Giustizia: carceri fuori dalla legalità; interventi entro 30 giorni o denuncia penale contro lo Stato di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 luglio 2010 Proviamo a immaginare: fuori ci sono 35-37 gradi all’ombra; siete rinchiusi insieme ad altre due persone per venti ore al giorno in una stanza lunga tre metri e larga due, senza finestre, con un piccolo bagno attiguo privo di porta dove però è situata l’unica finestra dello spazio a vostra disposizione. Peccato che su quell’unica apertura verso l’esterno batta continuamente il solo e sia fissata una grata talmente fitta da non lasciar passare nemmeno un refolo di vento. La porta della stanza è pesante, spesso chiusa, e dà su un corridoio anch’esso privo di finestre. Non siamo in Afghanistan, ma in Italia. E da noi non la chiamano nemmeno tortura. Succede nella stragrande maggioranza dei carceri italiani. Per fare solo un esempio, celle di questo genere esistono nella Casa circondariale di Pistoia, dove dovrebbero essere recluse 74 persone e ce ne sono invece 140. E non è di certo la peggiore. Se d’inverno le carceri italiane rappresentano un esempio di illegalità e di violazione dei diritti umani, d’estate diventano un serissimo problema igienico-sanitario. L’habitat perfetto per ogni tipo di infermità fisica e mentale. Per questo le associazioni “A buon diritto” e “Antigone” (supportate dal settimanale Carta), dopo aver visitato dall’inizio di giugno una quindicina di carceri del centro-nord insieme a rappresentanti delle istituzioni locali , hanno deciso di dare mandato ad un avvocato (Arturo Salerni, del foro di Roma) per un esposto contro sindaci, assessori regionali alla salute, dirigenti delle Asl e direttori dei carceri perché intervengano immediatamente ad ispezionare le celle, e a chiudere eventualmente i reparti insalubri. “Avendo riscontrato in molti casi condizioni igieniche assolutamente non accettabili - spiega Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - abbiamo avvisato le autorità competenti che se non interverranno entro 30 giorni, presenteremo denuncia penale”. Nella Casa circondariale di Napoli Poggioreale (il carcere più a Sud inserito in questo monitoraggio da “Antigone” e “A buon diritto”) ci dovrebbero essere 1.357 detenuti; ce ne sono invece 2.710. “In alcune celle - si legge nel dossier presentato dalle associazioni - si arriva a 12-14 detenuti, con i letti a castello impilati per tre e un solo bagno interno alla cella. Nonostante le temperature altissime delle celle, il blindato viene chiuso di notte e aperto alle 6 del mattino”. Un anno fa la Corte Ue dei Diritti umani aveva condannato l’Italia per aver detenuto persone in meno di tre metri quadri, violando così l’articolo 3 della Convenzione europea che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. E il Consiglio d’Europa ha stabilito che necessitano almeno 7 metri quadri a persona. Risale, poi, ormai quasi a dieci anni fa l’entrata in vigore del Regolamento penitenziario per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. “Oggi la situazione è peggiore di allora - spiegano le associazioni - In cinque anni era fissato il termine per adeguare le carceri ad alcuni parametri strutturali. Che ci fosse l’acqua calda, per fare solo un esempio. Ne sono passati dieci, di anni, e quasi ovunque gli edifici sono ancora fuori legge. Noi ci riteniamo da oggi in vertenza contro le istituzioni. Utilizzeremo ogni strumento legale a disposizione per far sì che lo Stato paghi il prezzo della propria illegalità”. Giustizia: fatiscenza e sovraffollamento; inchiesta delle associazioni sull’implosione delle carceri di Stefano Galieni Liberazione, 18 luglio 2010 “Il carcere è fuorilegge” è questa la constatazione fatta propria dalle associazioni “A buon diritto” e “Antigone” supportate dalla rivista “Carta” che hanno lanciato nei mesi scorsi una campagna di inchiesta sullo stato del sistema penitenziario italiano. Dal 21 giugno al 2 luglio, esponenti delle associazioni, parlamentari, consiglieri regionali, attivisti impegnati nel settore, hanno visitato 15 istituti penitenziari riempiendo una semplice griglia utile ad evidenziare gli aspetti critici di ogni singola struttura. I risultati di queste visite sono stati presentati in conferenza stampa presso la Camera dei deputati. Presenti Luigi Manconi e Patrizio Gonnella in rappresentanza delle due associazioni promotrici, alcuni parlamentari e consiglieri regionali che avevano partecipato alle visite. Il quadro che ne è emerso è a dir poco desolante e ha ragione Luigi Manconi a dire che le carceri non stanno esplodendo ma implodendo, come testimonia l’aumento dei suicidi, - gli ultimi due sventati ieri a Frosinone - degli atti di autolesionismo. Sovraffollamento e carenze strutturali si sommano in un cocktail micidiale, hanno constatato dati alla mano gli intervenuti: a Pistoia ogni detenuto ha a disposizione due metri quadrati, e lo stesso accade nel carcere milanese di S. Vittore. A Bologna la struttura potrebbe contenere 450 persone, al momento della ispezione i detenuti erano 1150, a volte causa anche la carenza di personale penitenziario, si riducono a 2 le ore d’aria giornaliere e si è nell’impossibilità di svolgere attività formative o scolastiche. È violato l’articolo 3 della Convenzione europea. Quanto avviene, spesso indipendentemente anche da chi ci opera, è da considerarsi come trattamento disumano e degradante e annienta l’idea stessa di pena come percorso di rieducazione. Ad impressionare è la costante disparità del rapporto fra capienza e presenze: Padova, 98 posti disponibili 250 detenuti, Roma Rebibbia (femminile) 281 posti, 390 persone, a Sulmona, ormai ribattezzato come il carcere dei suicidi sono in 444 dove potrebbero stame in 270, sempre nella capitale a Regina Coeli, con un reparto chiuso, 1.073 presenze per meno di 650 posti disponibili, a Fermo, 80 per 45 posti, a Firenze Sollicciano 989 presenze per 521 unità, e così via. E poi strutture in cui è cronica la carenza idrica, tanto da rendere difficile farsi la doccia periodicamente, muffa e muschio sulle mura, cavi elettrici scoperti e cucine insufficienti, il lavoro esterno o interno privilegio di pochi, le porte blindate che vengono chiuse di solito dopo la mezzanotte perché non c’è personale sufficiente a garantire la custodia. Nel corso della conferenza sono state emerse iniziative: tra i parlamentari, Guido Melis ha proposto la realizzazione di una commissione parlamentare di inchiesta, Rita Bernardini ha lanciato l’idea di tornare nelle carceri il giorno di ferragosto, Ignazio Marino ha confermato la modifica del regolamento dell’amministrazione penitenziaria, che permetterà ai parenti di detenuti ospedalizzati, di conferire quotidianamente con i medici. Una decisione presa dopo la orrenda vicenda di Stefano Cucchi. E Stata mostrata copia degli esposti che Antigone e A Buon Diritto presenteranno, ai sindaci, agli assessori regionali alla Salute, ai Dirigenti delle Asl, alle direzioni delle Case circondariali competenti per i 15 istituti visitati. Nell’esposto si intima, ai termini di legge, di ripristinare condizioni sanitarie conformi al dettato normativo. Il consigliere regionale in Abruzzo della Federazione della Sinistra, Maurizio Acerbo, è intervenuto proponendo che vengano visitate anche le strutture in cui le condizioni di vita sono ancora peggiori e facendo appello ai consiglieri regionali soprattutto della FdS affinché facciano propria questa esigenza. In Abruzzo, su proposta di Acerbo si sta provvedendo ad istituire la figura del garante dei detenuti ancora assente nella legislazione regionale. Giustizia: gli Opg, ultimi manicomi; 1.500 persone rinchiuse perché vittime della malasanità di Dario Stefano Dell’Aquila Il Manifesto, 18 luglio 2010 La commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia del Ssn visita a sorpresa l’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto e svela le torture perpetrate contro i detenuti malati psichici. Spesso reclusi per anni solo per inefficacia dei Dipartimenti di salute mentale Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg), di Barcellona Pozzo di Gotto, Sicilia. Un uomo, contenuto a letto, con una legatura con garza alle mani e ai piedi, con un vistoso ematoma, coperto da un lenzuolo, completamente nudo. L’uomo è legato ad un letto arrugginito, con al centro un foro per feci e urine che finiscono nel pozzetto posto a terra nel pavimento. Di fronte a lui un carabiniere, non sappiamo se scosso dal caldo siciliano o dalla durezza di quella immagine. Non è una scena di un altro secolo. È l’undici di giugno scorso e il carabiniere non è lì nel ruolo del custode. È un componente dei Nas che accompagnano la delegazione della Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia del servizio sanitario nazionale, presieduta dal senatore Ignazio Marino (Pd). L’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, più familiare come manicomio giudiziario, oggi “ospita” 350 internati. Gli internati sono sofferenti psichici autori di reato, condannati ad una misura di sicurezza che può essere prorogata senza limiti. Fu inaugurato dal ministro Rocco, guardasigilli del governo Mussolini nel 1925. La struttura, nata come primo manicomio giudiziario dell’era fascista, è al momento l’unica che ancora non ha neppure cominciato il percorso previsto dalla riforma penitenziaria. La visita è a sorpresa ed il resoconto parlamentare è impressionante. Marino parla di “celle luride affollate al di là della soglia di tollerabilità, internati seminudi e madidi di sudore a causa della temperatura torrida, per lo più sotto l’evidente effetto di psicofarmaci, contenzioni adottate con metodiche inaccettabili e non repertate sugli appositi registri”. Ci va giù duro, senza mezzi termini, come anche gli altri componenti della Commissione. E se per la senatrice Donatella Poretti (Radicali) la critica all’uso della contenzione fisica è un atto coerente con la propria storia, le parole del senatore Saccomanno (Pdl), con un curriculum politico assai differente, segnano la gravità dello stato di cose. Rileva Saccomanno che “dai registri rileviamo che la media della contenzione è di quattro - cinque giorni e non sono riportate motivazioni cogenti anche per un medico non psichiatra, ma solo una generica dichiarazione della sua necessità, nel caso presente, tra l’altro non predisposta dallo psichiatra che sembra essere un materiale professionale raro”. Parla, riferendosi alla seconda sezione, (ve ne sono sei in tutto l’Opg), di abbandono sanitario, di degrado igienico, di affollamento con fino a nove persone per cella, del “dramma delle condizioni” di pareti, bagni, letti e lenzuola (cambiate ogni 15 giorni se possibile)”. Le cartelle cliniche risultano spesso carenti nell’anamnesi e “certificano per pazienti importanti carenze del programma originario per controlli, regolazioni, indicazioni”. Un fiume di accuse, non nuovo per chi come il manifesto, ha sempre raccontato il dolore dei manicomi giudiziari, ma che assume nuovi contorni. Una situazione “oggettiva” che lo stesso direttore Nunziante Rosania definisce “un momento di particolare difficoltà per una drammatica carenza di risorse economiche, per la riduzione di personale e per un numero di ricoverati che è lievitato in maniera esponenziale”. E ancora, lo stesso direttore ammette (con sincerità disarmante) “che le terapie psichiatriche (..) sono sicuramente obsolete rispetto a quelle che vengono praticate all’esterno dato che non abbiamo i fondi sufficienti per acquistare, in misura adeguata, neurolettici tipici di ultima generazione”. Pippo Insana, cappellano da oltre 25 anni e storico punto di riferimento per gli internati, è diretto: “Mancano farmaci, manca personale idoneo e qualificato a curare e riabilitare. Le persone inferme di mente più problematiche vengono trasferite continuamente da un reparto all’altro, senza un serio e impegnativo intervento sanitario”. I numeri confermano questo stato di crisi. Nella struttura, per quasi 400 persone sono presenti solo 28 infermieri di ruolo e 6 medici incaricati. I sei consulenti psichiatrici hanno un monte ore che, suddiviso per il numero di presenti, si traduce in 48 minuti di assistenza al mese. Numeri che comunque non giustificano il ricorso alla contenzione e che lasciano perplessi gli stessi componenti della Commissione. La senatrice Poretti è caustica: “Quando abbiamo chiesto al medico di turno il motivo per il quale il soggetto si trovasse lì, non essendo indicato nel registro di contenzione, sinceramente non l’ho capito. Il medico ha continuato a ripetere che quel soggetto aveva dato fastidio agli infermieri e che addirittura aveva infastidito un’infermiera con delle battute osé”. Una ferita ancora aperta quella della contenzione, fenomeno sommerso ancora praticato nei manicomi giudiziari (con l’esclusione di Aversa, dove la contenzione è stata sospesa poco dopo la visita del Comitato europeo per la prevenzione della tortura). L’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, rispetto agli altri cinque Opg d’Italia (Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere), ha una caratteristica che certo complica le cose. Qui, in virtù dell’autonomia regionale, la riforma del 2008 che ha sancito il trasferimento della sanità penitenziaria al sistema sanitario nazionale non è mai stata applicata perché la regione non ha ancora recepito la norma nazionale. In sostanza, se negli altri Opg le direzioni di sono sdoppiate (una penitenziaria e una sanitaria), e le Asl hanno fatto il loro timido ingresso nel sistema manicomiale con propri soldi e personale, qui la situazione è rimasta com’era, confinando questa struttura che è già di per sé un ibrido tra carcere e manicomio, in una terra di confine. Ma, al momento, la Regione Sicilia non ha approvato alcuna normativa in materia e gli scenari in prospettiva non appaiono incoraggianti. Anche l’interlocuzione istituzionale non appare incoraggiante. Questa la risposta che il direttore Rosania riferisce di aver ricevuto dall’assessore regionale alla Sanità: “Dottore, non c’è problema: se i politici mi danno le risorse economiche e una norma con gli opportuni recepimenti, io sono a sua completa disposizione. Essendo io napoletano, attacco il ciuccio dove vuole il padrone”. Evidentemente il padrone sino ad ora non ha voluto; magari alla luce di queste denunce alcune cose cambieranno. L’altra questione è relativa alla misure di sicurezza e le denunce che arrivano da Barcellona sollevano un problema generale. Le misure di sicurezza, a differenza di una pena definitiva, possono essere prorogate. Applicate in prima sede, a seconda della gravità del reato, ad un sofferente psichico incapace di intendere, possono durare 2, 5 o 10 anni. Al loro termine, valutate le condizioni di pericolosità sociale, possono essere prorogate. Pippo Insana spiega molto bene il meccanismo, con un riferimento alla realtà di Barcellona che vale anche per gli altri internati in Italia: “Ricoverati con lievi reati, rimangono ristretti sino a più di dieci anni con misura di sicurezza provvisoria, senza la definizione del processo (...) i 390 ricoverati con molti anni di proroga della misura di sicurezza (anche oltre 20) continuano a restare ristretti in Opg e a subire ulteriori proroghe. I ricoverati senza residenza continuano a rimanervi con proroghe”. Anche sul tema delle soluzioni Insana è molto chiaro: “Resta determinante - spiega - l’impegno a provvedere alla modifica del codice penale in materia di misure di sicurezza che offra una nuova modalità di vita per la gestione delle persone inferme di mente sottoposte a misure cautelative e che, nello stesso tempo, sia capace di salvaguardare la sicurezza della società, ma anche di curare la persona malata”. L’unico dato ufficiale disponibile ci dice che tra il 2000 e il 2004, in tutta Italia, le proroghe sono state 3.387. Come a dire che un internato su due si è visto propagare la propria misura di sicurezza almeno una volta. E la proroga spesso dipende non dalla pericolosità sociale ma dall’assenza di presa in carico da parte dei servizi psichiatrici territoriali. Ed è quello della presa in carico dei Dipartimenti di salute mentale che rimane uno dei nodi da sciogliere. Uno degli obiettivi dichiarati della riforma della sanità penitenziaria era proprio la fuoriuscita dal meccanismo di internamento manicomiale e la riduzione progressiva del numero di internati attraverso una presa in carico da parte dei servizi territoriali. Ma tra tagli, crisi, incertezza sulle competenze amministrative, cambiamento dello scenario politico, nonostante le buone intenzioni non si vedono ancora risultati concreti. Il lavoro e le parole della Commissione e del suo presidente, Ignazio Marino, lasciano intravedere la possibilità che si determino le condizioni politiche per un superamento di queste strutture. Un tiepido ottimismo che, alla luce delle esperienze passate, va bilanciato. Perché la storia di Barcellona ci insegna che è difficile negare il grido di orrore che si nasconde dietro le mura dei manicomi giudiziari. Difficile, appunto, ma non impossibile. Giustizia: in Commissione alla Camera stretta finale per il ddl sulla detenzione domiciliare Asca, 18 luglio 2010 Dopo il lungo esame in sede referente in Commissione Giustizia, l’avvio della discussione in Assemblea il 5 luglio e la nuova assegnazione alla Commissione in sede deliberante è entrato in dirittura di arrivo il ddl 3291-bis sulla esecuzione domiciliare per le pene non superiori ad un anno. Sul nuovo testo messo a punto si è svolta una rapida discussione generale ed è stato fissato a mercoledì 21 il termine per la presentazione di ulteriori emendamenti. Il progetto normativo indica espressamente una serie di reati e di soggetti (detenuti sottoposti a regime di sorveglianza particolare, detenuti per i quali c’e un elevato rischio di fuga ecc.) per i quali non è applicabile il beneficio e pone a carico del PM la trasmissione al giudice di sorveglianza della richiesta di sospensione corredata da un verbale di accertamento della idoneità del domicilio. Spetta poi al magistrato di sorveglianza disporre l’esecuzione domiciliare degli ultimi 12 mesi di pena o di assegnazione a centri di recupero in caso di condannati tossicodipendenti. Giustizia: corsi universitari in carcere; nel 2008 19 laureati, 300 detenuti sostengono esami di Ilaria Sesana Avvenire, 18 luglio 2010 Riconquistare un momento di libertà e progettare un futuro migliore Aumentano i detenuti che si dedicano all’istruzione di alto livello pur tra difficoltà enormi date dal sovraffollamento delle celle e dalla mancanza di spazi “dedicati”. Tornano sui libri per conquistarsi un momento di libertà e per costruirsi un futuro migliore. Alcuni studiano per passione e curiosità, altri per ricostruire la fiducia in sé stessi. “In galera, avere degli obiettivi da raggiungere dà un senso alle proprie giornate”, spiega Paola Marchetti, detenuta nel carcere “Due Palazzi” di Padova che si è iscritta all’università. Tornare sui libri, per lei, rappresenta un’occasione per vivere un’altra vita e per tenere allenato il cervello “che spesso in carcere si atrofizza, stimolato com’è dal nulla più assoluto”. Ma la vita dello studente universitario, dietro le sbarre, è tutt’altro che semplice. Tra codici e vocabolari, manuali e dispense molti sono costretti a studiare di notte, quando il carcere rallenta i suoi ritmi e la confusione si attenua. “Provate a concentrarvi in una stanza dove ci sono 10-11 donne che parlano, con il televisore sempre acceso e a volume alto”, aggiunge Paola. Le celle stracolme e cariche di tensioni sono il luogo meno adatto per preparare un esame. Eppure, scommettere sulla cultura e su una formazione di tipo universitario può essere una chiave importante per favorire il recupero e il reinserimento dei detenuti. Malgrado le difficoltà, sono in tanti a scommettere sul valore dello studio: nel 2008 (ultimi dati disponibili) erano 304 i detenuti che sostenevano regolarmente gli esami mentre 19 avevano ottenuto il titolo di dottore. Le facoltà più gettonate? “Scienze politiche, giurisprudenza. E in generale tutti i corsi di laurea che non prevedono frequenza obbligatoria o laboratori”, elenca Massimo Pavarini, docente di diritto penitenziario all’università di Bologna. Complessivamente erano 82 gli iscritti alle facoltà di ambito giuridico e 58 agli insegnamenti di ambito politico-sociale, 80 gli iscritti alla facoltà di ambito letterario. “Le università offrono le risorse didattiche agli studenti che non possono frequentare - spiega ancora Pavarini. Già da molti anni si costituiscono le commissioni che entrano in carcere per gli esami o le sessioni di laurea”. In alcune carceri sono state realizzate apposite sezioni per garantire a un certo numero di detenuti la possibilità di studiare: i Poli universitari penitenziari, che vengono istituiti a seguito di una convenzione tra l’università, il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e l’istituto di pena. Sedici i Poli universitari penitenziari oggi esistenti, animati da volontari, tutor e docenti universitari; nati nel corso degli ultimi dodici anni per sostenere i detenuti che vogliono completare, o iniziare da zero, il loro percorso universitario. A fare da apripista, nel 1998, la casa circondariale Le Vallette di Torino. Dove, grazie a un protocollo d’intesa tra l’università di Firenze, la Regione Toscana e il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, venne istituito il primo polo didattico d’Italia. Nel 2000 vennero attivati poli universitari in Emilia-Romagna, a Bologna e in Toscana. Nel 2003 è la volta del Lazio, con la convenzione tra l’università Tuscia di Viterbo, e di Catania (qui i detenuti possono usufruire di un polo con particolare attenzione alla teledidattica). Il 2004 vede fiorire ben cinque poli didattici a Padova, Sassari, Alghero, Catanzaro e Lecce mentre, dal 2006, hanno la possibilità di studiare giurisprudenza ed economia venti detenuti del carcere di Brescia. Di più recente formazione, i poli nel carcere di Sulmona e Rebibbia. I detenuti più fortunati, quelli che scontano la pena all’interno delle sezioni del Polo universitario, hanno a disposizione spazi adeguati in cui possono concentrarsi sullo studio e assistere alle lezioni tenute da docenti universitari o tutor. “Qui l’ambiente è diverso - spiega Pietro Vanni, laureando in Economia nel “Due Palazzi” di Padova - prendiamo forza dall’avere un obiettivo comune. Abbiamo stanze per lo studio, ma soprattutto la sera posso dedicarmi ai libri senza essere disturbato”. Nel Polo del penitenziario padovano, infatti, ci sono spazi più ampi, più silenzio e maggiore libertà di movimento: le celle, infatti, vengono tenute aperte nelle ore diurne. Condizioni ben diverse da quelle in cui devono studiare la maggior parte degli aspiranti dottori che si trovano nelle sezioni comuni. “Ci sono ragazzi che si alzano un’ora prima degli altri per studiare nel bagnetto della cella - spiega Rosanna Tosi, volontaria nel Polo universitario del carcere di Padova -. Altri che rinunciano all’ora d’aria per avere qualche momento di tranquillità”. “Sulla carta, il diritto allo studio è garantito - dice Pavarini - ma con il sovraffollamento è tutto molto più difficile. Le emergenze, oggi sono altre”. E poi c’è un problema di spazi: negli anni ‘70 e ‘80 le carceri sono state costruite sotto l’emergenza del terrorismo e della criminalità organizzata. “La dimensione della sicurezza ha prevalso su tutto, ci sono pochissimi spazi per socializzare - conclude Pavarini -. Per organizzare l’offerta didattica servirebbero spazi che oggi mancano”. Quel desiderio di riscatto che fa conquistare voti alti Proprio una settimana fa un detenuto si è laureato in storia dell’arte. Con 95. Ma in questi dieci anni abbiamo visto 13 ragazzi diventare “dottore”, alcuni con “voti molto alti”. Carla Cappelli, presidente dell’Associazione volontariato penitenziario di Firenze, è stata tra le creatrici del Polo universitario del carcere di Prato cui oggi fanno riferimento 65 studenti di tutta la Toscana. “Uno dei nostri studenti - aggiunge - è riuscito a laurearsi in scienze infermieristiche. Ora è libero, ha un lavoro e ha completato con successo il suo percorso di reinserimento”. Storie di speranza e riscatto, che portano un raggio di luce nel mondo del carcere. La maggior parte dei detenuti toscani impegnati sui libri si trova all’interno delle sezioni dedicate nel carcere di Prato (una quarantina), gli altri sono sparsi tra le carceri di Porto Azzurro, Pisa e Sollicciano. “Il polo, comunque, rappresenta un po’ un’élite - spiega Carla Cappelli -. Qui i detenuti stanno in cella singola, e hanno più possibilità di muoversi: i blindi restano aperti durante il giorno”. I poli non potrebbero funzionare senza l’impegno di centinaia di volontari. “Vanno ai piani, portano i libri ai detenuti e li aiutano nello studio. Prendono contatto con i docenti per concordare gli esami e i piani di studio”, spiega Giorgio Ronconi, docente presso la facoltà di lettere dell’università di Padova e volontario al Due Palazzi dal 1975. Oggi svolge il ruolo di coordinatore del polo universitario padovano che ospita una trentina di detenuti. “Ma solo una decina più stare nella sezione dedicata agli studenti - spiega -. Gli altri si trovano nelle sezioni comuni”. Rosanna Tosi, docente di diritto costituzionale in pensione, dal 2004 ha messo la sua esperienza a servizio dei laureandi del Due Palazzi: “Tra le altre cose aiuto gli studenti a preparare il curriculum - spiega - faccio lezione in classe oppure, se ce n’è bisogno, vado nelle celle per dare una mano ai detenuti che, per vari motivi, non possono accedere agli spazi del polo”. Giovani e meno giovani, italiani e stranieri. Quello che accomuna questi studenti è la forte determinazione a raggiungere la laurea. “Le motivazioni sono le più diverse - dice Rosanna Tosi -. Credo che per questi ragazzi lo studio sia un’occasione per mettersi in gioco e fare qualcosa di buono. Per ricostruire la fiducia in sé stessi”. E i risultati, in molti casi, sono eccellenti. “Malgrado le difficoltà, soprattutto per gli stranieri, in genere i nostri studenti ottengono voti molto alti - aggiunge Ronconi -. Tornare sui libri, per questi ragazzi, è motivo d’orgoglio una rivincita personale per dimostrare quanto valgono. Sono molto motivati”. Giustizia: Fp Cgil; mancano 6.000 agenti penitenziari, il Dap sottovaluta questa emergenza Dire, 18 luglio 2010 “Le gravi condizioni in cui versano le carceri, soprattutto nel Nord del Paese, dovrebbero portare il Dap e il suo capo a una maggiore attenzione nei confronti della gestione del personale. Una popolazione di oltre 68mila detenuti, con una carenza di organico complessiva di quasi 6mila agenti, con oltre 3.400 poliziotti penitenziari che non prestano servizio nelle carceri, dovrebbe indurre a una accurata gestione delle risorse disponibili, come più volte richiesto da noi dell’Fp-Cgil, da ultimo allo stesso ministro Alfano”. Lo dice, in una nota, Francesco Quinti, responsabile Nazionale Comparto Sicurezza Fp Cgil che prosegue: “Siamo venuti a conoscenza dell’ennesimo provvedimento arbitrario e temporaneo - continua - che riguarderebbe 8 agenti distaccati dal servizio in diversi istituti penitenziari del Nord Italia all’Uspev di Roma (Ufficio per la sicurezza personale e per la vigilanza), alle dirette dipendenze del Capo Dipartimento Ionta. Dispositivi “temporanei” che in effetti saranno trasferimenti veri e propri, seppur non formalizzati. Un provvedimento che, a voler essere maliziosi, potrebbe essere letto come una azione clientelare, ma che noi, in assoluta buona fede, giudichiamo come un sintomo della totale assenza di sensibilità nei confronti dei colleghi e della grave situazione vissuta nelle nostre carceri”. Secondo Quinti “il piano ferie estivo dei colleghi, un diritto che rivendichiamo ma che va gestito con attenzione, indebolisce ulteriormente il sistema di sicurezza nelle carceri e obbliga il personale in servizio a maggiori carichi di lavoro, sarebbe opportuno operare con maggiore accortezza e rispetto delle regole. Come abbiamo più volte suggerito- continua- andrebbe mantenuto il più alto numero di agenti in servizio nelle carceri, ma soprattutto bisognerebbe smetterla di utilizzare metodi che lasciano all’arbitrio dell’amministrazione la gestione del personale, puntando sempre sulla loro valorizzazione nell’ambito degli istituti di pena, soprattutto in un momento di così forte criticità. Il Capo Dipartimento Ionta ha capito che abbiamo ormai raggiunto il livello d’allarme, e che esiste un sistema di regole che deve osservare? E il ministro Alfano - chiude -, non sente su di se la responsabilità di quanto è ormai sotto gli occhi di tutti e a cui lui, incomprensibilmente, sembra assistere da spettatore?”. Lettere: regolamento di organizzazione degli Uepe, la Fp-Cgil scrive al ministro Alfano Comunicato stampa, 18 luglio 2010 Egr. Ministro, siamo venuti a conoscenza, che il giorno 11 giugno u.s. è stato firmato il Regolamento di organizzazione degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna ai sensi dell’art. 3 della legge 154/2005 e dell’art.72 c.1 della Legge 25 luglio 1975 n.354 . Si è inteso così definire, con una modalità ed un metodo poco ortodossi riguardo il rispetto delle normali relazioni sindacali, una questione importante e piuttosto delicata e complessa per la quale avevamo chiesto il 20 febbraio 2009, nota n. 45, al Capo del Dap Presidente F. Ionta ed all’allora Direttore Generale Epe, Dott. R. Turrini Vita, un confronto per esaminare alcuni aspetti dell’articolato nel cui contenuto avevamo ravvisato criticità che richiedevano, a nostro parere, un adeguato ed opportuno approfondimento. Non solo il confronto non è mai avvenuto ma non vi è stato neppure il benché minimo convenevole accenno di riscontro. Prassi, quest’ultima, consolidata e frequentemente reiterata dall’amministrazione. Ebbene, Sig. Ministro, non possiamo esimerci dal rappresentare il nostro disappunto riguardo la questione in oggetto in quanto riteniamo siano stati disattesi, dall’amministrazione penitenziaria in primis, quei principi stabiliti dalla norma che regolano e definiscono le relazioni sindacali e le materie contrattuali oggetto di informativa e di confronto tra le parti. Una di queste è proprio l’organizzazione degli uffici, specificità che caratterizza il Regolamento in questione. La Fp Cgil, pertanto, chiede di conoscere il contenuto finale dell’articolato e chiede urgentemente un incontro sulla materia evidenziata. In attesa di sollecito riscontro si porgono cordiali saluti La Coordinatrice Nazionale Fp Cgil Penitenziari - Ministeri, Lina Lamonica Per la Fp Cgil Dirigenza Penitenziaria Massimo Di Rienzo Veneto: le Associazioni denunciano; la Regione ha azzerato i finanziamenti al volontariato carcerario La Nuova di Venezia, 18 luglio 2010 La Regione taglia del tutto i finanziamenti al volontariato che opera nelle carceri a favore dei detenuti. A denunciarlo sono le numerose associazioni con un comunicato firmato non da pericolosi estremisti, ma dal “Centro Francescano di ascolto” di Rovigo, dalla “Comunità Giovanni XXIII” di Vicenza, da don Tonino Bello di Verona dal “Granello di Senape” di Padova e Venezia, dalla veronese “San Vincenzo De Paoli” e da tanti altri. Lo stato delle carceri in Veneto è pessimo, il sovraffollamento nelle celle ha raggiunto limiti insopportabili soprattutto in questi giorni di gran caldo, l’emergenza suicidi è pesantissima, senza contare il numero crescente di atti di autolesionismo. “È sconcertante ricevere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dai diversi direttori richieste di collaborazione, in particolare per la prevenzione dei suicidi - si legge nel documento firmato dalle associazioni di volontariato - e contemporaneamente sapere del taglio dei fondi da parte della Regione”. “Quelli che dovrebbero essere colpiti - si legge ancora - sono i veri sperperi di denaro pubblico e non quei 400 mila euro che servono per sviluppare progetti ed interventi dichiarati essenziali dalla stessa amministrazione penitenziaria per le iniziative socio educative a favore dei detenuti e di coloro che scontano la pena all’esterno del carcere”. Più volte, i responsabili dei gruppi che operano dentro e fuori il carcere hanno chiesto un incontro con il nuovo assessore regionale alle Politiche sociali Remo Sernagiotto, ma non hanno ancora ricevuto una risposta. “Il volontariato che opera nell’ambito della giustizia, da sempre impegnato nel reinserimento delle persone detenute, che è l’unico modo per rendere la società più sicura e già mobilitato per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni di inciviltà in cui si trovano le carceri, denuncia l’inerzia della Regione di fronte a un problema che dovrebbe invece coinvolgere tutti. Se si lasciano, infatti, le carceri in condizioni di abbandono, le persone che ne usciranno dopo aver scontato la pena saranno più incattivite e pericolose” sostengono le associazioni per spiegare quanto importante e necessaria è la loro azione quotidiana non solo per i detenuti, ma anche per l’intera società. Sicilia: celle come forni, politici e volontari in visita ispettiva nei penitenziari dell’isola Il Manifesto, 18 luglio 2010 Il caldo torrido di questi giorni sta trasformando le carceri superaffollate in veri e propri forni dove si può solo impazzire. In Sicilia ci sono 3mila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare (8.256 reclusi a fronte di 5.202 posti). “Una situazione insostenibile per i detenuti e per il personale penitenziario - denuncia il garante dei diritti dei detenuti della Sicilia, Salvo Fleres - inaccettabile per tutti coloro che credono in una società basata sul diritto, dove chi ha infranto la legge va punito, anche severamente, ma mai costretto a subire una detenzione in condizioni di degrado tali da trasformarla in tortura”. Perciò una delegazione di politici, istituzioni e volontari siciliani per due giorni accenderà i riflettori sui carceri dell’isola. Palermo: all’Ucciardone detenuti torturati a causa delle condizioni assurde in cui vivono Adnkronos, 18 luglio 2010 Il carcere Ucciardone di Palermo, dove negli anni Ottanta i boss mafiosi brindavano con lo champagne è “un carcere completamente illegale”. Non solo. “I detenuti sono costretti a vivere in celle piccolissime con il cesso, e non dico apposta wc, a vista, quindi con ogni violazione della privacy. Un posto indegno di un paese civile. Ecco perché parlerei di veri e propri maltrattamenti e di torture e mi assumo la responsabilità di ciò che dico”. È il duro atto d’accusa di Rita Bernardini, la deputata radicale che questa mattina ha visitato il carcere Ucciardone di Palermo, con una delegazione formata da Ristretti Orizzonti, rappresentati da Laura Baccaro, dalla rappresentante del Garante dei diritti dei detenuti Gloria Cammarata, dai rappresentanti di Radicali italiani di Catania Marco Ciccarelli e di Palermo Donatella Corleo e dai volontari Maurizio Artale del Centro Padre Nostro, oltre a Michele Recupero e Bruno Di Stefano. All’Ucciardone ci sono 700 detenuti “per una capienza regolamentare di 430 detenuti - ha spiegato - e in più mancano 160 agenti penitenziari. Questo determina che per la mancanza di spazi e anche di agenti, non ci sono attività trattamentali. Dico che qui vengono fatti maltrattamenti ai detenuti, perché quando si tengono le persone in queste condizioni è maltrattamento”. “Quando le persone vivono in cella con le malattie, nella sporcizia, con tossicodipendenti - ha detto ancora - evidentemente questo corrisponde a una forma di tortura, anche se in Italia non c’è il reato di tortura...”. “Se un ispettore dell’Asl si reca in un bar - ha detto ancora Rita Bernardini - chiude l’esercizio commerciale se c’è il bagno non a norma, penso che l’Asl non abbia mai messo piede all’Ucciardone”. E il direttore, Maurizio Veneziano “deve accettare tutti i detenuti che arrivano, da qui deriva il sovraffollamento di questo carcere - ha detto ancora la Bernardini incontrando i giornalisti all’uscita dal carcere borbonico - Sono stati tagliati in maniera incredibile i fondi e quando la situazione è di sovraffollamento come qui, ci sono insetti, topi e scarafaggi”. All’Ucciardone c’è poi una struttura che si chiama il “canile” - ha detto ancora la delegata Radicale - qui vengono portati i detenuti dopo l’arresto prima di essere assegnati. Sono celle senza arredamento, sporchissime e loro sono totalmente isolati”. La visita ispettiva è stata fatta in particolare nella terza sezione. “In alcune celle non funziona nemmeno lo scarico, quindi i detenuti devono prendere i secchi dopo essere andati in bagno, davanti a tutti”, ha poi denunciato la Bernardini. “Il direttore per la manutenzione ordinaria . ha detto - ha solo ottomila euro all’anno”. “Per non parlare delle docce, “sono fatiscenti e uno rischia di prendersi le malattie per farsi la doccia, che sono una specie di grotte con le stalattiti... c’è il muschio, l’intonaco crollato. Su sette docce ne funzionano una o due. Dovreste vedere i piatti della cella di che colore sono. Sono vomitevoli”. “Abbiamo visto anche una cella praticamente blindata dove c’era un detenuto che aveva con ogni probabilità la tubercolosi, aveva la mascherina - ha detto ancora Rita Bernardini - Gli agenti e gli altri detenuti stavano a debita distanza. Ho chiesto perché non lo ricoverano e mi hannod etto che stanno facendo una verifica per vedere se effettivamente ha la tubercolosi”. C’è un solo medico e un solo infermiere per settecento persone. Problemi anche per i colloqui, secondo la delegazione che ha fatto visita all’Ucciardone. “Un detenuto non fa un colloquio da tredici mesi. Se questa è la rieducazione...”. E sulle celle: “Sono tutte piccolissime, con sei detenuti in pochissimi metri quadri. Una cosa è certa: non hanno i tre metri quadrati stabiliti dalla Corte europea per i diritti dell’Uomo. A rischio denuncia...”. “Adesso stiamo raccogliendo tutti gli appunti -ha detto - poi presenteremo interrogazioni parlamentari alle quali il ministro della Giustizia come sempre non risponderà”. “Queste stesse interrogaizoni le presenteremo alla Procura - ha detto - perché c’è l’obbligatorietà dell’azione penale. Voglio vedere se agiscono”. Ieri visita al carcere di Gazzi a Messina, dove “la situazione è ancora peggiore di quella dell’Ucciardone di Palermo e questo rende l’idea della gravità...”. Per Rita Bernardini “la politica è completamente disattenta e chiude gli occhi di fronte a questo. Ormai il carcere è diventato la discarica del disagio sociale. Incontriamo i poveracci, tossicodipendenti, malati di mente, e ce ne sono tantissimi. Queste persone delinquono anche perché non c’è nessuna rete di soccorso sociale sul territorio. Quindi, dove li si manda? In galera”. Padova: detenuto di 39 anni ritrovato morto in cella, forse decesso è causato dal caldo Ristretti Orizzonti, 18 luglio Ha chiesto aiuto, ha chiamato i soccorsi, ma per Sabi Tauzi, marocchino di 39 anni, non c’era più nulla da fare. Il detenuto nella casa di reclusione Due Palazzi è stato trovato privo di vita ieri mattina in cella. Ex tossicodipendente, era in carcere per droga e avrebbe scontato la pena nel 2014. A renderlo noto il responsabile della conferenza regionale “volontariato giustizia del Veneto”, Maurizio Mazzi. A trovare il cadavere è stato il compagno di cella. Il medico legale che ha disposto l’autopsia ha dichiarato che la morte è sopraggiunta a cause naturali. Le associazioni chiedono ora di incentivare la presenza di volontari all’interno delle strutture carcerarie per poter dare un aiuto concreto ai detenuti. La temperatura eccessiva forse è la causa della morte, come segnala la Cgil, che denuncia come in una cella si arriva a 40 gradi reali. Il sindacato in una nota sottolinea come l’afa di questi giorni peggiori di molto la situazione nelle carceri, rendendola insopportabile e ingestibile. Comunicato della Conferenza regionale volontariato giustizia del Veneto Un’ennesima morte in carcere. Nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova è stato trovato morto ieri notte un ragazzo marocchino di 39 anni. In attesa di conoscere le cause del decesso rimaniamo sbigottiti perché si tratta della quarta morte in pochi mesi nella casa di reclusione. Giusto Ieri avevamo chiesto al Magistrato di Sorveglianza di verificare la necessità di tenere chiuse le porte blindate la notte che, con questo caldo ed il sovraffollamento insostenibile, rendono la vita ancora più dura. Tutto il volontariato italiano, impegnato in ambito giustizia, da alcune settimane è in mobilitazione per chiedere maggior rispetto e attenzione alle condizioni di vita della popolazione ristretta. Chiediamo al Provveditore Regionale di verificare, in tutte le strutture penitenziarie che ricadono sotto la sua responsabilità, la corretta applicazione delle recenti circolari del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero di Giustizia che chiedono maggiori possibilità di usufruire di spazi aperti, di incontri con i familiari con possibilità di telefonare anche a cellulari e di incentivazione del volontariato perché aumenti la sua presenza nelle strutture, anche fino alle ore 18.00. Purtroppo per quasi tutte le carceri venete non ci risulta la corretta applicazione delle misure previste; nelle carceri di Belluno e Treviso il volontariato viene addirittura scoraggiato. Lo stillicidio continuo delle morti in carcere e lo stato di abbandono e inciviltà in cui versano, richiedono a tutti segni concreti di responsabilità. Per questo e per tutta l’estate il volontariato veneto sarà presente in carcere ma anche nelle piazze per far sentire il proprio disagio e le proposte alternative che da tempo sta praticando quotidianamente. Il responsabile della conferenza regionale volontariato giustizia del veneto Maurizio Mazzi Mantova: la Procura lancia allarme; l’Opg di Castiglione scoppia, impossibili altri ricoveri La Gazzetta di Mantova, 18 luglio 2010 L’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione scoppia. A lanciare il grido d’allarme è la Procura della repubblica di Mantova che, congiuntamente alla direzione generale dell’Azienda Carlo Poma, ha inviato una lettera al ministero della giustizia e alla regione Lombardia per segnalare la grave situazione che si è venuta a creare negli ultimi mesi. L’ospedale, in pratica, non è più in grado di accogliere nessun’altro detenuto perché ha già superato di quaranta unità il numero massimo previsto che è di 223. Stiamo parlando dei detenuti maschi, perché la sezione femminile - unica in Italia - non sta creando alcun problema. Un decreto del 2009 aveva previsto per l’ospedale psichiatrico di Castiglione l’accoglimento di detenuti provenienti dal Piemonte, dalla Lombardia e dalla Valle d’Aosta, ma la mancanza di strutture esterne adeguate che possano accogliere i pazienti a fine cura per inserirli gradualmente nella società non esistono. Per questo l’Opg deve farsi carico anche di questi che ovviamente fanno lievitare il numero dei detenuti. Per ovviare a questo problema è stato approvato ed è anzi già esecutivo l’utilizzo di una palazzina di proprietà del Carlo Poma dove entro l’anno saranno ospitati una ventina di questi detenuti a fine cura. Il problema del sovraffollamento non incide solamente sull’assistenza che peraltro viene comunque garantita, ma anche sulla convivenza. Con l’aumento dei detenuti infatti cresce anche il rischio dell’aggressività. Potrebbero insomma verificarsi episodi di intolleranza. Ricordiamo che gli ospiti dell’ospedale psichiatrico giudiziario sono persone condannate per gravi reati contro il patrimonio ma soprattutto contro la persona. Non essendo una struttura carceraria, inoltre, la direzione del Poma non può chiedere ed ottenere guardie carcerarie. Una situazione molto delicata dunque, che ha indotto i vertici dell’Azienda e della Procura a chiedere lo stop ai nuovi arrivi. Trieste: edifici e verde pubblico affidati ai detenuti grazie a una convenzione con il Comune Il Piccolo, 18 luglio 2010 Ringhiere ritinteggiate, giardini tornati ad apparire ben curati, rifiuti spariti. È lungo l’elenco dei lavori portati a termine nel biennio 2009-2010 da cinque detenuti al Coroneo nella manutenzione ordinaria e nella pulizia di aree ed edifici pubblici, realizzati grazie alla convenzione tra Comune e casa circondariale. L’attività è stata illustrata nell’ingresso della Casa di riposo comunale Gianni Bartoli, appena ritinteggiato proprio dai detenuti. All’incontro sono intervenuti gli assessori Michele Lobianco, Paolo Rovis, Carlo Grilli e Enrico Sbriglia, direttore del Coroneo e anche assessore alla Sicurezza. A Casa Bartoli i carcerati, oltre a ritinteggiare le pareti di atrio e sala fumatori, hanno pitturato le ringhiere. Altri mirati interventi - è stato detto - sono stati portati a termine o sono in fase di ultimazione nell’area monumentale di San Giusto, nella zona monumentale in Scala dei Giganti, in piazzetta Trauner - Arco di Riccardo, in piazza Sant’Antonio e in varie altre zone del centro e della periferia cittadini. Gli interventi hanno riguardato anche la pulizia e la cura dei giardini di varie scuole materne e ricreatori. Sbriglia ha sottolineato come “si stia facendo qualcosa di trasversale e di giusto”, attraverso una convenzione che “è un forte atto giuridico, oltre che dal profondo valore morale. In questo - ha aggiunto Sbriglia - l’amministrazione sta facendo anche sicurezza a costi molto contenuti”. Lobianco ha ricordato la valenza sociale del progetto che ha visto “Trieste nel 2005, prima in Italia, nello stipulare una convenzione in questo senso”. “Mi auguro - così Rovis - che si possa continuare su questa strada, che registra positività per i cittadini, per il territorio e i soggetti coinvolti”. Sul significato di fare il punto del progetto proprio alla casa Bartoli si è soffermato infine Grilli, che ha sottolineato come “proprio da due situazioni fragili nasce una grande possibilità di riscatto e conoscenza”, aiutando a “vincere le diffidenze”. Comunicato dell’Ufficio Stampa del Comune di Trieste All’ingresso appena ritinteggiato di Casa Bartoli, in via De Marchesetti 8/3, si è svolta questa mattina (giovedì 15 luglio) una conferenza stampa per presentare il lungo elenco dei lavori portati a termine nel 2009/2010, grazie alla positiva convenzione tra il Comune di Trieste e la Casa circondariale della nostra città, che ha permesso l’impiego di ben 5 detenuti in lavori di pulizia e manutenzione ordinaria di aree patrimoniali pubbliche. All’incontro sono intervenuti gli assessori alle Risorse umane e Organizzazione Michele Lobianco, allo Sviluppo economico e Rapporti con Aziende e Società partecipate Paolo Rovis, alla Promozione e Protezione sociale Carlo Grilli e il direttore della Casa circondariale di Trieste e assessore alla Sicurezza Enrico Sbriglia. Presenti anche il responsabile di Casa Bartoli Eugenio Pilutti, la direttrice dell’Area Risorse umane Romana Meula con la funzionaria responsabile dei progetti speciali Raffaella Spedicato e il direttore del Servizio Controllo attività esternalizzate Alberto Mian. Nel lungo elenco degli interventi 2009-2010 che hanno visto il coinvolgimento di 5 detenuti, figurano proprio i lavori di tinteggiatura dell’atrio e della sala fumatori, nonché la pitturazione delle ringhiere della casa di riposo comunale Gianni Bartoli. Altri mirati interventi sono stati portati a termine o sono in fase di ultimazione nell’area monumentale di San Giusto (spazzamento mensile; pulizia cestini; asporto rami) nella zona monumentale in Scala dei Giganti (pulizia), in piazzetta Trauner - Arco di Riccardo (pulizia), in piazza Sant’ Antonio (pulizia periodica aree verdi), in via Murat e piazza Tommaseo (pulizia aiuole), in prossimità della trenovia Trieste - Opicina (asporto rifiuti ingombranti e pulizia lungo il tracciato), in via Coroneo (sistemazione e pulizia aiuole), nel giardino di via Donota (spazzamento e asporto discarica abusiva), nella pineta di Barcola (pulizia, asporto rifiuti e rami), nel vespasiano pubblico di Barcola (manutenzione e tinteggiatura), nell’ alabarda di viale Miramare (restauro e pitturazione), a palazzo Carciotti (tinteggiatura stanze e atrio di ingresso), nel parcheggio comunale via Punta del Forno (spazzamento periodico) e nel parcheggio di via Miani (spazzamento e asporto rifiuti), in via delle Mura (cancellazione scritte murali mediante tinteggiatura), nella sede comunale di via Fianona (tinteggiatura stanze), negli uffici dell’ Area Educazione, Università e Ricerca di via del Teatro Romano (pitturazione porte; riparazione infissi finestre; sgombero archivi), nel ricreatorio Padovan e in quello di San Luigi (asporto fogliame e spazzamento generale), nella Scuola elementare di Opicina e nel ricreatorio di via dell’Istria (pulizia). E ancora nella scuola materna di Altura (sfalcio erba; pitturazione porte; tinteggiatura aule e spogliatoi), nella scuola materna statale di via Boveto (Barcola) e nella scuola materna statale di Strada per Longera (sistemazione e messa in sicurezza del giardino; asporto rifiuti), nel ricreatorio De Amicis (verniciatura portoni), nella scuola di via Rozzol (verniciatura ringhiera) nel ricreatorio Ricceri (ripristino intonaci e tinteggiatura stanza laboratorio), in strada per Longera (verniciatura ringhiera/parapetto stradale di circa 270 metri), nel terreno in prossimità dell’asilo nido di Borgo San Sergio (asporto rifiuti e ripristino terreno), nei terreni comunali di via Conconello (asporto rifiuti ingombranti), di via Bergamasco (taglio rami e sfalcio arbusti), di via Flavia e nei pressi di Automarocchi (sfalcio e asporto rami), nonché nella casetta comunale in legno ad Opicina (tinteggiatura) e sull’ intero territorio comunale (taglio arbusti e rami occultanti la visibilità della segnaletica stradale). Un unanime e condiviso plauso al progetto e a quanto di buono è stato realizzato e portato a termine a favore dell’intera comunità cittadina e a benefico anche del reinserimento lavorativo dei detenuti e venuto dagli assessori comunali Michele Lobianco, Paolo Rovis, Carlo Grilli ed Enrico Sbriglia e quest’ultimo, anche in qualità di direttore della Casa circondariale di Trieste ha sottolineato come “si stia facendo qualcosa di trasversale e di giusto”, attraverso una convenzione che “è un forte atto giuridico, oltre che dal profondo valore morale”. “In questo -ha aggiunto Sbriglia- l’amministrazione sta facendo anche sicurezza a costi molto contenuti”. L’assessore Michele Lobianco ha voluto ricordare la valenza sociale del progetto che ha visto “Trieste nel 2005, prima in Italia, nello stipulare una convenzione in questo senso”, soffermandosi anche sul ruolo del “tutor” che segue i detenuti e crea squadra favorendo il processo di rieducazione e reinserimento nel lavoro. “Mi auguro - ha aggiunto Paolo Rovis - che si possa ancora continuare su questa strada, che registra positività per i cittadini, per il territorio e i soggetti coinvolti. Il fatto poi che oggi qui ci siano ben 4 assessori su 10 dimostra quanto sia condiviso questo progetto”. Sul significato di fare qui, nel centro residenziale per anziani Bartoli, il punto di questo progetto, si è invece soffermato l’assessore alla Promozione e protezione sociale Carlo Grilli, che ha sottolineato come “proprio da due situazioni fragili nasce una grande possibilità di riscatto e conoscenza”, aiutando a “vincere le diffidenze”. Trani (Ba): troppi detenuti e esigue forze di polizia, situazione difficile nel super carcere Corriere del Mezzogiorno, 18 luglio 2010 La Puglia è una di quelle regioni pagherebbe il maggior prezzo con quota 4.550 reclusi in poche utilizzate strutture come Lecce - Foggia - Taranto - Bari- Turi - Lucera -Brindisi e Trani,quest’ultima per lavori in corso l’utilizzo è di un solo plesso in costante sovraffollamento. Le rumorose ed infuocate proteste, sembrano invadere,secondo fonti interne, anche la nostra Regione,sale pertanto la preoccupazione del Sindacato Osapp per quelle strutture Penitenziarie a cui mancherebbe il rientro del personale distaccato in altre sedi viciniore con minore sofferenza ed a cui ben si è guardato Ministero e Prap Puglia dal disporne l’immediato reintegro della forza assente,anzi, continuerebbero i prelievi volontari per le zone del Centro e Nord Italia per quelle necessità,nell’ultimo biennio sarebbero circa 280 i pensionamenti dei Poliziotti che vanno a detrarsi dalle 2.900 circa unità dei Baschi Azzurri che operano in sotto organico e su turni a tre quadranti lavorativi. Nel Super Carcere di Trani dove una volta il fior, fiore dei Terroristi Nazionali ed Internazionali delle Brigate Rosse soggiornavano agli ordini del Generale Dalla Chiesa,oggi la struttura ancora in ristrutturazione ospita alla data odierna circa 240 detenuti in un solo plesso detentivo,una forza che aumenterà certamente nei prossimi mesi di ben 200 detenuti provenienti dal penitenziario di Bari. A rischio il semplice diritto della fruizione della giornata del riposo come la fruizione del congedo ordinario estivo e di contro tendenza,sarebbero state indicate dai vertici Regionali forme di recupero di personale non dagli Uffici amministrativo ed amministrativo contabili o dai palazzi e Servizi Esterni non istituzionali ma bensì dagli stessi reparti detentivi: . “ come dire,piove sempre sul bagnato”. Da giorni le alte temperature prevedevano,come consigliano i Bollettini Ufficiali della Protezione civile a tutti gli Enti e agli Italiani,bere molta acqua,rinfrescarsi spesso etc., nel Penitenziario di Trani il Bar Spaccio dove soggiornano i Poliziotti nei momenti di libertà momentanea, è rimasto chiuso totalmente ed i distributori, l’unico nel reparto quasi detentivo,totalmente sprovvisto di acqua. Abbandonati totalmente dalle Istituzioni Centrali, Regionali e Locali i Baschi Azzurri che comunque continuano ad effettuare turni massacranti dalle 8 alle 12 ore continuative giornaliere nelle Sezioni Infuocate dal malessere generale dei reclusi,oltre che dall’afa per la gradazione molto alta che in alcuni momenti ha anche raggiunto il picco dei 45 gradi all’ombra come nella giornata di ieri. Il Segretario Generale Nazionale aggiunto dell’Osapp Minno Mastrulli quest’oggi, resosi conto della drammaticità, ha distribuito gratuitamente bevande(acqua naturale e minerale) a tutti i Baschi Azzurri che garantiscono la Sicurezza dei penitenziari di Trani ,recandosi presso i settori degli Agenti di Polizia all’ingresso del Carcere ed omaggiando dell’acqua che nel Carcere non si riesce a trovare neanche pagandola a peso d’oro. Non esistono distributori automatici di generi di prima necessità nella Caserma Agenti ,non è stato lasciato aperto il bar Spaccio per il ristoro dei Poliziotti. In data di ieri l’Osapp convocata d’urgenza dalla locale reggente direzione per la trattativa sull’attuale emergenza,ha rigettato in Toto la proposta di fare turnare i Baschi Azzurri nei servizi con orario che vanno oltre le sei ore giornaliere e che mettono a rischio anche il periodo delle ferie estive. L’Amministrazione ha obbligato il poliziotti a turni massacranti affermando che tutti gli altri Sindacato avevano sottoscritto tale accordo in data 27 aprile 2010 tutt’ora vigente ma pendente il Ricorso dell’Osapp alla Commissione Nazionale di Garanzia contro tale decisione iniqua ed ingiusta. Modena: Commissione provincia visita Casa di lavoro; la direttrice: prima volta in 17 anni Gazzetta di Modena, 18 luglio 2010 “In 17 anni, questa è la prima volta che ricevo la visita di una Commissione”. Ha esordito così la direttrice della casa-lavoro di Saliceta San Giuliano, Francesca Dallari, ricevendo ieri pomeriggio la commissione attività formative e politiche sociali del consiglio provinciale. Obiettivo l’accertamento della situazione in cui versa la struttura: “Le proteste da parte degli internati dovrebbero terminare in questi giorni - ha detto la presidente della commissione Patrizia Cuzzani, Idv - Gli agenti della polizia penitenziaria in ferie stanno rientrando, e con loro il magistrato che si occuperà dei permessi”. La Cuzzani non si sbilancia, ma sottolinea alcune problematiche come il sovraffollamento e la mancanza di finanziamenti: “Prima di dare un giudizio vogliamo prima visionare Sant’Anna perché queste due situazioni hanno molte analogie nel sistema detentivo interno - spiega - qui a Saliceta la mancanza cronica di fondi porta ad avere pochi progetti di formazione. Inoltre, da un lato c’è la sovrabbondanza di detenuti rispetto alla capienza e dall’altra una forte carenza di personale rispetto alle reali esigenze: i detenuti che dovrebbero essere all’interno del carcere dovrebbero ammontare a 67, ma alla fine sono il doppio”. La commissione ha esplorato i vari locali della casa-lavoro: “Quando ci presentiamo in queste strutture vogliamo visitare le celle, gli spazi comuni e ovviamente i servizi, come la cucina e l’infermeria - spiega Patrizia Cuzzani - Vogliamo vedere quali sono le emergenze dei nostri istituti e constatare di persona quali sono i punti su cui noi come Provincia possiamo lavorare. A Castelfranco sono stati fatti interventi manutentivi che invece a Saliceta mancano”. Venezia: al carcere della Giudecca in arrivo un ingresso separato per le mamme con bambini Il Gazzettino, 18 luglio 2010 Dirige il carcere femminile da un anno in via esclusiva e insieme ai suoi collaboratori e ai volontari cerca di renderlo vivibile e rispettoso della dignità umana. É Gabriella Straffi. Il carcere della Giudecca è una struttura complessa che ha la sezione “Casa di lavoro” dove vengono scontate le misure di sicurezza. La Direttrice ha annunciato la realizzazione di una sezione separata dove saranno ospitate le mamme con i bambini con ingresso facilitato. Già oggi i bambini escono , ma “vogliamo dare l’idea al piccolo di vivere in una casa normale”. Sono iniziati anche i lavori di una caserma per il personale. Un grazie lo si deve alle cooperative sociali “Il granello di senape” e “Il Cerchio”, ma fondamentale é il ruolo del personale della Polizia Penitenziaria, anche per la capacità di integrarsi con chi opera nell’istituto di pena. “Nel carcere femminile abbiamo puntato sulla qualità del prodotto. Vogliamo che i nostri prodotti siano acquistati non per beneficenza ma per la buona qualità”. Locri (Rc): Sappe; detenuto straniero tenta il suicidio, salvato da un agente Ansa, 18 luglio 2010 Un agente della polizia penitenziaria ha tratto in salvo un cittadino straniero che ha tentato il suicidio nella cella del carcere di Locri dove era detenuto. A darne notizie è il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante. L’agente della polizia penitenziaria è intervenuto nella cella ed ha slegato il detenuto che ha tentato il suicidio utilizzando le lenzuola. Nelle operazioni di soccorso l’agente ha subito un trauma alla spalla che i sanitari hanno giudicato guaribile in dieci giorni. “Dopo quello di Piacenza avvenuto questa notte - afferma Durante - con questo di Locri è il secondo tentativo di suicidio in Italia, di cui abbiamo avuto notizia nelle ultime ventiquattro ore. La situazione è ormai insostenibile, a causa della carenza di spazi. Ci sono istituti, come quello di Rimini, per esempio, dove 10 detenuti sono costretti a stare in poco più di dodici metri quadrati. In questa situazione non è possibile fare nessuna prevenzione rispetto al problema dei suicidi. Nonostante ciò la polizia penitenziaria continua a fare davvero i miracoli, vista la carenza di uomini e mezzi”. “In Calabria, ormai, la situazione - afferma Damiano Bellucci, segretario del Sappe della Calabria - è difficile come nelle altre regioni d’Italia gli stranieri sono arrivati a 798, per una percentuale del 26%. Chiediamo all’Amministrazione che l’agente che ha operato il salvataggio riceva un adeguato riconoscimento, per il gesto eroico che ha compiuto”. Vigevano (Pv): agenti penitenziari assolti in appello per la morte di un detenuto Provincia Pavese, 18 luglio 2010 Condannati a un anno in primo grado per la morte di un detenuto, sono stati invece assolti in appello. Giovanni Ardizzone, all’epoca comandante di reparto del carcere dei Piccolini a Vigevano, e Otello Mosetti, coordinatore della sezione detentiva, erano accusati di omicidio colposo. Il fatto contestato era questo: il 19 luglio 2002 Giuseppe Savini, 36 anni, si era tolto la vita in cella respirando gas da un fornelletto. Secondo le accuse, il detenuto non sarebbe morto se i due agenti di polizia penitenziaria avessero fatto osservare le disposizioni di un ordine di servizio. Savini infatti aveva già tentato il suicidio due mesi prima. Lo avevano salvato gli agenti del carcere: dopo un ricovero era tornato in cella. Il direttore del carcere aveva firmato un ordine di servizio, per cui Savini non poteva avere un fornelletto a gas in cella, raccomandando inoltre la massima vigilanza. Ardizzone e Mosetti non erano al lavoro quando era stato emesso l’ordine: “L’avviso di attenta sorveglianza non era stato passato alle sezione dove era detenuto Savini, né al capoposto - ha obiettato l’avvocato difensore di Ardizzone, Fabio Santopietro, davanti alla prima corte d’appello di Milano, che nell’udienza di ieri ha pronunciato un’assoluzione con formula piena. I legali di Mosetti erano invece gli avvocati Massimo Marmonti e Giorgia Spiaggi. Secondo l’accusa invece (il sostituto procuratore generale ha chiesto la conferma della condanna a un anno di reclusione) gli agenti sarebbero stati comunque responsabili della mancata esecuzione degli ordini. In primo grado, il pubblico ministero Claudio Michelucci aveva distinto le posizioni dei due imputati, chiedendo la condanna a un anno per Mosetti e l’assoluzione per Ardizzone, sia pure perché non erano emerse prove sufficienti di responsabilità. Il giudice di primo grado aveva condannato entrambi ad un anno e all’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Torino: archiviato caso poliziotti indagati per il suicidio di un detenuto che si era impiccato Apcom, 18 luglio 2010 È stato archiviato il caso che vedeva indagati per omicidio colposo tre agenti di polizia penitenziaria per il suicidio di Giuseppe Clemente, 44 anni, killer di Cosa nostra, impiccatosi nel carcere delle Vallette di Torino il 26 aprile 2008 all’interno del reparto Sestante, sezione modello di “osservazione e trattamento psichiatrico dei detenuti”, regime di alta sicurezza. Il giudice Francesco Moroni ha disposto l’archiviazione dopo che l’incidente probatorio ha escluso “la sussistenza di qualunque condotta omissiva o comunque colposa” dei poliziotti Angelo Nappi, assistente, e degli assistenti capo Antonio Catalano e Giovanni Cadeddu. I tre agenti di polizia penitenziaria erano stati accusati di non aver piantonato o osservato con le telecamere il detenuto suicida. Giuseppe Clemente era stato condannato all’ergastolo al termine del maxi processo Omega e risultava coinvolto in numerosi omicidi di mafia. Soddisfazione espressa da Gerardo Romano, segretario regionale dell’Osapp, sindacato di polizia penitenziaria”. Da tempo l’Osapp - dichiara - denuncia le immani difficoltà che incontra il personale di polizia nel gestire la sicurezza degli istituti, a fronte del sempre più grave sovraffollamento e della carenza di organico. Della tanto decantata assunzione di duemila nuove unità promessa dal ministero della giustizia, non si è visto nulla”. “Nonostante ciò - sottolinea Romano - i nostri colleghi che prestano servizio nelle sempre più caotiche sezioni e nuclei di traduzione e piantonamento e adempiono puntualmente ai loro doveri, sono stati accusati di aver causato il suicidio di un detenuto. Una grave accusa per cui non è stato trovato alcun fondamento. Le indagini della magistratura, in cui abbiamo sempre posto la massima fiducia, hanno dimostrato che non c’è stata alcuna omissione da parte loro. Il loro servizio è stato sempre irreprensibile come quello degli altri colleghi”. Lecco: due detenuti evadono dal carcere, un italiano di 27 anni e un egiziano di 29 anni Ansa, 18 luglio 2010 Due detenuti sono evasi poco prima di mezzogiorno dal carcere di Pescarenico. Secondo le prime notizie si tratta di un cittadino italiano di 27 anni, pluri pregiudicato, considerato pericoloso, e di un cittadino egiziano di 29 anni con precedenti per rapina. Nicodemo Romeo, 26 anni, calabrese, uno dei due detenuti evasi oggi dal carcere di Lecco, stava scontando una condanna fino al 2019. L'uomo è accusato dell' omicidio a scopo di rapina dell'imprenditore Maurizio Cirillo, ucciso il 15 dicembre del 2008 a Lumezzane (Brescia) nel corso di un tentativo di rapina. Arrestato e poi scarcerato per questa vicenda (il procedimento è ancora in corso), era detenuto per una condanna per traffico di droga. L'altro evaso, El Fadly Aly Amr, 29 anni, egiziano, era invece in carcere per rapina e lesioni personali aggravate, con un fine pena nel 2012. Secondo una prima ricostruzione fornita dalla Questura di Lecco, i due avrebbero eluso la sorveglianza delle guardie e sarebbero riusciti a oltrepassare il muro perimetrale del carcere di Lecco, agevolati anche dai due metri di statura del detenuto egiziano. Le indagini della Squadra mobile di Lecco stanno verificando anche la possibile presenza di complici all'esterno del carcere per facilitare la fuga. è stata anche avviata anche un'indagine della polizia penitenziaria all'interno del carcere. Lecce: Sappe; esplode bombola gas in cella, tre detenuti restano ustionati Ansa, 18 luglio 2010 Tre detenuti del carcere di Lecce sarebbero rimasti ustionati per l’esplosione di una bomboletta di gas usata per cucinare all’interno della loro cella. Lo denuncia in una nota il segretario nazionale del Sappe (sindacato autonomo di polizia penitenziaria), Federico Pilagatti. Secondo il sindacato, i tre sarebbero stati soccorsi immediatamente dal personale di polizia penitenziaria mentre non è stato tempestivo l’intervento dell’infermiere che era impegnato altrove e, vista l’ampiezza del carcere, non era rintracciabile. I tre sono stati portati nell’ospedale di Lecce dove uno di loro è stato medicato e dimesso, gli altri, più gravi, sono stati trasferiti a Brindisi nel reparto grandi ustionati dell’ospedale Perrino. Il Sappe torna quindi a denunciare la carenza di personale sanitario all’interno del carcere di Lecce e chiede che tutto il personale sanitario e parasanitario sia dotato di un dispositivo cercapersone per fare fronte alle emergenze. Agrigento: agente aggredito da un detenuto, ora è ricoverato all’ospedale Agi, 18 luglio 2010 Un agente della polizia penitenziaria, in servizio al carcere Petrusa di Agrigento, è stato aggredito da un detenuto all’interno della struttura penitenziaria. L’episodio è accaduto ieri pomeriggio quando gli agenti stavano accompagnando il recluso, sottoposto a un particolare regime di sorveglianza, a fare la doccia. Il poliziotto è stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni di Dio, dove si trova tuttora ricoverato. Immigrazione: rivolta nella notte nel Cie di via Corelli, tre immigrati riescono a evadere Ansa, 18 luglio 2010 Rivolta nella notte nel Cie di via Corelli. Tre uomini in fuga dopo un sit-in sul tetto. La polizia presidia il Cie di via Corelli. Rivolta la scorsa notte nel settore E Cie di via Corelli che ospita al momento 119 persone (80 maschi, 22 femmine e 17 transessuali). Un gruppo di una trentina di persone sono saliti sul tetto dopo aver distrutto suppellettili, arredi e dispositivi di sorveglianza per inscenarvi un sit-in. Una decina di immigrati hanno poi tentato di scavalcare le recinzioni per darsi alla fuga e in tre sono riusciti a superare gli ostacoli, due marocchini di 35 e 40 anni, il primo con precedenti per spaccio, e un tunisino di 24 anni. La rivolta è cominciata attorno a mezzanotte e mezza. Secondo quanto si è appreso, la protesta sarebbe stata motivata da quelle che vengono definite le “pessime condizioni” di accoglienza nel Cie di Milano. Sono state danneggiate le macchine di distribuzione di bevande, porte, suppellettili e arredi prima che intervenisse la polizia. Due immigrati sono stati ricoverati per accertamenti rispettivamente al san Raffaele e al Policlinico: il primo con lesioni alle gambe in conseguenza, secondo la polizia, del salto del muro di cinta; il secondo per aver ingoiato una batteria per protesta. Sei poliziotti e un militare sono stati costretti a fare ricorso a cure mediche. Nelle stesse ore un’altra protesta scattava nel Cie di Gradisca (Gorizia) e alcuni reclusi tentavano la fuga. E, a detta di Alberto Bruno, Commissario provinciale della Croce Rossa che gestisce la struttura, proprio la fuga più che la protesta per le condizioni di detenzione sarebbe la causa della “rivolta”: È stato un diversivo quello di salire sul tetto e danneggiare le strutture per consentire a qualcuno di fuggire. La coincidenza con la protesta di Gradisca è sospetta”. Nel dicembre dello scorso anno un transessuale detenuto nel Cie si impiccò nel giorno di Natale. Immigrazione: mossa a sorpresa di Tripoli, chiusi tutti i centri i detenzione per immigrati di Stefano Liberti Il Manifesto, 18 luglio 2010 Una liberazione di massa. Con una mossa decisamente a sorpresa, il colonnello Muammar Gheddafi ha dato ordine di rilasciare tutti gli stranieri rinchiusi nei centri di detenzione in giro per la Libia. Il provvedimento non ha quindi riguardato solo i 205 eritrei che, nella notte tra giovedì e venerdì, sono stati liberati dal centro di Braq, nel sud del paese, in cui erano rimasti rinchiusi in condizioni proibitive per 16 giorni. È stato esteso a tutti gli immigrati, di qualsiasi nazionalità essi siano. E a tutti è stato dato un permesso temporaneo di tre mesi per “cercare lavoro in Libia”. Di fatto, i 28 centri di detenzione libici risultano da ieri vuoti. Una sanatoria di massa che segna un’assoluta controtendenza rispetto agli ultimi anni, in cui il paese di Gheddafi aveva moltiplicato le misure repressive nei confronti degli immigrati africani e, anche su pressioni europee, aveva esteso a dismisura l’utilizzo dei centri. La notizia, che già stava circolando negli ultimi due giorni a Tripoli fra le comunità africane, è stata ufficialmente confermata ieri. A quanto si legge in un dispaccio dell’agenzia di stato Jana, “il leader della rivoluzione ha preso la decisione di rilasciare centinaia di africani detenuti e, se ciò non fosse abbastanza, il leader ha anche fornito agli africani un permesso di residenza in modo da permettere loro di cercare lavoro in Libia, qualora questa sia la loro intenzione”. Una mossa che ha raccolto l’apprezzamento del presidente del Mali Amadou Toumani Tou-ré, in visita a Tripoli, che ha lasciato intendere tra le righe come la mossa del colonnello possa creare un qualche scompiglio sull’altra sponda del Mediterraneo. “Il leader ha preso una decisione molto importante e coraggiosa, rilasciando gli africani detenuti, per lo più immigrati illegali, nonostante possano creare problemi sia alla Libia sia ai suoi vicini a Nord”. Non si sa cosa abbia spinto il leader libico a prendere questa decisione, se in particolare abbiano avuto un peso le pressioni fatte da Bruxelles per il caso dei 205 eritrei rinchiusi a Braq. Un indizio in questo senso lo potrebbero fornire le affermazioni dell’ambasciatore a Roma Hafed Gaddur, che ha sottolineato che la Libia non permetterà “a nessun paese, amico o no, di intervenire negli affari interni. Non tolleriamo ingerenze”. Un segno che probabilmente Tripoli si è irritata delle critiche rivolte da alcuni settori dell’Unione europea e dalla campagna stampa per la liberazione dei 205 eritrei rinchiusi a Braq. E abbia deciso di reagire chiudendo quei centri che proprio l’Unione europea - e l’Italia in particolare - l’avevano spinta ad aprire. Forse un segnale che, proprio mentre è in discussione l’accordo quadro di cooperazione tra Libia e Unione europea, il colonnello Gheddafi non è più disposto a fare il gendarme per conto terzi. Sono circa 3000 i detenuti africani che hanno beneficiato di quest’amnistia generalizzata: fra questi circa 400 eritrei, la metà dei quali liberata dall’ormai famigerato centro di Braq. Questi ultimi sono tuttora bloccati nella città meridionale di Sabha, dove sono stati trasportati dopo la loro liberazione. I soldati al check point non li lasciano uscire dalla città e i 205 ragazzi sono costretti da tre giorni a dormire in strada. A quanto pare, ma le informazioni in tal senso sono contraddittorie, il famoso “permesso di residenza” non consentirebbe la libera circolazione in tutta la Libia, ma solo nella regione in cui è stato emesso. Pertanto gli ex reclusi di Braq sembrano condannati, salvo decisioni contrarie nelle prossime ore, a restare a Sabha. Un destino assurdo, soprattutto se si tiene conto che loro si trovano nella regione del sud perché vi sono stati deportati manu militari a bordo di tre camion container proprio dai soldati libici. I ragazzi sono disperati. “Non abbiamo un soldo. Stiamo cercando di trovare un posto dove passare la notte. Ma la situazione è difficile. Molti di noi si stanno perdendo d’animo”, racconta al telefono uno di loro. Che ribadisce l’appello rivolto nei giorni scorsi alla comunità internazionale, oggi più urgente che mai. “Noi non siamo immigrati illegali. Siamo richiedenti asilo e, come tali, vogliamo ottenere la protezione internazionale di uno stato. Immigrazione: finita la vergogna dei lager libici, per Roma è uno schiaffo di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 18 luglio 2010 E un sonoro schiaffo all’Italia”, così reagisce alla notizia delle decisione della Libia di chiudere tutti i campi di detenzione per immigrati Angelo del Boca, lo storico del colonialismo che aveva denunciato l’esistenza dei campi di detenzione come “nuovi campi di concentramento” all’ultimo convegno di storia italo-libico; e sulla vicenda dei 204 immigrati eritrei deportati fino a Braq, si era appellato al figlio di Gheddafì Seif Al Islam, l’uomo che sta scrivendo la Costituzione libica e che ha mostrato gesti di apertura verso gli oppositori politici. Come giudichi questa decisione del leder libico Gheddafi, confermata dall’ambasciatore libico In Italia Hafed Gaddur? La notizia è di estrema importanza, perché chiude il capitolo ignobile dei campi di raccolta, che poi altro non sono - ora speriamo di dire non erano - che campi di concentramento per i disperati in fuga dall’Africa interna che premono dal grande Sahara su Tripoli. Anche di questi campi è in massima parte responsabile l’Italia, come è dimostrato dalla medesima pratica dei Cie e dagli stessi problemi e polemiche che abbiamo avuto. Sarebbe importante sapere se quello di Gheddafì è l’atto di un autocrate che decide della vita e della morte dei suoi ospiti - ospiti della sua Africa - oppure è un ripensamento vero ed umano. La scelta corrisponderebbe alla sua tempra umana: perché, dopo un’inchiesta rapida che avrebbe dimostrato l’inutilità dei centri dir raccolta, altrettanto rapidamente ha preso la decisione di chiuderli. Quali problemi apre questa decisione al Trattato Kalia-Ubla di due anni fa, dove non c’era menzione del campi di detenzione ma la Ubla s’impegnava a “contenere l’immigrazione clandestina”? Per l’Italia è uno schiaffo. Perché una delle chiavi di volta, oltre al pattugliamento a mare con arrivo di motovedette italiane, era proprio questo sistema di veri e propri lager. Ora non è che la disperazione che spinge popoli interi dal Sahara verso Tripoli finirà. È decisivo capire la conclusione dalla vicenda dei 205 eritrei. Dove andranno i nigeriani liberati dai campi e dove tutti gli altri? Gli eritrei, dopo una forte pressione internazionale e la battaglia di voci libere come il manifesto, sono stati liberati a Braq, possono fare, entro tre mesi quello che vogliono, ma intanto non possono lasciare Seba. E qualora arrivassero a Tripoli, dove potranno mai arrivare ora e quante volte il tempo della loro libertà “entro tre mesi” sarà scaduto? Ecco dunque che l’Italia, che li ha respinti in acque internazionali senza identificarli come avrebbe dovuto, è richiamata subito in causa: perché devono essere ospitati da un paese terzo che riconosce i diritti umani. Forse il cosiddetto contenimento troverà altre forme. C’è la Finmeccanica che sta per avviare la costruzione di un megamuro tecnologico al confini del Sahara per fermare i nostri “clandestini”... Sì, c’è anche questa ulteriore mostruosità della Finmeccanica da denunciare. Ma subito l’Italia deve dare una risposta alla decisione di Tripoli, basta chiacchiere del ministro Frattini. Se il sottosegretario Stefania Craxi ha dato la disponibilità ad ospitare temporaneamente una parte dei disperati eritrei di Braq, si passi subito a ospitarli. Il governo Berlusconi prenda un’iniziativa chiara. E l’opposizione - che, senza tanto per il sottile, aveva dato il suo assenso al Trattato Italia-Libia solo perché risolveva l’annoso contenzioso coloniale - se esiste davvero, su questo alzi la voce immediatamente. I diritti umani non possono essere scambiati con la memoria della lotta anticoloniale e ora valgono quanto, se non più, la lotta al potere di un governo corrotto e colluso. E invece nessuno in Italia propone un piano chiaro. Può sembrare incredibile, ma lo sta facendo Gheddafì. Turchia: il Cpt ha visitato il carcere dove da 11 anni è detenuto Ocalan, il leader del Pkk di Susanna Marietti Terra, 18 luglio 2010 Chi si ricorda di Abdullah Ócalan? Certo non la sinistra italiana, che dopo averne determinato le sorti non sembra interessarsene più molto. Se lo ricorda fortunatamente il Consiglio d’Europa, il cui Comitato per la Prevenzione della Tortura, ottenuto il consenso del governo turco, ha reso pubblico 10 scorso venerdì il rapporto relativo alla propria visita del gennaio 2010 al prigioniero curdo. Il testo, non raccontato dai media italiani, è consultabile sul sito www.cpt.coe.int. Come si ricorderà, il leader del Pkk - il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, che si batte per i diritti del popolo curdo - venuta meno la copertura dello stato siriano scappò in Russia per sfuggire ai servizi segreti turchi. Da lì giunse a Roma nel dicembre 1998 accompagnato da un parlamentare italiano. Era convinto di ottenere asilo dall’Italia, ma motivazioni economico-politiche spinsero l’allora governo guidato da Massimo Dalema ad agire diversamente. Ócalan si spostò in Kenia, dove nel febbraio 1999 fu raggiunto dagli agenti turchi, riportato in patria e immediatamente rinchiuso quale unico detenuto nella prigione dell’isola di mirali. La prima visita del Cpt a mirali è databile un mese dopo l’arrivo di Ócalan. Altre tre si sono succedute prima di quella del gennaio 2010, cui ha preso parte anche il membro italiano Mauro Palma, presidente del Comitato. A partire dal 2001, il Cpt ha più volte sollecitato le autorità turche a modificare le condizioni di detenzione di Ócalan, in particolare permettendogli di frequentare altri detenuti nonché di accedere a maggiori attività. Nel 2008, di fronte al manifesto rifiuto della Turchia di attenersi alle raccomandazioni mosse e di fronte alle ulteriori limitazioni nei contatti con famigliari e avvocati, il Comitato ha deciso di mettere in moto la procedura del public statement, prevista dalla Convenzione per casi eccezionali in cui uno Stato firmatario si rifiuti di cooperare. Solo allora il governo turco si è detto pronto a costruire una nuova struttura detentiva sull’isola di mirali, dove trasferire tanto Ócalan quanto altri cinque detenuti provenienti da vari penitenziari, cosa che è avvenuta alla fine dello scorso anno. La visita di gennaio aveva dunque lo scopo di verificare se la sistemazione dei sei detenuti rispettasse le raccomandazioni mosse in passato dal Comitato. Nella nuova struttura edilizia, tutti sono alloggiati in celle singole ben arredate e di ampiezza sufficiente (quasi 10 metri quadrati, senza contare il vano bagno). L’unico problema strutturale su cui il Cpt ha esortato le autorità turche a intervenire è quello dell’assoluta insufficienza di luce naturale dentro le stanze di detenzione. Quanto al regime detentivo, i contatti umani - dopo 11 anni di isolamento quasi totale che, come spiega il Cpt, hanno effetti devastanti sulla personalità umana - sono per Ócalan aumentati rispetto al passato. L’accesso all’aria aperta è inoltre addirittura raddoppiato, passando da una a due ore giornaliere. Ma questi primi passi nella giusta direzione sono stati giudicati dal Comitato ancora ben lontani dalla meta auspicata, tanto più che la vita quotidiana a mirali è per gli altri cinque detenuti assai più angusta di quella da loro vissuta nelle prigioni di provenienza. Alla fine della visita Mauro Palma, dopo aver privatamente incontrato Ócalan, ha contattato le autorità turche invitandole ad allargare ulteriormente le opportunità di svolgere attività e di socializzazione riservate ai prigionieri di mirali. Il mese successivo la Turchia ha informato Palma di alcuni miglioramenti apportati al regime detentivo. Nonostante ci sia ancora molto da fare, un processo virtuoso è senz’altro cominciato, testimoniato tra le altre cose dai maggiori contatti permessi a Ócalan con i suoi famigliari e avvocati. Il Comitato ha dunque deciso di sospendere per ora la procedura di public statement avviata due anni or sono, riproponendosi tuttavia di continuare a sorvegliare da vicinissimo le condizioni detentive del leader curdo e di riaprire la pratica in qualsiasi momento possa essercene bisogno”. Afghanistan: i talebani assaltano il carcere di Farah e liberano 23 detenuti Ansa, 18 luglio 2010 Quattordici detenuti della prigione della città di Farah, ad ovest dell’Afghanistan, sono stati liberati dai talebani. I fondamentalisti islamici hanno fatto saltare il portone d’ingresso del penitenziario. Lo ha annunciato la polizia. Nel novembre 2009 tredici prigionieri erano riusciti a fuggire dalla stessa prigione scavando un tunnel. India: eunuco manda in tilt carceri, non sanno se metterlo in sezione maschile o femminile Ansa, 18 luglio 2010 Un eunuco indiano, condannato a 4 anni di prigione, ha mandato in tilt le autorità carcerarie dello stato settentrionale del Punjub che non sanno se metterlo nella sezione maschile o in quella femminile. A raccontare la curiosa vicenda di Sudhesh Kumar, detto “Baba”, è oggi il Times of India nelle pagine di cronaca locale. “Una serie di esami medici, dai risultati contraddittori, hanno aumentato la confusione. Mentre il penitenziario di Patiala considera Sudhesh una donna, per quello di Ludhiana è un uomo” scrive il giornale. Il detenuto, incarcerato ad aprile per tentato omicidio, si proclama “maschio”, ma secondo i dottori “è privo di organi genitali maschili”. Dopo essere stato rinchiuso nella sezione femminile della Ludhiana Centrale Jail, ha chiesto un riesame. Trovato “privo di utero e ovaie”, ha ottenuto il trasferimento in un carcere maschile nella città di Patiala, dove però è stato rifiutato per “rischio di aggressioni sessuali”. In attesa di una soluzione al dilemma, è ora detenuto in una cella singola. Gli eunuchi, o “hijras” come sono chiamati i travestiti e castrati indiani, hanno un ruolo di “portafortuna” secondo la superstizione indiana e per questo sono spesso chiamati a pagamento ad assistere a matrimoni e nascite. È una comunità povera e emarginata, ma che negli ultimi ha fatto valere i propri diritti attraverso associazioni e partiti politici.