Giustizia: tra la costruzione di nuove carceri e l’indulto, una terza via è possibile? di Alessandro Battisti Europa, 15 luglio 2010 Non sempre dinanzi a un problema che si trascina negli anni e di cui si stenta a trovare la soluzione è la tecnica a dare una risposta. A volte è un pensiero, un’idea a indicare una strada percorribile. Ed è questo che distingue spesso un vero riformatore, che non devia mai dalla strada della democrazia e della libertà, da un rivoluzionario che si illude che la violenza possa portare a soluzioni o da chi non riesce ad uscire da una costante convenzionalità di pensiero. Un pensiero illuminante in questo senso sta nella storia della Commissione per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission) istituita in Sud Africa dopo la fine dell’apartheid e presieduta da Desmond Tutu. Se i neri africani si fossero attenuti a regole convenzionali e conosciute avrebbero avuto due strade davanti a loro: uri amnistia generale per i crimini perpetrati che cancellasse il passato, una serie infinita di processi per fare luce sui crimini commessi e una probabile serie di dure condanne. Pensarono “altro”, a una terza via. Ricordare, ricostruire i fatti, cercare la verità,ammettere le colpe, coinvolgere le vittime, perdonare e riconciliare. E ridare speranza e fiducia nel futuro. Dinanzi alla commissione si presentarono quasi tutti gli autori di quegli anni terribili, vittime e carnefici, vennero ripercorsi fatti brutali e dolorosi e alla fine chi ammise le sue colpe, collaborando fattivamente alla ricostruzione dei fatti e dialogando con le vittime,fu perdonato in primis proprio dalle vittime stesse, e fu reale riconciliazione. Riprenderò poi questa pagina di storia per tradurla nella nostra realtà carceraria. Noi ci troviamo in una situazione carceraria assai difficile; sovraffollamento carcerario, condizioni di vita disumane per reclusi e polizia penitenziaria, malattie, suicidi, vessazioni e soprusi, carenza di strutture carcerarie, inutilità e spesso inefficacia della pena, senso di insicurezza e di impunità da parte dei cittadini. Due i modelli convenzionali: costruire nuovi istituti penitenziari, diminuire la popolazione carceraria con ricorrenti provvedimenti di clemenza. Forse si può pensare anche ad “altro”, si può avere un’idea. Le ragioni e i motivi che hanno sostenuto l’idea di pena vengono ricondotti a tre teorie: quella meramente retributiva per cui la sanzione deve servire a punire il colpevole, quella della prevenzione generale per cui la pena serve a distogliere dal compiere ulteriori atti criminali, quella della prevenzione speciale che comporta compiti rieducativi e correttivi. Dobbiamo prendere atto che nessuna di queste teorie ha avuto successo e il numero dei crimini commessi e quello degli autori dei reati è storicamente in ascesa in epoca moderna. Sono più d’una la tesi sull’origine del carcere (n.b. l’uso di tale termine è bandito nella nostra legislazione mentre è di uso comune nel linguaggio corrente) ma lo ritroviamo sia in Grecia che a Roma come luogo non ancora di pena ma ad continendos hominis, non ad puniendos; come effettivo luogo di espiazione della pena lo si fa risalire alla Chiesa e soprattutto al diritto canonico. C’è chi sottolinea che il carcere fosse un luogo di attesa prima di eseguire la pena per lo più consistente nella morte inferta spesso con torture inumane. Dal punto di vista storico comunque il carcere è andato via via sostituendo la pena capitale e le pene corporali e in questo è certamente un fatto positivo,un miglioramento, un superamento della condizione passata. Il costituente ha inteso dare al carcere una funzione prevalentemente rieducativa e di reinserimento nella società e il legislatore ha modificato progressivamente la legislazione della repubblica che sulla carta è tra le più avanzate ma purtroppo in gran parte il dettato legislativo è rimasto sulla carta e la realtà si è andata modificando in peggio per i motivi noti a tutti. Ora anche ci troviamo di fronte a una situazione sempre più urgente e apparentemente siamo dinanzi a un bivio: o ulteriori atti di clemenza o la costruzione di nuovi istituti penitenziari, come annunciato dal ministro Alfano di recente, ma nessuna idea innovativa. Se si partisse da un ripensamento complessivo del sistema delle pene, partendo dal manifesto fallimento del sistema carcerario se non come luogo di separazione temporaneo, perché non cominciare a ipotizzare sanzioni diverse commisurate alla tipologia del reato e dell’autore dello stesso? Faccio solo alcuni esempi: attività di salvaguardia del territorio per reati ambientali, sanzioni risarcitorie per reati contro il patrimonio in forma specifica per chi ha risorse economiche disponibili o di sottoposizione al lavoro per chi non ha disponibilità finanziarie, attività in favore delle vittime, attività socialmente utili per chi ha leso interessi collettivi e altro che potrebbe studiarsi e immaginarsi, limitando il carcere a ipotesi residuale o estrema. Ipotesi e procedure simili sono state già adottate in altri paesi, in particolare per reati compiuti da minorenni in cui al termine del “processo” si concorda tra le parti (reo, vittima e stato) un accordo che, se rispettato, evita la sanzione carceraria. Questo fa parte di una cultura più attenta al caso specifico e meno generalizzata e a una visione più contrattualistica del diritto in cui costi, benefici e valutazioni efficientistiche abbiano la meglio rispetto a concetti prevalentemente ereditati da categorie morali. Credo se ne gioverebbe la società in generale e i singoli cittadini. Mi rendo conto che un cambiamento di passo e una modifica culturale non si ottengono in un lasso di tempo breve. E mi rendo anche conto che una legislazione come quella ipotizzata non può che costruirsi progressivamente e con un altrettanto progressivo monitoraggio che ne valuti i risultati; credo però che sia giunto il momento di aprire questa discussione non solo tra gli studiosi. Le forze politiche progressiste dovrebbero fare delle proposte concrete ma innovative per tentare anche qui una terza via forse più produttiva dell’attuale ma vecchio, e fino ad ora fallimentare, dualismo tra repressione e perdono. Giustizia: ritorna l’idea estiva dell’indultino… sperando di non finire come Mastella di Antonio Calitri Italia Oggi, 15 luglio 2010 I finiani mettono l’emergenza carceri sul percorso di approvazione della legge sulle intercettazioni. Per ottenere il rinvio della legge cara al premier a dopo le vacanze e mantenere la parola data a Giorgio Napolitano, il presidente della Camera scopre il disagio estivo dei reclusi e sponsorizza in prima persona il decreto svuota carceri previsto dal disegno di legge Alfano. Un nuovo passo verso la sponda sinistra della politica per Gianfranco Fini che è passato dalla chiusura delle frontiere agli extracomunitari alla cittadinanza breve agli immigrati. E da volere legge e ordine in ogni dove e chi sbaglia subito in carcere alla sponsorizzazione dell’indultino estivo che, per evitare i disagi, dovrebbe far scontare l’ultimo periodo di detenzione ai domiciliari. Una strizzatola d’occhio ai carcerati che probabilmente gli farà perdere gli ultimi elettori di destra rimastigli ma gli permetterà di intercettare e magari agganciare i radicali in uscita dal centrosinistra. Cosa però più importante per Fini che in questo caso ha coinvolto nell’iniziativa il fedelissimo presidente di Libertiamo (ed ex radicale) Benedetto Della Vedova è l’ostruzionismo alla legge sulle intercettazioni. Il presidente della Repubblica aveva chiesto di discuterne al rientro dalle vacanze e Fini, interessato all’asse con il Quirinale, l’unico che gli può garantire una sopravvivenza politica all’uscita dal pdl, ha promesso che farà di tutto per far rispettare la volontà dio Napolitano. Contro la priorità di Silvio Berlusconi che ha deciso di non tener conto neppure del volere del colle più alto di Roma e ottenere la legge prima della pausa estiva a Fini era rimasta poca cosa. Della Vedova, da sempre attento allo stato dei detenuti, gli ha sottoposto l’idea che si può rivelare vincente. Le carceri sono strapiene e la vita all’interno è al limite dell’umano. Esiste anche un disegno di legge voluto proprio dal ministro della giustizia per svuotarle che però, dopo aver passato la commissione giustizia di Montecitorio è stato impallinato dai veti incrociati e soprattutto dalla Lega Nord. A questo punto Alfano ha deciso di abbandonare la cosa impegnato sulle emergenze più care al premier. Non così Fini che conscio che con gli ultimi picchi di calore e nell’ipotesi di qualche suicidio eclatante (che purtroppo ogni anno si registra in questo periodo), la questione può scoppiare, ha deciso di portarsi avanti. Della Vedova ha fatto appello sul Secolo d’Italia chiedendo di non dimenticare la questione. E se proprio non si dovesse riuscire a fare la legge, ha addirittura chiesto un decreto d’urgenza. A Fini però interessa il percorso legislativo dove vorrebbe cercare una corsia preferenziale per arrivare alla legge prima della chiusura dell’aula. Il discorso non fa una piega. Se si tratta di affrontare l’emergenza estiva nelle carceri, che senso avrebbe farlo dopo l’estate. Però quella corsia preferenziale, l’unica disponibile, è già occupata dallo sprint finale delle intercettazioni. Che però ieri è stata contestata addirittura dalle Nazioni Unite. A questo punto le condizioni ci sono quasi tutte per proporre una svolta umanitaria e lanciare l’emergenza carceri come priorità al posto della legge che vuole Berlusconi. Sperando di non fare la stessa fine di Clemente Mastella, l’autore dell’ultimo indulto. Giustizia: dal Dap una circolare per rendere meno invivibile il carcere d’estate di Patrizio Gonnella (Associazione Antigone) Italia Oggi, 15 luglio 2010 Istituzione in ogni carcere di sezioni per detenuti prossimi alla dimissione, maggiore flessibilità nelle autorizzazioni per i colloqui con i familiari, più apertura al volontariato e alla comunità esterna nel periodo estivo. Il Direttore Generale dell’Ufficio detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Sebastiano Ardita ha inviato una circolare ai Provveditori Regionali allo scopo di sollecitare iniziative utili a fronteggiare il sovraffollamento nella difficile stagione estiva. I detenuti hanno oramai raggiunto la quota record di 68 mila unità, mentre i posti letto regolamentari nel nostro sistema penitenziario sono circa 43 mila. Ciò significa che vi sono 25 mila persone in più rispetto ai posti letto a disposizione. Le associazioni A Buon Diritto e Antigone, insieme a numerosi parlamentari di molte forze politiche, presentano proprio oggi gli esposti alle Asl per chiedere provvedimenti di prevenzione igienico-sanitaria contro il sovraffollamento. Nella circolare n. 0290895 del Dap si suggerisce “una migliore gestione degli spazi detentivi e di garantire un’adeguata collocazione dei detenuti ai quali rimane un breve periodo di tempo per il termine della pena”. Si prevede che in ogni carcere si dia vita a “una o più sezioni detentive da destinare ai detenuti prossimi alla liberazione e comunque con un residuo pena non superiore ad un anno.” Un’altra condizione per poter essere assegnati alle sezioni per dimittendi è l’aver dimostrato una adesione responsabile al programma di trattamento. Non vi potranno mai essere reclusi le seguenti categorie di detenuti: coloro i quali sono stati condannati per i reati di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario; coloro i quali sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare; coloro che hanno subito procedimenti disciplinari (una preclusione che rischia di vanificare gli effetti della circolare in quanto, per un motivo o per l’altro, sono molti i detenuti che subiscono sanzioni disciplinari), che hanno patologie psichiatriche o che necessitano di cure mediche particolari in quanto in cattive condizioni di salute. Il regime penitenziario delle sezioni dimittendi dovrà essere improntato alla massima apertura e garantire il più possibile la permanenza dei reclusi al di fuori delle camere detentive durante la giornata. Esisteva già una precedente circolare firmata più di dieci anni fa dall’allora capo del Dap Alessandro Margara che prevedeva che i detenuti dovessero trascorrere almeno metà della giornata fuori dalla cella per evitare ozio forzato e condizioni di abbrutimento. Una circolare che non è stata particolarmente rispettata. Il Dap ha ribadito la necessità di favorire i momenti di incontro con i familiari, da svolgersi anche negli spazi aperti, autorizzando anche colloqui aggiuntivi. Si sollecita una turnazione nell’attività lavorativa in modo che ogni detenuto prossimo alla scarcerazione abbia qualche soldo utile quando esce dall’istituto. Allo scopo di ridurre il numero di suicidi si vogliono favorire i colloqui coi familiari per coloro che sono in regime di custodia cautelare. Si legge nella circolare che “accade di sovente che in tale fase i colloqui con i familiari - già autorizzati dalla competente autorità giudiziaria - si interrompano per un lasso di tempo più o meno lungo - o nelle peggiore delle ipotesi si interrompano del tutto - in attesa che le direzioni degli istituti riassumano le informazioni necessarie a verificare l’effettivo stato di parentela e di coniugio e/o di convivenza.” Dal Dap si vuole dare un segnale di maggiore flessibilità modificando questa prassi e consentendo l’autorizzazione ai colloqui anche in attesa del conseguimento delle informazioni sulla veridicità dello stato di parentela o convivenza. Infine viene richiesto ai direttori quale sia lo stato di attuazione dell’art. 37 comma 5 del D.P.R. 230/2000 (Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario) che impone la rimozione dei vetri divisori nelle sale colloqui. Giustizia: il “carcere cattivo” che crea solo vendetta di Erminia della Frattina Il Fatto Quotidiano, 15 luglio 2010 Molti gli stranieri. “Le cose peggiori? Non aver nulla da fare e vedere poco i familiari”. Quando chiedo se in cella hanno un ventilatore mi ridono in faccia. “Ventilatori? Ne abbiamo ottenuti due per la sala colloqui, perché i familiari dopo aver affrontato magari un viaggio lungo - molti detenuti non sono italiani - e diverse perquisizioni si ritrovano a incontrare padre, madre o figlio carcerato in un forno”. Casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Un carcere costruito alla fine degli anni ‘80 per ospitare 300 persone in celle di 3 metri per 3. Ora i detenuti sono 820, e in quelle celle vivono in 3 : un letto a castello e una brandina. Per camminarci dentro due devono stare seduti sul letto, così il terzo si muove. “In cella ho due tossici, vorrei studiare perché mi sono diplomato qui dentro e mi sono iscritto all’università” racconta Milton, croato che sconta 12 anni per traffico d’armi (ne ha già fatti 11). “Beato te, almeno stanno sdraiati tutto il giorno così giri per la cella facilmente”, ridono gli altri. È l’unica arma che hanno adesso, l’ironia. In ogni cella c’è uno spazio angusto con vicinissimi fornellino per scaldare i pasti e tazza del bagno. “Anche lì tocca darsi i turni. Ma l’igiene non è il massimo”, dice Rachid, tunisino, una condanna per omicidio e le fiamme nere dei tatuaggi sulle braccia. D’estate quando esplode il caldo le celle diventano impossibili, soprattutto di notte: oltre al cancello in ogni cella si chiude anche la porta blindata, dalle 23 fino alle 6. Dentro 3 persone in 3 metri quadrati e almeno 30 gradi. “Rischiamo di fare la fine dei sorci”, dice Milton. “Quando chiudono il blindo quelli della 3a e 4a sezione battono sulle sbarre della finestra, è impossibile dormire - racconta Rachid”. Sono quelli che non hanno niente da perdere, stranieri spesso clandestini, a volte tossici. “Dopo l’ultima protesta li hanno trasferiti ed è finito tutto”. Un capoposto, i poliziotti responsabili di una sezione, ha chiesto al direttore di tenere aperti i blindi di notte e qualche ventilatore in cella. Tentativo ancora in attesa di risposta, come quelli che stanno facendo da un pezzo i volontari e gli operatori del carcere. “Mi sono informata sulla situazione in altre case di reclusione - racconta Ornella Favero, direttore responsabile di Ristretti Orizzonti, la rivista mensile del carcere, volontaria da 14 anni al Due Palazzi - a Torino i blindi li tengono aperti. Speriamo che anche qui abbiano un po’ di coraggio, non credo ci siano rischi, ci sono i cancelli chiusi a doppia mandata”. Ma paradossalmente il caldo è quasi il problema minore: “Sembra che il sole ci porti via il cervello”. È Dritan, albanese, sconta 30 anni per omicidio. Sta al reparto 5° di quelli che lavorano. Le celle di giorno sono aperte, un lusso riservato anche al 1 ° reparto, quello degli studenti. “Ho girato tanti carceri, questo è decente. Però siamo 150 detenuti con 5 docce, facciamo file di ore per lavarci. Ma la cosa peggiore è chi sta 20 ore in cella senza fare niente. Io sono impegnato in un’attività, ma d’estate le scuole sono chiuse e non c’è lavoro per tutti”. Rimangono caldo e silenzio, quando va bene. In carcere è entrata anche la crisi, e i tagli hanno colpito le forniture minime assegnate ai detenuti: shampoo, sapone, detergenti e disinfettanti sono centellinati. “I detenuti più poveri non hanno nulla per lavarsi, sopravvivono in condizioni decenti solo quelli che hanno le famiglie che li aiutano o che lavorano”. Igiene e salute preoccupano molto i “ristretti”, così si chiamano i detenuti, impegnati a combattere una fiorente colonia di scarafaggi che di notte entra in massa nelle celle. “Le disinfestazioni servono a poco, nei corridoi ogni tanto vedi file di cadaveri di scarafaggi. Ma quando spengo la luce per dormire è guerra: appena entrano dalla finestra li colpisco con uno strofinaccio, ne ammazzo a decine”. Il racconto è di Sandro, un passato da rapinatore e un amore grande per la figlia 20enne che non lo ha mai abbandonato: quando ne parla si scioglie. Racconta la necessità che siano distribuiti disinfettanti, vorrebbe pulirsi bene la stanza. Persino il sovraffollamento, per quanto pesante, non è quello che schianta i detenuti. La vera pena da scontare sono gli affetti negati, le difficoltà a incontrare i familiari (ogni detenuto ha 6 ore al mese di colloquio) in due stanze piccole con una decina di tavoli ciascuna, un detenuto per tavolo. “Ognuno può incontrare 3-4 familiari, ma quando sono rom arrivano sempre con tanti bambini”, racconta Rachid. Significa un chiasso infernale, difficile comunicare. “Abbiamo sbagliato, è giusto pagare per i reati commessi - Elton Kalica, albanese, un talento per la scrittura e una condanna a 16 anni per sequestro di persona - ma è giusto anche permetterci di mantenere le relazioni con i familiari, per uscire da qui sereni”. Le stanze dell’affettività ipotizzate e mai realizzate sono un miraggio. In Svizzera, Spagna e Germania ci sono stanze dove i ristretti passano qualche ora con la famiglia, in intimità. “In Italia i media le hanno chiamate ‘stanze a luci rossè. Ma perché si pensa sempre al sesso? E poi che male ci sarebbe a fare sesso con la propria moglie?” dice Elton. E questo è l’altro nodo: se la pena deve essere rieducativa, ha senso costringere i detenuti a fare telefonate di 10 minuti e solo a numeri fissi (da poco sono consentite con mille restrizioni le chiamate a cellulari) una volta la settimana in orari precisi, previa autorizzazione vistata dal direttore? “Ogni telefonata sono carte da compilare, se poi a quell’orario non trovi nessuno devi aspettare la settimana dopo. Quelli più fragili si scoraggiano e non chiamano più”, dice Elton. “Una galera in queste condizioni non crea alcuna sicurezza, si esce da qui pieni di rabbia, facile essere recidivi”, chiude Milton. “Un carcere così crea solo vendetta”, taglia corto Rachid. Giustizia: carceri sempre più sovraffollate… soluzione cercasi di Dimitri Buffa L’Opinione, 15 luglio 2010 Il ministero di Grazia e Giustizia cerca come può di farsi carico del sovraffollamento carcerario (siamo a quota 68.258 detenuti in carceri da 44 mila) ora che l’estate promette veramente fuoco e fiamme. In particolare pochi giorni fa è stata emanata una circolare dal direttore dell’ufficio detenuti e trattamenti, Sebastiano Ardita che chiede l’istituzione di nuove “sezioni dimittendi” (orrendo neologismo burocratico per indicare chi sta per uscire di galera) e la continuità dei colloqui con i familiari per i reclusi raggiunti da sentenza di condanna di primo grado. Significativo il titolo: “ulteriori iniziative per fronteggiare il sovraffollamento e la stagione estiva”. Vi si legge tra l’altro: “si chiede ai direttori di individuare nell’ambito degli istituti del distretto di competenza una o più sezioni da destinare ai detenuti prossimi alla liberazione e comunque con un residuo pena non superiore ad un anno”. Tali sezioni devono essere caratterizzate da “un regime penitenziario che favorisca quanto più possibile la permanenza al di fuori delle camere detentive durante la giornata”. Inoltre “saranno incentivate le iniziative tese a promuovere un concreto reinserimento nella comunità, saranno favoriti i momenti di incontro con i familiari, da svolgersi anche negli spazi aperti” e “saranno assicurati, per quanto possibile, periodi di attività lavorativa al fine di fornire agli interessati un minimo di disponibilità’ economica utile al momento della dimissione”. La circolare evidenzia poi “la discordanza rilevata nelle procedure di autorizzazione ai colloqui con i familiari allorquando il detenuto in stadio di custodia cautelare sia raggiunto da sentenza di condanna di primo grado”. Capita spesso che i colloqui con i familiari già autorizzati si interrompano in attesa che le direzioni tornino ad assumere le informazioni necessarie a verificare l’effettivo stato di parentela. “In considerazione dell’importante sostegno morale e psicologico che deriva dai contatti con i familiari - scrive Ardita - si ritiene che le persone già autorizzate ai colloqui nella fase precedente alla sentenza di condanna di primo grado possano continuare a fruirne nelle more degli accertamenti richiesti”. Come a dire: se erano parenti prima perché non dovrebbero esserlo anche dopo? Giustizia: Antigone e A Buon diritto; lo Stato paghi il prezzo dell’illegalità delle carceri Redattore Sociale, 15 luglio 2010 Dopo aver visitato i 15 istituti penitenziari più sovraffollati d’Italia, le due associazioni e il settimanale Carta presentano un esposto a sindaci, Asl e assessori regionali alla Sanità. “Utilizzeremo ogni strumento legale a disposizione”. “Le carceri sono fuorilegge”. Nel senso che all’interno delle case circondariali e di reclusione italiane c’è una presenza di detenuti circa doppia rispetto alla loro capienza effettiva e “non vengono rispettate le norme previste dal regolamento penitenziario”. A quasi dieci anni dalla sua entrata in vigore (il prossimo 20 settembre) le associazioni A Buon Diritto e Antigone, con la collaborazione del settimanale Carta, documentano “le illegalità del sistema carcerario italiano” e le denunciano presentando un esposto a sindaci, Asl e assessori regionali alla Sanità dei territori in cui si trovano i 15 istituti penitenziari risultati più sovraffollati in seguito alle visite effettuate tra il 21 giugno e il 2 luglio di quest’anno. “Utilizzeremo ogni strumento legale a disposizione per far sì che lo Stato paghi il prezzo della propria illegalità”, fanno sapere. “Quasi niente, nelle carceri, è come dovrebbe essere, funziona come dovrebbe funzionare, rispetta il dettato delle norme che dovrebbero regolare la vita penitenziaria. È trascorso quasi un anno dalla sentenza della Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia per aver detenuto persone in meno di tre metri quadri: una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, un’ipotesi di tortura, trattamento inumano o degradante. Oggi la situazione è peggiore di allora. E sono passati dieci anni dall’entrata in vigore del Regolamento penitenziario, che guardava verso condizioni di detenzione più dignitose e voleva adeguare le carceri ad alcuni parametri strutturali (che ci fosse l’acqua calda, per fare solo un esempio). Nonostante ciò, gli edifici sono ancora fuori legge quasi ovunque”, dicono A Buon Diritto e Antigone, che da oggi iniziano una vertenza contro le istituzioni. Le due associazioni e il settimanale hanno raffrontato i detenuti presenti alla data della visita e la capienza regolamentare del carcere, individuando anche il reparto più affollato, hanno valutato le condizioni delle celle (quanti detenuti ciascuna, quanti metri quadri, bagno interno o esterno, disponibilità di acqua calda, eccetera), hanno verificato se entrano sufficiente aria e luce naturale, controllato la frequenza di accesso e le condizioni igieniche delle docce in comune, hanno visto quante ore al giorno i detenuti trascorrono fuori dalla cella e se vi è una cucina ogni duecento reclusi. Il risultato del monitoraggio, presentato oggi in una conferenza stampa alla Camera dei deputati, è che solo gli istituti penitenziari di Como, Novara, Gorizia e Trieste hanno dimostrato avere standard abbastanza soddisfacenti almeno in termini di affollamento. Giustizia: topi e scarafaggi a San Vittore, 12 detenuti per cella a Poggioreale Redattore Sociale, 15 luglio 2010 A Buon Diritto, Antigone e Carta tracciano la mappa delle carenze strutturali dei 15 penitenziari più sovraffollati d’Italia. Presenze doppie rispetto alla capienza regolamentare in quasi tutti gli istituti visitati. Il doppio dei detenuti rispetto alla capienza regolamentare è la costante di quasi tutti gli istituti di pena, così come le scarse condizioni igieniche e la presenza di una cucina sola. Qualche esempio? Nel carcere di Poggioreale, a Napoli, ci sono 2.710 reclusi contro i 1.347 fissati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. In alcune celle si arrivava fino a 12-14 detenuti ciascuna, con i letti a castello impilati per tre e un solo bagno a disposizione. D’estate fa così caldo che i carcerati coprono le finestre utilizzando un asciugamano bagnato e la notte la porta blindata viene chiusa nonostante le temperature altissime. Le docce esterne sono accessibili due volte a settimana, le ore d’aria sono solo due al giorno e non ci sono attività formative. A San Vittore, invece, a Milano, la cui capienza regolamentare ora è di 712 persone perché due bracci sono inagibili, ci sono 1.600 detenuti, i topi e gli scarafaggi. A quasi dieci anni dall’entrata in vigore del regolamento penitenziario (il prossimo 20 settembre) le associazioni A Buon Diritto e Antigone, con la collaborazione del settimanale Carta, hanno tracciato una mappa delle carenze strutturali delle 15 carceri più sovraffollate d’Italia visitate tra il 21 giugno e il 2 luglio di quest’anno. I risultati del monitoraggio sono stati presentati oggi in una conferenza stampa alla Camera dei deputati. Solo le case circondariali di Como, Novara, Gorizia e Trieste hanno dimostrato avere standard abbastanza soddisfacenti in termini di affollamento. Tutte le altre sono “fuorilegge”, denunciano le associazioni; poi però hanno evidenziato anche loro muffa nelle docce, locali fatiscenti, pareti scrostate e cavi elettrici scoperti. Nel carcere di Pistoia l’unica finestra delle celle è in bagno, così che illuminazione e ventilazione risultano insufficienti anche perché nel corridoio centrale su cui si affacciano le celle non sono presenti finestre. Nella sezione nido della casa di reclusione femminile di Rebibbia, a Roma, ci sono 19 donne con un bambino ciascuna, e una cella di circa 25 metri quadrati ospita ben 12 persone tra madri e figli. Non se la passano tanto bene neanche i detenuti di Regina Coeli (l’alto carcere di romano), quelli di Padova, quelli della casa di lavoro abruzzese di Sulmona, dove tutte le singole sono state trasformate in doppie e la manutenzione è pessima, e i reclusi di Fermo (nelle Marche), in cui l’unico vano con le docce in comune al piano terra non è agibile. Nella casa circondariale “Capanne” di Perugia, invece, l’acqua calda non basta per tutti, mentre nell’istituto penitenziario di Firenze-Sollicciano il problema maggiore sono le infiltrazioni d’acqua. Infine, nel carcere della “Dozza” di Bologna, la cui capienza regolamentare è fissata a quota 452 persone, ci sono 1.158 reclusi: i due reparti più sovraffollati sono quello per i carcerati in attesa di giudizio e quello destinato ai detenuti tossicodipendenti. Giustizia: dal Pd proposte per riforma del settore civile, organizzazione di uffici e carceri Apcom, 15 luglio 2010 Riforma della giustizia civile, revisione dell’organizzazione degli uffici giudiziari, interventi decisi per affrontare la “situazione drammatica” delle carceri: sono i tre capisaldi della proposta del Pd in materia di giustizia, presentata oggi dal responsabile di settore Andrea Orlando. “Il Governo diminuisce le risorse ma non procede ad una riorganizzazione: questo significa condannare il servizio giustizia al collasso... Io non sono solito a dietrologie, ma ci sarebbe quasi da pensare che ci sia un disegno: provocare il collasso della giustizia per poi denunciarne l’inefficienza”. Nel documento del Pd si legge che “il programma fondamentale del partito per la giustizia si chiama Costituzione repubblicana”. Si tratta di intervenire sulle “vere emergenze”, le proposte illustrate oggi rappresentano solo un “primo approfondimento” dedicato alle “questioni esplosive che andrebbero affrontate prioritariamente”. Al primo punto c’è la giustizia civile, una “vera e propria ipoteca sulla competitività”: c’è da intervenire innanzitutto sull’arretrato, “responsabilizzando” giudici, presidenti di sezione e capi degli uffici, e prevedendo anche una “premialità per quei giudici che abbiano in modo consistente e fattivo contribuito al programma di soluzione delle vecchie cause”. Inoltre, va avviato un “piano di stage” per garantire “almeno due collaboratori” ad ogni magistrato. Andrebbero poi “unificati e semplificati i riti processuali” e bisognerebbe garantire il “calendario del processo. Il Pd chiede anche di “rimuovere gli ostacoli che non consentono la piena operatività della class action” e la garanzia del “corretto funzionamento del patrocinio gratuito”. Sul fronte dell’organizzazione, il Pd propone la “revisione della geografia giudiziaria e delle dimensioni degli uffici giudiziari”: un progetto che prevede anche un “piano per la riqualificazione del personale da 40 milioni di euro e 4.000 assunzioni, insieme alla cancellazione del blocco del turnover. Per quanto riguarda le carceri, la proposta prevede innanzitutto di “ampliare la tipologia delle misure alternative alla pena detentiva”, per evitare che la giustizia “si accanisca contro chi ruba un motorino mentre tollera chi va a cena con Carboni”. Necessario poi “adeguare le piante organiche” della polizia penitenziaria, degli educatori, degli assistenti sociali e degli psicologi e rivedere le norme sulla custodia pre-cautelare e cautelare “limitandola a criteri più stringenti per il suo utilizzo”. Giustizia: nelle carceri aumentano decessi e suicidi, a Torino il 101° morto da inizio anno di Raphaël Zanotti La Stampa, 15 luglio 2010 Il 101° era un camorrista. Antimo Spada aveva 35 anni e la prospettiva di passare i prossimi nove dietro le sbarre di una prigione. Una pena che, però, non finirà di scontare. Come gli altri cento prima di lui, Antimo Spada è morto. Ha tentato di impiccarsi in cella ed è uscito dal carcere in condizioni tanto gravi da spirare, tre giorni più tardi, nell’ospedale Maria Vittoria di Torino. Spada non era un delinquente comune. La sua fedina riportava una sfilza di reati importanti come associazione a delinquere, tentato omicidio, rapina, estorsione, armi. Era ritenuto affiliato al clan dei Venosa capeggiato da Luigi Venosa detto “ù chiucchiere”, famiglia alleata dei Casalesi di Francesco “Sandokan”“ Schiavone. Era stato arrestato a 20 anni. Di galera, ne aveva fatta parecchia. Ma era, anche, un detenuto a rischio, con problemi psichiatrici che lo avevano portato a Torino. Spada sembrava non reggere più il regime carcerario. Per questo era stato trasferito dal carcere di Lecce, il 25 giugno, a Torino, dove da anni esiste un reparto di osservazione psichiatrica che ospita detenuti provenienti da tutta Italia. Dopo una prima visita, qualche giorno fa, Spada era stato affidato alla settima sezione, blocco A, quello dedicato ai detenuti con problemi di equilibrio mentale. Proprio questo stupisce, della sua morte. Perché i detenuti di quel blocco, per la loro particolare condizione, vengono costantemente ripresi dalle telecamere. Spada era sottoposto a regime di alta sicurezza. In teoria gli agenti della polizia penitenziaria che lo tenevano sotto controllo avrebbero dovuto notare qualunque suo gesto sospetto. Eppure, domenica scorsa intorno alle 18,30, Spada è riuscito a eludere la sorveglianza elettronica e si è impiccato con il lenzuolo del proprio letto. Il personale della polizia penitenziaria, quando si è accorto di quel che stava accadendo, ha subito aperto la cella e lo ha soccorso. Spada è uscito dalla casa circondariale vivo, ma in coma. È stato ricoverato in ospedale e il giorno successivo sono arrivati i suoi parenti dal Meridione. Purtroppo non si è mai ripreso, è deceduto ieri mattina alle 11.35 del mattino, mentre era piantonato. “Abbiamo subito aperto un’indagine interna per capire come sia potuto accadere - spiega Aldo Fabozzi, provveditore regionale alle carceri - Di solito non succedono episodi come questo negli istituti piemontesi, vogliamo fare luce al più presto”. Il direttore del Lorusso e Cutugno, Pietro Buffa, si dice “addolorato per la perdita di una vita, come tutto il personale della polizia penitenziaria”. Il mattino successivo, gli agenti hanno sventato altri due tentati suicidi tra le 6 e le 7 del mattino. “Gestiamo casi delicati e non sempre si vede il lavoro che c’è dietro il salvataggio di molte vite”. La morte del 101° detenuto dall’inizio dell’anno ha ovviamente attirato i riflettori su un fenomeno preoccupante. Secondo l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere di Ristretti Orizzonti, dall’inizio del 2010 trenta carcerati si sono impiccati, 7 sono morti inalando gas, mentre altri 64 sono morti per malattie o per cause ancora in via di accertamento. In dieci anni i detenuti morti sono stati 1.699, di cui 591 per suicidio. Di recente, le Camere Penali di tutta Italia hanno presentato un esposto a numerose procure d’Italia perché s’indaghi sulle condizioni delle carceri italiane, sovraffollate e con grossi problemi igienico-sanitari. Giustizia: lo spreco del bracciale elettronico, costa 11 milioni di euro l’anno e nessuno lo usa http://cronacaqui.it, 15 luglio 2010 Undici milioni di euro l’anno per dieci anni. Centodieci milioni in tutto. È quanto è costato (e continua a costare) ai contribuenti italiani l’esperimento del braccialetto elettronico, pensato come strumento per risolvere il problema del sovraffollamento in carcere, ma finito fin da subito nel dimenticatoio. “Dei quattrocento esemplari custoditi presso il ministero dell’Interno - denuncia Donato Capece, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Sappe - oggi non ne viene utilizzato neanche uno, ma lo Stato continua a pagare 11 milioni di euro l’anno”. A incassarli è Telecom Italia, che nel 2001, quando la misura alternativa alla custodia cautelare dietro le sbarre venne introdotta per i reati con pena inferiore ai quattro anni, stipulò con il Viminale e con il ministero di Grazia e Giustizia un contratto valido fino al 2011 per la gestione delle centrali operative in grado di controllare a distanza 24 ore su 24 i detenuti. “Fino all’inizio dell’anno - spiega Capece - ce n’era in funzione uno a Milano, ma da qualche mese non viene più utilizzato neanche quello”. I motivi del fallimento, secondo il Sappe, sono diversi. “Sta ai magistrati - sostiene Capece - disporne l’utilizzo, ma non lo fanno”. “Però è anche vero che la procedura è complicata - aggiunge il segretario generale aggiunto del sindacato, Giovanni Battista De Blasis - e richiede tempi troppo lunghi. Il magistrato deve fare richiesta ad una delle centraline provinciali che si appoggiano a polizia, carabinieri o guardia di Finanza. Il personale della centralina deve inoltrare la domanda al ministero, e richiedere l’intervento alla società che installa il braccialetto. Ci vuole almeno una settimana, e forse anche per questo dal 2001 è stato impiegato una decina di volte in tutto”. Un caso unico, quello italiano. “Perché in molti altri Paesi, il bracciale viene utilizzato. E i risultati sono molto soddisfacenti”. Giustizia: Sappe; allarme afa in carcere, centinaia di malori al giorno serve aria condizionata Adnkronos, 15 luglio 2010 Altro che andare “al fresco”. Nelle carceri italiane c’è un vero e proprio allarme afa. “In nessun dei 206 istituti c’è l’aria condizionata. Le temperature sono insopportabili, sia per i detenuti che per le guardie carcerarie, e molti malori registrati in questi giorni all’interno delle carceri si devono appunto al caldo”. Parola di Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), che lancia un appello al ministro della Giustizia, Angelino Alfano: “È ora di sanare questa situazione e dotare gli istituti di impianti di aria condizionata”. “All’interno delle carceri - sottolinea Capece - fa più caldo che fuori. Un disagio che alimenta le tensioni tra i detenuti, già alle prese con il problema del sovraffollamento. Qualsiasi screzio, pure un banalissimo scontro verbale, con questo caldo può degenerare. I livelli di tolleranza si abbassano e aumenta invece l’irritabilità”. Non solo. “Il caldo insopportabile che si avverte nelle carceri - aggiunge il segretario generale del Sappe - è anche la causa di centinaia di malori al giorno. Tutti i giorni e in tutti gli istituti. A farne le spese - conclude Capece - sono soprattutto i detenuti più anziani, i cardiopatici e i malati”. Giustizia: il Pd incontra i sindacati della Polizia penitenziaria Cgil, Cisl e Uil Ansa, 15 luglio 2010 Il Presidente del Forum Sicurezza del Pd, Emanuele Fiano ed il Responsabile Carceri del Pd, Sandro Favi, hanno incontrato oggi i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil della Polizia Penitenziaria Francesco Quinti, Pompeo Mannone ed Eugenio Sarno, per esaminare la difficile situazione penitenziaria in cui devono operare gli agenti che tra l’altro, come è stato denunciato, dall’inizio di quest’anno hanno registrato ben 120 aggressioni confermate dai referti medici. L’incontro è stato utile per condividere il giudizio drammatico sulla situazione del sistema penitenziario italiano, ed in questo quadro della specifica difficile situazione del personale della Polizia Penitenziaria. Come primo esito dell’incontro, l’impegno del Pd è stato quello di presentare, nei prossimi giorni, diversi atti di sindacato ispettivo per chiedere chiarimenti al Governo, in ordine all’assunzione del personale penitenziario e al fatto che a tutt’oggi sono oltre 3400 gli agenti di polizia penitenziaria impiegati in servizi ed attività esterni agli istituti: dai servizi di scorta alla presenza negli spacci alimentari all’interno delle carceri. Giustizia: caso Cucchi; oggi udienza preliminare processo, il Comune di Roma parte civile Dire, 15 luglio 2010 Via all’udienza preliminare relativa alla richiesta di rinvio a giudizio di tredici persone, tra agenti penitenziari, medici e infermieri coinvolti nella vicenda di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni morto all’ospedale Pertini il 22 ottobre scorso, sei giorni dopo l’arresto per spaccio di sostanze stupefacenti. Nella prossima udienza del 5 ottobre alcuni degli imputati potrebbero scegliere riti alternativi. La richiesta di rinvio a giudizio per le tredici persone è stata formulata il 17 giugno scorso dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy. Si tratta dei sei medici Aldo Fierro, Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Stefania Corbi, Luigi Preite De Marchis e Rosita Caponetti, oltre ai tre infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, tutti in servizio al Pertini e accusati di falso ideologico, abuso d’ufficio, abbandono d’incapace, rifiuto di atti d’ufficio, favoreggiamento e omissioni di referto a seconda delle singole posizioni processuali; dei tre agenti penitenziari Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici (lesioni aggravate e abuso d’autorità), e del direttore dell’Ufficio detenuti del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, Claudio Marchiandi, accusato di falso ideologico e abuso d’ufficio). Gli agenti penitenziari secondo l’accusa sarebbero responsabili del pestaggio ai danni di Cucchi, avvenuto il 16 ottobre 2009 nelle camere di sicurezza del tribunale, in attesa dell’udienza di convalida. Medici e infermieri, invece, sono accusati di aver "abbandonato" il paziente mentre si trovava ricoverato al Pertini, e di non avergli garantito "i più elementari presidi terapeutici e di assistenza", di "semplice esecuzione" e che avrebbero sicuramente "evitato il decesso" del ragazzo. Il gup Rosalba Liso ha accolto la richiesta di costituzione di parte civile da parte dei familiari del ragazzo, i genitori, la sorella e i nipoti, mentre si è riservata la decisione sulla stessa richiesta avanzata dal Comune di Roma direttamente dal sindaco Gianni Alemanno (e che ha incontrato il parere negativo da parte dei legali della difesa): il gup deciderà nel corso dell’udienza fissata per il 5 ottobre prossimo. Data in cui potrebbe arrivare la richiesta da parte di alcuni degli imputati di essere giudicati con riti alternativi. Segnate in calendario altre due udienze, il 19 e il 26 ottobre.] ROMA - Via all'udienza preliminare relativa alla richiesta di rinvio a giudizio di tredici persone, tra agenti penitenziari, medici e infermieri coinvolti nella vicenda di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni morto all'ospedale Pertini il 22 ottobre scorso, sei giorni dopo l'arresto per spaccio di sostanze stupefacenti. Nella prossima udienza del 5 ottobre alcuni degli imputati potrebbero scegliere riti alternativi. La richiesta di rinvio a giudizio per le tredici persone è stata formulata il 17 giugno scorso dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy. Si tratta dei sei medici Aldo Fierro, Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Stefania Corbi, Luigi Preite De Marchis e Rosita Caponetti, oltre ai tre infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, tutti in servizio al Pertini e accusati di falso ideologico, abuso d'ufficio, abbandono d'incapace, rifiuto di atti d'ufficio, favoreggiamento e omissioni di referto a seconda delle singole posizioni processuali; dei tre agenti penitenziari Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici (lesioni aggravate e abuso d'autorità), e del direttore dell'Ufficio detenuti del Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria, Claudio Marchiandi, accusato di falso ideologico e abuso d'ufficio). Gli agenti penitenziari secondo l'accusa sarebbero responsabili del pestaggio ai danni di Cucchi, avvenuto il 16 ottobre 2009 nelle camere di sicurezza del tribunale, in attesa dell'udienza di convalida. Medici e infermieri, invece, sono accusati di aver "abbandonato" il paziente mentre si trovava ricoverato al Pertini, e di non avergli garantito "i più elementari presidi terapeutici e di assistenza", di "semplice esecuzione" e che avrebbero sicuramente "evitato il decesso" del ragazzo. Il gup Rosalba Liso ha accolto la richiesta di costituzione di parte civile da parte dei familiari del ragazzo, i genitori, la sorella e i nipoti, mentre si è riservata la decisione sulla stessa richiesta avanzata dal Comune di Roma direttamente dal sindaco Gianni Alemanno (e che ha incontrato il parere negativo da parte dei legali della difesa): il gup deciderà nel corso dell'udienza fissata per il 5 ottobre prossimo. Data in cui potrebbe arrivare la richiesta da parte di alcuni degli imputati di essere giudicati con riti alternativi. Segnate in calendario altre due udienze, il 19 e il 26 ottobre. Si è tenuta oggi a Roma l’udienza preliminare nell’ambito del processo per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 31 anni morto lo scorso 22 ottobre all’ospedale Pertini una settimana dopo il suo arresto per spaccio di stupefacenti: all’ordine del giorno, l’esame della richiesta di rinvio a giudizio per tredici persone formulata il 17 giugno dai pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, e su cui si dovrà pronunciare il gup Rosalba Liso. Si tratta, nello specifico, dei sei medici Aldo Fierro, Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Stefania Corbi, Luigi Preite De Marchis e Rosita Caponetti, oltre ai tre infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe, tutti in servizio al Pertini e accusati di falso ideologico, abuso d’ufficio, abbandono d’incapace, rifiuto di atti d’ufficio, favoreggiamento e omissioni di referto a seconda delle singole posizioni processuali; dei tre agenti penitenziari Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici (lesioni aggravate e abuso d’autorità), e del direttore dell’Ufficio detenuti del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, Claudio Marchiandi, accusato di falso ideologico e abuso d’ufficio). Sulle richieste di rinvio a giudizio si dovrà pronunciare il gup Rosalba Liso. Nel procedimento penale ha chiesto di essere accolto come parte civile anche il Comune di Roma, su decisione del sindaco Gianni Alemanno. Emilia Romagna: sovraffollamento in tutte le carceri della regione, la situazione è al collasso www.romagnaoggi.it, 15 luglio 2010 Seduta congiunta, mercoledì pomeriggio, delle commissioni “Politiche per la Salute e Politiche sociali” e “Statuto e Regolamento” per discutere della “Relazione sulla situazione penitenziaria in Emilia-Romagna nell’anno 2009”. La situazione che emerge non è delle migliori: alla fine del 2009 nei 13 istituti penitenziari sul territorio emiliano-romagnolo i detenuti erano 4.488, con un indice di sovraffollamento del 186,4%; in 5 carceri, i detenuti sono più del doppio di quelli previsti. Un carcerato su due è straniero. All’incontro erano presenti gli assessori Teresa Marzocchi e Carlo Lusenti, il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Nello Cesari, e Anna Maria Santoli, del Centro per la giustizia minorile di Bologna. La relazione della Giunta fa il quadro della situazione penitenziaria a livello nazionale e regionale. Sovraffollamento e scarsità del personale, i problemi più evidenti; vengono poi illustrati i principali interventi in campo sanitario, per la reinclusione sociale, il ricorso alle “misure alternative”. Ecco alcuni dati, fra i più significativi, aggiornati al 31 dicembre scorso: - nei 13 istituti penitenziari sul territorio emiliano-romagnolo i detenuti erano 4.488 (+ 10% rispetto al 2008, + 24% rispetto al 2007), con un indice di sovraffollamento del 186,4%; in 5 carceri, i detenuti sono più del doppio di quelli previsti. In generale, nelle carceri italiane sono detenute 64.791 persone (erano 58.127 un anno prima, + 11,5%) con un indice di sovraffollamento del 149,5%. - i detenuti stranieri sono 2.361, il 53% dell’intera popolazione carceraria in Emilia-Romagna; a livello nazionale, queste presenze rappresentano il 37% (24.067) della popolazione detenuta, la media italiana è più alta di quella di altri Paesi europei (Germania 26%, Olanda 30,5%, Francia 19,2%, Spagna 35,5%); - le donne detenute sono 159 (3,5% del totale), recluse negli istituti di Bologna, Modena, Piacenza e Forlì; - per i detenuti italiani, le tipologie di reato più frequente sono i reati contro il patrimonio e contro la persona, mentre per i detenuti stranieri, le tipologie di reato più frequente sono i reati contro la pubblica amministrazione e reati legati alla droga - operano presso gli Istituti Penitenziari dell’Emilia-Romagna 1.710 agenti; in pianta organica ne erano previsti 2.401, l’organico assegnato era di 1.990 quindi si presenta una carenza del 28,8% rispetto all’organico previsto. Il rapporto Eurispes 2010 evidenzia come “la lentezza dei tempi della giustizia italiana” sia una delle cause del sovraffollamento delle carceri”. Fra gli effetti, “le scarse opportunità trattamentali per una grande parte della popolazione carceraria hanno spesso conseguenze tragiche, che si traducono nell’elevato numero di suicidi fra i detenuti”. In questa regione, la situazione più drammatica è quella del carcere della Dozza (Bo): rispetto a una capienza regolamentare di 494 persone, ne ospita 1147 (84 donne). Nel caso dell’Emilia-Romagna, il Piano Carceri non prevede nuove sedi, ma lavori di ristrutturazione e ampliamento delle strutture esistenti. Le prime realtà che dovrebbero diventare concrete sono quelle di Modena (150 posti) fra circa 18 mesi, e Piacenza (200 posti) fra 24-30 mesi. Sono in fase di progettazione, dunque destinati a compiersi in tempi più dilatati, il completamento delle carceri di Forlì e Rimini, e interventi di ampliamento a Parma (200), Ferrara (200), Bologna (200). Spetta al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, istituito dall’art. 30 della Legge 395/1990 nell’ambito del Ministero della Giustizia, la decisione sulla destinazione dei detenuti: la Regione non ha alcun ruolo. Lo Stato detiene la titolarità dell’amministrazione della giustizia e, nell’ambito di questa, dell’esecuzione penale; le attività e gli interventi di politica sociale della Regione sono regolati da Protocolli d’intesa con il Ministero della Giustizia. Tale strumento trova conferma nella Legge regionale citata, che consolida l’intervento della Regione su questo tema. Gli interventi in ambito sociale sono previsti nel “Programma finalizzato a contrasto della povertà e dell’inclusione sociale”, che rientra nella programmazione dei Piani sociali di Zona. L’assessore Marzocchi ha parlato di “emergenza gravissima”: l’effetto congiunto del sovraffollamento e della carenza di personale rende pressoché impraticabili i percorsi di riabilitazione; l’Emilia-Romagna risulta essere la regione italiana con la percentuale più alta di sovraffollamento. Nel 2009, una serie di progetti promossi nei “Piani di zona distrettuali per la salute e il benessere sociale” sono stati finanziati con 450.000 euro complessivi. In particolare, si tratta di sportelli informativi per i detenuti e mediazione culturale in carcere; progetti per il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti e reinserimento socio-lavorativo; accoglienza e reinserimento sociale delle persone coinvolte in area penale, con particolare attenzione alle donne detenute e ai loro figli minori. In questa situazione, ha detto l’assessore Lusenti, la tutela della salute è gravemente pregiudicata. Da due anni, con l’entrata in vigore del Dpcm 1-4-2008, il Servizio Sanitario Nazionale e il Servizio Sanitario Regionale svolgono le funzioni in materia sanitaria che erano del Ministero della Giustizia. È aumentato, ma ancora insufficiente, il personale medico e infermieristico messo a disposizione dalle Aziende sanitarie, nonché il numero delle ore (+ 18%) prestate in carcere. Al trasferimento di competenze non corrispondono adeguati finanziamenti: lo Stato versa circa 10 milioni di euro l’anno, la Regione ne ha aggiunti 5. Resta molto critica la situazione dell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia (l’unico in questa regione): a una capienza regolamentare di 132 persone, corrispondono 304 ricoverati, di cui oltre la metà provenienti da realtà territoriali (Lombardia e Piemonte) che dovrebbero convergere su proprie strutture, secondo gli accordi nazionali sui bacini d’utenza. Il consigliere Franco Grillini (Idv) ha affermato che le Regioni non possono limitarsi a prendere atto di questi dati drammatici, ora che hanno assunto un ruolo diretto nella gestione sanitaria. Si tratta di una situazione prevista, avendo il Parlamento approvato alcune Leggi finalizzate a ripristinare una giustizia classista: solo i poveri vanno in galera, non chi porta alla rovina migliaia di famiglie con manovre finanziarie. In particolare ha sottolineato la follia ideologica della recidiva, applicata al consumo di stupefacenti. Infine, ha chiesto di porre particolare attenzione alla situazione dei detenuti sieropositivi. Andrea Pollastri (Pdl) ha detto di aver ricavato un’oggettiva preoccupazione dalla lettura di questa Relazione annuale, soprattutto per quanto riguarda le condizioni di salute in carcere. A differenza di quanto affermato da Grillini, le cause strutturali del sovraffollamento risalgono ai tempi della giustizia, e a decenni di errori nella strategia edificatoria degli istituti penitenziari. Il Governo è impegnato ad affrontare il problema, alleviando le dimensioni del sovraffollamento: è in discussione un Disegno di Legge, che dovrebbe essere approvato entro poche settimane, per favorire le alternative al carcere per chi, condannato in via definitiva, abbia ancora meno di un anno da scontare. Silvia Noè (Udc) ha posto l’accento sul fatto che il 65% della popolazione carceraria a Bologna proviene da 52 Paesi diversi. Alle difficoltà di natura quantitativa, se ne aggiungono altre, come quelle legate alle situazioni di cura ospedaliera, fino a comporre un’autentica bomba a orologeria. Altro aspetto da affrontare, secondo la consigliera, quello per cui il 20% dei detenuti rimane a Bologna 4-5 giorni, rendendo il carcere simile a una porta girevole. Siamo al limite del rispetto della Convenzione di Ginevra sui diritti umani, ha detto Andrea Defranceschi (Mov. 5 stelle), che ha a sua volta ricordato il turnover molto alto nelle carceri italiane. Ha poi chiesto alla Giunta di fare il possibile affinché siano estesi i progetti in corso sui detenuti condannati in via definitiva; nuovi settori di iniziativa potrebbero essere l’organizzazione della raccolta differenziata dei rifiuti e l’obiettivo dell’autosufficienza energetica dei singoli istituti penitenziari, attraverso convenzioni con Hera. Infine ha posto una domanda sulle cause della recente morte di un detenuto all’interno del carcere della Dozza. Per Andrea Leoni (Pdl), resta da spiegare perché proprio in Emilia-Romagna si verifichi il maggior sovraffollamento delle carceri. Dopo aver espresso la massima solidarietà ala polizia penitenziaria, chiamata a svolgere un lavoro così gravoso, il consigliere ha segnalato una scarsa disponibilità dei Comuni a collaborare con i progetti avviati nelle carceri. In particolare, a Modena il 74% dei detenuti sono stranieri. Ci si aspetta un certo sollievo dalla conclusione dei lavori di ampliamento (150 posti), prevista entro 18 mesi. In merito all’esecuzione di questo provvedimento legislativo, l’assessore Marzocchi ha segnalato come non tutti i potenziali aventi diritto potranno usufruirne (non potranno essere scarcerati i detenuti privi di residenza); in ogni caso, serve una gestione del provvedimento integrata con le aziende sanitarie, altrimenti chi esce sarà a forte rischio di recidiva. L’assessore Lusenti, infine, ha ricordato come nel gennaio e nell’aprile 2009 Errani abbia inviato due lettere al Ministro Alfano, sul sovraffollamento e sulla specifica situazione dell’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, non ottenendo risposta. Quanto alla ragione del primato negativo sul sovraffollamento, l’assessore ha segnalato come solo il 59% dei detenuti sia residente in Emilia-Romagna, ma le assegnazioni sono prerogativa esclusiva del Dipartimento ministeriale. Veneto: Cgil: assistenti sociali in affanno negli Uepe di Padova e Rovigo Redattore Sociale, 15 luglio 2010 La denuncia della Cgil di Padova. Ai problemi di sovraffollamento dei detenuti e di scarsità di agenti di polizia penitenziaria più volte denunciati si aggiunge un nuovo fronte del disagio all’interno delle strutture carcerarie. Gli assistenti sociali dell’Ufficio esecuzione penale esterna di Padova e Rovigo sono in affanno. Ai problemi di sovraffollamento dei detenuti e di scarsità di agenti di polizia penitenziaria più volte denunciati si aggiunge un nuovo fronte del disagio all’interno delle strutture carcerarie padovane e rodigine. La denuncia arriva dalla Cgil di Padova, che chiede di intervenire per aumentare l’organico dell’Uepe e consentire lo svolgimento delle normali attività. Il sindacato annuncia anche l’avvio di una serie di iniziative di protesta, a cominciare dalla presentazione di una mozione in consiglio regionale, a firma di Piero Ruzante del Pd, che impegna la giunta veneta a fare pressione sul governo per arginare il problema. “Da alcuni anni gli assistenti sociali dell’Uepe di Padova e Rovigo svolgono i loro compiti in condizioni di grande difficoltà e disagio per la cronica carenza di personale a fronte di un crescente aumento dei carichi di lavoro” spiega Salvatore Livorno della segreteria Fp Cgil Padova, che aggiunge: “L’attuale pianta organica prevede una dotazione di 14 assistenti sociali, ma ne risultano in effettivo servizio solo 7 che operano su un vasto territorio comprendente le province di Padova, Rovigo e in parte Vicenza”. Si tratta quindi di coprire tre istituti di pena per un totale di 1.200 detenuti. Nel 2009 i casi trattati sono stati circa 2.000, mentre nel primo semestre del 2010 sono stati 1.454. Allo stato attuale sono in carico 858 detenuti, con una media di 143 utenti per ciascun assistente sociale. “Facciamo notare - insiste Livorno - che l’Uepe di Padova e Rovigo ha, in pratica, gli stessi carichi di lavoro di territori come Venezia che hanno, però, un organico doppio”. Il sindacato padovano evidenzia come il sovraccarico di lavoro degli assistenti sociali si ripercuota negativamente sulla vita delle persone in esecuzione penale esterna, sul sistema integrato di programmazione degli interventi e dei servizi sociali e sulla sicurezza del territorio. “Da parte nostra continueremo un’iniziativa che ha un duplice fine: tutelare questi lavoratori, ma anche garantire un servizio pubblico importante in una società che si voglia definire ancora civile”. Ravenna: Cgil; i rinforzi della polizia penitenziaria non arrivano, carcere a rischio tracollo Ansa, 15 luglio 2010 Solo 54 agenti per una popolazione di 150 detenuti: il carcere ravennate “è come una polveriera che rischia di esplodere da un momento all’altro”. E il provveditorato regionale “deve informarci sul perché”. Il sindaco di Ravenna, Fabrizio Matteucci, condivide “in pieno” le preoccupazioni della segretaria generale della Fp-Cgil, Deborah Bruschi, che ha criticato aspramente la mancata assegnazione di agenti per rinforzare l’organico della polizia penitenziaria della Casa circondariale di Ravenna. In estate specialmente “sovraffollamento e carenza di organico sono un mix terribile”, aggiunge il primo cittadino. Il quale, dopo la visita al carcere del 30 giugno, ha denunciato il sovraffollamento della struttura “e le gravissime carenze di organico del personale di sorveglianza”. È vero, ammette Matteucci, che c’è stata la necessità di lavori urgenti nelle camerate che ospitano gli agenti, ma resta il fatto che “quella di Ravenna è una delle poche strutture ignorate a livello regionale”. La direttrice, gli agenti e le volontarie, aggiunge poi Matteucci, stanno facendo “uno sforzo enorme per gestire una situazione davvero drammatica. Chiederò immediatamente un incontro al Provveditorato regionale per capire il motivo di questa decisione”. Frosinone: due detenuti tentano suicidio, scoppia la protesta in tutto il carcere Ansa, 15 luglio 2010 Due detenuti ieri hanno tentato il suicidio nel carcere di Frosinone e l’intera popolazione detenuta ha messo in atto, dalle 20 alle 22.30, la classica protesta contro la mancata erogazione dell’acqua. A darne notizia è il segretario generale della Uil-Pa Penitenziari Eugenio Sarno. Ieri mattina, spiega, un detenuto ha tentato di suicidarsi mediante impiccagione così come un altro detenuto, di origine africana, ieri sera ha tentato con analoghe modalità di togliersi la vita. In entrambe le circostanze l’intervento dei poliziotti penitenziari ha scongiurato il peggio. A Frosinone sono presenti 513 detenuti su una capienza massima di 315. Con i due tentati suicidi di ieri toccano quota 62 le vite salvate in carcere dai baschi blu dall’inizio del 2010. “Con l’aumento del caldo - chiude Sarno - gli episodi di violenza e di auto soppressione saranno destinati ad aumentare mentre chi dovrebbe e potrebbe agire continua a connotarsi per staticità o, nella migliore delle ipotesi, a volgere lo sguardo altrove”. Cagliari: indipendentista in carcere da un anno senza processo, nasce comitato di sostegno Redattore Sociale, 15 luglio 2010 Arrestato lo scorso anno perché accusato di preparare attentati in vista del G8, Bruno Bellomonte è sottoposto da un anno alla misura cautelare. L’ex capostazione delle Ferrovie è stato anche licenziato per la prolungata assenza dal lavoro. Del suo processo ancora non se ne conoscono i tempi, ma prosegue da un anno la carcerazione preventiva del capostazione Bruno Bellomonte, accusato di attività sovversiva. Trasferito in un carcere della penisola, per la liberazione del dirigente politico di “A Manca pro s’Indipendentia” (formazione indipendentista sarda) si è costituito un comitato che in queste ore ha deciso di avviare una serie di iniziative. “L’anno scorso - ricorda Salvatore Drago - prima del G8 che, ricordiamolo, si sarebbe dovuto tenere in Sardegna a La Maddalena, veniva arrestato il capostazione Bruno Bellomonte, dirigente politico di A Manca e attivista sindacale. La motivazione è che stesse preparando, in combutta con altri, attentati contro i vertici dei Capi di Stato, che avrebbero dovuto parteciparvi. Da un anno egli si trova privato della libertà senza aver subito un regolare processo. Inoltre ad aggravare la sua situazione, di persona innocente (ricordiamolo secondo la Costituzione ancora vigente) egli è stato trasferito nel carcere di Siano, a Catanzaro, ossia in un posto che gli impedisce di usufruire delle visite familiari e di una adeguata assistenza legale”. Una misura cautelare, quella della carcerazione preventiva, che da allora prosegue, anche se l’inchiesta prosegue in sordina e nemmeno i legali conoscono i tempi di chiusura. “Ad aggravare la situazione - proseguono dal comitato - ci ha pensato il datore di lavoro di Bellomonte, ovvero le Ferrovie dello Stato licenziandolo perché assente dal posto di lavoro”. Del “Caso Bellomonte” si discuterà oggi e nei prossimi giorni in tavole rotonde a cui parteciperanno, oltre ai giovani del Collettivo anticaplista sardo, anche Antonello Tiddia (Comitato per la libertà di Bruno), Vincenzo Pillai (dirigente di Rifondazione comunista), Claudia Zuncheddu (deputato regionale dei Rossomori), Caterina Tani (la moglie di Bellomonte) e Cristiano Sabino (della formazione indipendentista sarda “A Manca pro s’indipendentia”). Genova: la Conferenza Volontariato Giustizia allestisce una mostra con le foto delle carceri Asca, 15 luglio 2010 La Conferenza Regionale Volontariato Giustizia della Liguria mobilita il volontariato penitenziario per informare i cittadini sulla tragica situazione delle carceri. Oggi dalle 17 alle 19,30, i volontari saranno infatti in via XX Settembre a Genova, come in altre città italiane, con una mostra che rappresenta le 7 case circondariali della Liguria con indicate la capienza regolamentare che dovrebbero avere e il numero di detenuti attualmente ospitati e distribuendo materiale informativo. Pesaro: “L’arte sprigionata 2010”, un percorso condiviso tra studenti e detenuti Ristretti Orizzonti, 15 luglio 2010 “Avevo proposto immagini più sanguinolente, ma i detenuti mi hanno fatto capire che un simbolo più rotondo, che rappresentasse l’abbraccio di più mondi, avrebbe rappresentato meglio la collaborazione scuola-carcere”. Con queste parole Toto, studente del Liceo artistico Mengaroni di Pesaro, ha voluto puntualizzare il suo percorso “dentro le sbarre” della Casa circondariale di Villa Fastiggi. Fattoria Pitinum della azienda agricola mandamentale di Macerata Feltria, 1€ per la libertà sono i nomi di altri progetti di inclusione-apertura che Direzione, Biblioteca San Giovanni e Osservatorio permanente sulle carceri hanno presentato alla cittadinanza di Pesaro il 15 giugno 2010. La soddisfazione per il lavoro svolto da parte degli organizzatori dalla lettura di questa frase è tutta di speranza: se i giovani vengono abituati a conoscere le persone private di libertà e li riconoscono come possibili fratelli maggiori, comprenderanno meglio l’assurdità della detenzione senza rieducazione, ridurranno la distanza fra i due mondi e diventeranno ambasciatori di una società dove la colpa non si guarisce negando la speranza a chi l’ha commessa. Riflessione: quale sarà il peso che “L’arte sprigionata” metterà sul piatto della bilancia, in contrapposizione con i 1.100 detenuti presenti nelle carceri marchigiane invece di 755 regolamentari, lo stesso numero di un anno fa? A cosa serviranno i laboratori teatrali, le fabbriche del sapere, che proseguono da 8 anni con la paziente conduzione di un capace regista, e hanno prodotto numerosi detenuti-attori, se rischiano di esaurirsi per mancanza di fondi, proprio ora che altri penitenziari potrebbero accogliere il teatro fra le loro attività? I progetti rivolti alla popolazione scolastica, la falegnameria aperta da anni nel carcere di Pesaro, i cui manufatti vengono venduti nel negozio “Il gatto e la volpe” assieme ad oggetti della ludoteca del riuso, le “riflessioni e immagini da una cella” , tutti i “loghi” prodotti dagli studenti del Mengaroni con i loro amici detenuti, esposti nel giardino della biblioteca, sapranno reggere l’urto dell’indifferenza di un governo che non riesce neanche ad approvare una legge che conceda la esecuzione dell’ultimo anno di pena presso domicilio? Guardando i sorrisi delle bambine che possono abbracciare il padre detenuto fuori dalle sbarre, anche solo per poche ore, si direbbe di si. Lo affermano con i fatti gli agenti di polizia penitenziaria che, in divisa, acquistano le magliette col simbolo circolare “Casa circondariale di Villa Fastiggi”. Lo confermano gli abitanti del quartiere, nel borgo vecchio della città, che vengono per assistere sotto un temporale tropicale, allo spettacolo teatrale degli studenti dell’Istituto Galilei, e si incuriosiscono al mondo variopinto che è presente. La riflessione, iniziata nel pomeriggio è proseguita fino a notte, ora davanti al microfono ora nei capannelli. I funzionari regionali, responsabili dell’applicazione di una legge buona e nata col coinvolgimento degli attori sociali, del volontariato, degli addetti ai lavori, ne hanno discusso con altri amministratori nel mezzo dei laboratori con i “fiori letterari”: di certo l’incremento dell’occupazione e della formazione dei detenuti è centrale, come la piena applicazione della riforma sanitaria del 2000, ed anche questi passaggi si possono verificare con il collegamento del “mondo a quadretti” nelle proprie città, depotenziando il fattore sicurezza che viene sollevato da stampa ed istituzioni per giustificare le costruzioni di nuove carceri, magari galleggianti sul mare. La sensazione, ad un anno di distanza dalla prima edizione, è che la strada imboccata dalla Direzione e dalle associazioni sia giusta: accorciare le distanze fra il “dentro” e il “fuori” dà respiro ed idee, e questo respiro può permettere di ascoltare meglio il lamento di detenuti e agenti di polizia penitenziaria, e non rinchiuderlo in una gabbia che rischia di esplodere. Cinema: Michele Placido; “Vallanzasca. Gli angeli del male”, il mio film rifiutato da tutte le tv La Repubblica, 15 luglio 2010 “Romanzo Criminale” a Milano? Le prime immagini di “Vallanzasca. Gli angeli del male”, dodici minuti presentati in anteprima alla convention della 20th Century Fox, a Lipari, suggeriscono questa impressione. Del resto entrambi i film raccontano una vicenda banditesca ambientata negli anni 70 e atmosfere, colori, armi, macchine e abiti rimandano al medesimo modello. “Ma - fa notare Michele Placido, regista di entrambi i film - la banda della Magliana, protagonista di Romanzo criminale, e la banda Vallanzasca sono state due realtà completamente diverse. I primi erano dei fuorilegge coinvolti in oscure trame di terrorismo, servizi deviati, corruzione politica, mentre Vallanzasca è stato semplicemente un bandito, perfino un po’ romantico nelle sue velleità. Durante una latitanza, avvicinato da un avvocato coinvolto in trame eversive di destra, Vallanzasca rifiutò qualsiasi collaborazione, e, forse non a caso, il giorno dopo venne arrestato. Ma il mio film - prosegue Placido - non intende affatto giustificarne azioni e comportamenti, non nasconde le efferatezze compiute, non vuole sostituirsi, né attenuare le condanne. “Vallanzasca. Gli angeli del male” cerca di raccontare una vita sbagliata e violenta in maniera oggettiva: è la radiografia di una mente criminale e non credo che a Vallanzasca, tutt’ ora detenuto, condannato a quattro ergastoli, piacerà”. Tuttavia, il film di Placido, che nasce dal libro “Il fiore del male”, lunga confessione in prima persona del bandito raccolta da Carlo Bonini, in un certo senso si è avvalso della collaborazione di Vallanzasca, perché Kim Rossi Stuart, che interpreta il ruolo del bandito, lo ha a lungo incontrato e frequentato per capirne la personalità, studiarne i comportamenti e i modi di fare. Ed è stato proprio l’ attore a spingere perché il film venisse realizzato. “Quando mi è stato proposto il film - ricorda Placido - ho rifiutato. Da ex poliziotto, ho risposto che non mi interessava raccontare un criminale ed è stato Kim ad insistere puntando sul mistero del personaggio e sul fatto che né Rai, né Mediaset intendevano partecipare al progetto. Proprio le difficoltà mi hanno convinto ad accettare la proposta”. In effetti Gli angeli del male è uno dei pochissimi film italiani che nasce senza la protezione di una rete televisiva, grazie all’ appoggio della Fox, che dopo partecipazioni in film minori, torna ad investire in un importante progetto italiano, costo produttivo 7 milioni di euro, come non accadeva dai tempi di Novecento e La luna di Bertolucci. Per altro il film è anche un confortante esempio di coproduzione europea, perché nel progetto sono coinvolti anche i francesi, e nel cast, oltre a Francesco Scianna nel ruolo di Francis Turatello, Filippo Timi, Valeria Solarino, ci sono Paz Vega e Moritz Bleibtreu, così che il film è già stato venduto anche in Spagna e Germania. Placido si è fatto scappare che trampolino di lancio sarà la prossima Mostra di Venezia, dove il film sarà presentato fuori concorso, scelta dettata dal fatto che ha già sollevato troppe polemiche, nate dall’ associazione parenti delle vittime civili e da chi contesta la scelta di un protagonista negativo, troppo bello e affascinante. “Reazioni - taglia corto Placido - demagogiche e ipocrite: i film si giudicano dopo averli visti”. Immigrazione: il reato di “clandestinità” e la Costituzione di Federica Resta Luigi Manconi www.innocentievasioni.net, 15 luglio 2010 “La qualità di immigrato “irregolare” diventa uno “stigma”, che funge da premessa ad un trattamento penalistico differenziato del soggetto, (…) in base ad una presunzione assoluta, che identifica un “tipo di autore” assoggettato, sempre e comunque, ad un più severo trattamento.”. In quest’affermazione risiede, forse, il “cuore” della sentenza 249/2010 - la cui motivazione è stata depositata ieri - che ha dichiarato l’aggravante cosiddetta di clandestinità incostituzionale per violazione dei principi di ragionevolezza, offensività e materialità, secondo cui, insomma, non si può incriminare una persona per ciò che si è o si pensa di fare ma solo per ciò che si è fatto, sempre che si sia violato un bene ritenuto meritevole di tutela per l’ordinamento. In quanto del tutto sganciata dal reato cui accede e dal suo disvalore, quest’aggravante determina un aggravio di pena sproporzionato rispetto alle finalità di tutela dell’interesse protetto (il controllo delle frontiere), come già sancito dalla Consulta (sent. 22/07) in relazione alla disciplina dell’immigrazione e, mutatis mutandis, ai reati di mendicità non invasiva e ubriachezza abituale (sentt. 519/95 e 354/02). L’aggravio di pena correlato alla mera condizione di irregolarità è quindi privo di alcun fondamento in quanto basato su di una presunzione assoluta di pericolosità sociale che già la Consulta (sent. 78/07, in relazione al divieto di concessione di misure alternative agli irregolari) ha ritenuto non desumibile da tale status e per ciò solo, ed attivabile anche quando lo straniero ignori (per colpa) la propria condizione di soggiornante irregolare. Né questo aggravio di pena potrebbe giustificarsi in ragione del fine di meglio consentire il controllo del territorio mediante la regolazione dei flussi migratori, perché del tutto in conferente rispetto a tale scopo. L’aggravante, insomma, ha una “natura discriminatoria” non attenuata ma anzi, asseverata, dall’introduzione del cosiddetto reato di clandestinità, in quanto costituisce la premessa per “duplicazioni o moltiplicazioni sanzionatorie, tutte originate dalla qualità acquisita con un’unica violazione delle leggi sull’immigrazione, ormai oggetto di autonoma penalizzazione, e tuttavia priva di qualsivoglia collegamento con i precetti penali in ipotesi violati dal soggetto interessato”. Meno netta e, a volte, tautologica, la sentenza 250/2010, che ha respinto le questioni di illegittimità costituzionale sollevate in relazione al reato di clandestinità, che per il giudice rimettente contrasterebbe anche con il principio di solidarietà umana e sociale (art. 2 Cost.), in quanto criminalizza una condizione personale e sociale di marginalità, a fronte di un comportamento privo di offensività a terzi. Nella qualificazione come reato di quella che è una mera condizione soggettiva, spesso indipendente dalla stessa volontà della persona, con un regresso all’epoca pre-illuminista si è infatti annullata la più grande conquista del diritto penale liberale: il passaggio dalla colpa d’autore o per la condotta di vita, alla colpa per il fatto. E proprio su questo punto insisteva l’ordinanza con cui si è sollevata alla Consulta questione di legittimità costituzionale di questo reato. Le eccezioni sollevate sono state disattese principalmente in nome della discrezionalità del legislatore nelle scelte di politica penale, non ravvisandosi lesione di quei principi di ragionevolezza e offensività che neppure le Camere, nella loro sovranità, possono violare, nella selezione delle condotte da incriminare. La Corte, in particolare, ha ritenuto non irragionevole la scelta di elevare da illecito amministrativo a penale l’ingresso e il soggiorno illegali in quanto funzionale alla finalità di gestione delle migrazioni, che costituirebbe espressione peculiare di quella prerogativa essenziale della statualità consistente nel controllo del territorio. Argomento, questo, discutibilissimo: nel perseguimento di questa finalità, infatti, il legislatore non è del tutto libero, ma deve pur sempre realizzare un adeguato bilanciamento tra tale scopo e il sacrificio imposto alla libertà fondamentale per eccellenza (la libertà personale), che risulta inevitabilmente compressa da un simile reato. Che per la Corte, peraltro, non incrimina un mero status soggettivo, ma un comportamento “positivo” di violazione della legge che regola le condizioni di ingresso nel territorio dello Stato. Affermazione, anche questa, discutibile almeno nella misura in cui non presupponga un’interpretazione restrittiva della norma penale, che la escluda cioè almeno quando il comportamento del migrante sia dettato da quei giustificati motivi che escludono persino il più grave reato di trattenimento ingiustificato nel territorio dello Stato. Aspetto, questo, affrontato dalla Corte con poco coraggio: da un lato infatti si dice che anche al reato di clandestinità si applicano le scriminanti generali (es. stato di necessità) e le cause di esclusione della colpevolezza (es. l’ignoranza inevitabile della legge penale) che escludono qualsiasi altro reato, nonché la causa di improcedibilità per particolare tenuità del fatto prevista per i processi dinanzi al giudice di pace e il principio generale di civiltà giuridica secondo cui “ad impossibilia nemo tenetur” (e verrebbe da dire: ci mancherebbe altro!). Dall’altro lato, però, la Corte esclude che al reato di clandestinità possa applicarsi in funzione scriminante quelle più ampie ipotesi di giustificato motivo (es. impossibilità di recarsi alla frontiera) riconosciute per il trattenimento ingiustificato, in quanto, diversamente da quest’ultimo, il primo non presuppone l’esecuzione dell’espulsione da parte dello stesso migrante. Diversamente dalla n. 249, dunque, quest’ultima sentenza si trincera dietro la discrezionalità del legislatore per attribuirgli scelte che sembrano violare persino quel limite ultimo della ragionevolezza che finanche le Camere devono rispettare. Droghe: Brasile; il governo Lula potrebbe adottare la depenalizzazione del consumo Notiziario Aduc, 15 luglio 2010 Il governo Lula potrebbe adottare la depenalizzazione del consumo delle droghe leggere, che passerebbe a essere punito solo con una multa. Lo ha annunciato oggi il viceministro della Giustizia, Pedro Vieira Abramovay, un avvocato trentenne nominato di recente proprio per portare avanti il progetto, fortemente voluto dal presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che in dicembre conclude il suo secondo mandato. “Non si tratta di legalizzare appieno il consumo di stupefacenti, e d’altronde finora nessun Paese lo ha fatto - ha detto Abramovay in un’intervista al quotidiano Estado de S. Paulo - Tantomeno il governo pensa di depenalizzare il traffico di droga”. Per il viceministro, il modello da cui partire sarebbe la legislazione in vigore in Portogallo, dove “il possesso di piccole quantità di stupefacenti non è più un delitto, ma è multato come quando si passa con il semaforo rosso”. Ad aprire il dibattito è stato il predecessore di Lula, l’ex presidente socialdemocratico Fernando Henrique Cardoso (1995-2002), il quale da tempo chiede che sia rivista la legislazione in vigore, che tende a penalizzare il consumatore tanto quanto lo spacciatore. Uruguay: 12 detenuti morti in incendio, sciopero della fame in carcere Apcom, 15 luglio 2010 Circa 2.500 detenuti, più di un quarto della popolazione carceraria dell’Uruguay, hanno cominciato uno sciopero della fame per chiedere delle sanzioni penali, dopo l’incendio che in una prigione ha causato la morte di 12 carcerati, lo scorso giovedì. La protesta riguarderebbe quattro penitenziari, ha reso noto il quotidiano El Pais. Secondo un rapporto annuale sulle carceri, il rischio d’incendio riguarda l’80% della popolazione carceraria, a causa delle lenzuola o di altri oggetti che servono per separare le celle, ma anche per la mancanza di mezzi e personale per fronteggiare le emergenze. L’incendio di giovedì scorso, nella prigione di Rocha, 210 chilometri a est di Montevideo, è stato probabilmente provocato da una stufetta difettosa, in un blocco del carcere: 12 i morti, 8 i detenuti feriti gravemente. Martedì, il senato ha votato all’unanimità una legge per sbloccare circa 12 milioni di euro per la costruzione e il rinnovamento delle prigioni e per creare 1.500 posti di lavoro come guardie carcerarie.