto nella capitale Nairobi, mira a contrastare il terrorismo internazionale, perlopiù di matrice somala. Il piano è figlio dei recenti attentati in Uganda e del ritrovamento di 300 detonatori in un sobborgo di Nairobi, sempre più uno dei centri principali dell’Africa orientale per il traffico di armi. Alla campagna si affianca il piano che porterà alla costruzione di nuove carceri e la legge, appena approvata, che inasprisce le pene contro la criminalità organizzata.