Giustizia: corsia preferenziale per l’emergenza carceri, il Tg2 denuncia la situazione esplosiva di Sandro Forte Il Secolo d’Italia, 10 luglio 2010 Nelle carceri il periodo estivo è il più duro perché con l’aumento della temperatura l’insofferente situazione di sovraffollamento rischia di esasperare fin troppo gli animi dei detenuti. Per evitare il collasso estivo il governo aveva ideato il disegno di legge Alfano denominato “svuota carceri”, per il quale il 18 giugno ha incassato l’ok in commissione Giustizia alla Camera, ma adesso è troppo tardi per approvarlo. Nel frattempo nelle carceri succede di tutto: ci si suicida, si fanno le collette per pagare le coperture dei bagni (Ucciardone), per attirare l’attenzione si sceglie di sbattere la testa contro le sbarre fino a sanguinare (lettera dal carcere di Poggioreale), scoppiano risse (a Ravenna fra romeni e magrebini). La grave situazione è stata ben illustrata dall’inchiesta che il Tg2 della Rai (a firma di Maurizio Martinelli) ha mandato in onda lunedì sera, chiaro esempio del ruolo di denuncia che deve svolgere il servizio pubblico televisivo. Approdato in aula a Montecitorio lunedì scorso, il disegno di legge ha subito così tante modifiche da apparire un’ipotesi alquanto remota quella di approvarlo in tempi brevi. Insomma si è creato un provvedimento per ovviare al sovraffollamento delle carceri nei mesi estivi, ma poi si rischia di non fare in tempo ad attuarlo. Per questo motivo il deputato del Pdl Benedetto Della Vedova ha chiesto che, qualora non fosse possibile approvare “in tempi brevissimi” il ddl, almeno che si ricorra alla decretazione d’urgenza, vista “l’emergenza” del sovraffollamento negli istituti penitenziari. “Chi lunedì sera ha seguito il primo dei servizi che il Tg2 ha scelto meritoriamente di dedicare alle condizioni del sistema carcerario (al centro il caso dell’Ucciardone di Palermo) - sostiene Della Vedova - non può non prendere atto dell’assoluta necessità di approvare in tempi rapidissimi il ddl governativo sulla detenzione domiciliare nell’ultimo anno di pena. Il ricorso alla decretazione d’urgenza, date le condizioni di sovraffollamento e di pericolo di molte carceri, è ampiamente assistito dai presupposti costituzionali di necessità e urgenza”. E c’è pure chi, come il deputato del Pdl Alfonso Papa, relatore del ddl sulla detenzione domiciliare nell’ultimo anno di pena, paventa un’estate di rivolte e suicidi in carcere: “Il numero dei detenuti è di quattro volte superiore alla capacità carceraria, mentre ci si avvia verso temperature che nelle celle arriveranno fino a 50 centigradi”. Da qui la richiesta di Papa, ieri in aula, di rinviare il ddl alla commissione Giustizia della Camera perché decida in sede legislativa (poi dovrà passare al Senato, ma i tempi comunque si accorcerebbero). Richiesta accolta nel pomeriggio: la Camera ha infatti deciso di rispedire in commissione Giustizia il ddl per consentire l’esecuzione al proprio domicilio delle pene inferiori a un anno o degli ultimi dodici mesi di pena. Una sorta di dietrofront, quindi, in virtù del fatto che solo lunedì il governo aveva dato il suo via libera al provvedimento che porta la firma del ministro Angelino Alfano. Anche dall’opposizione si prende spunto dal servizio del Tg2 per chiedere da subito “politiche penitenziarie che decongestionino gli istituti”, come ha sollecitato Sandro Favi, responsabile Carceri del Partito Democratico. L’inchiesta ha evidenziato “ciò che il Pd denuncia da mesi, e cioè condizioni di vita per i detenuti e per i lavoratori penitenziari del tutto indegne. Quelle viste all’Ucciardone sono situazioni che in realtà riguardano la stragrande maggioranza delle carceri italiane. È assolutamente necessario investire sulle misure alternative alla detenzione e sull’aumento di agenti di polizia penitenziaria, di educatori, di assistenti sociali e psicologi”, ha aggiunto l’esponente del Pd che mette sotto accusa la politica del governo: “Finora il ministro Alfano e il direttore delle carceri Ionta hanno saputo solo ipotizzare un piano carceri che avrà lunghissimi tempi di realizzazione e che non inciderà minimamente per un miglioramento della situazione nell’immediato. Così non va”. D’accordo sul rinvio in sede legislativa anche Rita Bernardini, deputata radicale del Pd, anche se - sottolinea - il disegno di legge originario è stato stravolto. Se originariamente potevano essere trasferiti agli arresti domiciliari circa diecimila detenuti, con questo testo non saranno più di duemila, confermando così l’illegalità delle carceri italiane”. La replica del governo viene dallo stesso ministro della Giustizia, Angelino Alfano: il piano carceri avanza speditamente e per l’assunzione di 2.000 agenti penitenziari sarà utilizzata la logica del “più presto possibile”, ha assicurato presentando a Roma l’Agenzia nazionale di reinserimento e lavoro per i detenuti. In particolare il guardasigilli ha spiegato che l’intenzione è quella di garantire subito l’assunzione a mille agenti inseriti nelle graduatorie del vecchio concorso e di ridurre via via i tempi di formazione per assicurare un inserimento più veloce. Quanto al dibattito in Parlamento sul ddl “svuota carceri”, iniziato l’altro ieri, il ministro ha garantito che “non si è trattato di un passo indietro ma anzi è stato un dibattito che ha portato accelerazione. Tutto procede simmetricamente”. Il disegno di legge sarà comunque un provvedimento ponte fino all’approvazione del piano Alfano per la costruzione di nuovi penitenziari e in attesa di una riforma della disciplina complessiva delle norme sulle misure alternative alla detenzione (quest’ultimo punto è stato aggiunto su richiesta del Pd). L’accordo in commissione è stato raggiunto anche perché la Lega, che voleva un provvedimento più rigido, ha ritirato tutti gli emendamenti. Giustizia: la storia delle carceri scritta da Luigi Morsello; io ho visto cose che voi umani... di Sergio D’Elia (Segretario di Nessuno tocchi Caino) Gli Altri, 10 luglio 2010 Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, ammoniva Voltaire. Luigi Morsello, le carceri, non le ha solo osservate, le ha anche dirette, inaugurate, amministrate, attrezzate e riparate. Per rendere più dignitosa la vita dentro e, nel suo piccolo, più civile l’immagine fuori del suo Paese, oltre al custode, ha dovuto imparare a fare anche il ragioniere, l’elettricista, il muratore, il falegname, l’ingegnere e pure l’inventore. Morsello è attualmente in pensione, ma negli anni difficili che vanno dal 1969 al 2005 ha diretto sette istituti ed è stato in “missione” in altri ventidue. Le sue memorie di direttore di carceri itinerante sono finite in un volume, “La mia vita dentro” (Infinito Edizioni), che ha scritto con la collaborazione dei giornalisti Francesco De Filippo e Roberto Ormanni. Un libro avvincente, che leggi tutto d’un fiato, come accade nelle storie in cui ci sono buoni e cattivi, guardie e ladri. Non so in quale delle due parti collocare Morsello, perché dal racconto emerge un personaggio singolare in cui convivono umanità e severità, ragionevolezza e rigore, durezza e tenerezza, senso della legge e senso pratico. Attento alle condizioni di vita dei detenuti-detenuti e a quelle dei semi-detenuti che alla fin fine risultano essere direttori, agenti di custodia, assistenti sociali, educatori e altri componenti la comunità penitenziaria. Morsello è un tipo che i problemi non li pone, ma tenta di risolverli. Sono innumerevoli gli episodi del libro in cui racconta di soluzioni, anche ingegnose, per risolvere problemi complicati e di soluzioni immediate ai problemi semplici che spesso vengono complicati dalla burocratica e opaca amministrazione carceraria. Una sua fissazione, quella dei “conti”, può rendere l’idea del personaggio. Appena arriva in un carcere, la prima cosa che fa è verificare e mettere a posto la contabilità, premessa della buona amministrazione generale. Quando lo mandano in “missione” a dirigere un altro carcere, fosse anche solo per un mese, esige e ottiene di portarsi dietro un ragioniere di fiducia per ristabilire la corretta tenuta dei conti. Nel carcere di San Gimignano, con i primi computer messi a disposizione dalla Olivetti e una stampante ad aghi, fa attivare il primo programma di gestione degli stipendi degli agenti e delle mercedi dei detenuti quando all’epoca ogni carcere provvedeva manualmente alle due operazioni. All’isola di Gorgona mandano lui quando Dalla Chiesa ha in mente di installare una sezione speciale per terroristi. Trova il totale disordine della gestione contabile, l’elettricità che va e viene e l’acqua che non sale dai pozzi. Finita la missione, va via lasciando i registri contabili perfettamente a posto, due gruppi elettrogeni in grado di funzionare, una moto pompa nuova e due di riserva per tirare su l’acqua potabile. Viene mandato in missione anche a Pianosa, quando nella famigerata diramazione Agrippa sono rinchiusi 80 “irriducibili” e si ha sentore di un assalto dal mare per liberarli. A parte il solito caos contabile, nell’isola-monumento della lotta al terrorismo, trova la caserma agenti senza riscaldamento, nessuna scorta di gasolio e i vetri rotti alle finestre che già non hanno gli scuri. Le torrette di sorveglianza sulla costa sono illuminate con le candele rubate alla chiesa, i collegamenti telefonici tra un posto e l’altro dell’isola sono quasi sempre interrotti e i walkie-talkie hanno finito le batterie. Se ne va dopo un mese di missione, ma almeno lascia i conti in ordine e le finestre coi vetri, il riscaldamento in funzione e una riserva di gasolio, i fornelletti di illuminazione tipo camping nelle torrette e le pile per i walkie-talkie. Il libro, ovviamente, parla di rivolte e di evasioni, di sequestri di guardie e relative punizioni, di fatti tragici e allo stesso tempo comici. Come quando, nell’agosto 1975, durante un tentativo di fuga a San Gimignano due detenuti sequestrano sette guardie e chiedono la classica macchina veloce e un salvacondotto. Lui consiglia di prenderli per sfinimento e si oppone ad atti di forza come pure a tentativi velleitari di “parlamentare” coi rivoltosi. Viene esautorato, col risultato che gli ostaggi in mano ai detenuti da sette diventano sedici, tra cui due magistrati e cinque giornalisti, e la vicenda si risolve tragicamente con un detenuto ammazzato da un cecchino. Negli Anni di Piombo, Morsello va in giro per le carceri della Toscana con un appuntato che gli fa da autista e guardia del corpo, il Mab d’ordinanza e la sua pistola privata. Con il Mab sparano solo ai conigli selvatici dal ciglio della strada che va da San Gimignano a Lucca. La pistola la usa una volta sola, nel 1992, non contro i brigatisti ma per togliersi la vita. Una serie di ingiustizie e vessazioni lo ha fatto cadere in depressione. I primi sintomi si manifestano nel 1981, dopo la fuga da San Gimignano di Gianni Guido, condannato per la strage del Circeo. Morsello quel giorno non c’è, ma non se la sente di buttare la croce addosso al comandante. Si assume la responsabilità oggettiva dell’evasione - il direttore era lui - e i giudici la tramutano subito in responsabilità penale: viene condannato per evasione, l’unico direttore, forse, nella storia d’Italia a essere condannato per questo reato. Per punizione viene trasferito a dirigere la Belluria di Lonate Pozzolo, un carcere fantasma, senza muro di cinta, senza recinzioni e senza sbarre alle finestre. Seguono altri trasferimenti in carceri inesistenti. Si spara al cuore nel settembre del ‘92 ma per fortuna uno spostamento millimetrico della traiettoria gli impedisce di morire. “La situazione nelle carceri è pericolosissima: serve l’indulto” ha detto Morsello un mese fa alla presentazione del libro organizzata nella sede del Senato dai Radicali e dall’associazione Il Detenuto Ignoto. “Il sovraffollamento delle carceri è endemico e dovuto a leggi criminogene come quelle sulla droga e l’immigrazione clandestina, oltre al fatto che il nostro codice prevede duecento reati che potrebbero essere declassati a sanzioni amministrative”. Per fortuna, ci sono stati e ci sono ancora tipi così nell’amministrazione penitenziaria, che fanno e rendono conto, tentano di tappare un buco in un sistema che fa acqua da tutte le parti, riparano qualche danno provocato dall’illegalità vigente. Altrimenti, il disastro sarebbe completo e irreversibile. Giustizia: Corte Corte Penale Internazionale; Italia in ritardo sull’adeguamento dei codici di Marco Incagnola Terra, 10 luglio 2010 Esattamente 12 anni fa si concludevano i lavori per la stesura dello Statuto di Roma, l’accordo internazionale che disciplina le competenze e il funzionamento della Corte Penale Internazionale, ossia il primo organo giurisdizionale universale competente a giudicare i crimini contro l’umanità. Lo Statuto fu firmato a Roma il 17 luglio 1998, alla presenza dei rappresentanti di 160 paesi, di 33 organizzazioni intergovernative, di 236 Ong. Un giorno di straordinaria importanza che segnò l’avvio della realizzazione di un organo transnazionale in grado di affrontare i crimini contro la comunità internazionale come i genocidi, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra, il crimine di aggressione. L’Italia, pur avendo firmato e ratificato il trattato non ha mai adattato i propri codici penale e di procedura penale ai contenuti dello Statuto, rendendo di fatto impossibile l’operatività della Corte nel nostro paese. Ciò rende non perseguibili, in Italia, i governi stranieri che si siano macchiati di questi crimini. Nel nostro Paese un Pinochet qualsiasi potrebbe non essere giudicato. Ne parliamo con Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International. L’Italia sembra arrancare in materia di diritti… Abbiamo a che fare con un ritardo imbarazzante. Da alcuni segnali positivi speriamo che a settembre si possa fare un decisivo passo in avanti. Quali sono secondo lei le ragioni di questo ritardo? C’è una ragione storica di disattenzione rispetto agli obblighi che derivano dagli impegni internazionali. Basti pensare ai 21 anni di ritardo nell’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano, che è un obbligo internazionale derivante dalla ratifica della convenzione Onu. Penso sia fondamentalmente una questione di disattenzione che, su singoli temi, si confonde con obiettivi di natura politica. Non credo che ci siano ragioni, in questo ambito specifico, di una contrarietà politica. Come valuta l’attività del Tribunale di questi anni? Quali sono stati i più importanti risultati conseguiti? Per la prima volta, un capo di Stato in carica vivo e attivo come Al Bashir, in Sudan, è stato raggiunto da un mandato di cattura. Si è trattato di un fatto molto importante. È significativo, inoltre, che siano state aperte indagini anche su altre gravi violazioni del diritto internazionale in Africa. Penso, tuttavia, che sia necessario che la Corte Penale Internazionale allarghi il suo raggio d’indagine. Quello che la Corte ha fatto in Africa deve essere anche realizzato altrove. Dobbiamo constatare, comunque, che ben 7 Stati del G20, per parlare del gruppo che si pone come nuova leadership nei rapporti internazionali, non hanno ratificato lo Statuto. Si tratta di Arabia Saudita, Cina, India, Indonesia, Russia, Stati Uniti, Turchia. Qual è lo stato di salute dei diritti in Italia? C’è una questione di violazione dei diritti umani in Italia che Amnesty segnala da tempo. In tutti i rapporti annuali è presente un capitolo sull’Italia. Credo che possiamo individuare un filo conduttore nelle politiche e nelle prassi adottate dai successivi governi, che hanno a che fare con una sorta di erosione della tutela dei diritti umani nei confronti di gruppi e singole persone già in condizioni di vulnerabilità. Penso ai migranti, ai richiedenti asilo, ai Rom, alla comunità Glbt. È come se, utilizzando un criterio economico, i diritti fossero una risorsa scarsa che non c’è per tutti, e allora la si distribuisce all’interno di un circolo ristretto. Penso al pacchetto sicurezza, allo stato di emergenza decretato nei confronti dei campi Rom e agli sgomberi illegali. Poi ci sono questione che si protraggono da tempo… Quali? Tutti i casi in cui ci sono stati decessi o ferimenti gravi di persone che si trovavano in custodia di polizia, all’interno di caserme o in centri di detenzione, su cui le indagini hanno mostrato delle carenza. Oggi inoltre torna di attualità il tema dei respingimenti che ha causato il respingimento di oltre 200 persone, tra cui donne e bambini in condizione di forte vulnerabilità. Giustizia: Sanità penitenziaria; la Lombardia prepara un corso di formazione per i medici di Stefano Di Marzio Corriere Medico, 10 luglio 2010 Corsa contro il tempo per i medici penitenziari italiani. Il prossimo 31 dicembre scade il triennio entro il quale devono obbligatoriamente risolversi gli inquadramenti dei rapporti di lavoro transitati dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale, secondo quanto disposto dal Dpcm del 1° aprile 2008. La faccenda sembra essersi chiusa bene per i circa 140 ex medici “incaricati”, tra definitivi (es. i direttori dei centri clinici o degli ospedali psichiatrici giudiziari) e provvisori, che vengono equiparati ai dirigenti medici del Ssn. Il loro ruolo è però a esaurimento e in futuro gli “incaricati” saranno inquadrati nella medicina dei servizi, con contratto di lavoro convenzionale come per la medicina generale. Una delle ipotesi riguarda il riconoscimento dell’incarico professionale se il medico in questione è responsabile o meno di un presidio sanitario penitenziario. Molto altro resta da fare invece per circa duecento camici bianchi finora inquadrati come Sias (Servizio integrativo di assistenza sanitaria) e per gli specialisti esterni. Sia i primi che i secondi - come tutti i medici penitenziari del futuro - intratterranno con il Ssn un rapporto libero professionale con convenzione simile all’Acn per la continuità assistenziale (remunerazione su base oraria), per la medicina dei servizi o la specialistica ambulatoriale. Per i Sias, però, si attende una definizione di profili specifici da affidare a contrattazione collettiva nazionale. Nel frattempo si dovrà applicare loro l’Acn vigente, il relativo adeguamento economico e segnatamente gli articoli 78, 84, 85, 89 e 90 della convenzione: dalle assenze non retribuite agli oneri previdenziali, all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Ad oggi i Sias svolgono turni di servizio non inferiori a 6 ore e non superiori a 12 che però nei giorni festivi possono arrivare a 24 ore. Il tetto da non superare è di 150 ore di servizio al mese, che vale anche per i medici di guardia che prestano servizio in più istituti. Va da sé che crescono i timori di perdere tutele (quando non il posto di lavoro), peraltro in un momento pesantissimo per l’assistenza sanitaria nelle sovraffollate carceri italiane. Dice Angelo Cospito, responsabile dell’Unità operativa di sanità penitenziaria della Regione Lombardia e segretario nazionale sella Società italiana di medicina penitenziaria (Simpse onlus): “Bisognerebbe scrivere un altro Dpcm solo per il personale: questo non garantisce tutti i medici. C’è chi fa il medico Sias da vent’anni e rischia di trovarsi disoccupato e tutti sono esposti alla discrezionalità dei direttori generali delle Aziende sanitarie”. Il Dpcm del 2008 che regola il trasferimento delle funzioni sanitarie, delle risorse finanziarie e strumentali al ministero della Salute, aveva stabilito che il personale sanitario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e della Giustizia minorile dovesse passare al Ssn, in modo differenziato secondo il rapporto di lavoro vigente alla data del 15 marzo 2008. La partita è complessa e riguarda oltre i medici anche altre figure (infermieri, farmacisti, puericultrici, ausiliari socio sanitari ecc.). Prima del 31 dicembre le regioni devono definire le linee di indirizzo (esiste già una bozza elaborata dalla Toscana) che contengano modalità operative per gli inquadramenti professionali. Sul tema sta lavorando un tavolo tecnico costituito presso la Conferenza stato-regioni, al quale siede lo stesso Cospito, insieme ai rappresentanti di Toscana, Sardegna, Calabria, Emilia Romagna e Lazio. “Dobbiamo stare attenti ad attribuire ruoli e funzioni dei medici senza averne verificato prima le specificità e i livelli di responsabilità cui sono sottoposti. Se è vero che non è più possibile cumulare tre o quattro lavori - spiega Cospito - o fare i medici massimalisti e poi fare quattro o cinque ore in carcere, è anche vero che un professionista non può lavorare solo dietro le sbarre perché è un’esperienza destrutturante”. A titolo di esempio, quindi, una negoziazione riguardante medici di medicina generale che conservino la possibilità di prestare un’assistenza su base oraria ai detenuti, dovrà evidentemente concentrarsi sul numero di ore in carcere e un massimale ridotto. “Le regioni devono saperlo. Lavorare in carcere - aggiunge Cospito - non è come lavorare sul territorio. Le Aziende (in Lombardia sono quelle ospedaliere che hanno in carico l’assistenza dei detenuti credono di poter esportare in carcere il proprio modello organizzativo. Il problema è che il detenuto non è un paziente come gli altri: non si vuole curare, non vuole guarire. Dalla persistenza della sua malattia può dipendere l’attenuazione del regime carcerario quando non l’incompatibilità con la vita in cella. Un medico che lavora in carcere deve imparare a mediare i rapporti con la polizia penitenziaria, operare in ambiti sovraffollati, muovendosi tra diverse etnie, culture e religioni. Tutto questo non c’è regola o Dpcm che lo recepisca...”. Detto in altri termini, non sarà mai immediato per un’Azienda, sanitaria o ospedaliera che sia, reperire del personale medico esperto in una materia tanto delicata. Logica vorrebbe che non andassero disperse le competenze acquisite dai Sias italiani, come pure dagli specialisti incaricati dai direttori degli istituti di pena. La Lombardia sta mettendo a punto un corso per formare medici delle carceri La regione Lombardia sta mettendo a punto un corso per formare medici delle carceri (da affidare all’Iref, l’Istituto regionale di formazione) e migliorare la qualità assistenziale, relazionale e gestionale nei servizi sanitari penitenziari in ambito regionale. Cinque sono le finalità del corso: 1- Agire tramite la formazione culturale giuridico-normativa ed esperienziale sul sentimento di identità e di appartenenza al Ssn pur operando in contesto penitenziario; 2- Accrescere le capacità relazionali dei medici che operano nelle aree sanitarie degli istituti con le Aziende ospedaliere, con l’Unità operativa di Sanità penitenziaria regionale, con Asl per la prevenzione e con il contesto esterno sia sanitario che giurisdizionale e del mondo forense; 3- Migliorare le conoscenze scientifiche nei settori specialistici di specifica pertinenza penitenziaria; 4- Migliorare la gestione sanitaria intramuraria attraverso un’aggiornata e più specifica conoscenza degli strumenti disponibili; 5- Migliorare i rapporti con il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria avendo come base obiettivi comuni condivisi. La prima sessione del programma scientifico si concentra sul management sanitario in carcere, passando in rassegna il quadro generale della realtà sanitaria italiana e la situazione negli istituti penitenziari; la legge regionale sanitaria 31/97: il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario regionale ai sensi del Dpcm 1° aprile 2008 e altre norme collegate. Giustizia: Uil-Penitenziari; grande adesione alla protesta contro la “manovra” economica Comunicato stampa, 10 luglio 2010 “Una partecipazione che è andata ben oltre le nostre più ottimistiche previsioni. Abbiamo monitorato, nella giornata di ieri, una media del 52,7 % di poliziotti penitenziari che si sono astenuti dal consumare il vitto presso le mense di servizio. Questo, infatti, era quanto avevamo chiesto ai nostri colleghi in segno di ideale adesione allo sciopero generale del Pubblico Impiego, indetto dalla Uil Pubblica Amministrazione contro la manovra economica del Governo”. Non nasconde la propria soddisfazione il Segretario Generale della Uil Penitenziari, Eugenio Sarno, nel comunicare i numeri della protesta indetta dal sindacato dei baschi azzurri. “Abbiamo registrato punte elevatissime di adesione: a Potenza l’80%, a Genova Marassi addirittura il 90%. Evidentemente questa grande partecipazione è prodromica del malessere e della profonda insoddisfazione che attraversa il Corpo di Polizia Penitenziaria, ma l’intero Comparto Sicurezza e Difesa, rispetto ad una manovra economica iniqua ed ingiusta che penalizza oltremodo gli operatori della sicurezza senza intaccare i santuari dei privilegi e senza scalfire i templi degli sprechi. Questo è un segnale - avverte Sarno - che il Governo farebbe bene a non sottovalutare. D’altro canto il documento unitario redatto il 7 Luglio dalle OO.SS. della Polizia di Stato, della Polizia Penitenziaria , del Corpo Forestale, dei Vigili del Fuoco e sottoscritto anche dal Cocer della Guardia di Finanza nonché dagli organismi militari di rappresentanza dell’Aeronautica e della Marina offre bene l’idea della nostra determinazione a mantenere in vita lo stato di agitazione, se non anche ad adottare forme di protesta eclatanti senza precedenti”. Il Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari, intervenendo durante la riuscitissima manifestazione nazionale tenutasi ieri a Roma, ha ribadito la ferma intenzione di proseguire un percorso di contestazione e di sollecitazione. “Siamo certi che questa nostra compattezza porterà il Governo a rendere concreti i tanti impegni assunti verso i poliziotti ed i militari, oramai stufi delle vane promesse. È un fatto non smentibile - sostiene Eugenio Sarno - che l’unico comparto del Pubblico Impiego a cui non è stato rinnovato ancora il contratto economico relativo al biennio 2008/2009 è proprio il Comparto Sicurezza e Difesa, tutto il resto sono chiacchiere. Gli unici fatti, purtroppo, sono le proposte per il blocco dei contratti e le penalizzanti ricadute per la previdenza, le carriere, gli stipendi e le buone uscite. Di contro l’unica certezza di cui possono disporre, oggi, gli operatori della sicurezza e della difesa è l’ansia quotidiana che li assale per dover lavorare con scarsità di uomini, mezzi e risorse e la conseguente preoccupazione nel poter portare, ogni giorno, a casa sana e salva la propria vita. Dopo la ferma presa di posizione unitaria, abbiamo registrato la solita sequela di impegni. Speriamo che non si tratti dei soliti bluff. In verità - chiosa il Segretario Uil Pa Penitenziari - a leggere l’emendamento annunciato dai Ministri Maroni e La Russa i timori si tramutano in quasi certezze. Confidiamo, però, che prima o poi si ravvedano. Un segnale importante, in tal senso, potrebbe essere la convocazione del tavolo per chiudere il biennio 2008-2009, sempreché si possa disporre concretamente di quei finanziamenti aggiuntivi già resi disponibili, ma solo a parole, dal Governo Berlusconi”. Lettere: i detenuti di Poggioreale; qui ci trattano come cani rabbiosi… Gli Altri, 10 luglio 2010 Quella che segue è una lettera scritta qualche giorno fa da un detenuto, anche a nome di oltre seicento compagni reclusi nel carcere di Poggioreale: il più sovraffollato d’Italia. Ma non è solo una lettera. E un grido di dolore collettivo. Un coro. Tanto più silenzioso quanto inascoltato, che si leva da un luogo descritto come un girone infernale. Non è, però, l’odiosa legge del contrappasso a comandare le pene di chi ha sbagliato. La pena, qui, è uguale per tutti, mentre le poche tracce di legge sono per lo più quelle lasciate dalle sue violazioni. Nel momento in cui il più capace a scrivere metteva nero su bianco il dolore di centinaia come lui, il numero dei detenuti nelle carceri italiane si avviava a superare quota 68 mila. E qualcuno ribadiva che: no, nel nostro Paese non è necessario introdurre il reato di tortura. Nel carcere di Poggioreale ci sono cose ben più gravi di quelle di solito raccontate. Pressioni psicologiche, maltrattamenti fisici e morali, violazioni dei diritti minimi che anche un detenuto dovrebbe avere. Il giorno 11, poco dopo il colloquio, durante l’attesa per tornare nelle nostre celle ci hanno chiuso in una camera di sicurezza, circa 40 detenuti in uno spazio di circa 10/12 mq. Un detenuto (malato di cuore come registrato nelle cartelle cliniche del carcere) non riesce a respirare e si sente male! Chiama la guardia, la chiamiamo anche noi! Dopo averlo chiamato a squarciagola arriva, infuriato e infastidito... Gli facciamo presente che è grave, che quel nostro compagno è malato di cuore... Ci risponde “certo come tutti quelli che stanno qui”. Alla fine quel detenuto per la disperazione con tutta la forza che ha sbatte la testa contro la cella... Si spacca la fronte e il viso. Poco dopo viene portato in infermeria. E giusto? E giusto che nei colloqui, se uno prova ad abbracciare un familiare, le guardie battono le loro chiavi sul vetro fino a fare piangere i bambini? È giusto che la scorsa settimana dei detenuti sono stati puniti solo perché si sono lamentati per avere fatto 50 minuti di colloquio invece di un’ora? Controllate le cartelle cliniche dei detenuti e guardate quanti di questi vengono medicati con fratture, ematomi, lesioni... Sempre la stessa risposta: “Dottore è caduto!”. Chiedete ai detenuti quanti torti subiscono a Poggioreale... Qui dentro non possiamo rivolgerci né tantomeno lamentarci con nessuno... Non possiamo nemmeno fare denunce! Il giorno 5 un detenuto scese per denunciare un aggressione subita dalle guardie (nonostante lo avevamo sconsigliato, sapendo quanto sono vigliacchi), poco dopo abbiamo sentito delle urla che ci hanno fatto venire i brividi. Ad oggi non sappiamo ancora cosa è successo. E quando sono venuti a prendere le sue cose in cella e abbiamo chiesto notizie in merito, la guardia ci ha risposto: “Fate gli avvocati?”. Sto scrivendo questa lettera, perché dicono che lo so fare meglio di altri. Scrivo a nome di circa 650 detenuti. Purtroppo non possiamo comunicare tra un padiglione e l’altro, ma lo stato di disagio qui è altissimo e tutti si sono accorti, o meglio si stanno accorgendo, che anche se si è educati e rispettosi, se si osservano le regole, tutti stanno alla mercé delle guardie e dei loro stati d’animo! Un esempio: un detenuto di 69 anni chiede: “Ispettore permette una domanda?”, E l’ispettore risponde: “No, io non permetto e ora vado”. Può sembrare assurdo, ma credeteci è così: è uno scandalo, è uno schifo, è una vergogna! Sì, è vero, non sono tutti uguali, ma a esagerare è il 20% che si salva. Basterebbe diritti e doveri e qui il 90% dei problemi sparirebbero. Ma non va così. C’è un clima di terrore in tutto quello che si fa, se per esempio sbagliano la spesa, devi avere timore di chiamare un appuntato, perché se lo fai alzare dalla sedia per una cavolata come questa, facile che si metta a strillare non puoi fare niente tranne soffocare la tua rabbia e mangiare l’ennesimo sospiro. Sicuramente anche gli agenti lavorano con molta difficoltà, ma noi che stiamo già chiusi 22 ore su 24, oltre a questo, dobbiamo essere trattati come vermi, è veramente troppo! La stessa Costituzione dice che il trattamento delle persone internate o comunque sottoposte a restrizioni di libertà non può essere contrario al senso di umanità! Ma quale umanità, venite a vedere con i vostri occhi e chiedete a coloro che sono stati detenuti qui a Poggioreale! Chi sta qui e subisce un tale trattamento, quando esce (se prima non si uccide) è un animale, una belva, un cane rabbioso, ed è normale, per ciò che ha subito. Come si può avere fiducia nello Stato se qui è proprio lo Stato a fare cose inverosimili? Noi non possiamo fare altro che stare in silenzio, ma per quanto ancora? Dobbiamo autolesionarci? O magari dobbiamo morire come mosche prima che qualcuno si accorga che il problema più grande non è il sovraffollamento, ma i soprusi che subiamo ogni giorno, e che sicuramente molti subiscono in tante carceri d’Italia? E giusto che chi ha sbagliato debba pagare, ma comunque ha dei diritti. Per favore fate sì che chi è rinchiuso qui possa cambiare e ritrovare fiducia nello Stato, nelle persone. Fate sì che queste persone non abusino del loro potere e della loro autorità. Ci scusiamo per non avere messo i nostri nomi, perché questo significherebbe dover subire chissà quale tortura o quale dispetto da questi tutori dello Stato! Prima di lasciarvi vi informo di un altro grave episodio che si è verificato tempo fa. Un ragazzo giovane, molto giovane ha chiesto di essere portato in infermeria e per quasi due ore ha pregato il capoposto. Per favore, per cortesia e alla fine è salito l’ispettore che ha iniziato a fare il pazzo dicendo “lei non deve chiamare, quando è possibile la chiamiamo noi!”. Dopo dieci minuti il ragazzo si era tagliato le vene! Poco dopo veniva portato in infermeria... Questa è giustizia? Questa è democrazia? Costretti a straziare i nostri corpi per farci ascoltare o magari per non subire aggressioni. I detenuti di Poggioreale, Padiglioni Salerno, Avellino, Napoli, Milano, Livorno Lettere: a Mantova spesi 6 miliari di lire per un carcere che non è mai stato aperto di Umberto Persegati La Gazzetta di Mantova, 10 luglio 2010 Gianni Lui fa cenno ai tempi biblici per la costruzione delle carceri in Italia, e, nello specifico, di quelle di Revere. A quanto è dato di sapere, a mezzo della stampa, la costruzione dell’edificio reverese è stata ultimata anni or sono. L’edificio non è mai stato utilizzato, ed è in completo abbandono. Per ostacolare il saccheggio degli infissi (già arrivato a buon punto) è stato costruito un fossato. Tutti i tentativi (compreso quello a mezzo televisivo, in connessione con la denuncia del sovraffollamento carcerario) per saperne di più, non hanno prodotto visibili risultati. Dicono che la costruzione è già costata 6 miliardi delle vecchie lire: superfluo calcolare la somma per riparare i danni provocati dal saccheggio e dall’incuria. A parte che nessuno risponderà dello spreco di pubblico denaro, mi domando perché nessuna autorità, a livello locale o statale, senta il dovere di informare compiutamente i cittadini dei motivi che hanno portato a lasciare andare in malora lo stabile, e se esista almeno l’intenzione, da parte di qualcuna di loro, per una sua utilizzazione, se non per lo scopo iniziale, per altri scopi. Toscana: 73 detenuti su 100 con problemi di salute; i sieropositivi sono l’1,4% La Repubblica, 10 luglio 2010 È una popolazione “scassata” e piena di malattie quella che abita le carceri toscane. 73 detenuti su 100 hanno problemi di salute. All’interno delle celle la percentuale dei sieropositivi è dell’1,4, cioè mille volte superiore a quella del mondo libero. Il tasso dei suicidi o dei tentativi di autolesionismo è fra il 4 e il 10 per cento, fuori di uno su 10mila. Bastano questi numeri per misurare rischi, fragilità e infelicità di un luogo. Basta aggiungere che a Sollicciano in questi giorni è stata superata di nuovo la quota di mille detenuti e che le donne sono oltre 115: “Un sovraffollamento insopportabile” denuncia il Garante per i diritti dei detenuti Franco Corleone. L’Ars Toscana, l’agenzia regionale di sanità ha presentato il rapporto di salute dei detenuti toscani: 3.000 casi esaminati (su un totale di 4.169), un anno di lavoro e adesso la prima analisi che emerge dai dati in fase di elaborazione. È la prima volta che in Italia si realizza uno studio epidemiologico di questo genere. Secondo questa ricerca inoltre il 44% dei detenuti ha ammesso di fare uso di droghe (43% cocaina, il 41% eroina). È quanto emerge da “Lo stato di salute dei detenuti toscani”, durato circa un anno e realizzato da Ars Toscana, agenzia regionale di sanità. Il “campione” è stato esaminato dai medici nei 19 istituti della Toscana per un anno a partire dal 15 giugno 2009: è composto nel 95,5% dei casi da uomini e ha un’età media di 37,8 anni. Il 52,8% proviene dall’Italia, il 20,7% dall’Africa del nord, il 18,2% dall’Europa dell’est. Dalla ricerca risulta che le maggiori malattie presenti sono i disturbi di natura psichica (33,2%) e che la principale patologia psichica (12,7%) è il disturbo mentale da dipendenza da sostanze. Tra le malattie infettive il primo posto è occupato dall’epatite da virus C (9,1%), ma preoccupano i casi i relativi all’infezione da Hiv (1,4%): “Siamo davanti a una situazione grave - spiega Fabio Voeller del settore Epidemiologia dell’Ars - per esempio, ci preoccupa l’alta percentuale di epatite C, o il fatto che ci siano procedure che si inceppano perché mancano agenti, per portare un detenuto a fare degli esami in ospedale”. Un dato in controtendenza rispetto alla media della popolazione “libera” è il consumo di alcol: 36% i bevitori tra i detenuti, il 72% “fuori”, mentre per il fumo è l’esatto contrario: tabagista il 70% dei detenuti contro il 23,2% di quelli fuori. Immigrazione: Consulta; sì al reato di clandestinità, no all’aggravante, pubblicate le sentenze di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2010 Sì al reato di clandestinità, ma non all’aggravante. La corte costituzionale, con due distinte pronunce ha affrontato due delle norme penali più contestate introdotte dai pacchetti sicurezza del governo Berlusconi. Con risultati opposti (si veda anche “Il Sole 24 Ore” dell’11 giugno). Quanto al reato, introdotto nel Testo unico sull’immigrazione, dalla legge n. 94 del 2009, la sentenza n. 250, scritta da Giuseppe Frigo, osserva che la misure dell’ammenda da 5.000 a 10.000 euro a carico dello straniero che fa ingresso o si trattiene illegalmente in Italia è legittima. Il bene giuridico protetto è infatti, nella lettura della Corte, l’interesse dello stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori: “interesse la cui assunzione ad oggetto di tutela penale non può considerarsi irrazionale ed arbitraria”. Per la sentenza è “incontestabile” che il potere di disciplinare l’immigrazione rappresenta un profilo essenziale della sovranità dello stato come espressione del controllo del territorio. Il controllo giuridico dell’immigrazione ha poi, come logica conseguenza, la configurazione come illecito della violazione di quelle regole attraverso le quali si esprime il controllo stesso. Per questo vanno respinte le questioni di legittimità sollevate dai giudici di pace di Lecco e Torino che sottolineavano tra l’altro come si sarebbe di fronte a un illecito di “mera disobbedienza”, che non danneggerebbe alcun bene giuridico. Come pure vanno respinte le perplessità concentrate sulla presunzione di pericolosità sociale: si tratta invece, precisa la sentenza, di reprimere Una condotta specifica in una maniera, tra l’altro, che trova riscontri nelle legislazioni di altri paesi europei come Francia, Germania e Inghilterra. Conclusioni diverse invece per l’aggravante. Per la sentenza n. 249, scritta da Gaetano Silvestri, si tratta di una misura discriminatoria la cui rilevanza non viene meno per effetto dell’introduzione, avvenuta successivamente del reato di clandestinità. Si tratta invece di una situazione in cui si possono anzi verificare “possibili duplicazioni o moltiplicazioni sanzionatone, tutte originate dalla qualità acquisita con un’unica violazione delle leggi sull’immigrazione ormai oggetto di autonoma penalizzazione e tuttavia priva di qualsivoglia collegamento con i precetti penali in ipotesi violati dal soggetto interessato”. Lo straniero extracomunitario, cioè, viene punito una prima volta al momento del suo ingresso o soggiorno illegale e poi subisce una o più punizioni ulteriori determinate dalla persistenza della sua condizione di irregolare in relazione a violazioni, in numero indefinito, che pregiudicano valori che nulla hanno a che fare con la problematica del controllo dei flussi migratori. Una irragionevolezza per cui da una contravvenzione punita con sola pena pecuniaria possono discendere pene anche detentive protratte nel tempo. Immigrazione: assolti dal tribunale, espulsi perché il permesso di soggiorno è scaduto in carcere di Carlo Lania Il Manifesto, 10 luglio 2010 Assolti dall’accusa di essere dei terroristi internazionali, invece di essere scarcerati sono stati trasportati in un Centro di identificazione per essere espulsi verso la Tunisia dove rischiano di essere di nuovo imprigionati e torturati. Per dieci detenuti islamici, in gran parte tunisini, la gioia di essere stati prosciolti dalle pesanti accuse mosse contro di loro dalla procura di Milano è durata poco. Giusto il tempo di tornare nel carcere di Asti dove erano detenuti e capire che, anziché essere rimessi in libertà, sarebbero stati portati in questura per un provvedimento di espulsione. La motivazione: il loro permesso di soggiorno è scaduto, cosa più che naturale dopo 2 anni e 8 mesi trascorsi in prigione e dopo che il rinnovo gli era stato negato perché accusati di far parte di un presunto gruppo di terroristi internazionali. “Sono rimasti senza parole, non si aspettavano certo di passare da un carcere all’altro”, spiega il loro difensore, l’avvocato Vaimer Burani. Quattro di loro sono stati portati nel Cie di Torino, uno in quello di Bologna, mentre i rimanenti cinque sono stati divisi in altri centri del Paese. “Alcuni di loro vorrebbero anche lasciare l’Italia ma non possono farlo proprio a causa del provvedimento di espulsione - dice Burani che ieri ha visitato i quattro tunisini rinchiusi nei Cie di Torino -. Il rischio è che una volta trasportati in Tunisia vengono sottoposti a torture, magari perché considerati oppositori del regime tunisino. E questo avviene nonostante una sentenza della corte di Cassazione che, recentemente, ha vietato le espulsioni verso la Tunisia proprio per le torture a cui vengono sistematicamente sottoposti i prigionieri”. Il processo a cui i dieci immigrati erano sottoposti si è concluso giovedì a Milano con la condanna di 15 dei 25 imputati a pene variabili tra i sei mesi e gli otto anni e sei mesi. Il gruppo, formato da tunisini, algerini e marocchini, era accusato di aver dato vita a un’organizzazione il cui compito era quello di reclutare persone disposte a essere impiegate come martiri o attentatori in Iraq e Afghanistan. L’organizzazione aveva la sua base a Milano e l’opera di proselitismo sarebbe avvenuta anche in alcune moschee della città. Secondo il pm Nicola Piacente e il sostituto procuratore Armando Spataro, titolari delle indagini, il gruppo faceva entrare extracomunitari in Italia in cambio di denaro utilizzato per finanziare progetti terroristici “in un quadro di jihad globale”. Imputazioni che sono cadute per dieci dei venticinque imputati che però, anziché essere scarcerati, sono stati rinchiusi nei centri di identificazione e espulsione. Con di fronte la prospettiva di essere rispediti in patria. Il 28 aprile una sentenza della Cassazione (la n. 20514) ha ribadito la necessità di non mettere in atto espulsioni verso la Tunisia “un paese - hanno scritto i giudici - che secondo quanto ritenuto dalla Corte di Strasburgo, non offre garanzia di rispetto dei diritti umani fondamentali”. Libia: sul caso dei detenuti eritrei il ministro Frattini ha mostrato indifferenza e disumanità di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2010 La sera di mercoledì 7 luglio il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini è stato intervistato per il Tg3 (ore 19) da Elisabetta Margonari. Tema: 245 eritrei imprigionati e torturati dai libici. E una breve e terribile conversazione, in cui il capo della diplomazia di questa Repubblica ci fa sapere il grado di indifferente e irritata disumanità in cui è stata spinta l’Italia. Troverete il testo qui accanto. In queste righe riporto e commento i punti più impressionanti. La giornalista chiede se è possibile che gli eritrei dello spaventoso campo di Braq, che rischiano di morire stipati in celle sotterranee nel deserto, possano davvero essere liberati e lavorare, in Libia come annunciato dalla Farnesina. Frattini: “Siamo convinti che la rapidità con cui siamo arrivati a questo accordo dimostri la nostra buona fede, sicuramente quella dei libici”. Frattini sembra non ricordare che, con pompa e colore (e Berlusconi che bacia le mani a Gheddafi e le Frecce tricolori che saettano in onore di Gheddafi nel cielo di Tripoli) è stato firmato un trattato con la Libia, ratificato da tutto il Parlaménto italiano, tranne una tenace opposizione dei deputati radicali, a cui - assieme a pochi altri - mi sono unito. Quel trattato stabilisce che la Libia, in cambio del versamento da parte dell’Italia di 20 (venti) miliardi di dollari, provveda a bloccare qualunque tentativo di migrazione, dal deserto o dal mare, verso l’Italia. Infatti, dopo che le grida di aiuto e la denuncia di orrori dal campo di Braq avevano raggiunto l’Europa, né la Libia, né l’Italia hanno mosso un dito. Due lettere del commissario europeo per i diritti umani Hammarberg sono rimaste senza risposta. Ma Tg3 per primo, l’Unità e altri giornali (tra cui Il Fatto) hanno forzato il blocco del silenzio. Poi sarebbe stato raggiunto l’accordo, di cui non si vede e non si può verificare nulla. Una lettera del deputato radicale Mecacci, con dure e precise domande, è rimasta senza risposta. Ma ecco la voce, il pensiero, il senso di Frattini per gli esseri umani. Giornalista: “Queste persone che denunciano torture sono state respinte mentre cercavano di raggiungere l’Italia. Non ci riguarda?”. Frattini: “Bisogna vedere se dicono la verità (...). E poi è molto curioso che persone che si dicono torturate avessero telefoni satellitari con cui parlare con mezzo mondo”. Notare la sprezzante espressione, “parlare con mezzo mondo”, come di petulanti vicini di ombrellone che disturbano con i loro telefonini . Notare l’avvertimento del ministro degli Esteri italiano ai carcerieri libici: “Attenti a perquisire bene i prigionieri. Non lasciate in giro telefonini”. Di sangue, torture e morte il ministro italiano, che ha coinvolto l’Italia in quell’impresa criminale, non vuol sentire parlare. “Chi lo dimostra? Qui niente è provato”. Neanche Via Tasso era provata. E chi ci proverà che gli eritrei, prigionieri di Italia e Libia, sopravvivranno? Corea: 8 anni di lavori forzati per ingresso illegale nel paese, detenuto americano tenta suicidio Ansa, 10 luglio 2010 Ha tentato il suicidio ed è stato ricoverato in ospedale in Corea del Nord Aijalon Mahli Gomes, il trentenne americano condannato a 8 anni di lavori forzati dopo essere stato arrestato il 25 gennaio scorso con l’accusa di ingresso illegale nel paese. Lo riferisce l’agenzia di Pyongyang Kcna, parlando di “delusione e disperazione” del detenuto per il mancato sostegno da parte del suo governo che “non ha intrapreso alcun passo per la sua liberazione”. Frattanto, il governo americano ha chiesto che Gomes venga liberato per ragioni “umanitarie”. Un portavoce del Dipartimento di stato non ha però voluto commentare la notizia del suicidio. Non è chiaro quando sia avvenuto il tentativo di suicidio, ma Gomes è stato visitato in ospedale da funzionari dell’ambasciata svedese a Pyongyang che rappresenta gli interessi Usa, in assenza di relazioni diplomatiche tra i due paesi. Due settimane fa la Corea del Nord aveva minacciato l’applicazione delle leggi di guerra nella vicenda dell’americano di Boston denunciando “l’approccio ostile” di Washington nel caso della corvetta sudcoreana. La Cheonan è affondata nel mar Giallo con 46 morti il 26 marzo scorso a causa di un siluro di Pyongyang, come stabilito da una inchiesta internazionale. Medio Oriente: la spada di Damocle delle “detenzioni amministrative” Infopal, 10 luglio 2010 Ràfat Hamduna, direttore del Centro Studi sui prigionieri, torna a parlare delle misure amministrative adottate da Israele per estendere le detenzioni dei detenuti palestinesi strumentalizzando l’espediente del “combattente illegale”. “Si tratta di una violazione della legge internazionale e delle convenzioni sui diritti umani”, afferma Hamduna, che prosegue nella sua spiegazione: “L’estensione va dai quattro ai sei mesi per volta, e le ragioni alla base di queste decisioni restano in dossier segreti. Ne consegue l’assenza di accusa, l’intervento di giudici tutt’altro che imparziali e il divieto al coinvolgimento - di diritto - di una difesa per i detenuti palestinesi”. I detenuti amministrativi palestinesi sono circa 220, con sette di loro (tutti provenienti dalla Striscia di Gaza) sottoposti all’illegale “legge sui combattenti illegali”. Questi sono trasferiti di continuo tra le prigioni israeliane di Ofer, Negev e Megiddo. Si ricorda che dopo l’evacuazione dalla Striscia di Gaza, Israele non dispone più di un “governatore militare” responsabile per Gaza: questa sarebbe la debole motivazione per cui lo Stato ebraico ha varato la legge sui “combattenti illegali” per i palestinesi di Gaza. Le estensioni della detenzione amministrativa per questi detenuti si ripetono da anni, e grazie alla “legalizzazione delle proprie pratiche”, Israele è in grado di prorogarle ad oltranza. A conclusione delle sue delucidazioni, Hamduna ha richiamato tutti gli esperti in materia legale ad intervenire per fare luce sull’illegalità delle detenzioni amministrative applicate da Israele, con un occhio di riguardo per le violazioni rappresentate dall’applicazione della legge sui “combattenti illegali”.