Giustizia: suicidio nel carcere di Torino, 101° detenuto morto nel 2010 (34 suicidi accertati) Ristretti Orizzonti, 14 luglio 2010 È morto tre giorni dopo aver tentato il suicidio nel carcere delle Vallette, Antimo Spada. Il 35enne originario di Aversa, esponente dei Casalesi di secondo piano, era stato arrestato nel 2005. Secondo quanto si apprende, l’uomo, che doveva scontare ancora nove anni di condanna all’interno del penitenziario “Lorusso e Cotugno” si era impiccato in cella domenica pomeriggio. Era stato subito soccorso dagli agenti di polizia penitenziaria che l’avevano trasferito all’ospedale Maria Vittoria. Spada che si trovava nella settima sezione - blocco A del carcere era sottoposto a regime di alta sicurezza. Dall’inizio del mese, oltre al suicidio di Antimo Spada, abbiamo raccolto segnalazioni di altri tre detenuti morti nelle carceri italiane: al Nuovo Complesso di Rebibbia, Roma, il 3 luglio è morto Hugo Cidade, 47 anni, argentino. Aveva una cirrosi epatica, patologia già ampiamente diagnosticata e per cui pare i medici del carcere avessero già da tempo dichiarato l’incompatibilità con il regime carcerario. Nonostante questo è rimasto in cella e vi è morto. Tra il 7 e l’8 luglio, nel carcere di Napoli Secondigliano sono morti due detenuti italiani, sembra a causa di gravi malattie di cui erano affetti. Non sappiamo altro su di loro, né i nomi né l’età. Con questi ultimi 4 casi salgono così a 101 i detenuti morti da inizio anno: 30 si sono impiccati, 7 sono morti per avere inalato del gas (4 di loro si sono suicidati, per gli altri 3 probabilmente si è trattato di un “incidente” nel tentativo di sballarsi), mentre 64 detenuti sono morti per malattia, o per cause ancora da accertare. In 10 anni i detenuti morti sono stati 1.699, di cui 591 per suicidio. Giustizia: carceri strapiene e caldo insopportabile, avvocati ancora in protesta di Andrea Acampa Il Giornale di Napoli, 14 luglio 2010 Non si ferma la protesta della Giustizia per l’emergenza carcere. Gli istituti penitenziari, in particolare quelli partenopei sono al collasso. A Milano, Napoli, Palermo, Avellino, Benevento, Nota, Santa Maria Capua Vetere e Torre Annunziata, i penalisti hanno indossato un nastrino nero sulla giacca, nel corso dell’attività professionale all’interno del Palazzo di Giustizia, per protestare contro l’inerzia del Governo e del Parlamento di fronte alle condizioni disumane in cui sono costretti a vivere la maggior parte dei detenuti. Nonostante gli appelli del Papa e del Capo dello Stato, nonostante lo “stato di emergenza” proclamato dal Consiglio dei Ministri, nulla è stato fatto e le carceri continuano a riempirsi, mentre il caldo aumenta. È trascorso quasi un anno - era il giorno di ferragosto 2009 - dalla visita di circa 200 parlamentari e consiglieri regionali negli istituti di pena, ma, superato l’effetto mediatico, solo pochi di loro si sono ricordati di quello che hanno visto. Quest’anno consigliamo loro di trascorrere il ferragosto in famiglia. L’Avvocatura, in questi ultimi mesi, ha proclamato giorni di astensione dalle udienze, ha depositato in tutte le Procure della Repubblica d’Italia esposti-denuncia per le allarmanti condizioni igienico-sanitarie delle carceri, ieri ha vestito il lutto per la morte dei diritti civili nel nostro paese. L’Avvocatura, le associazioni di volontariato, i radicali ed i Garanti dei diritti dei detenuti, rappresentano le uniche forze che realmente s’impegnano affinché, anche negli Istituti di pena, sia rispettata la Legge. Altre categorie dovrebbero interrogarsi sul mancato impegno in questa battaglia di civiltà. Giustizia: non ci sono soldi, il Dap non paga più pasti dei detenuti nelle “celle di sicurezza” Il Mattino di Padova, 14 luglio 2010 La manovra finanziaria di Tremonti colpisce tutti. E taglia tutto. Anche i capitoli di bilancio destinati all’amministrazione penitenziaria. Insomma, sicurezza, repressione, prevenzione: tutti concetti sbandierati dalla maggioranza di governo in campagna elettorale che, sul piano pratico, hanno innumerevoli declinazioni. Comprendendo anche cose molto banali come la somministrazione dei pasti alle persone che, una volta arrestate, vengono rinchiuse nelle celle di sicurezza delle questure o delle caserme di altre forze dell’ordine in attesa del processo per direttissima. Pasti che, per prassi, sono stati sempre in carico al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Da oggi (anzi da ieri) non lo sono più. Non ci sono soldi: il budget è al limite e le carceri esplodono. Logica conseguenza: gli arrestati sistemati nelle celle di sicurezza verranno nutriti a spese delle forze dell’ordine che li hanno in custodia. Oppure resteranno “a dieta” o senza mangiare. Succederà in ogni parte d’Italia, anche a Padova come comunicato in una lettera datata 12 luglio 2010 firmata dalla dottoressa Antonella Reale, la direttrice della casa circondariale (il carcere per i non definitivi). Lettera trasmessa al procuratore della Repubblica Mario Milanese, al questore Luigi Savina, al comandante provinciale della Guardia di Finanza Ivano Maccani e al comandante provinciale dell’Arma dei carabinieri Vincenzo Procacci, al prefetto Ennio Mario Sodano e al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Come è noto... il trattenimento di soggetti arrestati presso le camere di sicurezza... ha contribuito negli scorsi mesi ad attenuare sia l’elevatissimo numero di movimenti che coinvolge giornalmente questa casa circondariale, sia l’ingresso di soggetti che vi permanevano per 24/48 ore con un risparmio evidente di mezzi e risorse. Purtroppo sono spiacente di comunicare che il Dap... non consente più alle Direzioni (delle carceri) di accollarsi le spese per il vitto di tali soggetti come sempre fatto finora. Pur comprendendo che questo complica ulteriormente il gravoso impegno fin qui garantito, auspico che il rapporto di collaborazione, ripeto assolutamente indispensabile per una struttura come la nostra in difficoltà organizzative al limite del collasso a causa dell’estremo sovraffollamento, possa continuare”. La nota allegata, firmata dal direttore generale del Dap Enrico Ragosa, è esplicita: “Non esiste alcuna disposizione che ponga a carico dell’Amministrazione penitenziaria l’onere per il vitto da somministrare ai soggetti ristretti nelle camere di sicurezza delle altre forze di polizia, non potendo essi essere considerati “detenuti” o “internati”. La circostanza che questa Amministrazione abbia sino ad oggi provveduto al rimborso delle spese sostenute dagli Organi di polizia per il vitto dei ristretti è una prassi invalsa originata da accordi di vecchia data mantenuti in essere per ragioni di opportunità e di collaborazione istituzionale con le autorità interessate”. Adesso stop a quella “prassi” “...considerato che allo stato le risorse di bilancio afferenti il capitolo..., deputato all’imputazione delle spese per vitto ai detenuti, sono ormai insufficienti rispetto ai reali fabbisogni... anche per le evidenti conseguenze erariali che il proseguimento di tale prassi comporterebbe”. Giustizia: Cnca; con l’Anrel mancanza di trasparenza nell’affidamento dei soldi pubblici Redattore Sociale, 14 luglio 2010 Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza non condivide il modo in cui si è arrivati al varo dell’Agenzia né il modello con cui dovrebbe operare. “Mancanza di trasparenza nell’affidamento della gestione dei soldi pubblici”. Il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) non condivide il modo in cui si è arrivati al varo dell’Agenzia Nazionale Reinserimento e Lavoro per detenuti ed ex detenuti - voluta dal ministro della Giustizia Angelino Alfano e dal capo del Dap Franco Ionta - né il modello con cui dovrebbe operare tale agenzia. Questa la posizione assunta dal Cnca nei confronti di un provvedimento del governo che affida 4,8 milioni di euro per il reinserimento lavoro dei detenuti - questione su cui il Coordinamento chiede da anni investimenti seri -nelle mani di un ente capofila pressoché sconosciuto nel mondo carcerario. “Una decisione - si precisa - che crea malumore se letta nel contesto più generale di una legge finanziaria che prevede tagli feroci alle regioni e agli enti locali, e dunque ai servizi per i cittadini, e va a colpire settori cruciali per il benessere collettivo come la sanità e l’istruzione”. La preoccupazione rispetto a una gestione emergenziale della questione carceraria è volta alla “mancanza di trasparenza nell’affidamento della gestione di soldi pubblici”. Afferma il Cnca: “Aver dichiarato lo stato di emergenza delle carceri, consente infatti al Governo di aggirare tutte le procedure in materia di appalti pubblici, che diventano invece meri affidamenti”. Nel comunicato diffuso dal Cnca, si afferma che con questo stanziamento “si raschia il fondo del barile della Cassa Ammende, un fondo già esiguo in seguito agli investimenti per la costruzione di nuove carceri. Soldi pubblici affidati ai costruttori prima e, oggi, a un ente quasi senza esperienza nel settore, scelto in assenza di criteri di selezione”. Discutibile, per il Cnca, anche la scelta delle cinque regioni nelle quali i fondi verranno spesi, sempre in assenza di criteri di selezione che, secondo il Cnca, “potrebbe provocare una vera e propria guerra nella popolazione detenuta per il raggiungimento delle regioni fortunate e innescare gravi episodi di corruzione per ottenere trasferimenti”. L’attuale provvedimento, inoltre, tiene fuori dal progetto quasi tutte le agenzie più esperte del volontariato nazionale e del terzo settore che da molti anni lavorano “a cavallo del muro di cinta” dei penitenziari italiani, consapevoli che il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute richiede programmi individualizzati e percorsi faticosi, nonché reti di sostegno territoriali esperte e rispettose delle storie delle persone, pena il fallimento completo e la dissipazione delle risorse pubbliche. La richiesta che il Cnca rivolge al ministro Alfano riguarda in conclusione l’apertura di un bando pubblico sull’accompagnamento delle persone che escono dal carcere, “affinché la competenza e la qualità dei progetti siano realmente valorizzate”. Giustizia: Osapp; il Dap ora vuole le Sezioni “dimettendi”? nulla di nuovo sotto sole Il Velino, 14 luglio 2010 “Di fronte alle problematiche del gran caldo e del drammatico sovraffollamento delle celle, un provvedimento del genere sembra essere l’unica soluzione da attuare di fronte alla situazione da tabula rasa che questo dipartimento ha contribuito a generare per la salvaguardia dei detenuti e delle sue forze dell’ordine, impiegate in sezione”. È quanto dichiara Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp in merito alla disposizione del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ai provveditori regionali di istituire in ciascun carcere una o più sezioni “dimettendi” da destinare ai detenuti “prossimi alla liberazione o comunque con un residuo pena non superiore a un anno”. “Spiace ancora una volta constatare - continua il sindacalista - come non ci sia nulla di nuovo sotto il sole, è proprio il caso di dirlo. Sappiamo benissimo come ogni anno la direzione gestita da Ardita si adoperi immancabilmente per disporre la messa in salute di coloro che sono prossimi alla scarcerazione. È una prassi consolidata che certamente non deve essere concepita come epocale vista la situazione che stanno vivendo 68mila reclusi e 43mila poliziotti penitenziari. I problemi rimangono e non sarà certo un dispositivo come questo, di cui quest’anno dubitiamo degli effetti benefici vista la situazione cronica dei numeri, a salvaguardare ciò che questo sindacato da anni continua a sollecitare come soluzione determinante per la vita dei reclusi e dei poliziotti penitenziari”. Giustizia: Uil Pa Penitenziari; da gennaio feriti 120 agenti in servizio Dire, 14 luglio 2010 Nel carcere di Ivrea un detenuto ha aggredito e ferito due agenti penitenziari. Lo riferisce il Segretario Generale Uil Pa Penitenziari Eugenio Sarno, che sottolinea come dall’inizio dell’anno sono 120 gli agenti feriti da detenuti. “Ieri sera - spiega Sarno - un detenuto della sezione semiprotetta del carcere di Ivrea ha aggredito a pugni un agente penitenziario procurandogli ecchimosi, contusioni e un lieve trauma cranico e facciale. Trasportato in infermeria, lo stesso detenuto ha colpito con un pugno l’assistente capo addetto alla sorveglianza generale, procurandogli lievi ecchimosi”. “Con i due colleghi di Ivrea la conta nazionale degli agenti penitenziari aggrediti e feriti da detenuti, dal primo gennaio 2010 ad oggi, assomma a 120 unità”, sottolinea Sarno, aggiungendo: “È del tutto evidente che le attuali condizioni detentive, oggettivamente affliggenti e degradate, alimentano la violenza e l’intolleranza dei detenuti”. Anche ad Ivrea - denuncia Uil Pa - infatti, il sovraffollamento “tocca livelli di emergenza”: a fronte di una capienza massima di 192 detenuti, ne sono ospitati nella struttura 312. Di contro - sottolinea Sarno - il contingente di polizia penitenziaria risulta gravemente sottodimensionato: l’organico stabilito dal decreto ministeriale del 2001 fissa in 239 l’organico della polizia penitenziaria per il carcere di Ivrea; in servizio, invece, ne risultano 160. “È facile immaginare quanto costi, sul piano operativo ed organizzativo, un gap di ben 79 unità”, sottolinea il segretario generale Uil Pa, che ritorna a chiedere al ministro Alfano e al capo del Dap Ionta di “assumere iniziative concrete sulla situazione organica della polizia penitenziaria”. E - sottolinea Sarno - al di là del “disco rotto” delle assunzioni straordinarie, si potrebbe da subito intervenire, “se solo si avesse la volontà di intaccare e scardinare un sistema di privilegio e raccomandazioni che ha determinato l’esorbitante numero di 3.410 unità di polizia penitenziaria impiegate in strutture diverse da quelle penitenziarie”. Giustizia: arriva la “Jail mobile”, ecco il tour del recupero dei detenuti Affari Italiani, 14 luglio 2010 Biscotti, gelati, borse, orecchini e collane: c’è di tutto sulla “Jail mobile”, camper stile anni 80 che ha iniziato ieri un particolare giro d’Italia. È partito da Alba e toccherà le carceri italiane con l’obiettivo di raccogliere i prodotti realizzati dai detenuti. “Vogliamo mettere in moto le buone attività carcerarie e farle conoscere al pubblico”, sottolinea Paolo Massenzi, autista del camper ma soprattutto ideatore dell’iniziativa insieme a Terre di mezzo e Binario Etico. Dopo gli istituti penitenziari di Alba e Fossano e delle Vallette di Torino, il “Jail mobile” arriverà a Milano, a S. Vittore, il 15 luglio. “Con il camper poi andrò a fiere e mostre per far vedere questi prodotti, dal cibo alle borse in cuoio, dai computer ai vestiti - aggiunge Paolo Massenzi. Chi vuole potrà comprarli oppure fornirò gli indirizzi delle cooperative carcerarie dove fare acquisti”. Il lavoro è uno degli strumenti principali per il recupero dei detenuti. “Ma molti degli oggetti prodotti in carcere provengono da materiali di scarto e il lavoro dei detenuti permette di recuperarli. Il tema del recupero, insomma, unisce le diverse esperienze”, afferma Paolo Massenzi. Il “Jail tour” nasce come progetto pilota della sezione “Sprigioniamoci” di Fà la cosa giusta! (Fiera nazionale del consumo critico e degli stili di vita sostenibili - Milano) organizzata da Terre di Mezzo. E infatti la partecipazione a Terra Futura è stata l’occasione per lanciare la collaborazione tra “Recuperiamoci!” e Terre di mezzo, dal momento che proprio all’interno di Fà la cosa giusta! si svolge da due anni “Sprigioniamoci - alla scoperta dell’economia carceraria”, l’unico salone in Italia dedicato a questi temi. Da questa collaborazione è nato il progetto nazionale di messa in rete, valorizzazione e promozione per cooperative, imprese, laboratori e associazioni presenti oggi nelle carceri italiane. La Jail mobile arriverà in settembre a Palermo, ultima tappa del giro d’Italia. Per chi vuole seguire il camper, sul sito www.recuperiamoci.org verranno inserite man mano le tappe, oppure può contattare direttamente Paolo Massenzi al 337.798832. Isili (Nu): Schirru (Pd); drammatica la situazione della Casa di reclusione Comunicato stampa, 14 luglio 2010 “Ieri mattina, accompagnata da un rappresentante sindacale della Polizia Penitenziaria, dal Direttore e dal Comandante di reparto, ho visitato la Casa di reclusione di Isili. La situazione è talmente drammatica, che con urgenza ho deciso di portare all’attenzione del Ministro della Giustizia un’interrogazione che pone alla luce la drammaticità del sovraffollamento dell’istituto, le condizioni fatiscenti della struttura e la difficile situazione del personale penitenziario e medico. Nello specifico, ad Isili, gli internati sono 243 (tutti uomini) mentre la capienza regolamentare prevede al massimo 192 reclusi e quella tollerabile 197; solo 26 sono le celle; tra le persone attualmente recluse, la maggioranza è rappresentata da stranieri (per i quali non risulta essere attivo nessun presidio di mediazione culturale) e il 30 per cento circa, sono tossicodipendenti. L’obsoleta struttura carceraria, risalente all’800, nonostante la consueta manutenzione e i recenti restauri, appare inadeguata: vecchi gli impianti elettrici ed idrici; le celle sono scarsamente illuminate; le celle le cui dimensioni variano da circa tre metri e mezzo per due metri e mezzo accolgono dai quattro ai sei internati, quelle da sei metri per tre, ospitano dai sedici ai diciotto internati; i letti, nella maggior parte dei casi, sono di tre piani; assenti le docce nelle celle della prima sezione, che sono collocate nel corridoio e costringono i detenuti a circo un’ora di attesa. Le stesse risultano essere a dir poco fatiscenti, alcune non funzionanti e in gravissime e discutibili condizioni igienico-sanitarie. I bagni delle celle (alcuni alla turca), nella maggior parte dei casi non hanno finestre e sicuramente sono troppo piccoli e inadeguati per il numero di persone che ne devono usufruire. Analogo discorso per i lavatoi che sono insufficienti. Nelle celle è consentito fumare (non si distingue tra fumatori e non) e non sono presenti aspiratori. Non sono presenti impianti di aereazione, né di condizionamento che possano favorire il riciclo dell’aria, con gravi conseguenze sulla salute dei detenuti e dello stesso personale. Da qualche mese ai detenuti non viene più fornito il vino, limitando così gli episodi di renitenza. La cosa più sconcertante e grave è che in una diramazione della Casa di reclusione, alcune celle siano collocate a fianco della porcilaia, una situazione insostenibile per i reclusi e per gli stessi agenti di Polizia Penitenziaria, costretti a convivere con il fetore degli animali, le esalazioni del letame, gli insetti, situazione che ovviamente si aggrava nei mesi estivi, a causa della forte calura e dell’afa. Come riferito da alcuni detenuti, ma confermato dagli stessi operatori, i contatti personali tra detenuti e familiari sono difficili, poiché, come sostenuto in premessa, la maggior parte dei detenuti è straniero e ha i familiari lontani. Inoltre, risulta difficile raggiungere la colonia, a causa della difficile posizione geografica e degli scarsi collegamenti pubblici. Analogamente a quanto denunciato per le altre Case di reclusione sarde, anche per quella di Isili è difficile distinguere la stessa da un carcere vero e proprio poiché sono pochi i detenuti che lavorano e se lavorano, lo fanno per periodi limitati; i detenuti che hanno dato prova di buona condotta, possono svolgere attività lavorative retribuite e socialmente sostenute; alcuni detenuti possono svolgere, per poche ore al mese, attività lavorativa scarsamente qualificata, come in mensa, al bar, per le pulizie, alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Ovviamente, i detenuti trascorrono il resto del loro tempo (talvolta 20 ore) stipati e ammassati nelle proprie celle. Troppo poche le ore d’aria consentite giornalmente, tra l’altro in un cortile interno molto simile a quello di un carcere, come rari sono i momenti di socialità o sportivi; anche la semplice attività di passeggio è messa in discussione dal sovraffollamento con grave pregiudizio per la sicurezza degli agenti e dei detenuti. Gli educatori in servizio sono solo tre, un solo medico incaricato e un medico-psicologo del S.E.R.T. per soli 2 giorni alla settimana, i poliziotti penitenziari sono 102 unità, costretti a ricoprire più mansioni e ai doppi turni, come denunciato dalle stesse organizzazioni sindacali. Un numero evidentemente insufficiente vista anche la crescita della popolazione detenuta nell’ultimo anno. L’area sanitaria, l’infermeria e la “sala dentistica”, risultano essere inadeguate e poco confortevoli per favorire un adeguato rapporto tra l’operatore e il detenuto; anche in questo caso sono assenti le finestre, gli aeratori per il ricambio dell’aria e discutibili sono anche gli apparecchi di igienizzazione degli strumenti. Tuttavia, la Casa di reclusione di Isili rappresenta un centro piuttosto avanzato per quanto riguarda lo svolgimento di attività lavorative, con la possibilità di effettuare laboratori (per 12 detenuti è stato attivato un corso di macellazione delle carni), un macello, un caseificio, l’azienda agricola e gli allevamenti di ovini, polli, maiali, anche se difficile resta l’occupazione della maggioranza dei detenuti, commercializzare i prodotti agricoli, le carni e i derivati. Viste queste criticità, il Ministro dovrà rispondere per ripristinare normali condizioni di vita ai detenuti ed agli operatori della Casa di reclusione di Isili. Auspico che siano messi in atto tutti gli interventi necessari per migliorare la funzionalità della struttura, che considero, allo stato attuale, in condizioni di insostenibile degrado, obsoleta e pericolosa per la salute dei detenuti e degli stessi operatori siano urgenti e tempestivi.” Amalia Shirru, deputato del Pd Empoli: dopo un anno di chiusura riapre il carcere di Pozzale, arrivano le detenute da Pisa Il Tirreno, 14 luglio 2010 Questa volta non è uno scherzo come lo era stato alcuni mesi fa quando il ministro Alfano ci ripensò e i transessuali non arrivarono. Dopo un anno di chiusura e di soldi buttati in fumo il carcere di Pozzale riapre. Da ieri sono in servizio cinque agenti di polizia penitenziaria che erano stati distaccati in altre strutture. A popolare l’istituto, che prima era a custodia attenuata e ora è invece a tutti gli effetti un carcere vero, saranno le detenute di Pisa. Una notizia che era attesa da tempo proprio per il sovraffollamento generale dei carceri (compreso quello a pochi chilometri dell’Ambrogiana a Montelupo) e per i costi che comunque, anche se il carcere era deserto, sono stati sostenuti dai contribuenti perché comunque a Pozzale il personale (una parte) ci ha sempre lavorato. Le detenute dal Don Bosco di Pisa arriveranno in questi giorni. Rimane da chiarire il motivo di tutto questo ritardo nel riutilizzo della struttura su cui più volte è intervenuto anche il garante dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone. Le ultime tre detenute, ipersorvegliate da tutto il personale in forza al Pozzale, andarono via a giugno scorso in fretta e furia (una non riuscì neppure a completare a Empoli alcuni esami scolastici). Poi, con tempi non certo veloci, iniziarono i lavori per rafforzare la sicurezza. A inizio anno erano conclusi. Il 4 marzo, con decreto che era stato già approvato, il provveditorato toscano aveva fissato l’arrivo dei trasgender: si passava da un’esperienza innovativa (quella della custodia attenuata per ragazze con reati legati soprattutto alla droga) a un’altra, quella dei transessuali. In tutto dovevano arrivare 25 detenuti da Sollicciano. Ma il ministro Alfano bloccò tutto inspiegabilmente. A fine maggio Corleone aveva digiunato per sei giorni come forma di protesta contro il ministro. Con la struttura chiusa per un anno all’interno di Pozzale ci hanno comunque lavorato una ventina di persone: 4/5 persone per turno tenendo in considerazione ferie, malattie e permessi. Considerando che uno stipendio medio lordo di una guardia carceraria si aggira sui 2.500 euro al mese, in un anno sono stati spesi 600mila euro inutilmente. E se si aggiungono le spese per le bollette della struttura e per pagare le missioni degli altri otto dipendenti di Pozzale che hanno lavorato in altri carceri si arriva a circa 700mila euro persi. “La situazione delle carceri in Toscana e a Firenze - aveva spiegato il garante Franco Corleone - continua a rimanere nello stato di gravità denunciato più volte vanamente. Dal quattro marzo scorso, data in cui doveva partire il primo esperimento di carcere transgender, sono passati inutilmente molti giorni e nessuna risposta è giunta”. Ora, e siamo a metà luglio, la svolta. Cagliari: morte detenuto, perizia ordinata dal Gip non fuga i dubbi sulla fine di Giancarlo Monni L’Unione Sarda, 14 luglio 2010 La perizia ordinata dal Gip non fuga i dubbi sulla prematura fine di Giancarlo Monni. Ora la parola torna al pm: archiviazione o rinvio a giudizio? “In carcere il paziente non fu curato adeguatamente, ma non si può dire che si sarebbe salvato se gli fosse stata diagnosticata la polmonite”. “In carcere il paziente non fu curato adeguatamente, anche se non si può dire che si sarebbe salvato qualora gli fosse stata diagnosticata in tempo la polmonite”. Insomma, sembra esistere un profilo di colpa da parte di alcuni dei medici coinvolti, anche se il nesso di causalità non è per nulla dimostrato. Sono queste, in estrema sintesi, le conclusioni a cui è giunto il perito Pintus, infettivologo sassarese, incaricato dal Gip Roberta Malavasi di investigare sulla morte di Giancarlo Monni, cagliaritano di 35 anni, storico componente degli Sconvolts, deceduto il 24 febbraio dello scorso anno al Santissima Trinità dopo essere stato inizialmente curato a Buoncammino dove era detenuto. Conclusioni che al momento sembrano lasciare in sospeso la soluzione del giallo. Sul registro degli indagati della Procura sono finiti i medici del carcere che si occuparono di assistere il giovane ultrà - Francesco Moi, Aldo Casti, Paolo Scarparo, Mohammed Malek e Alessandra Sannia - ai quali si è recentemente aggiunto anche Matteo Papoff, responsabile del centro sanitario di Buoncammino (difesi dagli avvocati Benedetto Ballero, Gian Mario Sechi, Renata Serci, Mauro Massa, Guido Manca Bitti, Ferrucio Melis). Monni era morto all’ospedale Santissima Trinità dov’era stato trasferito in condizioni quasi disperate dal carcere di Buoncammino. Era malato di Aids e, secondo l’autopsia disposta dalla magistratura, era stato stroncato da una polmonite emorragica. Ai familiari, però, quella risposta non era bastata. Così avevano presentato un esposto attraverso l’avvocato Antonio Carta in cui avanzavano il sospetto che la patologia costata la vita al ragazzo non fosse stata diagnosticata in tempo dai medici, che dunque avrebbero sottovalutato le sue già precarie condizioni di salute. Al termine delle indagini il pm Andrea Massidda aveva chiesto l’archiviazione dell’inchiesta, ritenendo che non ci fosse stata alcuna negligenza da parte dei medici del carcere. L’avvocato Carta si era però opposto e a quel punto il gip Roberta Malavasi aveva ordinato una perizia da svolgersi in incidente probatorio, affidata dunque a un consulente super partes. Perizia che non ha però sciolto tutti i dubbi. Ora la parola torna al pm che dovrà decidere se insistere sulla richiesta di archiviazione o, alla luce dell’accertamento di ieri, chiedere il rinvio a giudizio dei medici indagati per omicidio colposo. Rieti: la direttrice; più di 2/3 del carcere rimane inutilizzato, manca il personale per gestirlo di Alessandra Lanzi Affari Italiani, 14 luglio 2010 Parla la direttrice della casa circondariale di Rieti: “Non abbiamo abbastanza personale. Tutta colpa dei tagli”. Scandalo del penitenziario laziale che “aspetta” di essere utilizzato. “Solo 1/3 scarso del carcere funziona. Il restante rimane inutilizzato. Tutta colpa della carenza di personale”. Annunziata Passannante, direttrice del carcere di Rieti, sceglie Affaritaliani.it, per denunciare il paradosso della struttura laziale, attualmente utilizzata a meno di 1/3 delle sue capacità. E mentre a soli 81 km di distanza le carceri romane rischiano il collasso, a causa del sovraffollamento, a Rieti si parla di interi reparti deserti perché mai abitati, nonostante siano dotati di attrezzature completamente nuove. Direttrice, il suo è un carcere all’avanguardia per oltre 400 detenuti. Invece sono stati attivati solo 78 posti, già sovraffollati da oltre 100 detenuti. I conti non tornano… Purtroppo funziona solo un braccio sui tre disponibili e questo perché non c’è abbastanza personale. L’organico previsto è pari a 277 uomini. Noi ne abbiamo solo 93. Perché? È un problema che riguarda un po’ l’intero Paese. Riguarda tutta l’amministrazione penitenziaria. Mancano, in tutta Italia, 6mila uomini all’appello. A chi attribuisce questa carenza? Ai tagli, che non sono indifferenti. Veda quelli dell’ultimo decreto. Voglio spiegarle meglio il nostro caso. Qui da noi manca personale sia del comparto sicurezza, che del comparto ministeri. Questo significa che mancano sia i poliziotti che gli amministrativi. E i tagli hanno peggiorato la situazione. Sul personale amministrativo per esempio, sono previste 35 unità, mentre noi non ne abbiamo neanche 10. La situazione è drammatica. Dovrebbe esserci un vicedirettore ed invece ci sono solo io. Si parla di stanze, cucine e palestre nascoste sotto un velo di cellofan e dita di polvere… Si, sono tutte stanze completamente arredate, ma inaccessibili a causa della carenza di personale. Se mandiamo 50 detenuti in palestra qualcuno dovrà pur controllarli. È emergenza suicidi fra i detenuti. Non crede possa, in alcuni casi, essere diretto frutto del sovraffollamento? Si, è ovviamente legato al sovraffollamento che sfocia in una situazione di invivibilità nelle carceri È ovvio che se non ha garantito il minimo spazio vitale, il detenuto viene preso dalla depressione o dalle altre malattie di tipo psicosomatico. Consideriamo poi che un terzo della popolazione detenuta è in attesa di giudizio e questa è una situazione che incide tantissimo. Credo che sia necessaria una riforma del sistema carcerario e con essa una riforma del sistema giustizia, al fine di garantire maggiore celerità ai processi. Ragusa: provincia avvia un “piano di integrazione” rivolto ai detenuti stranieri 9Colonne, 14 luglio 2010 Un progetto di formazione e informazione per dare agli stranieri la possibilità di ottenere trattamenti più equi e favorevoli all’interno delle carceri e far progredire l’integrazione anche tra i detenuti. Si chiama “Amici-Lavoro-Informazione”, l’iniziativa promossa dall’assessorato provinciale alle Politiche sociali di Ragusa insieme alla casa circondariale della città. “L’obiettivo dell’ambizioso progetto - dichiara l’assessore Piero Mandarà - è, inoltre, quello di promuovere l’interculturalità delle diverse etnie presenti nelle case circondariali della provincia di Ragusa e sostenere lo sviluppo e l’inserimento socio-economico dei soggiornanti, in prospettiva futura, all’interno del tessuto sociale. Un’iniziativa che vuole abbattere le diversità in un ambiente delicato come quello delle case circondariali di Modica e Ragusa. La Provincia s’impegna a portarlo avanti e spera che gli obiettivi di fondo diventino patrimonio culturale di coloro che verranno coinvolti: l’unione d’intenti e il rispetto reciproco aiutano a superare le difficoltà”. Conferma il favore per piano di integrazione il direttore della casa circondariale di Ragusa, Santo Mortillaro: “L’iniziativa rientra nel progetto pedagogico che il nostro istituto si è posto come priorità per l’anno in corso. La mission è quella dell’integrazione culturale, tramite una serie di attività volte a fornire assistenza a tutti gli stranieri: in ambito legale, culturale e religioso. L’obiettivo è sconfiggere la paura del diverso”. L’Ali (Associazione laica per gli immigrati) svilupperà il progetto mettendo a disposizione di tutti gli immigrati un’equipe specializzata di mediatori e psicologi che garantiranno la tutela in ambito processuale e nei rapporti tra legali e famiglie dei soggiornanti negli istituti di detenzione. Il presidente dell’associazione, Maria Monteiro, rivendica la validità sociale dell’iniziativa: “È un percorso ambizioso ma necessario per un paese che si appresta alla multiculturalità. Grazie alla nostra esperienza e al prezioso contributo proveniente dal gruppo dei nostri mediatori, abbiamo l’intento di far convivere diverse etnie all’interno del carcere. Sosterremo gli stranieri in modo efficiente, per un rapido superamento delle difficoltà di tipo linguistico e di reinserimento nel campo socio-economico”. Roma: interrogazione dell’Udc; a Rebibbia manca personale penitenziario femminile Dire, 14 luglio 2010 “Al carcere femminile di Rebibbia manca il personale di polizia penitenziaria, che risulta in numero assai inferiore rispetto al minimo stabilito per garantire i livelli essenziali di sicurezza, nonché i diritti lavorativi”. Lo denunciano in una nota i parlamentari dell’Udc Roberto Rao e Luciano Ciocchetti che sulla questione hanno presentato e discusso, alla commissione Giustizia della Camera, un’interrogazione a risposta immediata. “Abbiamo sottoposto all’attenzione del ministro della Giustizia- spiegano- la difficile situazione in cui verte la casa circondariale femminile di Rebibbia, dove su 164 unità femminili del Corpo previste in organico ne operano solo 119, di cui 22 sono ultracinquantenni, 30 hanno figli a carico in situazioni di mono genitorialità ovvero prestano assistenza, 21 sono assenti per malattia o per maternità. La situazione, già di per sé allarmante , è resa ancor più grave dal sovraffollamento della struttura, dove si è ben oltre la capienza tollerabile”. “Rispondendo all’interrogazione, il ministro della Giustizia- continuano gli esponenti dell’Udc- dopo aver confermato la scarsa presenza di personale femminile all’interno del carcere romano di Rebibbia, ha evidenziato come invece ci sia un esubero di personale maschile (58 unità maschili a fronte di una previsione di 36 unità) che, nei limiti consentiti dalle norme, potrebbe sopperire alla carenza di organico femminile”. “Al di là del fatto che viene da domandarsi come sia possibile che ci siano 22 agenti maschi in più rispetto all’organico predeterminato- continuano- e che, comunque, non si può certo risolvere il problema spostando, laddove possibile, il personale maschile al reparto femminile, il vero problema di Rebibbia è un altro”. “Ossia che dall’istituto femminile risultano distaccate in altre sedi ben 71 unità che prestano servizio altrove, in uffici del dipartimento ed altre sedi ministeriali - proseguono Rao e Ciocchetti. Il ministro della Giustizia ci ha confermato che è al vaglio un’ipotesi di rientro alle attività d’istituto almeno di una parte del personale distaccato. L’auspicio è che questo possa avvenire in tempi brevi e che nella valutazione complessiva dei compiti assegnati al personale distaccato, si presti maggiore attenzione alla presenza di agenti all’interno del carcere femminile che, dati alla mano, è in grande sofferenza e necessita di un organico adeguato”. “Infatti, pur comprendendo le difficoltà derivanti dalla scarsità delle risorse a disposizione, esiste nel nostro Paese una vera e propria emergenza carceraria che va affrontata in maniera concreta. Nel caso specifico - concludono - è necessario ripristinare condizioni lavorative accettabili nell’interesse del personale femminile, dei detenuti e più in generale del buon funzionamento della struttura carceraria”. Roma: domani alla Camera associazioni A Buon Diritto e Antigone “denunciano il carcere fuorilegge” Il Velino, 14 luglio 2010 Le associazioni A Buon Diritto e Antigone, con la collaborazione del settimanale Carta, presentano gli esposti indirizzati a sindaci, Asl e assessori regionali alla sanità, redatti a seguito delle visite effettuate nelle carceri più sovraffollate d’Italia tra il 21 giugno e il 2 luglio scorsi. All’incontro, previsto domani, alle 13, alla Sala del Mappamondo della Camera, a dieci anni dall’entrata in vigore del regolamento penitenziario, dal titolo “Denunciamo il carcere fuorilegge”, partecipano i parlamentari Ignazio Marino presidente della Commissione di inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale Rita Bernardini Lionello Cosentino Doris Lo Moro Guido Melis Melania Rizzoli Jean Leonard Touadi e i consiglieri regionali Maurizio Acerbo (Abruzzo) e Luigi Nieri (Lazio), Luigi Manconi presidente di A Buon Diritto, Patrizio Gonnella presidente di Antigone e l’avvocato Arturo Salerni. Droghe: i danni collaterali della “war on drugs” di Grazia Zuffa Terra, 14 luglio 2010 Viene presentato oggi a Firenze “Lotta alla droga, i danni collaterali”, volume curato da Franco Corleone e Alessandro Margara (edizioni Polistampa) che si propone come una valutazione dell’impatto della normativa antidroga sull’insieme delle attività delle forze dell’ordine, degli apparati giudiziari e sul carcere. Pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione di Grazia Zuffa. Nella politica delle droghe la valutazione ha finora trovato poco spazio, specie per ciò che riguarda l’aspetto penale. Il punto di svolta è stato l’appuntamento di “Vienna 2009”: nella seduta del marzo 2008, l’organismo Onu che decide le politiche internazionali delle droghe, la Commission on Narcotic Drugs (Cnd), decise di dedicare un intero anno alla valutazione della strategia di contrasto alle droghe, decisa nell’assemblea generale dell’Orna di New York del 1998. A riprova del fatto che siamo ancora ai primi passi, parlano le dispute perfino sul significato del termine “valutazione”. Dobbiamo valutare l’efficacia delle strategie, ovvero se queste hanno raggiunto gli obiettivi prefissati? Oppure dobbiamo valutare se e come gli interventi decisi sono stati messi in atto? È facile comprendere che la questione non è affatto tecnica come può sembrare a prima vista. Se diciamo sì alla prima ipotesi, optiamo per la valutazione in senso stretto. Il che ha delle conseguenze: nel caso risulti che gli obiettivi prefissati non sono stati raggiunti, è giocoforza prendere in considerazione l’ipotesi di un cambiamento. Nel secondo scenario, il conseguimento o meno degli obiettivi rimane fuori scena, così come l’opzione di un cambio di rotta, in caso di fallimento accertato. Ci si limita semplicemente a monitorare l’implementazione delle politiche, evitando di confrontarsi con la questione chiave della loro effettiva utilità nel contrasto alle droghe. Generalmente, ha prevalso la seconda interpretazione. Così è per il testo unico sugli stupefacenti del 1990 (la legge Jervolino Vassalli), che ha previsto una relazione annuale al Parlamento sullo stato d’applicazione della legge, non sulla verifica dei suoi obiettivi. Intanto però a livello internazionale le cose sono andate un poco avanti. In vista della revisione della strategia globale di contrasto alla droga del 1998, di cui si è detto, l’Unione Europea ha preso sul serio l’appuntamento commissionando una ricerca in merito. Il titolo dello studio, “Un rapporto sui mercati internazionali delle droghe illecite 1998-2007” (a cura di Peter Reuter e Franz Trautmann) già indica che il suo scopo è la verifica degli obiettivi fissati dal piano globale del 1998: la “eliminazione (o almeno la riduzione significativa) della produzione e del traffico di eroina, cocaina e canapa entro il 2008. Questi obiettivi sono stati raggiunti? È un quesito non di poco conto, pensando allo strumento principale su cui si appoggia la strategia del 1998: l’inasprimento della repressione contro le coltivazioni illegali tramite l’eradicazione forzata e la fumigazione con pesticidi manu militari. Con la militarizzazione di vaste aree di territorio, la “guerra alla droga” ha assunto in molti paesi produttori un tragico significato letterale. Si veda il conflitto in Afghanistan, in cui la produzione di oppio riveste un ruolo importante o la guerra civile in Colombia, dove è centrale il controllo delle coltivazioni di coca. È sotto gli occhi di tutti, non solo degli esperti, che l’auspicata “riduzione significativa” dell’offerta di droghe rilegali (per non parlare della “eliminazione”) è di là da venire. In compenso, sono sempre più evidenti i “danni collaterali” della guerra alla droga, tanto che un altro rapporto, uscito sempre nel 2009, denuncia che la war on drugs sta addirittura minando la democrazia in America Latina. È un documento autorevole, varato da una commissione presieduta dall’ex presidente del Brasile Fernando Cardoso, insieme agli ex presidenti del Messico Ernesto Zedillo e della Colombia Cesare Gaviria: l’appello ad un cambio di passo nella politica antidroga, spostando l’accento e le risorse dalla legge penale allo sviluppo sociale. Torniamo al Report di Reuter e Trautmann, per certi versi unico. Esso non si limita a raccogliere informazioni sull’evoluzione del problema droga nel decennio preso in considerazione, cerca anche di costruire un modello di valutazione delle politiche penali, individuando gli indicatori per misurarne l’efficacia. Uno di questi è l’evoluzione dei prezzi delle droghe sul mercato illegale. Poiché l’obiettivo dell’azione penale è la riduzione dell’offerta di droga, i mercati dovrebbero registrare i cambiamenti. Se l’azione repressiva coglie nel segno, i prezzi delle droghe illegali dovrebbero salire e le droghe dovrebbero essere meno accessibili. Niente di tutto questo è accaduto. Il rapporto mostra che i prezzi delle droghe al dettaglio sono generalmente diminuiti nei paesi occidentali, inclusi quelli che hanno aumentato l’impatto repressivo contro gli spacciatori, come Gran Bretagna e Stati Uniti (ma anche l’Italia è fra questi). La caduta del prezzo dell’eroina e della cocaina è così imponente che probabilmente le entrate totali del 2007 sono state inferiori a quelle del 1998; in più, non c’è alcun segno che oggi sia più difficile procurarsi le droghe di 10 anni fa. Il fenomeno si spiega in parte con l’effetto ballon nei paesi produttori. Quando la repressione si fa più aspra in una zona, la produzione si sposta in un altro paese: è ciò che è accaduto in passato con la diminuzione delle coltivazioni in Perù e Bolivia controbilanciata dall’espansione in Colombia. Un fattore altrettanto importante è costituito dall’alta competitività e frammentazione dei mercati, che “non sono verticalmente integrati o dominati da grandi cartelli” - recita il Report; inoltre, la stragrande maggioranza di chi vende droga guadagna molto poco: solo un ristretto numero di soggetti accumula grandi fortune col traffico e lo spaccio, ma questo riguarda solo una piccola parte dell’incasso totale. Sono indicazioni di grande interesse, non solo per 1 informazione circa i prezzi al dettaglio delle droghe, in genere mai presi in considerazione; ma perché capovolgono alcuni luoghi comuni sulla “lotta alla droga”.