Giustizia: nelle carceri una strage che rivela richieste di attenzione e di rispetto della legge di Valentina Ascione Gli Altri, 18 giugno 2010 Il fracasso incessante delle stoviglie sbattute contro le sbarre, per ore. L’eco che rimbomba nei corridoi. Che inclemente rinnova ciascun colpo, imponendo un nuovo battere laddove ci si attenderebbe un levare. Espressioni di un disagio profondo che si diffonde e s’impenna, come il caldo che incalza con l’estate. Sintomi della temperatura che sale in carcere più che fuori e accende gli animi. Non sono altro che degli s.o.s., questi rumori molesti per qualunque orecchio. Richieste di attenzione, oltre che di aiuto. E di rispetto. Rispetto della legge, innanzitutto, che in nessun cavillo ammette una mortificazione tale della dignità. Dei diritti fondamentali, quelli umani, universalmente riconosciuti. Genova e Firenze. E poi Vicenza, Novara, Milano. E Padova, ancora. È ampia la mappa dei disordini che nelle settimane scorse hanno dato corpo al malessere dei reclusi nelle nostre galere. Al Marassi due agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti per far fronte alle intemperanze di un detenuto. Il giorno seguente, nello stesso istituto - hanno reso noto i sindacati - la polizia ha intercettato una bottiglia lanciata dall’esterno contenente questo messaggio: Torino, Roma, Milano, Napoli, Genova dalle 21.30 alle 23”, indicazioni, forse, per inscenare contemporaneamente una protesta in diverse carceri. A Brescia un detenuto ha tentato di uccidersi tagliandosi la gola, ma è sopravvissuto. Luigi Coluccello e Francisco Caneo, che si sono impiccati a poche ore di distanza nel carcere di Lecce e in quello milanese di Opera, invece ci sono riusciti: sono morti entrambi. Portando così a 31 il numero dei suicidi nei primi sei mesi del 2010 e a 89 il totale delle morti (al 13 giugno ndr). Questi i numeri di una strage ordinaria, che si consuma nelle galere italiane da tempo, ormai, con la stessa costanza. L’Osservatorio permanente sulle morti in carcere fa infatti sapere che dal 1° gennaio del 2000 ad oggi si sono contati tra i detenuti 1.687 decessi, di cui 585 per suicidio. Dunque 150 morti circa e 50 o 60 suicidi ogni anno. Cifre drammatiche, che però sembrano smentire il carattere emergenziale del problema, facendo invece emergere un quadro ancora più allarmante - se possibile - per la sua stabilità. Uno scenario in cui, tra l’altro, la scelta di togliersi la vita si afferma come via di fuga. Fuga da quel sovraffollamento che divora spazio vitale, ossigeno per la mente e per il corpo che l’inattività conduce all’asfissia. Neutralizzare il rischio di suicidio sarebbe ovviamente impossibile. Ma non far nulla per prevenirlo, nulla per migliorare la qualità della vita delle migliaia di reclusi che scontano la pena, o attendono giudizio in condizioni spesso disumane, avrebbe gli stessi effetti di un’istigazione. Giustizia: ok Camera a ddl Alfano su detenzione domiciliare, no a nuove assunzioni in forze ordine Il Velino, 18 giugno 2010 Primo ok da parte della commissione Giustizia della Camera al disegno di legge Alfano cosiddetto “svuota-carceri” che prevede il beneficio degli arresti domiciliari per chi deve scontare l’ultimo anno di pena. Ieri la commissione Giustizia della Camera ha concluso l’esame in sede referente del provvedimento e ha votato il mandato al relatore (Alfonso Papa, Pdl) dopo avere recepito tutti i rilievi sollevati dalla commissione Bilancio sulla copertura finanziaria del provvedimento. Con le modifiche volute dalla commissione Bilancio sono state soppresse dal provvedimento le parti che prevedevano l’assunzione di 1.500 carabinieri e 1.500 poliziotti. Il presidente della commissione Giulia Bongiorno ha riferito che la commissione Bilancio ha chiesto al governo di presentare entro 15 giorni una relazione tecnica al fine di quantificare le spese e, quindi, di poter meglio valutare la copertura finanziaria del provvedimento. Per quanto riguarda l’adeguamento dell’organico del corpo di polizia penitenziaria il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo ha ribadito che “è ferma intenzione del ministro Alfano assumere i nuovi agenti con gli stanziamenti previsti in Finanziaria”. Non è stata ancora risolta poi la questione del passaggio in sede legislativa del provvedimento su cui i quattro quinti dei membri della Commissione hanno dato il loro assenso. Il presidente della commissione Giulia Bongiorno ha osservato che “qualora non si realizzassero le condizioni per il trasferimento in sede legislativa e ove l’esame del provvedimento non iniziasse in assemblea entro il calendario di giugno, verrebbero sostanzialmente meno le possibilità di approvare il provvedimento entro il mese di luglio”. Il ddl era stato concepito proprio per dare un’adeguata risposta al problema del sovraffollamento delle carceri in vista dell’estate. Da qui la necessità di votarlo in sede referente in modo da permetterne la calendarizzazione in aula a giugno da parte della conferenza dei capigruppo, per poi trasferirlo - qualora si verificassero le condizioni - in sede legislativa in un secondo momento. Il passaggio è infatti possibile sia se l’esame del ddl si è concluso in Commissione, ma non e stato ancora avviato dall’assemblea, sia quando l’esame è già iniziato in assemblea: in tal caso l’assemblea potrebbe votare un rinvio dell’esame in commissione. La Radicale eletta nel Pd Rita Bernardini si è soffermata sull’estrema gravità della questione delle carceri, dove continuano a susseguirsi morti sia fra i detenuti sia fra glia genti e gli episodi di malasanità (solo nel mese di maggio si sono suicidati quattro agenti della polizia penitenziaria). Per Bernardini il provvedimento, con le modifiche apportate in commissione al testo originario, “è stato sostanzialmente privato delle disposizioni che ne garantivano l’efficacia e ciò che ne resta è applicabile a pochi casi”. Ciò nonostante la parlamentare ha ribadito “la necessità di adoperarsi in ogni caso per arrivare il più in fretta possibile all’approvazione”. Anche se le sue speranze che sia ancora possibile varare la legge entro l’estate sono poche. Giustizia: Ionta (Dap); pronti alla “emergenza estate”, un freno sugli incontri coniugali Asca, 18 giugno 2010 “Sicuramente il problema dell’estate è un problema serio perché normalmente le condizioni meteorologiche, ma non solo quelle, inducono a comportamenti non sempre corretti. Noi abbiamo la possibilità di fronteggiare situazioni di emergenza ma sicuramente dobbiamo ragionare in termini di medio - lungo periodo per arrivare a una stabilizzazione del sistema, che significa mettere in grado il sistema penitenziario di reggere l’urto di una detenzione che un paese post moderno come l’Italia produce inevitabilmente”. Lo afferma il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta in una intervista a Rai Gr Parlamento facendo riferimento anche al piano carceri. “Con i provvedimenti normativi che sono all’esame del parlamento - afferma - riusciremo ad ottenere un numero consistente di agenti che servono per fronteggiare il problema del sovraffollamento. In questa fase c’è uno sforzo concentrico sia dell’amministrazione che del sindacato”. Sulla condizione dei detenuti, Ionta afferma: “Noi favoriamo sicuramente i colloqui con le famiglie, favoriamo la possibilità per le donne di avere con sé i figli fino a tre anni e stiamo studiando una serie di progetti per fare in modo che ci siano delle zone dedicate alla detenzione femminile accompagnata appunto da prole inferiore a tre anni”. Ma sugli incontri coniugali in carcere il capo del Dap frena: “È un tema molto delicato perché la possibilità di incontri di intimità tra coniugi si presta a molte strumentalizzazioni. È un tema all’attenzione ma che in questo momento non prevede particolari provvedimenti in atto”. Infine sull’applicazione del 41 bis, Ionta rileva che “funziona molto bene perché la gestione di queste persone particolarmente pericolose è affidata ad un gruppo di agenti della polizia penitenziaria fortemente specializzate. Naturalmente noi abbiamo la necessità di garantire una serie di diritti a chi è sottoposto a questo particolare regime”. Giustizia: Ucpi; denunce in tutta Italia, per i diritti dei detenuti e contro il sovraffollamento Il Velino, 18 giugno 2010 “Quali sono le condizioni di salute dei quasi 70 mila detenuti italiani? Gli spazi previsti per legge sono garantiti? Hanno acqua per lavarsi, luce a sufficienza, coperte, spazi per incontrare i parenti, occasioni per lavorare? Quanto dura veramente l’ora d’aria? È per ottenere risposte a queste domande che oggi in tutta Italia le Camere penali territoriali depositano alle locali procure della Repubblica e alla magistratura di sorveglianza una denuncia-esposto a tutela dei diritti dei detenuti, compromessi dalle conseguenze del dramma del sovraffollamento. Circa 68mila detenuti vivono in condizioni di estremo disagio nelle carceri italiane, a fronte di una capienza tollerabile di 44 mila”. Lo dichiara il responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle camere penali italiane Roberto D’Errico. “Un tale affollamento mette in discussione la tutela della salute, il diritto alla vita di relazione, la possibilità di partecipare a programmi rieducativi. Il contesto di promiscuità in cui vivono i detenuti compromette l’equilibrio psico-fisico, la dignità di ciascuno in violazione dei principi costituzionali e delle norme dell’ordinamento penitenziario della legislazione speciale in materia di salute. Il crescente numero di morti e di suicidi in carcere, tra i più significativi in Europa, fotografa i segnali del crescente disagio nei penitenziari della Repubblica. Con la denuncia-esposto rivolta alle competenti autorità - conclude D’Errico, l’Ucpi intende richiamare l’attenzione dei soggetti istituzionali responsabili della tutela dei diritti dei detenuti affinché pongano in essere tutte le iniziative idonee a garantire il rispetto del dettato normativo. L’Ucpi pertanto si impegna a proseguire la battaglia contro il sovraffollamento, sollecitando iniziative politiche e istituzionali capaci di formulare proposte concrete sul tema”. Giustizia: Commissione errori sanitari incontra Comitato europeo per prevenzione della tortura Dire, 18 giugno 2010 Il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario, Leoluca Orlando, ha ricevuto i rappresentanti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o delle pene inumani o degradanti del Consiglio d’Europa, Alan Mitchell e Francesca Montagna. Il Comitato anti-tortura, che visita luoghi di detenzione al fine di valutare il trattamento dei detenuti e, ove necessario, formula raccomandazioni per migliorarne le condizioni, come noto, ha dedicato attenzione anche all’Italia, pubblicando, il 20 aprile del 2010, il rapporto relativo alla sua quinta visita svoltasi nel nostro Paese dal 14 al 26 settembre 2008. In tale rapporto il Comitato si dice “molto preoccupato” per il problema del sovraffollamento e per il livello di violenza fra detenuti, constatato in particolare nelle carceri di Brescia (Mombello) e Cagliari (Buoncammino) e punta il dito contro le pessime condizioni di vita dei pazienti dell’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) Filippo Saporito di Aversa, giudicate “inimmaginabili”. Inoltre, in riferimento al servizio di diagnosi presso l’ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, il Comitato consiglia di apportare miglioramenti alla fase della procedura relativa al trattamento sanitario obbligatorio. Durante l’incontro, Orlando ha illustrato l’attività della Commissione, ricordando come la stessa abbia avviato un’inchiesta sul diritto alla salute e sulle condizioni di vita dei detenuti all’interno delle carceri. “L’intervento e l’attenzione dell’organismo del Consiglio d’Europa - ha commentato Orlando - costituisce uno stimolo a proseguire l’azione della commissione, non essendo tollerabile che persone soggette a misure detentive vengano private del diritto, costituzionalmente garantito, alla salute”. Giustizia: “Le carceri sono fuorilegge”; Antigone, A Buon Diritto e Carta visitano le più sovraffollate Redattore Sociale, 18 giugno 2010 Dopo l’appello “Le carceri sono fuorilegge”, le associazioni danno il via a una vera e propria vertenza nei confronti delle istituzioni affinché siano rispettati i diritti delle persone detenute. A Buon Diritto, Antigone e Carta, per dare sostanza e obiettivi all’appello “Le carceri sono fuorilegge”, lanciato all’inizio del mese, hanno organizzato, a partire da lunedì 21 giugno 2010 e per le due settimane successive, le visite nelle carceri più sovraffollate d’Italia, al fine di avviare azioni di carattere amministrativo e legale. Gli esiti delle visite saranno poi resi noti in una conferenza stampa in programma per il 15 luglio alla sala stampa della Camera. Questo il testo dell’appello: “Le carceri sono fuorilegge In carcere non si rispettano le leggi. Chi non le rispetta fuori, viene messo dentro; chi mette dentro, le istituzioni democratiche, non le rispetta e basta. Quasi niente, nelle carceri, è come dovrebbe essere, funziona come dovrebbe funzionare, rispetta il dettato delle norme che dovrebbero regolare la vita penitenziaria. È trascorso quasi un anno dalla sentenza della Corte europea dei Diritti umani che ha condannato l’Italia per aver detenuto persone in meno di tre metri quadri”. Si legge inoltre: “Una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, un’ipotesi di tortura o trattamento inumano o degradante. Oggi la situazione è peggiore di allora. Il prossimo 20 settembre saranno dieci anni dall’entrata in vigore del Regolamento Penitenziario, che guardava verso condizioni più dignitose di detenzione. In cinque anni era fissato il termine per adeguare le carceri ad alcuni parametri strutturali. Che ci fosse l’acqua calda, per fare solo un esempio. Ne sono passati dieci, di anni, e quasi ovunque gli edifici sono ancora fuori legge. Noi ci riteniamo da oggi in vertenza contro le istituzioni. Utilizzeremo ogni strumento legale a disposizione per far sì che lo Stato paghi il prezzo della propria illegalità”. Giustizia: Sappe; nuovi episodi di violenza nelle carceri di Verona e di San Cataldo Il Velino, 18 giugno 2010 “Ogni giorno che passa continuiamo a contare nelle carceri italiane episodi di violenza contro i poliziotti penitenziari, tentativi di suicidio e suicidi veri e propri, atti di autolesionismo di detenuti e rumorose manifestazioni di protesta. Insomma, la tensione è continua e nelle ultime ore registriamo gravi fatti di violenza nelle carceri di Verona e S. Cataldo. Ma nonostante ciò, nulla di concreto si vede all’orizzonte per risolvere il grave problema del sovraffollamento (causa principale di queste criticità violente) e delle carenze di organico dei Baschi Azzurri della Penitenziaria, quantificabili in oltre seimila unità”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria). “Quanto tempo ancora si pensa che le donne e gli uomini del corpo possano sopportare queste condizioni di logoramento che perdurano da mesi e che continueranno a pesare sulle 39mila persone in divisa? Quando si smetterà di nascondere la testa sotto la sabbia - continua Capece -? A Verona, carcere in cui il 31 maggio scorso erano presenti 963 detenuti (il 65 per cento dei quali stranieri), a fronte di una capienza regolamentare di 589 posti letto e in cui mancano in organico oltre cento agenti di Polizia penitenziaria, il 13 giugno scorso è avvenuto un grave episodio di violenza nei confronti del personale di Polizia penitenziaria. È iniziato tutto da un litigio tra due detenuti in una cella della seconda sezione: prontamente il personale presente in servizio è accorso per sedare la colluttazione tra i due. Uno dei due, sferrando qualche colpo al personale di Polizia, è riuscito a divincolarsi mentre dalla bocca estraeva due lamette con le quali ha minacciato di ferire chiunque cercava di avvicinarlo. Con non poca fatica i nostri valorosi agenti sono riusciti a contenere lo stesso detenuto, ma due colleghi, al quale tutta la nostra solidarietà e vicinanza, sono dovuti ricorrere alle cure presso il pronto soccorso con prognosi l’uno di 30 giorni e l’altro di dieci. Non solo: sempre a Verona e nella sezione detentiva, il giorno successivo si è sfiorato un altro grave episodio quando più di quindici detenuti, usciti per recarsi ai passeggi per l’ora d’aria, hanno accerchiato l’agente della sezione minacciandolo, forti della loro superiorità numerica: solo per pura fortuna e per il tempestivo intervento di altro personale di Polizia penitenziaria, si è riuscito a evitare il peggio. Ieri invece, nella Casa di reclusione di San Cataldo in Sicilia, 30 detenuti hanno dato vita a una violente rissa nel cortile passeggi. Solamente grazie all’intervento del personale di Polizia penitenziaria immediatamente intervenuto si è riusciti a ristabilire, pur tra mille difficoltà, l’ordine e la sicurezza, scongiurando nel contempo conseguenze più gravi. Purtroppo, ad avere la peggio durante la rissa sono stati due Poliziotti penitenziari che per sedare la rissa hanno riportato contusioni ed ecchimosi giudicate guaribili in cinque e sette giorni. Tutta questa violenza in carcere è gravissima e inaccettabile. Bisogna contrastare con fermezza questa ingiustificata violenza in danno dei rappresentati dello Stato in carcere e punire con pene esemplari chi li commette: penso a un maggiore ricorso all’isolamento giudiziario fino a fine pena con esclusione delle attività in comune ai detenuti che aggrediscono gli agenti. Ma penso anche che si debba arrivare a definire, come sostiene da tempo il Sappe - conclude il segretario generale -, circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi, con particolare riferimento al bisogno di destinare, a soggetti di scarsa pericolosità o che necessitano di un percorso carcerario differenziato (come i detenuti tossicodipendenti), specifici circuiti di custodia attenuata anche potenziando il ricorso alle misure alternative alla detenzione per la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale”. Giustizia: caso Cucchi; in 13 sotto accusa “processateli, l’hanno fatto morire” di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 18 giugno 2010 Stefano Cucchi fu ucciso dalle botte degli agenti della penitenziaria e dalla negligenza, forse voluta, dei medici. La procura di Roma ne è sempre più convinta e per questo ieri ha chiesto il rinvio a giudizio per 13 persone. Guardie della penitenziaria, medici, infermieri e il direttore dell’ufficio detenuti e del Prap, provveditorato regionale amministrazione penitenziaria. Sono loro, secondo i magistrati, i colpevoli della morte del geometra di 31 anni che il 16 ottobre è stato arrestato dai carabinieri per spaccio di droga e sei giorni dopo è morto all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Innanzitutto i tre agenti della penitenziaria. A Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici, i pm Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, hanno contestato lesioni aggravate e abuso di autorità. Hanno usato “i poteri inerenti alla qualità di appartenenti alla polizia penitenziaria - si legge nel capo d’imputazione - quali preposti alla gestione del servizio delle camere di sicurezza del tribunale di Roma, adibite alla custodia temporanea degli arrestati in flagranza di reato in attesa dell’udienza di convalida, spingendo e colpendo con dei calci Cucchi, che ivi si trovava in quanto arrestato”. Secondo i pm, i tre agenti “lo facevano cadere a terra e gli cagionavano lesioni personali”. Botte che, per la Procura, sono state nascoste in ogni modo. Con una scientifica operazione di copertura per evitare che la verità venisse fuori. Un piano iniziato a piazzale Clodio e continuato nel reparto penitenziario del Pertini, dove Cucchi è morto il 22 ottobre. E così, oltre a chi lo ha pestato, vengono ritenuti colpevoli anche sei medici e tre infermieri del nosocomio: l’accusa è di abbandono di persona incapace aggravato dalla morte. Colpevoli, secondo la procura, sono Aldo Fierro, direttore della reparto, i medici Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Stefania Corbi e Luigi De Marchis Preite, Rosita Caponetti e gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. I sanitari, in concorso tra loro, “omettevano di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza che, nel caso di specie, apparivano doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione e non comportavano particolari difficoltà di attuazione essendo peraltro certamente idonei ad evitare il decesso del paziente”. Infine Claudio Marchiandi, direttore dell’ufficio detenuti, a cui vengono contestati i reati di falsità ideologica e abuso d’ufficio. Il funzionario, secondo l’accusa, avrebbe falsificato la cartella clinica. Che descrive uno stato di salute “buono”, uno stato di nutrizione “discreto”, un decubito “indifferente” e un apparato muscolare “tonico trofico”. Dati, scrivono i pm, “palesemente falsi” e in evidente contrasto con quanto indicato “dalla cartella infermieristica redatta presso lo stesso reparto e con i rilievi obiettivi dei sanitari della casa circondariale di Regina Coeli e dei sanitari del pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli” che descrivevano un paziente “allettato in decubito obbligato cateterizzato, impossibilitato alla stazione eretta e alla deambulazione, con apparato muscolare gravemente ipotonotrofico, tanto da indurre i sanitari a praticare terapia per via endovenosa vista l’assenza di sufficiente muscolatura per praticare intramuscolo”. Ora toccherà al gup Rosalba Liso valutare la richiesta della procura. “Siamo contenti. Quella gente deve andare dove è stato Stefano, in carcere”, ha detto la sorella Ilaria. Lettere: l’ergastolo ostativo, una vendetta di Stato? di Davide Pelanda Nuova Società, 18 giugno 2010 “Considerando che i delitti sono stati commessi al fine di agevolare l’associazione criminosa di appartenenza e pertanto ostativi alla concessione dei benefici, dichiara inammissibile la richiesta di permesso - firmato: il Magistrato di Sorveglianza carcere di Spoleto”. “(...) I detenuti si dividono in due grandi categorie. La prima è costituita da soggetti pericolosi e “non liberabili” (...) - tratto dall’editoriale del n. 37 del 19.9.2009 di “Guida al Diritto” firmato da Fabio Fiorentini, Magistrato di Sorveglianza presso il tribunale di Torino”. In sostanza questi due magistrati affermano l’esistenza in Italia di persone che saranno sempre colpevoli, che non potranno mai avere una possibilità di uscire dal carcere per quello che hanno fatto, soggetti talmente pericolosi da dove vivere tutta la loro esistenza in maniera definitiva nella cella di un carcere. Dove lo Stato italiano ha, come si suole dire eufemisticamente, “buttato via la chiave”. Cioè “murati vivi”, per legge. Sono 1.400 circa i detenuti in Italia che vivono in questa condizione, la stragrande maggioranza proveniente dal Meridione: in gergo prettamente giuridico, si chiamano “ergastolani ostativi a qualsiasi beneficio”, regolati dall’articolo 4 bis della legge n. 354/75 norme dell’Ordinamento Penitenziario. I reati per i quali si può essere condannati a questa pena sono quelli di associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico internazionale di stupefacenti, sequestro di persona e per tutti quei reati che hanno in qualche modo agevolato l’attività criminosa di stampo mafioso. A dir poco curioso, invece, il fatto che in questo tipo di pena non si parli di reati tipo pedofilia, omicidio volontario e violenza carnale. Se poi pensiamo ai vari politici corrotti, a banchieri che fanno prestiti da strozzinaggio, oppure imprenditori colpevoli di tanti “omicidi bianchi” od ai vari Tanzi, Anemone e compagnia che hanno truffato a destra e a manca...questi se la cavano solo con qualche mese di carcere o patteggiamento. E di nuovo fuori come se nulla fosse accaduto. Non dimentichiamoci però che l’ostatività è stata voluta dallo Stato negli anni Novanta come risposta ai gravi reati di mafia. “Una pena del diavolo - viene definito l’ergastolo ostativo da Carmelo Musumeci, detenuto nel carcere di Spoleto da 20 anni e sottoposto proprio all’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario - crudele, inumana e degradante perché trasforma la persona in una statua di marmo. In tutti i Paesi del mondo, anche dove esiste la pena di morte, il condannato alla pena dell’ergastolo ha la speranza o una possibilità di poter uscire: in Italia chi è condannato con l’ergastolo ostativo per “reati associativi” non potrà mai uscire se non collabora con la giustizia, quindi se al suo posto non ci mette qualche altro”. E qui sta il nodo principale e fondamentale: ti possono essere concessi dei benefici (dai permessi premio alla semilibertà e liberazione condizionale) solo se collabori con la giustizia, con i magistrati per far arrestare altre persone. Sembrerebbe una sorta di “vendetta” (le virgolette sono d’obbligo) dello Stato: “non più coercizioni e punizioni corporali come ai tempi dell’Inquisizione nel Medioevo - dice ancora Musumeci, nato in Sicilia dove ben presto il contesto sociale di quella terra povera lo ha portato a vivere fuori dalla legalità, scopertosi poeta dietro le sbarre tanto da vincere, nel 2009, un premio ad un Concorso Letterario Nazionale di poesia - ma delazione. Non più l’uso della tortura fisica per estorcere la verità, ma solo la tortura del tempo e dell’anima, molto più dolorosa di quella fisica. L’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario è stato introdotto allo scopo di ottenere informazioni da chi è detenuto, prolungando anche in perpetuo la pena, come nel caso dell’ergastolo. Con tale norma si è anche stabilito il divieto di concessione delle misure alternative alla detenzione a quei detenuti che non collaborano con la magistratura”. Ma chi non collabora, molto spesso, lo fa per paura di vendette una volta uscito, o di rappresaglie verso la propria famiglia. Non certo per omertà. A questo punto capiamo che in Italia ci sono due modi di intendere l’ergastolo, una sorta di doppio binario: da un lato quello dove dopo 10, 20 anni di carcere può avere una semilibertà e dopo 26 anni la condizionale, dall’altro lato invece nessuna possibilità se non solo ed esclusivamente il carcere a vita fino alla morte. “Un giorno mia figlia - racconta ancora Musumeci che, nel frattempo, si sta laureando in giurisprudenza - offuscata dall’amore che prova per me, mi ha confidato: “Papà, ma perché non collabori con la giustizia così torni a casa...” Le ho risposto: “E tu continueresti a volermi bene se la mia libertà costasse sofferenza e dolore ad altre persone che ora hanno moglie e figli?”. Io e gli altri ergastolani, con l’ergastolo ostativo, non condividiamo più i disvalori del passato, e per questo non accetteremo mai di tornare come eravamo, togliendo la vita degli altri per riavere la nostra”. E su questa questione dell’ergastolo ostativo il 4 novembre del 2008 è stato presentato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dove si faceva presente che “mentre in alcuni Paesi come Norvegia, Portogallo, Spagna, Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Albania, Polonia e Ungheria l’ergastolo è stato abolito, dando un segno di grande civiltà e umanità al senso della pena, in altri Paesi l’ergastolano ha un chiaro e preciso fine pena: Irlanda dopo 7 anni, Olanda dopo 14 anni, Norvegia dopo 12 anni, Svizzera dopo 15 anni, Francia dopo 15 anni, Germania dopo 15 anni, Grecia dopo 20 anni, Danimarca dopo 10/12 anni, Belgio dopo 14 anni. Invece la patria del diritto romano, l’Italia, dopo 25 anni e mai, proprio mai, unico Paese in Europa e nel mondo, per le condanne all’ergastolo ostativo”. “Non si tratta di tirar fuori delinquenti dalla galera a tutti i costi - dice Nadia Bizzotto, volontaria nel carcere di Spoleto e responsabile di una struttura della “Comunità Papa Giovanni XXIII” fondata nel 1973 da don Oreste Benzi, ora scomparso - ma di dare una possibilità a chi ne avrebbe diritto. In carcere, per ottenere i benefici, occorrono il diritto ed il merito: per gli ostativi non si arriva al merito, non si arriva a stabilire se hai fatto un percorso tale per cui psicologi, direttore del carcere ecc... possano presentare una relazione su di te e su quanto tu sia cambiato: non ne hai diritto perché non hai collaborato. Allora il principio educativo non c’è proprio, il famoso articolo 27 non serve assolutamente a niente. Che senso ha tenere in galera uno tutta la vita con la prospettiva di non uscire mai; educarlo per cosa, per portarlo alla tomba? Il nostro è uno Stato che per certi versi ha una giustizia assolutamente lassista e che per altri, invece, fa pagare in maniera ingiusta e spropositata”1. Ed è proprio la Comunità di don Benzi ad aver preso “in carico” in qualche maniera le persone condannate a questa terribile pena: molti di loro li vanno a trovare nelle carceri, oppure hanno inventato il blog Urla dal Silenzio, oppure il gruppo su Facebook, dove gli stessi volontari dell’associazione ricopiano sul pc testi di lettere, poesie e vari scritti che gli ergastolani ostativi gli passano scritti a mano su pezzi di carta per poi pubblicarli in rete. Lo stesso don Benzi, quando era in vita, affermava: “Se cercassimo ai aiutare chi commette reati, anziché limitarci a reprimere, avremo molta meno delinquenza”, cui ha fatto seguito più tardi la battuta del cardinal Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano: “È proprio vero che l’ergastolo toglie la speranza”. E intanto Carmelo Musumeci ci ha provato a chiedere di uscire. Lo racconta nel suo diario quotidiano dal carcere di Spoleto. La pagina vergata di suo pugno porta la data del 20/01/2009, ed è piena di tristezza e amarezza: “Lo immaginavo, lo sapevo ma ci sono rimasto ugualmente male... mi è arrivata la respinta del permesso da parte del Tribunale di Sorveglianza: “le motivazioni affettive sottese alla richiesta avanzata dal Musumeci, encomiabili e rispettabili sul piano umano..., non è applicabile al Musumeci che, nonostante i progressi compiuti nel corso del trattamento penitenziario, è soggetto alla preclusione di cui all’art. 4 bis o.p. essendo in espiazione di pena inflitta per i reati cosiddetti di prima fascia... (ostativi)”. Tante belle parole per dirmi di no...Ci sono dei momenti che mi viene voglia di rassegnarmi perché lottare senza speranza stanca, ma come faccio a dirlo a mia figlia?”. Lettere: il “progetto di riscatto” dello studente-detenuto di Stefano Anastasia* Terra, 18 giugno 2010 Ce ne fossero di studenti come Alexander nelle università italiane! Per lui lo studio “rappresenta il principale progetto di riscatto” e, addirittura, gli stava aprendo “un concreto orizzonte di cambiamento”. Senza nulla togliere ai tanti che si impegnano nei loro studi, qui c’è qualcosa di più, una tensione per il riscatto sociale che appartiene, ormai, alla storia dell’università italiana. Non a caso: Alexander è un detenuto domenicano, condannato per fatti di droga, in carcere da un po’ e tenuto a starci non poco. Ancora giovane, ha deciso di investire nello studio il tempo di questa medio-lunga carcerazione. Musica per le orecchie di un sistema che si vorrebbe votato alla “rieducazione del condannato” attraverso “programmi individualizzati di trattamento”, tanto che il regolamento penitenziario prescrive che i detenuti iscritti ai corsi universitari siano agevolati per il compimento degli studi, per esempio, essendo assegnati, ove possibile, in camere e reparti adeguati e consentendo loro di tenere nella propria camera e negli altri locali di studio, i libri, le pubblicazioni e tutti gli strumenti didattici necessari. Non solo, “a tal fine, sono stabilite le opportune intese con le autorità accademiche per consentire agli studenti di usufruire di ogni possibile aiuto”. E, infatti, Alexander di una simile convenzione, tra l’Università e la Casa circondariale di Bologna, si è avvantaggiato: minimi costi d’iscrizione, assistenza nello studio, esercitazioni, contatti con i docenti. Tutto bene fino a quando non è incappato in una (dura) sanzione disciplinare: 15 giorni di isolamento per “un contrasto con un agente”. Inizia così la sua via crucis: trasferimento a Parma, poi il ritorno (provvisorio) a Bologna e un’educatrice gli spiega: nonostante l’Amministrazione si sia impegnata con l’Università a “far completare il corso di studi presso la struttura di detenzione dello studente”, nonostante non sia previsto da nessuna parte il trasferimento come pena accessoria, con quella punizione il trasferimento parte d’ufficio (???, commenta perplesso Alexander). Destinazione Badu ‘e Carros, Nuoro. Senza più assistenza o contatti con l’Università, Alexander studia come può, in condizioni ambientali difficili. A febbraio, il giorno prima di un esame, viene riportato a Bologna e alloggiato, provvisoriamente, in infermeria, da solo. Fa due esami e chiede di restare a Bologna anche per la sessione estiva. Detto fatto, il giorno dopo lo riportano a Nuoro, per restarci. Il 31 maggio gli comunicano che gli esami di giugno e luglio non li farà: non è prevista per lui una nuova gita a Bologna. Può finire così un “progetto di riscatto” come quello perseguito da Alexander? Abruzzo: accordo sul servizio sanitario nelle carceri, nuove prospettive anche per il personale Asca, 18 giugno 2010 Tutela della salute, recupero sociale dei detenuti e degli internati adulti e dei minorenni sottoposti a provvedimenti penali, costituiscono l’oggetto di un accordo sottoscritto stamattina a Pescara, tra Regione Abruzzo, Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Pescara e Centro per la Giustizia minorile dell’Aquila. L’accordo risolve in una cornice di sinergia istituzionale il passaggio direttamente alle Asl delle funzioni sanitarie all’interno degli istituti di pena. Per l’assessore alla Salute, Lanfranco Venturoni, si è “riusciti a trovare un buon accordo nonostante la ristrettezza dei fondi. Una buona sanità - ha spiegato - non solo è un fatto di civiltà, ma in questo caso, trattandosi di persone recluse, spesso con problemi legati alla tossicodipendenza, alle malattie mentali, alle infezioni, è anche un fatto di prevenzione quello di ripristinare una buona salute, nella prospettiva del reinserimento”. Anche per il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per l’Abruzzo, Salvatore Acerra, con l’accordo i 2000 detenuti negli istituti di pena abruzzesi “potranno contare su una assistenza ulteriormente migliorata e incrementata, non soltanto sul piano della maggior presenza del personale medico ed infermieristico, ma anche sul piano della specialistica, in modo da evitare il trasferimento dei reclusi in altri luoghi”. Un aspetto importante dell’accordo riguarda anche il personale sanitario: “Abbiamo avviato un percorso per la stabilizzazione - ha aggiunto Acerra - per non disperdere professionalità ed esperienze. Comunque un ringraziamento va fatto all’Osservatorio regionale”, rappresentato dal coordinatore Tamara Agostani. Per il direttore del Centro della Giustizia minorile dell’Aquila, Concetto Zanghi, “l’intesa prevede anche la costituzione di una èquipe multidisciplinare che permetterà di attuare in tempi rapidi tutti gli interventi necessari a risolvere le situazioni d’urgenza. Nel caso di minori - ha aggiunto - la rapidità d’intervento è il viatico ad un giusto reinserimento nel contesto sociale senza più pericolo di delinquere nuovamente”. Il protocollo consta di 28 articoli. Trento: Provincia “preoccupata” per ritardo nell’apertura del nuovo carcere; spesi 112 mln di euro Ansa, 18 giugno 2010 “Anche la Provincia autonoma di Trento segue con molta preoccupazione la vicenda del nuovo carcere, perché la Provincia lo ha costruito e adesso lo Stato deve assolutamente prenderlo in gestione”. È quanto afferma il presidente della Provincia autonoma di Trento, Lorenzo Dellai, dopo le proteste di stamattina davanti alla vecchia struttura penitenziaria della città, in vista del trasferimento, entro l’autunno, nel nuovo carcere nella zona nord della città. Il nuovo istituto in via di completamento, studiato per 244 detenuti a fronte dei 90 dell’attuale, dove però ci sono in genere circa il doppio dei carcerati, è stato costruito con finanziamento provinciale, pari a 112,5 milioni di euro. Nel complesso sono stati costruiti anche alloggi per la polizia penitenziaria. “Siccome ci sono degli standard di qualità da rispettare - ha proseguito Dellai riferendosi al personale previsto per il nuovo carcere - è assolutamente ovvio che lo Stato deve provvedere. Sono tutte cose già chiarite da tanto tempo - ha ricordato - e certamente fino ad ora non sono arrivate quelle decisioni che sono necessarie, ma io sono fiducioso che nel prossimo futuro lo Stato provveda”. “Diversamente - ha concluso Dellai - sarebbe un grande paradosso, cioè avremmo un carcere nuovo chiuso e un carcere vecchio, dichiarato inagibile, attivo. Sono sicuro che il ministero di Grazia e giustizia prenderà atto di questa situazione e provvederà, secondo quanto le leggi prevedono”. Parma: un’interrogazione per chiedere più agenti di polizia penitenziaria, educatori e psicologi Il Velino, 18 giugno 2010 A seguito del duplice tentato suicidio nel carcere di Parma la senatrice Albertina Soliani interviene sull’argomento con un’interrogazione al ministro della Giustizia Angelino Alfano. I due recenti eventi di Parma ma anche l’aumento del fenomeno in Italia sono al centro dell’interrogazione rivolta al ministro. “Ho chiesto quali provvedimenti urgenti intende intraprendere - dice Soliani - e che sia immediatamente assegnato al carcere di Parma un numero adeguato di agenti di polizia penitenziaria, di educatori e di psicologi. La carenza degli organici è la causa primaria della difficoltà nelle relazioni umane all’interno del carcere. Lo stato di abbandono a se stessi dei detenuti, senza adeguate iniziative interne ed esterne che favoriscano il loro recupero, è fuori dai principi costituzionali. La polizia penitenziaria stessa soffre fortemente di questa condizione. Si tratta - ha concluso Soliani - di un allarme sociale che deve essere raccolto da tutte le istituzioni che hanno la responsabilità nella gestione delle carceri italiane”. Teramo: detenuti al lavoro per la Provincia, si occuperanno di manutenzione del verde www.sambenedettoggi.it, 18 giugno 2010 Al mattino si occuperanno di manutenzione del verde sul territorio teramano, nel pomeriggio saranno impegnati in attività della Fattoria Sociale di Rurabilandia ad Atri. L’intento è quello di ricostruire il canale con il mondo esterno interrotto dal carcere, sul quale poi basare il reinserimento sociale. Otto detenuti del carcere di Castrogno saranno impiegati in lavori di manutenzione del verde sul territorio teramano, al fianco dei dipendenti della Provincia, e in attività lavorative della Fattoria Sociale di Rurabilandia ad Atri. I detenuti saranno chiamati a lavorare quattro giorni al mese per un anno, in base ad una convenzione che sarà stipulata dalla Provincia, dal Ministero di Giustizia e dalla Fondazione Ricciconti, sulla base di un programma elaborato dall’Assessorato alle politiche sociali dell’ente e dai Servizi Sociali del Carcere di Castrogno. “Quello di oggi è un importante risultato, frutto di un lavoro iniziato quasi un anno fa. - ha affermato l’assessore provinciale alle Politiche Sociali Renato Rasicci - L’idea di fondo è quella di ricostruire quel canale di comunicazione con l’esterno, con il mondo produttivo e l’ambiente sociale che al detenuto viene a mancare e che può rappresentare una prima leva sulla quale costruire un reinserimento. Il dato interessante è che la recidiva dei reati cade dal 70% al 18% se i detenuti sono accompagnati in un progetto di recupero; questo ci stimola ad attivarci, sia come cittadini che come amministratori per dare il nostro contributo alla comunità anche in termini di sicurezza sociale. È questo il concetto chiave che sta alla base di questo protocollo e che guiderà le nostre azioni future”. Il nesso tra reinserimento sociale dei detenuti e pubblica sicurezza e fra lavoro e inclusione sociale viene sottolineato più volte nel Protocollo d’Intesa che sarà firmato nei prossimi giorni e che darà il via al progetto: l’idea condivisa, dall’Assessorato sociale e dall’Istituto di pena è che la vera riabilitazione avvenga quando si è “gratificati dalla propria attività lavorativa” ed è anche per questo che il progetto della Provincia si è arricchito della collaborazione della Fattoria sociale di Rurabilandia. Con la Provincia i detenuti lavoreranno insieme ai cantonieri alla manutenzione di aree verdi lungo le strade provinciali; arriveranno sul luogo di lavoro da soli e poi useranno i mezzi dell’ente. A Rurabilandia pranzeranno insieme ai ragazzi della cooperativa sociale e trascorreranno il pomeriggio con loro aiutandoli nella gestione della fattoria. Bologna: Garante; rischio di chiusura per la tipografia all’interno della Casa circondariale Comunicato stampa, 18 giugno 2010 Nell’ambito dei compiti di promozione dei diritti, previsti dall’art. 13bis dello Statuto del comune di Bologna, che istituisce la figura del Garante delle persone private della libertà personale, sono a segnalare la situazione della tipografia “Il profumo delle parole” all’interno della Casa circondariale di Bologna. All’interno della Casa Circondariale della Dozza già nel settembre 2004 è stata attivata la tipografia, frutto di un accordo tra Regione Emilia Romagna, Comune e Provincia di Bologna, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria e Consorzio SIC (consorzio di cooperative sociali). Dal primo anno di attività sono stati inseriti tre detenuti con iniziale percorso in borsa lavoro e formati all’interno della Casa circondariale nel corso per tipografi. Nel corso degli anni sono stati regolarizzati con contratto di lavoro subordinato due detenuti, mentre ad oggi viene segnalato l’impiego di una sola risorsa. Tale situazione è senz’altro data dall’evidente situazione di crisi, per quel che riguarda i clienti privati e da un grosso calo, nel corso degli anni, delle commesse da parte dei clienti pubblici. Nella attuale inaccettabile situazione di sovraffollamento nel carcere di Bologna il mantenimento di questa attività assume ancor di più importanza vitale, soprattutto laddove il tema della solidarietà e della reintegrazione si uniscono ad effettiva professionalità spendibile sul mercato esterno. Come è noto, solo una minima percentuale di detenuti riesce a svolgere attività lavorativa, per periodi limitati, consistenti per lo più in prestazioni d’opera alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, idonee a garantire il vivere quotidiano all’interno degli istituti, ma scarsamente spendibili all’esterno. Se nel passato alcuni enti pubblici, hanno affidato commesse alla tipografia, oggi l’Ufficio del Garante segnala con preoccupazione il venir meno dell’attenzione da parte dei committenti pubblici, anche tra ì promotori della iniziativa. Per questo l’Ufficio del Garante chiede agli enti locali territoriali in particolare di utilizzare la tipografia all’interno della Casa circondariale di Bologna destinando ad essa tutte le commesse tipiche di una pubblica amministrazione, ad esempio la modulistica, le carpette, le pubblicazioni, ecc., affinché questa attività produttiva, ma con forte connotazione sociale, possa continuare ad esistere e rimanere esperienza positiva e di esempio per le nostre comunità. Avv. Desi Bruno Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Palermo: non arrivano le autorizzazioni; salta la manifestazione “Detenuto per un minuto” Comunicato stampa, 18 giugno 2010 In data 19 giugno 2010 era prevista, in Piazza Politeama, una manifestazione volta a sensibilizzare la gente sulle problematiche carcerarie (sovraffollamento, percorsi di reinserimento sociale, assistenza alle famiglie, Cassa delle Ammende, etc.). Il titolo della manifestazione era “Detenuto per un minuto”, perché ogni passante avrebbe fatto esperienza di come si vive “per un solo minuto” in 8 persone in una cella di 5 mt. per 4; montata in Piazza Politeama. La manifestazione prevedeva, infatti, che le persone seguissero l’iter che affronta un detenuto, da quando giunge in carcere sino alla sua assegnazione ad una cella. Il Prap (Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria), Dott. Faramo e il Garante dei diritti dei detenuti, On. Salvo Fleres, avevano dato la loro adesione all’iniziativa. Avremmo, inoltre, dato visibilità alle attività che il mondo del volontariato penitenziario quotidianamente svolge, sia all’interno delle carceri che fuori dai penitenziari, assistendo le famiglie dei detenuti. Purtroppo tutto questo non è stato possibile, perché l’Amministrazione Comunale non ci ha fatto pervenire le dovute autorizzazioni per occupare il suolo pubblico (richieste in data 21.05.210 e 04.06.2010). Certamente, in un mondo e in un sistema di illegalità diffusa, avremmo potuto occupare Piazza Politeama abusivamente, ma non ci siamo sentiti di perpetuare un sistema che, forse, raggiunge nell’immediato il risultato, ma allontana ancora di più la gente dai problemi che affliggono gli altri (la situazione dei senza casa, quello dei senza lavoro, la condizione di precari ed L.S.U., la problematica dei detenuti, etc.). Al Sindaco di Palermo vogliamo rivolgere un appello accorato: noi non vogliamo che lui non vada a assistere alle partite del Campionato Mondiale, non vogliamo che non giochi più a tennis, non vogliamo che non vada più in barca. Anzi un Sindaco rilassato può solo portare benessere e serenità alla Città che governa. Chiediamo al Sindaco solo di individuare Dirigenti e Assessori capaci e competenti, perché collaborino con lui per lo sviluppo di Palermo. Speriamo che questa ennesima disattenzione nei confronti dei nostri cittadini detenuti non cada, come le altre, nel dimenticatoio e che coloro che hanno sbagliato paghino. Maurizio Artale Presidente della Conferenza Regionale Volontario Giustizia - Sicilia Palermo: due giorni di mostra “Iscrizioni, graffiti e disegni - arte tra espressione e reclusione” La Repubblica, 18 giugno 2010 Il graffito è una sorta di scrittura della protesta, un segno che manifesta un allarme: dalla Street art ai graffiti dei condannati a morte nelle carceri dello Steri, un tempo sede dell’Inquisizione, il contesto che definisce la presenza di questi segni è costantemente legato ad una emergenza. A questo tema sono dedicate le iniziative raccolte sotto il titolo “Iscrizioni, graffiti e disegni - Arte tra espressione e reclusione”, due giornate che hanno visto studi, incontri, installazioni, letture e racconti. Il progetto è curato da Giulia Ingarao, ed è realizzato con una collaborazione tra l’Accademia di Belle Arti e Villa Alliata Cardillo, che hanno ospitato la manifestazione. All’Accademia c’è stato l’intervento di Nicola Valentino, direttore dell’Archivio di scritture, iscrizioni e arte “irritata”, che ha vissuto per quasi trent’anni in carcere per aver preso parte alla lotta armata degli anni Settanta: con Renato Curcio a Rebibbia ha fondato “Sensibili alle foglie”, casa editrice e cooperativa attenta ai vissuti estremi. Ma la sua attenzione è particolarmente focalizzata sull’Archivio di scritture, uno speciale “contenitore” che custodisce oltre seicento opere, provenienti o realizzate in contesti disagiati come il carcere e il manicomio. Nicola Valentino dal 1990 ad oggi ha raccolto diari e disegni, quaderni e supporti di ogni tipo sui quali sono presenti graffiti, segni e parole, per rintracciare i fili di esistenze umane complesse e irrisolte, scandagliando solitudini e paure, incubi e speranze. Una catalogazione che non teme di allineare fragilità umane, restituendo dignità alla fatica del vissuto, al male di vivere, all’errore, al giudizio. A questo proposito Nicola Valentino spiega: “Una delle principali risposte umane all’azione di dispositivi totalizzanti consiste nella creazione di mondi simbolici attraverso i quali dare un senso, al senso della vita che muore. Qualunque sia il linguaggio espressivo usato, scarabocchio, disegno, dipinto, scrittura, l’atto creativo rappresenta per la persona che lo produce una risorsa vitale, e per la società anche un documento significativo di una condizione mortificante”. La lettura dei graffiti - anche qui la definizione è un contenitore a volte riduttivo - può dunque avvenire attraverso modalità molteplici, dove la sociologia si interroga sulla nascita del fenomeno e l’arte sul significato e valore della forma: l’una non esclude l’altra, e a ben vedere, l’una non è sufficiente all’altra, specie se l’analisi è concentrata dal Sessantotto in poi. Questo è un contesto sociale che vive di opposizioni estreme, di destre e sinistre che vanno allo scontro diretto: ed ecco le scritte sui muri, piene di slogan e di simboli, di minacce e di acclamazioni. Pochi anni come i Settanta hanno visto il ritorno dei graffiti per una comunicazione politica e sociale da gridare in strada, da scrivere sui muri, tra segni e simboli che immediatamente costituivano un rimando al pensiero. Si rimettono in gioco le strutture sociali, le regole, i concetti di normalità, e le domande non sempre hanno risposta. È nel 1976 che viene pubblicato un libro, “Morire di classe”: Franco Basaglia presenta il lavoro di due fotografi, Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, che hanno osato fotografare la condizione manicomiale, e anche le scritte sui muri dei manicomi che dicono: “W il sole, w la luna, w le stelle, w le nuvole”. Scrive Basaglia: “Libertà di comunicazione, tendenza a distruggere il rapporto autoritario e la rigida gerarchizzazione dei ruoli, eliminazione del carattere oppressivo-punitivo dell’istituzione: questi possono ritenersi i punti fermi dell’azione di smascheramento delle strutture manicomiali”. Il filo dei graffiti non si interrompe, prosegue negli anni Ottanta e ha il suo riferimento in un artista omosessuale che morirà di Aids, Keith Haring: i suoi graffiti sono regali per le città in cui si muove, e quando raggiungeranno quotazioni da capogiro la gara sarà a strappare frammenti di metropolitana newyorchese. Ai graffiti rintracciati in trenta antiche prigioni italiane è dedicata l’installazione “Palinsesti dal carcere”, divisa in tre video - capitoli (cella del tempo, dell’identità, dell’evasione), realizzata da collettivo Wunder K, e presentata a Villa Alliata Cardillo. Lucera (Fg): al carcere una giornata di “evasione”, tra partite di calcetto e solidarietà www.luceraweb.eu, 18 giugno 2010 Quando si parla di carceri e detenuti, è fin troppo facile parlare di attività alternative che fungano da “evasione” per i reclusi. Tuttavia quella di mercoledì alla casa circondariale di Lucera è stata davvero una giornata speciale in cui diverse componenti della società cittadina hanno contribuito a rendere migliore la detenzione dei 250 ospiti attuali, ovvero almeno 90 in più rispetto alla capienza standard dell’istituto diretto da Davide Di Florio. L’iniziativa ha avuto la benedizione laica del magistrato di sorveglianza Domenico Mascolo e quella spirituale del vescovo Domenico Cornacchia che peraltro nello stesso pomeriggio ha amministrato il sacramento della cresima per ben cinque detenuti “preparati” dal cappellano padre Alessandro Di Palma. La mattinata si è concentrata su partite di calcetto all’interno della struttura tra gli stessi detenuti e una selezione di dipendenti comunali associati nel Cral, sodalizio che ha poi anche fornito un contributo concreto alla campagna promossa dall’Associazione Lavori in Corso che si è occupata di raccogliere e consegnare una bella quantità di materiale tra indumenti e prodotti per l’igiene personale. Al piccolo evento in carcere è intervenuto anche il sindaco Pasquale Dotoli, che ha dato il calcio d’inizio agli incontri, e il consigliere comunale Antonio Fortunato che ha pure fatto parte della squadra di calcio. “Questa giornata è una nuova conferma della vicinanza che la città di Lucera esprime da sempre per il carcere - ha commentato il direttore Davide Di Florio - nel quale noi cerchiamo di lavorare al meglio e con il massimo impegno per una dignitosa permanenza degli ospiti. Ovviamente tutto questo è possibile anche grazie al personale della struttura e al corpo di polizia penitenziaria, diretta dal comandante Giuseppe Di Terlizzi, senza la quale poco si potrebbe fare”. Droghe: intervista a Carlo Giovanardi; tossicodipendenti recuperati, non più rinchiusi di Rossella Gemma L’Opinione, 18 giugno 2010 Sembra che il piano carceri del governo si stia sciogliendo nell’afa estiva. Previsto dal ministro Alfano per rispondere all’emergenza sovraffollamento, è stato bocciato in commissione Bilancio per assenza di copertura finanziaria. Da una parte non è possibile assumere nuovi agenti di polizia, e dall’altra non si può far ricorso agli arresti domiciliari come sostitutivi dell’ultimo anno di pena. La situazione delle carceri che scoppia tutto l’anno, nel periodo estivo è infatti messa ancora più a dura prova. I dati non sono per niente confortanti: quasi 68 mila i reclusi a fronte di una capienza regolamentare di 43 mila unità, mentre il personale di polizia penitenziaria conta poco più di 35 mila unità anziché le 41 mila previste. Quando si parla di soluzioni al sovraffollamento, c’è chi invoca la costruzione di nuove carceri, chi la messa in atto di misure alternative, anche considerando il fatto che il 40 per cento dei detenuti è costituito da tossicodipendenti e malati psichici che più che dietro le sbarre andrebbero seguiti presso adeguati centri di cura. Per non parlare poi dell’ormai inderogabile revisione del sistema processuale: quasi la metà dei carcerati sono infatti in attesa di giudizio. Resta il fatto che, il costo giornaliero di un detenuto è pari a 157 euro, molto di più rispetto ad un giorno trascorso presso una comunità terapeutica o un Servizio pubblico per le tossicodipendenze. Ogni giorno il totale dei detenuti costa agli italiani 10.588.708 euro. Ogni mese 317.661.240 euro. Ma in questa bagarre di cifre, va a finire anche la proposta di Carlo Giovanardi, sottosegretario con delega governativa sul tema delle droghe, che ha avanzato l’ipotesi di “prevedere la possibilità per coloro che sono tossicodipendenti e hanno commesso reati, di essere affidati alle comunità di recupero”. Abbiamo chiesto, proprio al sottosegretario Giovanardi, di spiegarci come stanno realmente le cose. Onorevole Giovanardi, ci spiega meglio questa sua idea di “abbonare” l’ultimo anno di carcere ai tossicodipendenti? Bisogna considerare, che la situazione in carcere è di grande disagio, di sovraffollamento. Non ci sono risparmi togliendo dal carcere e mettendo in clinica. Però è una questione di principio. Di civiltà. Mentre un tossico che ha finito di espiare una pena ha ancora una propensione a delinquere, se invece durante la pena viene curato e recuperato in una comunità e con processi di accesso al lavoro uscirà dal carcere avrà meno propensione a delinquere. La legge è applicabile, è normativa vigente. L’applicazione dipende dalle regioni. Noi siamo favorevoli ad un ulteriore incremento di questa attività con l’immediato ricovero in comunità anche nel momento del processo solo con la sospensione del processo. È una delle nostre idee proposte al ministero della Giustizia. Quali “falle” potrebbero verificarsi? La complicazione potrebbe essere una sola: che la sanità penitenziaria è passata alle regioni, non è più in carico al Ministero della Giustizia ma alle regioni quindi anche i pagamenti delle rette dipendono da loro. Quindi bisogna, regione per regione, fare una ricognizione. Con la normativa in vigore c’è la possibilità. Lo abbiamo già segnalato al Ministero della Giustizia. Soprattutto tenendo conto che in Italia nessuno è in carcere per l’uso personale della droga. È un equivoco molto comune. I tossici in carcere però ci sono perché hanno commesso altri reati e non per il solo fatto che sono tossici. Non ci sarebbe un problema di sicurezza sociale da affrontare? Assolutamente no, anzi proprio l’esatto contrario. Dopo un anno sarebbe libero e ancora tossico ma nessuno lo controllerebbe. Un anno prima, invece, andrebbe in una comunità, in un ambiente controllato quindi, vigilato, sotto la responsabilità dei gestori della comunità. Quindi è molto più sicuro recuperarlo prima, che dodici mesi dopo, quando ci troveremmo con un tossico rimesso in libertà e con il rischio che “per campare” reiterebbe il reato. La sua proposta ha riscosso successo tra gli operatori del settore del recupero dei tossicodipendenti mentre qualche critica è arrivata dall’onorevole Cirielli che teme si possa stravolgere la legge che porta il suo nome... Vorrei dire all’Onorevole Cirielli che non si tratta di stravolgere l’impianto della legge che porta il suo nome, in larga parte ampiamente condivisibile, ma di introdurre una specifica modifica finalizzata ad incidere sui tossicodipendenti che hanno commesso recidivamente piccoli reati connessi al proprio stato di dipendenza cronica dalle sostanze stupefacenti. L’intervento che auspico consentirebbe, sulla scorta di una pronuncia della Corte Costituzionale, al tossicodipendente intenzionato a sostenere un programma terapeutico, condannato ad esempio per il reato di piccolo spaccio, l’ingresso da subito in una comunità di recupero in regime di affidamento. ciò si tradurrebbe in una tangibile misura deflattiva del carcere e, per queste persone, in una opportunità di cura per uscire dal tunnel della droga. Stati Uniti: Amnesty; il ritorno di un plotone d’esecuzione rilanci l’abolizionismo Agi, 18 giugno 2010 L’esecuzione in Utah di Ronnie Lee Gardner, 49 anni, il primo americano in 14 anni che ha scelto di morire con il colpo di un’arma da fuoco rilancia il tema dell’abolizione della pena di morte. A sottolinearlo è Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia a Sky: “Fino al 1994 i detenuti condannati a morte potevano scegliere il metodo, oggi Gardner ha scelto questo per cercare anche di richiamare l’attenzione sulla brutalità estrema della pena capitale”. Oggi, ha commentato Noury, “sono rare le esecuzioni con fucilazione e fanno più clamore ma tutte le esecuzioni hanno in sé un metodo cruento, anche quello che sembra meno doloroso, come l’iniezione di veleno, provoca un dolore indicibile”. Ed ha proseguito: “Chissà che questa esecuzione terribile non rilanci anche negli Stati Uniti il tema dell’abolizione della pena capitale”. Negli altri Paesi, ha spiegato il portavoce di Amnesty, “la situazione sulla pena di morte è favorevole perché nel 2009 ci sono state solo 18 nazioni in cui è stata eseguita e 139 sono gli Stati che non la applicano più. C’è però una grave emergenza - ha concluso - per quanto riguarda la pena di morte in Paesi come l’Iran, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti. Ma il mondo sta andando verso una direzione ben precisa: quella dell’abolizione della pena di morte. È certo però che è ancora un percorso lungo e pieno di sangue”. Stati Uniti: fucilato nello Utah il condannato a morte Ronnie Lee Gardner Adnkronos, 18 giugno 2010 È stata eseguita nello Utah la condanna a morte di Ronnie Lee Gardner, l’uomo che aveva chiesto che ad eseguire la sua condanna fosse un plotone di esecuzione. L’esecuzione è avvenuta dopo che il governatore dello stato aveva respinto l’ultima richiesta di sospensione temporanea avanzata dai legali di Gardner. L’ordine di esecuzione di Mr Gardner è stato eseguito” ha reso noto in un asettico comunicato il Department of Correction dello Utah, l’unico dei 35 stati americani in cui è vigore la pena di morte che prevede ancora la fucilazione. Quella della scorsa notte è stata la terza dal 1976, anno in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso la sentenza che ha permesso la reintroduzione della pena capitale nel paese. Il plotone di esecuzione era composto da cinque volontari che hanno mirato con una calibro 30 ad un bersaglio piazzato sul petto del condannato, che era stato legato ad una sedia, con un cappuccio sulla testa. Uno dei cinque fucili è stato caricato a salve, ma non è stato detto quale ai cinque partecipanti al plotone - le cui identità sono state tenute segrete - in modo che ognuno potrà pensare di non essere stato responsabile della morte del condannato. L’ultima fucilazione nella Utah State Prison risale al 1996, quando ad essere fucilato fu John Albert Taylor, condannato per lo stupro e l’omicidio di una bambina di 11 anni. Gardner, che aveva 49 anni ed era stato condannato a morte nel 1985 per aver ucciso un uomo durante un tentativo di fuga dal tribunale dove veniva processato, aveva chiesto di essere ucciso dal plotone di esecuzione lo scorso aprile perché, aveva spiegato ai suoi legali, perché sperava così di soffrire di meno e non per una forma di protesta contro la pena capitale, costringendo lo stato ad una forma definita barbara e non a quella asettica dell’iniezione letale. In realtà il codice penale approvato nello stato nel 2004 prevede che tutte le esecuzioni avvengano con l’iniezione letale, ma concede ai detenuti condannati prima della sua entrata in vigore ancora di scegliere la fucilazione. I legali di Gardner hanno tentato fino all’ultimo minuto di fermare il plotone di esecuzione, ma gli appelli dell’ultima ora sono stati rifiutati sia dalla Corte Suprema che dalla Corte d’appello di Denver. E anche il governatore dello stato, Gary Herbert, ha negato un gesto di clemenza: “Mr Gardner ha avuto la piena opportunità di essere giudicato da diversi tribunali, dopo un’attenta revisione del caso, non c’è niente del materiale che mi è stato consegnato questa mattina che non sia stato già considerato e valutato”. Svizzera: detenuto algerino dà fuoco alla cella, penitenziario evacuato e 4 feriti Ansa, 18 giugno 2010 Sono stati attimi di concitazione e di paura quelli vissuti ieri nel penitenziario di Sissach, località del cantone di Basilea Campagna. Come riportano le cronache, ieri sera un detenuto algerino 36enne ha provocato un incendio dando fuoco a un rotolo di carta del gabinetto. Il bilancio è di quattro feriti. Oltre al piromane, a riportare ferite sono stati il compagno di cella, un secondino e un pompiere. Trasportati all’ospedale, i quattro sono stati ricoverati per un’intossicazione. Il pompiere, inoltre, è dovuto essere medicato per una gamba ferita a causa di una caduta. Il denso fumo che fuoriusciva dalla cella ha costretto la direzione del penitenziario ad evacuare l’intero edifico. Un incendio che ha richiesto l’intervento massiccio di polizia e pompieri. Diverse decine di uomini, tra agenti di polizia, vigili del fuoco e personale medico e paramedico si sono recati sul posto. La situazione è stata descritta dal portavoce di polizia Rolf Wirz come “abbastanza caotica”. Oltre alle operazioni di soccorso, infatti, la polizia ha dovuto tenere d’occhio gli altri detenuti. Della situazione eccezionale venutasi a creare ne avrebbe potuto approfittare qualche detenuto per evadere.