Giustizia: le Camere Penali di tutta Italia presentano esposti-denunce contro il sovraffollamento www.camerepenali.it, 21 giugno 2010 Con una iniziativa dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi, le Camere Penali hanno presentato in tutta Italia esposti-denunce sulle drammatiche condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane a causa del sovraffollamento. Fino a questo momento hanno presentato l’esposto-denuncia le seguenti Camere Penali: Ancona; Ascoli Piceno; Bari; Bologna; Catania; Catanzaro; Firenze; Gorizia - visualizza la denuncia; Imperia; Lombardia Orientale, Sezione di Brescia; Milano - relativamente al carcere di San Vittore; Modena; Napoli; Novara; Padova; Parma; Piacenza; Piemonte Occidentale e Valle d’Aosta - relativamente alle case circondariali di Torino, Biella, Cuneo, Fossano, Saluzzo, Ivrea, Asti, Aosta e Alba; Pisa; Pistoia; Prato; Reggio Emilia; Roma - relativamente alle carceri di Rebibbia nuovo complesso, Rebibbia femminile e Regina Coeli; Sulmona; Torino; Velletri; Vercelli. Il comunicato dell’Unione Camere Penali Quali sono le condizioni di salute dei quasi 70 mila detenuti italiani? Gli spazi previsti per legge sono garantiti? Hanno acqua per lavarsi, luce a sufficienza, coperte, spazi per incontrare i parenti, occasioni per lavorare? Quanto dura veramente l’ora d’aria? È per ottenere risposte a queste domande che oggi in tutta Italia le Camere Penali territoriali depositano alle locali Procure della Repubblica e alla Magistratura di Sorveglianza una denuncia-esposto a tutela dei diritti dei detenuti, compromessi dalle conseguenze del dramma del sovraffollamento. “Circa 68 mila detenuti - ricorda il Responsabile dell’Osservatorio Carcere Ucpi Roberto D’Errico - vivono in condizioni di estremo disagio nelle carceri italiane, a fronte di una capienza tollerabile di 44 mila. Un tale affollamento mette in discussione la tutela della salute, il diritto alla vita di relazione, la possibilità di partecipare a programmi rieducativi. Il contesto di promiscuità in cui vivono i detenuti compromette l’equilibrio psico-fisico, la dignità di ciascuno in violazione dei principi costituzionali e delle norme dell’ordinamento penitenziario della legislazione speciale in materia di salute. Il crescente numero di morti e di suicidi in carcere, tra i più significativi in Europa, fotografa i segnali del crescente disagio nei penitenziari della Repubblica”. Con la denuncia-esposto rivolta alle competenti autorità, l’Ucpi intende richiamare l’attenzione dei soggetti istituzionali responsabili della tutela dei diritti dei detenuti affinché pongano in essere tutte le iniziative idonee a garantire il rispetto del dettato normativo. L’Ucpi pertanto si impegna a proseguire la battaglia contro il sovraffollamento, sollecitando iniziative politiche e istituzionali capaci di formulare proposte concrete sul tema. Bologna: alla Dozza 1.150 detenuti, la capienza è di 600 Stanchi di lanciare appelli che restano senza risposta, per protestare contro il sovraffollamento alla Dozza, gli avvocati chiedono aiuto ai magistrati. Il direttivo della Camera Penale ha presentato ieri un esposto in Procura perché siano verificate le condizioni di vita nel carcere, che nonostante la capienza di 600 detenuti ne ospita circa 1150. I penalisti hanno aderito così all’iniziativa nazionale lanciata dall’Unione delle Camere Penali italiane. Nell’esposto-denuncia si chiede di accertare se sono state commesse violazioni dei diritti dei detenuti e del divieto di tortura. E se tutti i soggetti tenuti per legge a vigilare sulle condizioni del carcere - a partire dall’Ausl - abbiano fatto il proprio dovere. “L’indagine è assolutamente necessaria - scrivono - per verificare se siano stati commessi reati, in quanto potrebbero ricorrere omissioni, false attestazioni e violazioni di norme di legge”. Tutti questi elementi “vanno verificati urgentemente”, perché la situazione di “degrado” che si è creata alla Dozza “mina la salute e l’equilibrio psico-fisico dei detenuti costretti a condividere spazi angusti in un contesto di promiscuità che priva ciascuno della propria dignità”. Nell’esposto, poi, i penalisti chiedono ai pm di “verificare se l’Ausl di competenza visiti il carcere per accertare la condizione igienicosanitaria, l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive e le condizioni igienico-sanitarie dei detenuti”. Ma i guai del carcere non finiscono qui. Anche la crisi economica crea difficoltà: “Il profumo delle parole”, la tipografia della Dozza, è a rischio chiusura. A lanciare l’allarme è l’avvocato Desi Bruno, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Nella tipografia, attiva dal 2004, lavoravano infatti 3 detenuti, diventati poi 2 nel corso degli anni. Oggi invece, avverte Bruno, “viene segnalato l’impiego di una sola risorsa. La situazione è senz’altro data dall’evidente situazione di crisi”. Per questo, conclude l’avvocato, “il Garante chiede agli enti locali territoriali di utilizzare la tipografia all’interno del carcere destinando ad essa tutte le commesse tipiche di una pubblica amministrazione”. Padova: esposto della Camera penale sul carcere Il presidente della Camera penale di Padova Ammamaria Alborghetti, a nome del consiglio direttivo, ha inviato un esposto alla procura e un altro alla magistratura di sorveglianza per segnalare la “drammatica e notoria emergenza che vive in questo periodo il sistema penitenziario a causa del sovraffollamento”. All’interno di questa allarmante situazione carceraria, la Casa circondariale e la Casa penale padovane appaiono in una posizione delicata. “La Casa circondariale di Padova, con capienza regolamentare di 98 detenuti, ne ospita invece 254. Tali dati comportano condizioni igienico sanitarie che minano e compromettono la salute e l’equilibrio psicofisico dei detenuti, costretti a condividere spazi angusti in un contesto di promiscuità destinato a privare ciascuno della propria dignità, in violazione dei principi costituzionali (art 3-27-32)”. La stessa Casa di reclusione, un tempo isola felice, ospita attualmente 800 detenuti, il doppio della capienza regolamentare prevista. Nei primi cinque mesi di quest’anno, nella Casa penale di Padova si sono registrati due suicidi, mentre alla Circondariale si è registrato un caso dubbio. Nell’esposto si chiede di “verificare l’adeguatezza delle strutture sanitarie interne al carcere, la salute psicofisica dei singoli detenuti, il rispetto degli spazi previsti per legge, lo stato in cui si trovano le stanze, la possibilità di cucinare e mangiare, la qualità del cibo, i servizi igienici, l’ingresso di luce naturale e artificiale, l’aerazione diurna e notturna, il riscaldamento in rapporto anche alle presenze in ciascuna cella, lo stato di letti e materassi, le condizioni degli ambienti doccia con verifica del numero degli impianti rispetto al numero dei detenuti presenti”. Prima scarseggiavano solo i letti, adesso sono introvabili perfino i materassi da mettere per terra. “Condizioni di vita spaventose, progetti educativi impossibili”, avverte il presidente della Camera penale padovana. Pisa: il carcere a quota 403 presenze, esposto in procura Il carcere Don Bosco scoppia: ha 403 detenuti e quindi le condizioni di detenzione sono disumane. L’allarme parte dal presidente della camera penale pisana, l’avvocato Ezio Menzione, che ieri, come hanno fato quasi tutte le camere penali italiane, ha depositato una denuncia in procura. “Basti pensare - commenta Menzione - che questo vecchio carcere, che prevede 189 detenuti e ne tollera al massimo 290, attualmente ne vede ristretti 403. Tale situazione determina condizioni di detenzione ai limiti dell’inumano e indegne di un paese civile. È così in tutta Italia, ed infatti l’iniziativa pisana non è isolata: nello stesso giorno in tutta Italia le camere penali hanno depositato analoghe denunce. Delle responsabilità debbono essere ravvisate e si chiede che la Procura indaghi e approfondisca. Tali responsabilità non possono essere della direzione locale, che si adopra con competenza e sacrificio per gestire una situazione obbiettivamente ingestibile. Esse stanno più su, in chi fa scelte legislative che affollano le carceri e non fa nulla perché le condizioni dei detenuti siano almeno civili. La Procura - conclude Menzione - saprà certamente e riconoscere se vi sono responsabilità, ovunque risiedano”. Giustizia: Osapp; dopo la mancata realizzazione delle iniziative e dei "piani straordinari" ormai scarsa fiducia in Alfano Il Velino, 21 giugno 2010 "Genova, Ravenna, Palermo, Napoli, Trani, sono oramai troppe le segnalazioni di eventi di particolare criticità e rischio nelle carceri italiane". Ad affermarlo, dopo la notizia dell'ennesima aggressione di poliziotti penitenziari nel carcere dell'Ucciardone a Palermo, è il segretario generale dell'Osapp Leo Beneduci che aggiunge: "Oltre ai disordini, alle aggressioni, alle evasioni sventate o riuscite, le carceri italiane continuano ad accumulare record drammatici, per il sovraffollamento (+50% di detenuti oltre il consentito), per i suicidi (9 volte la media nazionale) e nel rapporto agenti/detenuti nelle sezioni detentive (un agente ogni 55 detenuti nei turni ordinari, un agente ogni 140 detenuti nei turni notturni e festivi). Che fossimo nella fase di non ritorno lo avevamo già dichiarato ed altrettanto, per le carceri, avevamo indicato il pericolo del lassismo istituzionale, dopo la mancata realizzazione delle iniziative e dei piani straordinari a lungo promessi dal Ministro Alfano e del Capo del Dap Ionta e persino oggetto di trionfali annunci da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi, ma l'emergenza ed i rischi legati alla condizione delle carceri nel nostro Paese, non può più essere un problema di cui si debbano preoccupare esclusivamente i poliziotti penitenziari. Proprio perchè inizia a scarseggiare la fiducia nei confronti di un Ministro che alle promesse sulle carceri non mantenute, sembra avere sostituito un indecoroso silenzio e in ragione del fatto che, visti lo stato di prostrazione e il degrado del personale, delle strutture e dell'utenzà, non comprendiamo l'utilità dei poteri di Commissario straordinario conferitigli e come possa tuttora risultare estraneo al fallimento dell'Amministrazione l'attuale capo del Dap - indica ancora il sindacalista - le risposte abbiamo iniziato a chiederle indirizzando periodiche missive e segnalazioni sui disagi e sui molteplici disservizi penitenziari ai Presidenti di ciascun Gruppo Parlamentare della Camera dei Deputati e del Senato". Conclude Beneduci: "Anche se i riscontri che abbiamo ottenuto sono ancora pochi, siamo certi che non mancheranno, ancora per molto, sensibilità ed interventi concreti nei confronti della polizia penitenziaria da parte di politici quali: Gasparri, Finocchiaro, Cicchitto, Franceschini, Bricolo e Casini, per citare solo alcuni dei destinatari delle missive dell'Osapp e, soprattutto, che finalmente si comprenda la strettissima correlazione tra la funzionalità del carcere e la sicurezza dei cittadini, per l'assunzione delle misure indifferibili che l'attuale condizione penitenziaria richiede". Giustizia: Sappe; dopo maxi rissa nel carcere di Ravenna accelerare rimpatrio dei detenuti stranieri Adnkronos, 21 giugno 2010 “La pericolosa maxi-rissa che si svolta tra detenuti tutti stranieri - magrebini e romeni - nel carcere di Ravenna, ultimo episodio di criticità penitenziaria in ordine di tempo che vede coinvolti ristretti non italiani, deve fare seriamente riflettere”. Lo rileva Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di Polizia penitenziaria Sappe, chiedendo l’espulsione dei detenuti stranieri. “Si recuperi il tempo perso su questa significativa specificità penitenziaria e di avviino rapidamente le trattative con i Paesi esteri da cui provengono i detenuti - a partire da Romania, Tunisia, Marocco, Algeria, Albania, Nigeria - affinché scontino la pena nei Paesi d’origine”, è l’auspicio di Capece. Numeri “incontrovertibili”, dice. “Oggi abbiamo in Italia 67.601 detenuti: ben 24mila 860 (il 37% del totale) sono stranieri: 4.544 sono i comunitari detenuti (4.144 gli uomini e 400 donne) mentre quelli extracomunitari sono ben 20.316 (19.473 uomini e 843 donne)”, sottolinea. “ In alcuni istituti la percentuale di presenza di detenuti stranieri è davvero altissima: nella casa circondariale di Padova sono il 75%, a Mamone Lodè, in Sardegna, sono l’82% e n buona parte dei penitenziari del Nord hanno una presenza varia che oscilla tra il 60 ed il 70%. Questo accentua - per le difficoltà di comunicazione e per una serie di atteggiamenti troppo spesso aggressivi - le criticità con cui quotidianamente devono confrontarsi le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria”. “La maxi-rissa di Ravenna - annota ancora il Sappe - ne è un chiaro esempio. Ma si pensi anche, ad esempio, agli atti di autolesionismo in carcere, che hanno spesso la forma di gesti plateali, distinguibili dai tentativi di suicidio in quanto le modalità di esecuzione permettono ragionevolmente di escludere la reale determinazione di porre fine alla propria vita. Le motivazioni messe in evidenza sono varie: esasperazione, disagio (che si acuisce in condizioni di sovraffollamento), impatto con la natura dura e spesso violenta del carcere, insofferenza per le lentezze burocratiche, convinzione che i propri diritti non siano rispettati, voglia di uscire anche per pochi giorni, anche solo per ricevere delle cure mediche. Ecco, queste situazioni di disagio si accentuano per gli immigrati che per diversi problemi legati alla lingua e all’adattamento pongono in essere gesti dimostrativi”. Il Sappe chiede dunque al governo Berlusconi di “recuperare il tempo perso su questa significativa criticità penitenziaria e di avviare rapidamente le trattative con i Paesi esteri da cui provengono i detenuti - a partire da Romania, Tunisia, Marocco, Algeria, Albania, Nigeria - affinché scontino la pena nei Paesi d’origine. Per il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria “ è fondamentale trovare accordi affinché gli stranieri scontino la pena nei Paesi d’origine. Questo, oltre a mettere un freno ad una grave emergenza, potrebbe rivelarsi un buon affare anche per le casse dello Stato, con risparmi di centinaia di milioni di euro, nonché per la sicurezza dei cittadini. Un detenuto - ricorda Capece - costa infatti in media circa 300 euro al giorno allo Stato italiano”. Favi (Pd): dal carcere di Ravenna ulteriore prova del disagio dei detenuti Dichiarazione di Sandro Favi responsabile carceri del Pd. “Il grave episodio di violenza, tra detenuti, accaduto nel carcere di Ravenna obbliga il governo ad intervenire immediatamente per allentare la tensione negli istituti a causa del sovraffollamento. La possibilità di vedere approvato al più presto il disegno di legge Alfano sulla detenzione domiciliare, certamente non risolutivo del problema carcere ma sicuramente importante per l’emergenza in atto, sta tristemente naufragando, a causa dell’incapacità del governo che non riesce a reperire le risorse necessarie, per l’assunzione del personale penitenziario”. Giustizia: il carcere Ucciardone di Palermo come una polveriera, rissa tra detenuti e agenti feriti Ansa, 21 giugno 2010 Quattro agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti venerdì notte nel carcere palermitano dell’Ucciardone, dopo essere intervenuti per sedare una rissa tra i detenuti. Lo rende noto un comunicato della Uil pubblica amministrazione, sottolineando che “solo grazie alla grande professionalità del personale non si è rischiata una sommossa, con ripercussioni per l’ordine e la sicurezza pubblica”. I quattro agenti feriti sono dovuti ricorrere alle cure dei medici dell’ospedale, con sette giorni di prognosi. “Quando è avvenuta la rissa - spiega Gioacchino Veneziano, coordinatore regionale della Uil Pa penitenziari della Sicilia - nella sezione erano rinchiusi oltre 300 detenuti e c’erano solo 2 agenti della polizia penitenziaria in servizio, grazie alla pesantissima carenza di personale di polizia mai sanata dai vertici dell’amministrazione penitenziaria”. La situazione all’Ucciardone è drammatica - sottolinea l’esponente della Uil - con oltre 710 detenuti, il personale presente al lordo risulta essere pari a 200 unità, questo significa che al netto dei riposi e congedi, giornalmente vi sono appena 140 unità divisi nelle 24 ore di servizio con una media di 40 unità per turno”. Veneziano definisce infine “paradossale il fatto che il senatore Salvo Fleres (garante in Sicilia dei diritti dei detenuti, ndr) del partito che ha in mano il ministero della giustizia, si indigni per la situazione dell’Ucciardone” dopo che i detenuti hanno annunciato l’intenzione di tassarsi per migliorare le condizioni della struttura, “visti i pesanti tagli di bilancio operati nei confronti dei capitoli pertinenti”. Sappe: basta aggressioni contro agenti “Non posso che giudicare con estrema preoccupazione l’ennesima grave aggressione a quattro poliziotti penitenziari, avvenuta venerdì sera nel carcere di Palermo Ucciardone. I quattro colleghi, ai quali esprimiamo tutta la nostra vicinanza e solidarietà, sono stati improvvisamente e violentemente aggrediti da un gruppo di 11 detenuti, che prima si erano resi responsabili di una rissa tra loro e poi si erano rifiutati di essere sottoposti a visita in infermeria”. La denuncia è del segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece. L’episodio per Capece è “gravissimo ed inaccettabile, tanto più che si tratta dell’ennesimo grave episodio di tensione a danno di appartenenti alla polizia penitenziaria in un carcere italiano. Basta, basta, basta! Bisogna contrastare con fermezza questa ingiustificata violenza in danno dei rappresentati dello Stato in carcere e punire con pene esemplari chi li commette”. Per Capece “servono provvedimenti veramente punitivi per i detenuti che in carcere aggrediscono gli agenti o provocano risse: mi riferiscono alla necessità di introdurre un efficace isolamento giudiziario ed una esclusione dalle attività in comune che punisca i comportamenti violenti. E sarebbe anche l’ora che in Italia, in analogia a quanto avviene ad esempio in America - aggiunge - i detenuti indossassero in carcere tutti una divisa e si potesse eventualmente contenerli anche nelle sezioni detentive con manette e catene. In una situazione di emergenza, come è quella attuale, servono provvedimenti straordinari”. Capece rileva poi che “Palermo Ucciardone patisce una gravissima situazione deficitaria per quanto riguarda gli organici del personale di polizia penitenziaria: mancano infatti, ben 165 poliziotti - spiega - I detenuti, invece, aumentano ogni giorno di più. Nel carcere palermitano, in cui 415 sono i posti letto regolamentari, le presenze sono ben oltre le 708 unità e, di questo passo, si raggiungerà a breve il numero di ottocento detenuti”. “Nonostante ciò i nostri agenti lavorano ogni giorno, nel silenzio e tra mille difficoltà ma con professionalità, umanità, competenza e passione nel dramma delle sezioni detentive dell’Ucciardone, ma anche in quelle dell’altro carcere cittadino, il Pagliarelli, sventando - conclude Capece - anche tentativi di suicidio e atti di autolesionismo dei detenuti. Ma servono con urgenza nuovi agenti. Servono fatti concreti, altrimenti il sistema implode!”. Sappe: nuova aggressione a 2 agenti, intervenire per impedire implosione “Abbiamo saputo da pochi minuti di un nuova aggressione ad agenti di Polizia penitenziaria nel carcere di Palermo Ucciardone. A pochi giorni dalla violenta colluttazione in cui sono rimasti feriti 4 agenti, pochi istanti fa un collega dell’Ufficio Matricola, nel notificare un atto a un ristretto, è stato da questi proditoriamente aggredito; colpito anche l’Agenti di servizio nel piano. Entrambi i Baschi Azzurri, cui va la nostra piena solidarietà, sono dovuti ricorrere alle cure dei sanitari del nosocomio palermitano. Questa ennesima aggressione ci preoccupa. La carenza di personale di Polizia Penitenziaria e di educatori, di psicologi e di Personale medico specializzato, il pesante sovraffollamento dei carceri italiani (68mila detenuti in carceri che ne potrebbero ospitare 43mila, con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite) sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi. Spesso, come a Palermo Ucciardone, il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Le tensioni in carcere crescono non più di giorno in giorno, ma di ora in ora: bisogna intervenire tempestivamente per garantire adeguata sicurezza agli Agenti e alle strutture ed impedire l’implosione del sistema”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria, in relazione a quanto avvenuto pochi minuti fa nel carcere di Palermo Ucciardone. Il Garante: aragoste, caviale e champagne appartengono al passato “Oggi i detenuti chiedono la possibilità di variare la loro dieta attraverso l’accesso di altri tipi di carne e di pesce o di poter acquistare marche diverse di merendine da offrire ai figli durante i colloqui”. “Il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria ha fatto un esempio davvero singolare nel commentare uno dei passaggi della lunga lettera a firma dei detenuti della sezione 9 dell’Ucciardone, giunta anche al mio Ufficio”. “Rispetto a quanto contenuto nelle lettere della sezione 7 e della sezione 9 aggiornerò i ristretti su tutte le iniziative che porrò in essere e su quelle già attuate. Certo, il sovraffollamento non agevola ma non possiamo attribuire tutte le colpe ad un problema di difficile soluzione. Se, ad esempio, venissero distaccate delle unità di personale di Polizia penitenziaria e di educatori presso l’Ucciardone questi renderebbero più agevole il lavoro della Direzione e del personale già in servizio garantendo un’assistenza continua insieme, ovviamente, ad una più razionale ripartizione di somme agli Istituti penitenziari che tenga conto della reale popolazione detenuta e delle carenze strutturali di ciascun istituto. Sono contrario alle manifestazioni di protesta, ma so che è l’unico modo in cui i detenuti manifestano il loro disagio, ed a tal proposito ricordo a tutti i ristretti dell’Ucciardone una frase a loro familiare - chiamatevi i vostri diritti attraverso l’Ufficio del Garante”. Il Garante dei diritti dei detenuti della Sicilia Sen. Dott. Salvo Fleres Sardegna: 7 milioni di € da Cassa Ammende e Ue, per il lavoro e il reinserimento dei detenuti La Nuova Sardegna, 21 giugno 2010 “Le pietre, da sole, rimangono pietre: se usate insieme, possono diventare una cattedrale”. È una frase che negli uffici dell’amministrazione penitenziaria sarda ricordano spesso. Soprattutto ora che - con sette milioni già stanziati e immediatamente spendibili - nell’isola decolla un piano avveniristico, quasi unico nel panorama nazionale. Si punta a incoraggiare il lavoro nelle case di reclusione e nelle colonie penali. A favorire la formazione professionale per il reinserimento dei detenuti. A stabilire contatti all’esterno per aiutare le vittime delle violenze. Ma c’è di più. Nelle carceri si vogliono riallacciare relazioni con università e scuole per migliorare il livello d’istruzione dei condannati. Ospitare in centri a sé le recluse con figli di età inferiore ai 3 anni. Impiegare i semiliberi (e non solo) per valorizzare le aree archeologiche completando importanti scavi. Rilanciare il telelavoro e il cammino verso l’inclusione sociale. Finanziamenti. I fondi, per gli oltre 2.300 ospiti delle case reclusione sarde, sono stati resi disponibili dalla Cassa ammende e dall’Unione europea. Vengono distribuiti anche attraverso l’azione di Regione e Province. Come, con quali finalità specifiche, con che tipo di esigenze territoriali è discorso che merita di essere approfondito. Innanzitutto, ascoltando la voce di protagonisti di questo lento ma deciso processo di riforma interno come il provveditore delle carceri regionali, Francesco Massidda, e l’educatore Giampaolo Cassitta, responsabile del trattamento dei detenuti. E poi partendo dall’idea che a Isili, Is Arenas e Mamone (che con Lodè ha il record delle presenze di stranieri: 82%) ha già suscitato attenzione nell’opinione pubblica: il coinvolgimento delle colonie penali per produrre formaggi, miele, maialetti contrassegnati dal marchio di qualità del carcere. Un punto d’avvio importante, fondamentale, in un quadro di riferimento più vasto, complesso, articolato. Dettagli. Il programma si chiama, non a caso, “Buoni dentro”. La premessa operativa, ricordano i funzionari scesi in campo, è contenuta nell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lacune. Sull’obiettivo c’è così un impegno generalizzato. Che tenta di superare i tre gravi problemi degli istituti sardi: celle sovraffollate, edifici che cadono a pezzi in attesa dei nuovi di Bancali, Oristano e Uta, cronica carenza d’organici della polizia penitenziaria, che negli ultimi anni ha perso centinaia di uomini riducendosi ad appena 1.300 effettivi. Direttori, educatori, assistenti sociali, agenti sono comunque mobilitati per la riuscita del piano. “Grazie al 36,11% di detenuti occupati, oggi la Sardegna è al primo posto in ambito nazionale per l’attività svolta negli istituti di pena - spiegano i dirigenti - E con il 42,55% di stranieri al lavoro risulta in testa anche nelle classifiche sul totale dei reclusi non italiani”. Investimenti. Molte iniziative in corso passano attraverso la Cassa ammende. Questo ente finanzia progetti d’assistenza alle famiglie dei carcerati e degli internati per reati conseguenti a malattie psichiatriche. Oltre che programmi per misure alternative alla detenzione. Mamme e bebè. In Sardegna 7 progetti sono già stati finanziati e altrettanti risultano in via d’approvazione. Appoggiato dalla Provincia di Cagliari, “Il cammino delle madri detenute”, per costituire un Icam, ossia un Istituto a custodia attenuata. Nascerà tra breve, secondo in Italia dopo il primo realizzato a Milano. “Uno dei nostri punti qualificanti sarà far ospitare le poche detenute con figli piccoli in una struttura a Decimomannu: è sempre un carcere, ma con agenti senza divise e tecniche di controllo compatibili con la presenza dei bambini”, spiega il provveditore. “Queste donne sono nomadi, tossicomani o prostitute in carcere con accuse diverse: là potranno trovare pediatri, educatori, psicologi in grado di assistere meglio anche i loro bimbi”, aggiunge Francesco Massidda. Acronimi. Ci sono poi progetti con sigle di per sé emblematiche. Alcuni finanziati dall’Ue col bando regionale “Ad Altiora”. Uno è chiamato Gagli-off. “Riguarda Buoncammino e Iglesias, in collaborazione con l’università di Cagliari - informa Giampaolo Cassitta - Verranno sviluppati temi assolutamente innovativi. Parlo del lavoro con le persone offese e del trattamento specifico di reati delicati (sex-offender)”. “Oggi 139 reclusi in Sardegna scontano pene per violenze sessuali, sia nel Sulcis sia a Lanusei, ma spesso ci si dimentica che un giorno usciranno e inevitabilmente rientreranno in contatto con le loro vittime negli ambienti d’origine - chiarisce - Ecco, noi vogliamo evitare recidive e dare a chi ha subìto il reato l’aiuto che il suo caso richiede”. Solo per questo programma sono disponibili 416mila euro. Non sono pochi. Ma in un ambiente dove, più che altrove, le parole pesano come macigni sarà soprattutto compito degli operatori garantire il reinserimento con strategie basate su processi rieducativi. Gli stessi nei quali il confronto e il dialogo potranno rivelarsi decisivi. Barbagia. E stata avviata poi la Filiera dell’inclusione. È un programma degli istituti di Nuoro e Mamone: in collaborazione con l’associazione Arti e Mestieri, si propone di produrre e vendere piante officinali. Nel quadro dello stesso programma, finanziato con 216mila euro, è prevista la costruzione di una falegnameria nel penitenziario di Lanusei. E, ancora, “Fadinde”, per dare vita a fattorie sociali con i detenuti di Oristano e la cooperativa sociale Il Samaritano di don Giovanni Usai (già spendibili 180mila euro). “Archeo”: un multi progetto per il recupero dell’anfiteatro romano nella zona romana di Fordongianus con detenuti di Oristano “in lavoro all’esterno” (altri 216mila euro). “A Cagliari, inoltre, sono disponibili 60mila euro per far operare alcuni reclusi addetti al telelavoro sulla gestione del monitoraggio nel percorso cittadino delle ambulanze”, dicono Massidda e Cassitta. Cultura. Non è finita qui. La Regione da qualche anno sostiene “Biblioteche carcerarie”. Il fine? Far catalogare i libri, organizzare reading, promuovere manifestazioni. E l’ateneo di Sassari, con Ludica, segue i reclusi di Alghero. Per il momento ci 4 iscritti a diversi corsi di laurea e, recentemente, un detenuto si è laureato in “biblioteconomia”. In definitiva, tante pietre assieme, non più una lontana dall’altra. Le stesse che forse nell’isola potranno diventare una cattedrale. Toscana: Consiglio Regionale; presto riprenderanno le visite alle strutture carcerarie Adnkronos, 21 giugno 2010 “Con oggi riprende la serie di visite alle strutture carcerarie toscane - portata avanti anche nella scorsa legislatura - per verificare le condizioni di vivibilità, i problemi che presentano da più punti di vista ecc. Oggi ho visitato la struttura di Pistoia riscontrando un sovraffollamento carcerario che rende la vivibilità assai pesante, mitigata dal buon rapporto fra il personale e i detenuti”. Lo afferma, in una nota, Monica Sgherri, capogruppo di Federazione della Sinistra - Verdi nel Consiglio Regionale della Toscana. “Nel carcere pistoiese - prosegue Sgherri - siamo di fronte ad un sovraffollamento del numero dei detenuti, rispetto alla capienza ordinaria siamo ad un suo quasi raddoppio, ormai strutturale e quindi pesante per chi vive quella condizione. Sovraffollamento e difficile vivibilità causati - e aggravati - anche dalla piccolezza delle celle rispetto al numero di detenuti presenti: in quelle di sei metri quadri abbiamo tre persone, in quelle di dodici metri quadri nove persone, quindi un rapporto spazio-presenze assolutamente difficile. Tutto ciò aggravato anche dal sotto dimensionamento del personale, che porrebbe quindi problemi anche con un numero regolare di detenuti presenti, figuriamoci in una condizione come questa di sovraffollamento”. “Ho inoltre registrato un buon rapporto fra il personale e i detenuti - che certo mitiga le problematiche di sovraffollamento sopra richiamate - e una buona qualità dei servizi sanitari offerti. Proseguiremo nei prossimi giorni e settimane le visite alle strutture carcerarie toscane con l’intenzione di tenere alta l’attenzione e l’impegno su questi temi al fine di contribuire, da più punti di vista, a migliorare la condizione carceraria in Toscana”, ha concluso Sgherri. Napoli: a Poggioreale i detenuti sono quasi tremila; la Uil: potrebbe scoppiare la rivolta di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2010 A guardarlo da fuori, il carcere di Poggioreale, sembra un enorme cane che si morde la coda. Immobile, appesantito, malandato all’esterno; sovraffollato, caotico, in perenne tensione all’interno. In realtà è una bomba pronta ad esplodere, forse la prima di quella che si annuncia essere un’estate ad altissimo rischio rivolte in tutta Italia. Ieri il Fatto ha pubblicato la lettera inviata a Radio Radicale da 650 detenuti anonimi dell’istituto partenopeo, in cui si denunciano maltrattamenti, lunghi tempi di attesa per le cure, colloqui più brevi del previsto, e in generale un atteggiamento intimidatorio da parte della polizia penitenziaria. Per capire cosa accade a Poggioreale bisogna partire dai numeri: i detenuti sono 2.780, a fronte di una capienza massima di 1.400 posti. Il doppio. Ci sono celle in cui vivono per 22 ore al giorno otto persone, spesso costrette ad arrampicarsi fino ai terzo piano del letto a castello per poter dormire. L’organico di polizia è di 720 unità, con una scopertura del 25 per cento secondo i sindacati. Rapporto numerico che fa venire i brividi se si pensa che, di notte, ci sono appena 35 agenti per tutti i 2.780 detenuti. ‘‘Tenendo conto che, tra i poliziotti, ci sono anche gli addetti alla portineria e all’ufficio matricole, arriviamo ad avere un rapporto di uno a 300 - spiega Eugenio Sarno, segretario generale della Uilpa penitenziari - In queste condizioni, purtroppo, gli interventi sono spesso tardivi. Per esempio, se io ho (a fortuna di sentire uno sgabello che cade, il chiaro segnale di un suicidio, significa che sono lì vicino e posso correre e magari, dopo aver aperto qualche porta, riesco a salvare una vita. Ma se non Io sento, non ci sono speranze Questo dai detenuti è letto come un ingiustificato allungamento dei tempi di soccorso”. Le persone che hanno scritto la lettera hanno raccontato anche un episodio avvenuto l’11 giugno: un detenuto malato di cuore si è sentito male dopo i colloqui, mentre era stipato con altri 39 in una stanza di 10 metri quadri. Secondo il racconto dei suoi compagni, più volte e inutilmente sarebbero stati chiamati i soccorsi, fino a quando l’uomo ha cominciato a sbattere la testa contro la cella, provocandosi delle lesioni. “Se un agente, che porta mazzi di chiavi da tre chili, deve attraversare sette porte, non possono permettersi di dire che non voleva intervenire. Il fatto che la lettera sia arrivata a Radio Radicale significa poi che non c’è censura né filtro, come invece a volte viene detto”. Più che un istituto per la rieducazione degli individui sembra il campo di battaglia di una guerra tra poveri. “In tutto il carcere ci sono appena l4 educatori - denuncia Dario Dell’Aquila, portavoce dell’associazione Antigone a Napoli - i due terzi circa dei detenuti sono in attesa di giudizio, ogni giorno entrano moltissime persone, che poi magari vengono subito trasferite”. Esistono problemi igienici, così come è grave l’assistenza sanitaria: “In alcuni reparti c’è una doccia nel piano e non all’interno di ogni cella - prosegue Dell’Aquila - questo significa che ci si lava una volta alla settimana. Va peggio a chi deve sottoporsi ad una visita specialistica, che spesso deve aspettare troppo tempo”. Poggioreale ha una popolazione detenuta un po’ differente dagli alni istituti italiani: gli stranieri, secondo Antigone, sono soltanto il 15 per cento del totale contro il 30% della media nazionale), quasi tutti invece sono cittadini campani, che sono dentro magari per piccolo spaccio o per il furto d’auto. Esiste poi un enorme problema per i colloqui con i familiari, ¦ proprio come denunciano i detenuti. Chi ha voglia di farsi un giro, troverà già all’alba decine di persone in fila per entrare in carcere. “Ci avviamo però alla fine dell’indecenza - spiega Sarno - il dipartimento ha finanziato con un milione e 400 mila euro la realizzazione di una nuova area per i colloqui. La gara sì sta svolgendo in questi giorni e forse già fra un anno avremo una situazione diversa: tutto sarà informatizzato, anche le registrazioni. Questo porterà a uno snellimento dei tempi e ad una maggiore sicurezza, per esempio rispetto a quello che entra in carcere”. Sarno teme che la lettera dei detenuti, “come storicamente è avvenuto”, preluda a una rivolta, magari proprio contro quella maggiore sicurezza. Ipotesi che le associazioni rimandano al mittente. “Si continua a man-dare dentro la gente pensando che il carcere significhi sicurez-za, ma è esattamente il contrario”, commenta amareggiata Ornella Favero di Ristretti Orizzonti. L’estate in carcere è ancora più calda. “A Padova non hanno neanche più i materassi”, prosegue Favero; a Genova da sei giorni ci sono proteste ininterrotte, fa sapere la Uil. All’Ucciardone (Palermo) i detenuti della settima sezione fanno una colletta per ristrutturare i bagni. In questa polveriera il piano carceri del ministro Alfano non esiste più: non c’è neanche più la copertura economica per assumere duemila agenti in più della polizia penitenziaria, figuriamoci se si trovano i soldi per costruire 47 nuovi padiglioni entro la fine dell’anno. I 68mila detenuti non interessano a nessuno e, soprattutto, non hanno ancora cominciato a fare paura. Catania: morì in carcere a 19 anni; la madre vuole riaprire il caso “non si è suicidato” La Sicilia, 21 giugno 2010 È morto in carcere a Catania quattro giorni dopo il fermo per una rapina in una tabaccheria del suo paese, Biancavilla. Il decesso di Carmelo Castro è stato catalogato come suicidio. Ma la madre a un anno dalla morte del figlio, 19 anni, continua a non crederci, rifiuta il suicidio e sostiene: “Mio figlio era sottoposto al regime di sorveglianza massima: perché nessuno si è accorto di nulla?”. Carmelo Castro era incensurato ed è morto nella cella numero 9 del carcere catanese di piazza Lanza il 28 marzo dello scorso anno. L’autopsia ha stabilito che “la morte è avvenuta per asfissia da impiccamento”: il giovane avrebbe attaccato il lenzuolo allo spigolo della branda e si sarebbe lasciato morire. Il pm è convinto che si tratti di un suicidio e ha proposto l’archiviazione del caso. Ma i familiari non ci stanno e chiedono la riapertura delle indagini, allargando gli accertamenti a quel che è avvenuto prima che Carmelo entrasse in carcere. La vicenda è anche finita in Parlamento con due interrogazioni dei senatori Fleres (Pdl) e Casson (Pd). E ora si attende la decisione del gip, che dovrebbe arrivare da un giorno all’altro.”Non può finire così - dice la madre Grazia La Venia -, non è stato un suicidio”. La donna ritiene che il figlio sia stato pestato e, a riprova, mostra la foto segnaletica diffusa dopo il fermo. “Forse lo hanno ripulito - accusa, - ma si vede comunque un livido sopra l’occhio sinistro e il labbro gonfio, oltre all’orecchino strappato”. Le accuse sono rivolte ai carabinieri: “Lo hanno trattenuto in caserma un intero pomeriggio e io da sotto lo sentivo piangere e gridare. Poi ho anche trovato delle strane macchie, che secondo me sono sangue, sulle scarpe e il giubbotto che indossava”. Quanto al suicidio, “Carmelo - spiega - non era in grado nemmeno di allacciarsi le scarpe. Anche se aveva 19 anni era ancora un bambino. Come poteva attaccare un lenzuolo per impiccarsi?”. Più cauto l’avvocato Vito Pirrone che nell’istanza presentata al gip non azzarda nulla su quel che è avvenuto fuori dal carcere ma si limita a chiedere l’acquisizione della foto segnaletica. Si dilunga invece sulle “molte incongruenze nella ricostruzione dei fatti”. Una per tutte: per il trasporto del ragazzo in ospedale venne utilizzata una normale auto di servizio. Il suicidio sarebbe avvenuto alle 12.30 del 28 marzo e l’autopsia ha accertato “la presenza nello stomaco di abbondante quantità di cibo non digerito”. A parte il fatto che è un po’ strano fare un pasto abbondante prima di suicidarsi, il legale vuole “accertare a che ora è stato distribuito il pasto e i nomi dei detenuti-lavoranti che lo hanno distribuito”. In attesa della decisione del gip la madre di Carmelo Castro quella foto segnaletica del figlio se l’è fatta stampare su una medaglietta che porta al collo. “Lo tengo sempre con me - dice piangendo -, non credo che sia morto e sto ancora aspettando che me lo riportino a casa”. Modena: manca il Magistrato di Sorveglianza, i detenuti della Casa di lavoro insorgono La Gazzetta di Modena, 21 giugno 2010 Forte preoccupazione nella Casa di lavoro di Saliceta San Giuliano, alle porte di Modena. Preoccupazione che nasce dalla mancata ufficializzazione della nomina di Pasquale Mazzei come nuovo magistrato di sorveglianza, dopo il trasferimento di Angelo Martinelli. Il mancato passaggio di poteri tra il vecchio è il nuovo giudice è dovuto a un ritardo burocratico e di fatto la figura resta vacante. Gli effetti di questa “vacanza” del giudice di sorveglianza sono deleteri. Lo scorso mercoledì non è stata celebrata un’udienza nella quale almeno 6 persone aspettavano di essere giudicate. La sentenza avrebbe dovuto stabilire il loro grado di pericolosità e decidere in merito a una possibile vigilanza esterna per lo sconto finale della pena. Due detenuti su sei, inoltre, avevano i requisiti minimi per la scarcerazione, ma l’assenza del giudice ha posticipato una qualsiasi decisione in merito. La stessa sorte potrebbe toccare a un ragazzo che aspetta di conoscere il suo futuro il prossimo 30 giugno. Se la situazione resterà invariata non potrà essere giudicato e quindi godere dei diritti che lo Stato italiano gli riconosce. Ad aggravare ulteriormente la situazione c’è anche l’imminente scadenza della sua “borsa di lavoro” prevista per il 14 luglio. Il risultato potrebbe essere drammatico. Il ragazzo rischia di rimanere nella casa di lavoro oltre il tempo previsto. Una mancanza grave che viola ogni disciplina in materia di diritti umani e dalla quale potrebbe nascere una successiva causa di risarcimento danni da parte dell’internato. I detenuti, ormai esasperati, pensano a come far sentire la propria voce oltre le sbarre. Tra i corridoi della casa di lavoro inizia a prendere corpo l’idea di un nuovo sciopero della fame. Sarebbe il secondo nel giro di pochi mesi. Il primo era stato effettuato tra novembre e dicembre dello scorso anno per la sospensione delle licenze. Per diversi mesi, infatti, nessuno aveva potuto godere dei permessi premio. Non solo, in quel periodo erano stati prorogati anche i termini di scarcerazione per gli internati che vantavano una scadenza naturale del periodo di soggiorno nella casa di lavoro. Bari: dal carcere un appello “vogliamo solo vivere normalmente la nostra condizione di carcerati” di Antonella Fazio Bari Sera, 21 giugno 2010 Chiedono di vivere degnamente la loro condizione i detenuti della Seconda sezione del carcere di Bari che, in una lettera giunta alla redazione di Bari Sera, non usano mezzi termini. La missiva è una richiesta di aiuto, una richiesta urlata che fa trapelare tutta la disperazione che questi carcerati pare stiano vivendo in questi ultimi tempi. Non c’è una firma specifica: la sigla finale riporta solo “La Seconda sezione del carcere”. Un foglio scritto in stampatello. Sulla prima facciata le parole di denuncia; sul retro, invece, una scritta verticale a caratteri cubitali: “Aiutateci”. I detenuti elencano tutta una serie di “cose” che avverrebbero tra le mura della prigione barese. Partono dal tema del sovraffollamento per arrivare al discorso acquisti: “Nel carcere oltre al grande numero di detenuti, non ci viene concesso di acquistare a nostre spese prodotti per disinfettare le nostre celle”. E attenzione: sulle righe dell’A4 arrivatoci, “celle” è scritto tra virgolette, probabilmente sintomo del fatto che la loro condizione è veramente estrema. Il problema dell’igiene, poi, è particolarmente sentito. Stando alla denuncia, pare che a loro non sia permesso fare le docce pomeridiane. “Non ci fanno fare le docce nel pomeriggio”, dicono e commentano: “Con questo caldo è veramente una crudeltà all’umanità”. Il tema, poi, ritorna sugli acquisti: “Possiamo farvi sapere - dicono - che in questo carcere fare la spesa è una prerogativa dei signori che dirigono e gestiscono questo istituto”. Poi giungono direttamente al vertice parlando de Il Comandante. Scrivono: “Il Comandante minaccia di farci partire e farci allontanare da casa. E credeteci - continuano -: lui comanda sulle nostre vite e sulle nostre famiglie”. Infatti, stando ancora alla missiva, pare che questo “Comandante” (persona non meglio identificata) “rubi dai 6 ai 7 minuti ai colloqui con i nostri cari. E non vi diciamo come i nostri familiari vengono trattati”. In chiusura, i carcerati azzardano un paragone che non lascerebbe spazio a commenti: “Noi nella Seconda Sezione viviamo peggio degli zingari”. La lettera chiude con esplicite richieste d’aiuto: “Vi chiediamo di aiutarci. Non chiediamo indulti o amnistie. Chiediamo solo di vivere in modo umano la nostra vita di carcerati”. Abbiamo quindi interpellato i vertici della casa circondariale del capoluogo pugliese. Fuori il direttore per motivi di lavoro, ha risposto alla nostra telefonata la vicedirettrice Valentina Meoevoli che, ascoltati i contenuti della lettera, non ha voluto rilasciare dichiarazioni: “Non voglio e non intendo dire nulla in merito”, ha sintetizzato. Peccato. Trento: l’apertura del nuovo carcere è prossima, ma i problemi di detenuti e agenti rimangono Trentino, 21 giugno 2010 È prossima l’apertura del nuovo carcere di Trento a Spini di Gardolo. Un’occasione per mettere sotto i riflettori il “pianeta carcere” che di problemi ne ha parecchi, spesso ignoti all’opinione pubblica, tra la quale si lasciano correre stereotipi ingiusti e si cavalcano pure per averne consensi politici sul mito della sicurezza. Senza precisarne il prezzo. Già un segnale di problematicità che presenta il nuovo carcere è venuto dai sit in, che gli agenti di custodia hanno inscenato davanti al palazzo della Provincia e a quello del vecchio carcere. Denunciano l’enorme carenza di organico. Basti dire che la nuova struttura per essere a regime esigerebbe la presenza di 200 agenti in più, mentre Roma ne garantisce l’arrivo di soli 25. Ma non è la prima volta che in Italia si fanno progetti e leggi e poi ci si accorge che mancano le strutture per attuarle. I problemi delle carceri, vecchie e nuove, sono anche altri e vanno ad incidere sulla dignità, sul rispetto e sui diritti delle persone. Uno m’è venuto in mente per analogia in questi giorni di bollenti discussioni e manifestazioni causate dalla legge-bavaglio sulle intercettazioni. Tra le motivazioni addotte dai proponenti e da chi ha già votato la legge al Senato, ce n’è una che merita particolare attenzione. Si dice che i divieti di pubblicazione delle intercettazioni mirano anche ad evitare che vengano sputtanate persone che poi gli stessi tribunali dichiareranno innocenti. Prudenza doverosa e sacrosanta. Si deve sapere però anche che un’alta percentuale dei detenuti in carcere è costituita da persone “in attesa di giudizio” e intanto non sono solo “chiacchierate”, ma costrette in cella, assieme a comprovati criminali. E le statistiche dicono che ben il 43 per cento di queste persone, dopo anni di processi vengono riconosciute innocenti. È uscito recentemente per i tipi della S. Paolo un libro intitolato “Prete da galera”, scritto da Silvio Valota e da don Luigi Melesi, cappellano del carcere di San Vittore a Milano. E in quel libro ci si chiede: “Perché quelli in attesa di giudizio stanno assieme ai condannati definitivi”? E non è un modo diverso per stare in ferie, se nel 2009 sono stati ben 72 i suicidi in carcere e quest’anno sono già 25, di cui 3 tra le guardie carcerarie. Ed ecco lo stereotipo che molti nutrono, riporato da Silvio Valota: “Ma che cosa vogliono quelli? È già tanto che li manteniamo!”. Sta il fatto che delle detenzioni in Italia, specie dopo il fenomeno del sovraffollamento, si è occupata anche la Corte di Giustizia Europea, che ha riconosciuto il nostro Paese colpevole di applicare la “tortura” a causa degli spazi vitali insufficienti nelle sue carceri. E sì che a presidio dovrebbe bastare la nostra Costituzione che all’art. 27 così recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tanto peggio, commenta don Melesi, quando le pene vengono applicate a chi condannato ancora non è ma solo “in attesa di giudizio”. Si dirà che il nuovo carcere risolverà almeno il problema del sovraffollamento. Si spera. Ma il “prete da galera” mette in guardia dal considerare la costruzione di nuove carceri come il toccasana dei problemi della detenzione. Per questo dico che sarà bene farne l’occasione per rendersi conto anche di altri problemi che affliggono le carceri. Anche in un carcere di ultimo grido i detenuti possono passare le giornate senza fare nulla: senza lavorare, senza leggere, senza socializzare e senza confrontarsi con realtà diverse. E questo sarebbe spersonalizzante. Io spero che nel progetto del nuovo carcere si sia pensato a predisporre risposte anche a queste esigenze, che implicano il coinvolgimento di imprese e di servizi della cosiddetta società civile. E questo anche a dispetto di chi pensa che ottimo carcere è quello in cui si rinchiudono i detenuti in cella e si buttano via le chiavi. Atteggiamento disumano e pure anticostituzionale. Certo un pensiero che si traduca in solidarietà va dedicato anche alle guardie carcerarie e non soltanto per condividere la loro richiesta di un numero adeguato di soggetti addetti come chiedono i loro sit in. Qualcosa vorrà pur dire se tra i suicidi in carcere c’è pure un certo numero di guardie carcerarie! E penso anche a chi già si occupa dei carcerati come l’Apas (Associazione provinciale aiuto sociale) e ai volontari, che meritano quanto meno di essere conosciuti e di trovare collaborazione e di non essere solo oggetto di delega. C’è infine il problema di sapere dove potranno andare i detenuti una volta scontata la pena. Una società civile deve organizzarsi per dare anche queste risposte. Perché non succeda che allettante per loro diventi la recidiva. Troppo sbrigativa, irresponsabile e pure falsa è l’affermazione che si è sentita dopo l’ultimo indulto e cioè che chi è in carcere è destinato a ritornarvi. Pistoia: con 74 posti letto e oltre 150 detenuti, nel carcere c’è una situazione disumana Il Tirreno, 21 giugno 2010 “Il carcere pistoiese, che ha una capienza di 74 posti letto, ospita attualmente oltre 150 detenuti. All’interno l’aria è irrespirabile. Alcuni dormono nel sottoscala, altri su materassi stesi nel parlatorio. Le attività di formazione, seppure imposte dalla legge, vengono svolte solo parzialmente. I fondi previsti dalla legge Gozzini per finanziare le attività di reinserimento dei carcerati, mai utilizzati negli anni, si sono accumulati”. È un passo centrale dal documento (“Le carceri, un dramma che ci tocca da vicino”) predisposto dal gruppo che, in ambito cattolico a Pistoia, si occupa di riflessione sulla politica: guidato da mons. Giordano Frosini e intitolato al pensatore Jacques Maritain, il gruppo ha di recente prodotto un intenso documento sulla “drammatica situazione delle carceri italiane” che “non sembra scuotere l’opinione pubblica del mostro paese assorbita da tanti altri problemi e, soprattutto, sempre più allineata sugli schemi di una mentalità individualistica e, alla resa dei conti, persino egoistica”. Fatta propria la premessa di quanto prescrive, a proposito di pene carcerarie, l’art. 27 della nostra Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), il documento evidenzia, sul piano nazionale, “lo scandalo del sovraffollamento delle nostre carceri” e si sofferma sul dramma dei suicidi in carcere (72 nel 2009: 6 ogni mese). I prigionieri suicidi sono, in particolare, tra le persone in attesa di giudizio. Il capitolo centrale è tutto dedicato alla situazione pistoiese nella cui casa circondariale, dal 1985, opera l’associazione “Il Delfino” con una assistenza costante effettuata da volontari in appoggio alla attività del cappellano. Molti i detenuti, abbandonati dalle famiglie, privi di mezzi di sostentamento e assistiti nelle piccole necessità quotidiane (schede telefoniche e fornitura di biancheria e di beni di prima necessità). “Cronica”, anche a Pistoia, l’assenza di personale di sorveglianza e “pessima” la situazione finanziaria del carcere: i volontari - è scritto nel documento - “non si peritano a definire disumana la situazione carceraria pistoiese” con immagini “più simili alle galere dei secoli passati che a moderni istituti di rieducazione”. Nell’ultimo capitolo (“Le nostre conclusioni”) il “gruppo di riflessione politica Jacques Maritain” sostiene che non sono necessari nuovi edifici carcerari. 6 gli spunti su cui costruire proposte: adeguare gli edifici esistenti (“L’Asl dovrebbe verificare se le normative sugli spazi minimi di vivibilità siano rispettati”); monitorare l’efficienza della situazione carceraria; finanziare le attività di professionalizzazione (“Come quelle svolte dalla cooperativa In cammino, ripristinando le borse di lavoro e concedendo vantaggi economici alle aziende che assumeranno ex carcerati in prova”); investire nel recupero e nella riabilitazione (“attraverso le nuove misure della giustizia ripartiva e la mediazione penale”); realizzare una regia complessiva tra gli enti locali (“per evitare l’attuale frastagliamento di iniziative e progetti”); realizzare il progetto (“Una casa per amico”) proposto dall’associazione “Il Delfino” che “contenga alcune unità abitative per utilizzare i regimi di semilibertà finalizzandoli a un effettivo reinserimento”. Napoli: nove detenuti del carcere di Secondigliano stanno imparando a diventare giardinieri La Repubblica, 21 giugno 2010 Nove detenuti della Casa circondariale di Secondigliano ci provano dal 27 gennaio scorso. Stanno imparando a diventare giardinieri mediante un progetto lanciato dalla direzione e da Palazzo San Giacomo. E ora grazie al loro impegno il carcere diventerà uno dei fornitori ufficiali di piante per parchi e giardini comunali. Lo ha annunciato ieri l’assessore all’Ambiente, Rino Nasti, nel corso della consegna ai detenuti degli attestati di partecipazione al corso di Giardinaggio, nell’area verde destinata al colloquio con le famiglie. “Il corso si è rivelato un successo”, ha detto Nasti ai ragazzi e alle loro famiglie. Separati dal resto della popolazione penitenziaria per tutelarne l’incolumità, questo progetto ha permesso ai detenuti di lasciare la cella quasi ogni giorno per studiare, coltivare circa seimila piante e mettere a nuovo la serra del carcere, collaborando con agenti e tecnici comunali. “Spero che mio figlio trovi lavoro fuori dal carcere” dice la madre di uno dei detenuti, “ha dimostrato quello che sa fare”. Molte delle piante sono state vendute per raccogliere fondi per Telefono azzurro, altre destinate a parchi cittadini, ne restano tremila che saranno a breve distribuite nei quartieri della città. “Gli operatori hanno lavorato con dedizione, mostrando di credere nella validità dell’offerta riabilitativa” spiega il direttore Liberato Guerriero. La direzione ha in cantiere anche altre iniziative per i detenuti, ancora in fase embrionale: si pensa infatti all’organizzazione di un servizio catering grazie a un finanziamento regionale di 500 mila euro, che Secondigliano dovrà dividere con i carceri di Santa Maria Capua Vetere e Poggioreale. Alla cerimonia sono intervenuti il vicedirettore del carcere Giulia Leone, il commissario Gaetano Diglio e la dottoressa Rosa Stefanelli, agronomo del Comune. Perugia: all’asilo nido del carcere non c’è più posto per i bambini che si trovano con le mamme Il Messaggero, 21 giugno 2010 Le carceri italiane scoppiano. E quello di Capanne non fa eccezione. Con il personale della polizia penitenziaria che è costretto a fare miracoli per riuscire a far filare tutto liscio. E visto che la matematica, qualche volta, è più di un’opinione succede che al sovraffollamento delle celle si aggiunge il disagio del personale ridotto all’osso. Situazione più volte denunciata un po’ da tutte le sigle sindacali che si occupano del settore. L’ultima contabilità del pienone racconta di situazioni al limite del collasso. Da diversi giorni ci sono decine di carcerati nell’ala maschile che sono costretti a dormire i terra sul materasso: impossibile mettere il terzo letto nel castello perché le celle, in altezza, non lo permettono. Ma anche nel reparto femminile ci sarebbero problemi: all’asilo nido non c’è più posto per i bambini che si trovano con le mamme carcerate. Anzi, c’è la fila e anche i bimbi stanno stretti. E così soffrono ancor di più, anche gli innocenti. Trani: ergastolana in semilibertà non rientra in carcere e fa perdere le sue tracce Ansa, 21 giugno 2010 Rosa Russo, 42 anni, fu condannata all’ergastolo quando le autorità dimostrarono che nel 1988 la donna si macchiò dell’assassinio di Lucia Montagna, aiutata da sua sorella Filomena e da una terza complice: Maria Altomare. La Russo era in stato di semilibertà, ma ieri sera, quando si sarebbe dovuta ripresentare al carcere di Trani, in piazza Plebiscito, ha invece preferito mancare l’appuntamento aggiungendo all’accusa di omicidio anche quella di evasione. Sappe: Mancato rientro ergastolana di Trani è punta iceberg “Ormai la tensione è alta e la situazione nei penitenziari pugliesi è allarmante. La capienza nei penitenziari della Puglia ha superato ormai il limite è stata infatti raggiunta la quota di 4.400 detenuti ristretti. La preoccupazione del Sindacato autonomo polizia penitenziaria - Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di categoria con 12mila iscritti, è altissima soprattutto per quelle strutture penitenziarie della nostra regione che devono fare i conti con il sovraffollamento come Lecce e Foggia, città in cui Poliziotti penitenziari la scorsa settimana hanno fortemente protestato contro una situazione drammatica del penitenziario che ha raggiunto il doppio della sua capienza in termini di popolazione detentiva e che costringe i Baschi Azzurri a turni massacranti e al rischio sistematico di vedersi revocate giornate di riposo o addirittura le ferie estive”. È quanto dichiara il segretario provinciale del Sappe di Trani, Nunzio Bruno. “Il mancato rientro di una detenuta ergastolana nel carcere di Trani è solo la punta dell’iceberg. La tensione è alta e nel penitenziario tranese, nonostante vi sia un plesso in ristrutturazione, pesante è il sovraffollamento - continua Bruno -: è stata raggiunta la soglia dei 270 detenuti nella sola sezione maschile e ben 40/45 detenute nella sezione femminile. Chi ne fa le spese sono gli appartenenti alla Polizia penitenziaria che devono fronteggiare tutte le conseguenze di una politica indifferente e insensibile alle problematiche del pianeta carcere, visto come una sorta di discarica umana e niente più. Questa confusione negli istituti di pena è denunciata da anni dal Sappe, ma mai preso nella giusta considerazione da chi doveva intervenire sul problema. Perugia: 2 giorni di studio sui temi della libertà, con il “Comitato Verità e Giustizia per Aldo Bianzino” Il Messaggero, 21 giugno 2010 Il Comitato Verità e Giustizia per Aldo Bianzino, promuove due giorni di confronto e riflessione, su autoritarismo, proibizionismo, carcere e sicurezza venerdì e sabato prossimi “per non dimenticare le vittime del proibizionismo e delle condizioni drammatiche in cui versa l’universo carcerario”. Aldo Bianzino è il falegname che morì in carcere nel novembre del 2007, arrestato per il possesso di alcune piante di marijuana. Il comitato continua a chiedere chiarezza sulle modalità con cui Venerdì alle 17, alla Sala della Vaccara, don Andrea Gallo incontra i familiari e i comitati delle vittime della violenza di Stato Partecipano: i familiari e il Comitato Verità per Aldo Bianzino, i familiari di Stefano Cucchi, Assemblea dei parenti, amici e solidali di Stefano Frapporti, Don Andrea Gallo, Comitato “Amici di Alberto Mercuriali”, Cristina Gambini, sorella di Luca, morto nel reparto Spdc di Perugia, Checchino Antonini, giornalista di Liberazione. A seguire serata benefit al Centro Sociale Ex-Mattatoio, Ponte San Giovanni, Perugia Per sabato è previsto un incontro dalle 9.30 alle 17 alla Casa dell’associazionismo, Via della Viola su “Istituzioni Totali - Carceri - Psichiatria”. Partecipano: Nicola Valentino - editrice Sensibili alle foglie Stefano Anastasia - Associazione Antigone, Forum droghe operatori del Cabs (Centro a Bassa Soglia). Alessandro del comitato Verità per Aldo afferma: “Perugia è un laboratorio avanzato di politiche negative: il centro storico con sempre meno residenti e senza aggregati di quartiere stabili, luogo di promozione di grandi eventi commerciali e territorio sempre più militarizzato”. Un secondo forum riguarderà l’informazione “dopata” Il terzo Focus riguarda le “Buone pratiche di riduzione dei rischi e di autodifesa da abusi, repressioni e pestaggi”. Il comitato verità e giustizia per Aldo Bianzino propone due giorni di riflessione e mobilitazione nei quali “decostruire il dogma proibizionista con la messa in movimento di politiche dal basso, la diffusione di strumenti e di percorsi di criticità e consapevolezza, la sperimentazione di buone pratiche di riduzione dei rischi e dei danni, raccontando le nostre città ed i nostri territori”. Bologna: il Comune non rinnova la convenzione, ultimo spettacolo "Gruppo elettrogeno" alla Dozza Dire, 21 giugno 2010 Quello di dopodomani potrebbe essere l'ultimo spettacolo che il Gruppo elettrogeno riesce a mettere in piedi per i detenuti del carcere della Dozza di Bologna. L'allarme lo lanciano proprio gli artisti del Gruppo elettrogeno, che mercoledì daranno vita all'iniziativa "Spoon river live" (un concerto realizzato anche con la partecipazione di detenuti attori e ispirato all'Antologia di Spoon river) all'interno della casa circondariale. Lo fanno ogni anno dal 2006, ma il prossimo forse non sarà possibile, dal momento che il Comune di Bologna, l'anno scorso, non ha rinnovato la convenzione per il progetto "Parole comuni", che porta avanti laboratori di musica e teatro dentro il carcere. Scaduta il 31 gennaio 2009, spiega in una nota il Gruppo elettrogeno, la convenzione "non è stata rinnovata", per cui lo spettacolo di mercoledi' sarà "forse l'ultimo". A meno che qualcuno non intervenga in qualche modo a sostegno del progetto. è questo l'obiettivo della richiesta di solidarietà inviata il mese scorso dal Gruppo elettrogeno a tanti artisti e altre realtà. Sensibilizzando l'opinione pubblica, è la loro speranza, sarà forse possibile "continuare le attività teatrali e musicali all'interno della casa circondariale". Dopo la fine della convenzione, spiega il Gruppo elettrogeno, "abbiamo deciso di continuare il nostro lavoro dentro al carcere a titolo gratuito, come segno di resistenza, nell'attesa di sbloccare la situazione". Questo, però, non è successo. Se il lavoro dell'ultimo anno è stato duro ("Non siamo più riusciti a portare avanti i veri e propri progetti di produzione che avevamo messo in cantiere insieme alle persone detenute"), ora la situazione "è giunta al capolinea, ci rendiamo conto di essere agli sgoccioli". Tra i sostenitori c'è anche Paolo Fresu. Libri: “Baby killer. Storia dei ragazzi killer di Gela”, di Giuseppe Ardica, edizioni Marsilio www.ffwebmagazine.it, 21 giugno 2010 “Noi eravamo l’ultima mala pianta cresciuta in Sicilia, i pastori di vacche e di pecore diventati assassini. Capaci di ammazzare un innocente per un’occhiata di troppo. Per un niente. Noi eravamo le nuove leve, i rampanti senza regole della delinquenza organizzata. I picciriddi che uccidevano per cinquecentomila lire al mese. I ragazzini che terrorizzavano ed erano rispettati e temuti da tutti. Noi eravamo come la gramigna, come l’erbatinta che non muore mai. Noi eravamo la Stidda dei baby killer”. È successo anche questo in Sicilia. E nessuno credeva potesse essere vero: non le madri, non gli sbirri. E nemmeno i malacarne avevano mai osato tanto. L’inferno diventò d’improvviso più crudele e vero. Il male aveva il volto di ragazzini feroci armati della voglia di essere adulti. Di essere più malacarne dei malacarne. È successo anche questo in Sicilia. E una città in particolare, Gela, fu davvero inferno che occupa il reale dove le giornate bruciavano al suono di proiettili innocenti e improvvisi. Un inferno fatto di paura e coprifuoco, di gente incolpevole che sfuggiva a proiettili vaganti e di mafiosi uccisi per strada. Tanto sangue. E il sangue non era quello dei film, sempre liquido e rosso. Il sangue dei morti, dei morti ammazzati, che sfugge dalle teste di uomini finiti con l’ultimo colpo in fronte dopo scurisce. E non rimane liquido, ma diventa grumoso. Cambia forma e non si cancella facilmente. Ricordo di odio che macchia la terra, ferita di un territorio che soffre. E dopo ogni mazzatina, dopo il fuggi fuggi al primo colpo d’arma da fuoco, la gente ritorna sul luogo a guardare il morto, tra curiosità e cinismo. E i bambini lì, in prima fila imparano quella lezione che è domanda che si fissa nel cuore, e che ritorna sempre in chi è siciliano: è anche questa la mia gente? È la storia della Stidda, la stella. È una storia vera raccontata da Giuseppe Ardica nel libro “Baby killer. Storia dei ragazzi killer di Gela” (Marsilio, 141 pagine, 13 euro), un romanzo che nasce dalle carte, dalle parole dei pentiti, dagli atti dei processi. È la storia di un’altra mafia, la Stidda, che arruola il suo esercito tra ragazzini di 13, 14 anni. Una mafia veloce e crudele, che dichiara guerra a Cosa Nostra. “La cosca degli esclusi, degli uomini tenuti ai margini: lontani dalla droga, dagli appalti, dalle estorsioni. Eravamo - racconta un suo esponente nel libro di Ardica - tutti giovani e giovanissimi. Tra di noi c’era pure chi sniffava. Tutti o quasi pastori ed ex guardiani di pecore, spacciatori di eroina, bari nelle bische che noi stessi avevamo messo in piedi per i signori e le signore annoiati dell’alta società. Eravamo decisi a farci largo: anche col sangue se fosse stato necessario. (…) Le regole le prendemmo in prestito dalle cosche della Stidda che erano già nate in tutte le province siciliane, esclusa Palermo. L’unica zona dove Cosa Nostra esercitava ancora il potere assoluto, chiudendo gli spazi alle teste più calde con le revolverate e i bidoni pieni di acido cloridrico. (…) Le promozioni, all’interno del nostro clan, sarebbero avvenute non per appartenenza familiare, ma per meriti acquisiti sul campo: per numeri di morti ammazzati e per i taglieggiamenti agli imprenditori andati a buon fine. (…) Alcuni degli uomini della nostra associazione si tatuarono la pelle, tra l’indice e il pollice della mano destra: cinque punti blu incisi con la punta di un coltello arroventata al fuoco dei fornelli a gas da campeggio a disposizione dei detenuti”.Ragazzini che ammazzano per cinquecentomila lire a morto è cosa che non si vuole leggere. Ma è successo. “Baby killer” è uno strappo alla memoria che ritorna, che la stampa ha dimenticato e ha raccontato poco e male. Solo un nome è vero in tutto il libro, quello di Salvatore Tumeo, ucciso, per uno sgarro, dopo essere stato torturato con una crudeltà che nemmeno il più perverso Tarantino di Pulp Fiction avrebbe potuto immaginare nel suo peggiore incubo. Nomi finti, soprannomi, ‘ngiurie, perché molti di quei ragazzi, all’epoca dei fatti (fine anni ‘80 e anni ‘90) erano minorenni e oggi sono in parte morti o pentiti. Mezze vite tormentate dal rimorso di ciò che furono. L’inferno che ebbe il suo apice di orrore a Gela durante la guerra di mafia fu possibile perché la città era una terra corrotta nell’animo. Tanto distratta da mangiarsi pure i suoi figli a morsi di cane “raggiato”. Una città che ha avuto scatti d’orgoglio ma che ancora oggi rimane “difficile”, costretta com’è a sopravvivere ad altri inferni e con la colpa di una scarsa classe dirigente. E il fuoco dell’inferno, soffiato dalla brezza che giunge dal Mediterraneo, certi giorni brucia più forte. Immigrazione: sui reati un passo indietro per via legislativa, un passo avanti per via giudiziaria di Michele Ainis Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2010 Una legge e una sentenza. In Italia gli immigrati camminano così: un passo indietro per via legislativa, un passo avanti per via giudiziaria. Il primo pacchetto sicurezza (luglio 2008) ha introdotto l’aggravante della clandestinità, castigando con una pena accresciuta fino a un terzo i reati commessi dagli immigrati irregolari. Il secondo pacchetto sicurezza (luglio 2009) ha aggiunto il reato di clandestinità, punendolo con un’ammenda da 5 a 10mila euro. Sicché due passi indietro, fin quando nei giorni scorsi la Consulta ha decretato il passo avanti: via l’aggravante, rimane però il reato d’immigrazione clandestina, d’altronde contemplato in quasi tutti gli Stati europei. Il centrodestra ha reagito facendo spallucce, tanto il bersaglio grosso (il reato) è uscito indenne dalla mannaia della Consulta, l’aggravante non era che un dettaglio, un orpello di cui possiamo fare a meno. Dimenticando tuttavia il rullo di tamburi con cui due estati fa lo stesso centrodestra aveva salutato questo nuovo tipo d’aggravante, eretta a simbolo del “cattivismo” contro gli immigrati teorizzato dal ministro dell’Interno. Ma soprattutto cadendo in un difetto di prudenza, perché non conosciamo ancora le motivazioni delle due pronunzie costituzionali, quelle saranno rese pubbliche questa settimana. E se in relazione al reato di clandestinità la Corte confezionasse un’”interpretativa di rigetto”, come si dice in gergo? Se cioè affidasse ai giudici - come trapela da qualche indiscrezione, e come suggerisce un criterio di buon senso - di valutare caso per caso l’applicazione del reato? Infatti quando l’immigrato viene colpito da un decreto di espulsione, l’ordine di allontanamento viene poi sottoscritto dal questore, e a quel punto gli tocca fare le valigie, rientrando nel proprio paese. Ma il viaggio costa, e del resto la polizia italiana non ha gli uomini né i mezzi per l’accompagnamento coattivo alla frontiera di tutti i clandestini. Anzi, in molti casi non esiste neppure una frontiera con l’Italia: se sei un indiano, se sei un cinese o un maghrebino. Devi cavartela da solo, ma non puoi farlo se non hai un euro in tasca, se versi in uno stato d’indigenza totale. In questa ipotesi la violazione dell’ordine d’allontanamento (e perciò il reato di clandestinità) potrebbe ben essere scusata per l’esistenza di un “giustificato motivo”, che poi di volta in volta spetterebbe al giudice apprezzare. E se c’è l’esimente significa che non c’è il reato. Insomma conviene attendere le motivazioni, dato che il trionfo del cattivismo verso gli immigrati potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro. Qualche osservazione, tuttavia, possiamo fin da adesso spenderla nei riguardi dell’aggravante della clandestinità. Quali che saranno gli argomenti che la Corte metterà nero su bianco nella propria decisione, è innegabile che quest’ultima fa piazza pulita dell’unica circostanza aggravante comune introdotta dopo l’entrata in vigore del codice Rocco. Un’aggravante odiosa, e per una somma di ragioni. Proviamo a elencarle. Primo: i delitti commessi dai clandestini si trasformavano in altrettanti “delitti d’autore”, puniti per lo status soggettivo del reo, anziché per la gravità del fatto commesso. Ma l’articolo 25 della Costituzione àncora la sanzione penale al “fatto”; e del resto una donna stuprata non si sentirà più rincuorata se a violentarla è stato un italiano piuttosto che uno straniero. Secondo: ogni analogia con la latitanza - l’altra aggravante di status prevista dal nostro ordinamento - in questo caso è fuori luogo. Per difendere la novità legislativa, a suo tempo il sottosegretario Mantovano si era chiesto quale differenza mai vi fosse tra il sottrarsi alla carcerazione o all’espulsione; ma la differenza esiste eccome. Nel primo caso il latitante è stato già colpito da un provvedimento giudiziario che ne accerta la pericolosità sociale; qui invece la pericolosità è presunta, riecheggiando uno stile normativo battezzato dal fascismo. Terzo: per i suoi stessi connotati, l’aggravante di clandestinità offende quindi il principio di eguaglianza. Più precisamente, viola il divieto di discriminare in base alle “condizioni personali”, come recita l’articolo 3 della Costituzione; e al tempo stesso offende la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (articoli 2 e 7), la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (articolo 14), il Patto internazionale sui diritti civili e politici (articolo 26). D’altronde la Consulta aveva già affermato a chiare lettere che il principio di eguaglianza, se riferito alla libertà personale, non tollera discriminazioni fra stranieri e cittadini (sentenza n. 62 del 1994). Quarto: l’aggravante della clandestinità era ripetibile all’infinito, per qualunque reato commesso da un immigrato clandestino, dagli insulti per un parcheggio disputato alla rapina a mano armata. Ma la civiltà giuridica occidentale ha forgiato da millenni il principio del “ne bis in idem”, che a sua volta vale per tutti, anche per gli stranieri che non parlano latino. Senza dire che l’ossessione della sicurezza, oltre a generare mostri giuridici, genera altresì l’abuso del diritto penale; e qui c’è un problema formidabile, che investe pure gli italiani. Insomma, a questo punto gli immigrati hanno fatto un passo avanti; anzi due, se alla pronuncia della Consulta affianchiamo una recentissima sentenza della Cassazione penale (n. 22212 del 10 giugno). Che vi si trova scritto? Che l’immigrato in condizioni disagiate ha diritto a uno sconto di pena. Come a dire che la politica aveva introdotto l’aggravante della clandestinità, i tribunali l’hanno trasformata in attenuante. Iran: impiccato Abdolmalek Righi, capo dei ribelli sunniti operanti nel sud-est del paese Ansa, 21 giugno 2010 Il capo dei ribelli sunniti operanti nel sud-est dell’Iran, Abdolmalek Righi, è stato impiccato ieri a Teheran, nel carcere di Evin. L’agenzia Isna riferisce che Righi, arrestato il 23 febbraio scorso, è stato condannato a morte in base alla legge islamica come “nemico di Dio” e “corrotto sulla Terra” per essere stato riconosciuto colpevole di “79 atti criminali”, compresi attentati dinamitardi, omicidi, sequestri di persona e complicità con servizi segreti stranieri. In passato le autorità di Teheran avevano accusato Righi di essere sostenuto da Usa, Gran Bretagna, Israele e Pakistan. Righi, la cui condanna a morte non era stata in precedenza resa pubblica, ha incontrato ieri le famiglie delle vittime degli attentati di Jundullah e ha chiesto la grazia, che gli è stata rifiutata, secondo quanto riferisce sempre l’Isna. E stamane alcuni congiunti delle vittime hanno assistito all’impiccagione. L’agenzia aggiunge che, prima di morire, Righi avrebbe fatto appello al gruppo sunnita perché “non continui nei suoi errori”. I membri del Jundullah sono dell’etnia dei Baluci, che rappresenta una parte importante della popolazione della provincia del Sistan-Balucistan, a cavallo del confine fra Iran e Pakistan. Essi sono inoltre di confessione sunnita, in un Paese come l’Iran dove oltre il 90% della popolazione è sciita, così come il sistema di governo. Il più grave attentato addebitato a Jundullah è quello compiuto il 18 ottobre del 2009 nella località di Pishin, dove l’esplosione di una bomba provocò oltre 40 morti, tra i quali una quindicina di membri dei Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione. Francia: iniziato processo a detenuto cannibale, uccise compagno di cella e ne mangiò polmone Adnkronos, 21 giugno 2010 È iniziato in un tribunale di Corte d’Assise di Seine-Maritime, in Francia, il processo a carico di Nicolas Cocaign, accusato di aver ucciso il suo compagno di cella nel carcere di Rouen, nel gennaio del 2007, e di averne mangiato un pezzetto di polmone per “prendergli l’anima”. Il detenuto-cannibale se verrà condannato rischia l’ergastolo, riferiscono i media locali, ricostruendo la lite scoppiata per futili motivi nella cella del carcere il 2 gennaio di tre anni fa. Il litigio tra Cocaign, all’epoca 35 anni, e la vittima 41enne Thierry Baudry, era sorto sulla pulizia della cella e i due erano stati separati dal terzo compagno detenuto, David Lagrue. In serata però, Cocaign era stato colto da una nuova pulsione aggressiva e, credendo di notare uno “sguardo da boia” sul volto di Baudry, lo aveva colpito più volte a calci, pugni e ginocchiate, in faccia e al ventre, finendolo poi a colpi di forbici. Di fronte al terzo detenuto, immobile e incapace di intervenire per la paura, Cocaign aveva poi fatto scempio del corpo della sua vittima, mangiandone il polmone che aveva cucinato con le cipolle su un fornelletto da campo. David Lagrue, testimone suo malgrado dell’episodio di cannibalismo, si è suicidato nel novembre del 2009 nel carcere di Evreux dove era stato trasferito dopo la drammatica vicenda.